Esempi di generosità proposti al popolo italiano/Modestia animosa

Modestia animosa

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Chi fida in Dio, e chi fida in se stesso Amicizia coraggiosa


[p. 185 modifica]Intanto che Davide parlava a re Saul, Gionata figliuolo di Saul, giovane prode e buono, lo stava riguardando con ammirazione serena, e taceva, ma a ogni parola, a ogni atto del pastorello, brillava a Gionata il cuore, come se avesse ritrovato un fratello. Gli piaceva nella semplicità la franchezza, la modestia nell’onore, la dignità di guerriero, la povertà di pastore e, con un braccio sì forte a difendersi, quella fede sommessa a Dio unico difensore. Gli piaceva che un altro guerriero, come suo padre, sorgesse da povera gente: come pianta che getta le radici alle falde del poggio, ed arriva colla cima i virgulti crescenti su per la costa. Prode, com’era Gionata, e buono, non nutriva nè invidia della prodezza altrui, nè sospetto dell’altrui cuore: prode e buono e modesto, aveva le doti che si convengono al vero amico. Da quel colloquio pertanto l’anima di Gionata si attaccò all’anima di Davide, come cera scaldata che prende la forma del rilievo al quale s’accosta. E Gionata amò Davide come la vita sua propria.

Re Saul ingiunse che il giovanetto rimanesse con seco, nè volle lasciarlo ritornare alla povera casa paterna. Al vecchio Isai ne doleva, sebbene lo consolasse l’onore del sangue suo; e dispiaceva anche a Davide, il quale avrebbe amato, ove il destro venisse, andare e combattere, ma poi ritornarsene alle sue poche pecore, e ai ruscelli noti, senza le cerimonie della disciplina soldatesca, e senza le noie del vivere cittadino che gli erano continuo impaccio. Una cosa gli dava sollievo, l’affetto di Gionata ch’era a lui consolazione [p. 186 modifica]nuova, e come il prospetto di nuovo terreno e di nuovi orizzonti: perchè Davide anch’egli amava Gionata come la vita propria. E strinsero patto di santa amicizia: Gionata si spogliò della tunica ch’e’ portava, e la diede a Davide che la portasse, e tutti gli abiti militari, e spada e arco e cinto.

Davide prontamente faceva le imprese dove il re lo mandasse; e si portava con coraggio prudente, come si conviene a chi sa ch’egli ha nelle mani le sorti d’un popolo e la sua fama. Re Saul lo fece capitano di schiera non piccola: e tutto il popolo aveva affetto a Davide.

Or dovete sapere che, quando Davide ritornava dopo atterrato il gigante, per tutte le città d’Israello si fece gran festa; e le donne uscivano in coro, menando danze incontro a re Saul, con timpani e altri strumenti, suonando a gioia e danzando cantavano (perchè a que’ tempi la danza era cosa solenne e quasi sacra, e con meno salti de’ piedi, ma con più atti modesti e eleganti della persona rappresentava, come scultura vivente, la memoria de’ fatti onorati e la potenza de’ nobili affetti), cantavano danzando, e dicevano: «Ne vinse Saul mille, e Davide diecimila». Quel grido di quelle giovanette si confisse a Saul come una spina nel cuore; perchè il paragone del valore è sempre cosa pericolosa, e offende l’uno de’ due, e talvolta risica d’offendere e l’uno e l’altro. Onde Saul ruminava l’amarezza di quelle parole, come se un giudice le avesse profferite, ed egli, il re, dovesse al giudizio sottostare; e diceva: «A Davide diedero il vanto di diecimila, a me di mille? Or che più resta se non che diano il seggio del regno a lui?». Saul da quel giorno guardò con occhio torto il giovanetto; il quale non si addava [p. 187 modifica]punto di ciò, e con parole innocenti esulcerava forse la piaga nascosta del re geloso. Nell’invidia lo spirito del re sempre più s’infoscava; come, al morire del dì, le cose a poco a poco perdon colore negli occhi dell’uomo; e prima le piccole e lontane si smarriscono, come se camminassero via nel buio, poi le grandi e vicine perdono i contorni, e par che s’affondino in un mare di tenebre. Questa immagine stava a Saul nel pensiero: Davide che cresce e grandeggia sopra la grande persona del re, e un sasso scagliata dalla fionda pastorale fischiando viene e fa cadere di capo al re la corona. E quanto più egli si sforza non sentire quel canto delle giovanette che cantavano i diecimila domati da Davide, e tanto più risuonavano a lui quelle voci.

Chiuso nelle sue stanze, e’ piangeva di rabbia; poi meditava vendetta: ma vendetta di che? Davide che cosa gli aveva mai fatto? Avrebbe bramato il re infelicissimo trovarlo in colpa; ma l’innocenza del giovanetto irritava l’odio suo cupo; e il dissimularlo tornava in quotidiano tormento. Nella lode stessa del re era veleno, nel sorriso era fremito. A chi gli parlasse di Davide, non degnava rispondere: a chi non gliene facesse motto, n’entrava egli da sè: profferiva parole tronche, gettate in mezzo alle parole altrui, come trave fra’ piedi a chi passa. Si sentiva impazzare. I servi suoi non osavano chiedergli la cagione di quell’umore nero; non ardivan nemmeno guardarlo in faccia, per tema ch’egli temesse d’essere spiato nell’intimo suo come un suddito, giudicato, come un reo, egli re. Nondimeno si fecero animo a consigliarli che provasse di vincere quello spirito di tristezza con l’armonia del suono e del canto, come prima soleva. Da assai tempo Davide, al quale Iddio aveva, tra gli altri doni, dato questo dell’accompagnar colla cetera e con la voce forte [p. 188 modifica]e soave le armonie del pensiero, Davide, dico, era scelto a quetare, cantando, gl’impeti dementi di Saul: e a quel suono l’anima del re si quetava, com’acqua che s’appiana, e, non più torba, rimanda all’occhio i colori del cielo e gli alberi della riva.

Un giorno dunque che il giovane gli rendeva questo servigio di pace, re Saul se ne stava col mento sul petto, e con gli occhi di sotto in su sogguardandolo fieramente. Accanto aveva la lancia e Davide stava presso la parete di faccia. Quando una furia lo prende, dà di piglio alla lancia, e s’avventa per configerlo alla parete. Ma Davide antivide il colpo, e, gettando la cetera, uscì. Cadde la cetera del pastore, e cadde sulla cetera la lancia del re, rimbalzata dal muro; e le corde percosse diedero un suon di lamento. Si riscosse il disgraziato; e, inorridito di sè, coperse con le mani la faccia. Conobbe che Dio era col giovanetto. Temeva oramai fargli torto, temeva rendergli onore.

In questa battaglia di paura, d’invidia, di riverenza, di vergogna, si pensò di dargli il comando di mille guerrieri; che, nel suo ardire, corresse al pericolo, e che portata dal turbine della guerra si dileguasse per sempre quella vivente minaccia. Ma Davide era avveduto nel coraggio, e aveva Dio dalla sua, e il popolo aveva. Onde le smanie del re imperversavano più e più. Perchè Davide, non dimentico dell’umile origine, conversava col povero alla familiare, e intendeva col cuore le semplici parole di quello, e rispondeva con parole semplici e cordiali.

Pensò allora il re un’altra cosa: «Io ci ho Merob, disse, la mia figliuola maggiore, e vorrei dartela in moglie. Ma conviene che te la guadagni tu col tuo braccio, combattendo le battaglie di Dio e della patria». Saul pensava così: Senza [p. 189 modifica]ch’io lo finisca, per me faranno i nemici. E metteva la propria figliuola sui passi di lui come un’insidia di morte: perchè gli uomini senza cuore, fanno mercato o zimbello fino del proprio sangue. Le prodezze fatte avevano già appareggiato Davide alla condizione di Saul; e Saul, anch’egli, del resto era figlio di poveretti, e poi, Davide sapeva già dal vecchio Samuele, che succederebbe a Saul come re d’Israello. Ma convien dire che il vecchio, nell’atto d’annunziargli la cosa, comandasse al giovanetto che attenda il maturare de’ tempi, e s’inchini a Saul come a re d’Israello.

Chiamato adesso a diventare genero del re, poteva Davide credere che per questa via s’avesse ad avverare la promessa del suo ingrandimento; poteva accettare di colpo. Ma egli risponde alla proposta di Saul: «Chi son io? che cosa è la mia vita, che cos’è il parentado del padre mio, ch’i’ abbia a diventare genero a chi è re d’Israello?». A Saul parve forse oltraggioso il rifiuto; o forse volle ferire il giovane con il negargli la cosa profferta già: fatto è che Merob, la figliuola maggiore di Saul, fu data in moglie a un certo Adriele, il quale non si sa che meriti avesse. E forse il re tristo, col darla a un dappoco, si pensava di fare scorno al giovane prode.

Restava Micol, la minore sorella; la quale voleva bene a Davide, e per l’amicizia grande del fratello Gionata e per lui stesso. Saul lo venne a sapere, e di lì trasse occasione a nuove insidie di morte. Non volle, come prima, aprirsi egli stesso a Davide, ma per gente fidata gli fece dire: «Ecco, il re t’ha in grazia, e t’hanno in affetto i servi di lui. Tu puoi divenire genero del re, volendo». Le creature di Saul sussurrarono all’orecchio di Davide queste parole, e Davide modestamente: «Essere genero del re? vi pare egli piccola [p. 190 modifica]cosa. Io sono un povero giovane, figliuolo di povera gente». Ridissero a Saul: «Questo e questo risponde Davide». E Saul a coloro: «Dite a Davide così: Non richiede il re presenti di nozze da te, nessuni; chiede che tu gli apporti le spoglie di cento Filistei in giusta battaglia morti». Così sperava Saul disfarsi di lui. Davide, sapendo che Micol gli voleva bene, e che questo sarebbe a Gionata cosa grata; e pensando che il suo popolo avrebbe cento nemici di meno (giacchè guerra c’era tra Israeliti e Filistei tuttavia); accettò il patto; e di lì a pochi giorni andò co’ suoi fidi, portando, come memoria cara e com’arra di vittoria, la spada di Gionata e l’arco. E non cento ne uccise de’ Filistei, ma dugento, in leale combattimento. Saul confuso, non gli potè negare la sua Micol promessagli moglie.

Micol sempre più caramente lo amava; ma Saul diffidava di Davide sempre più fieramente: tanto che Gionata e Micol n’avevano dolore segreto e tema affannosa.