Al dottor Gian Maria Bicetti — Treviglio  - Risposta a un rancido sonetto di Benedetto Bardi di Torino

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Al dottor Gian Maria Bicetti — Treviglio  - Risposta a un rancido sonetto di Benedetto Bardi di Torino
III V
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IV

Allo stesso.

Milano, li 15 novembre 1741.

Car.mo Bicetti. Che diavolo! siamo noi addormentati? Su, ripigliate quella penna, e subito, ché io mi sento stioppare se non vi scrivo quattro gale e se voi non ne scrivete cinque a me. Din, don, din, don, din, don, svegliatevi, svegliatevi, ché avete dormito assai, sentite che la campana suona e ci chiama a scuola; fuori, fuori, fuori di casa mia, monna Pigrizia, che vuo’ più tu stia con noi. Laudato Dio, che avete pure aperti gli occhi e disfatto il chiocciolino, e già v’alzate, vi calzate e giù dal letto balzate; orsù, lasciamo andare queste novelle e scriviamoci, o il mio Bicetti santo.

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Prima di tutto vi dico che il Riviera è ritornato tre giorni sono da Piacenza, ma ci vuole ritornar presto, e stamattina è partito per Abbiategrasso, ma sarà di ritorno dimani o posdomani, e mi dice, non potendo farlo egli, di scrivervi quando si faccia la vostra monachina, ché senza dubbio vuol venire alla funzione, non so se solo o con qualch’altro, e che perciò me ne diciate il preciso. Io mi muoio di frega di dirvi che il Vettori fiocca ogni ordinario a poesie berniesche, e me ne ha già mandato un grosso tomo, che, se piacerà a Dio di mantenerci sani e vivi, lo leggerete; io non vi vuo’ mandare cosa alcuna, perché e’ sarebbe un porvi un succhio e poi lasciarvi in sulle secche, ché ho tanto cheffare, che non mi dà l’animo di mettermi a copiare; ma quando verrà il Riviera costà vi manderò della roba, e forsi il libro in corpo e in anima, quando avrò fatta un’altra copia per lo stampatore; e voi, e la sig.ra Cecchìna, cosa state a fare? ho io ad aver niente da’ vostri mostacci? O canchita! fate pure il poltrone a Trevi, ma a Milano si rivedranno le bucce alle signorie vostre, e si rivedranno come va. Il Grazioli anco mi ha mandato un bel capitolo sopra la toppa, ma, donne, il ciel vi scampi, ché gli è un rovescio d’acqua che vi vien tutto addosso; sicché ho la chiave, il chiavistello e la toppa del Riviera, del Vettori e del mentovato Grazioli ; mi manca ancora il saliscendo per far l’opera compita; oh, bisognerà ch’io m’accomando ad un qualche poeta sbarbatello e giovinotto, ché gli adulti s’attengono alle chiavi e alle toppe, e non s’ impacciano con i saliscendoli. Il Balestrieri, che è giunto l’altro di dalla campagna, ha composto un bellissimo capitolo in lode della pazzia; oh, un micolino ve ne tocca anche a voi di questa pappa! Questo capitolo della pazzia è fatto in risposta ad uno del Passeroni, il quale n’ha poi fatto ancora un altro di risposta a cotesta pazzia, e sono, tutti e tre, tre bellissimi capitoli ; ma per altro abbiamo bel fare, bel dire, ma un Vettori gli sorpassa tutti. Oh, questo non mel posso tórre dalla fantasia; credete che e’ m’ha mandato cose divine, e tuttavia me ne manda, ed è un Berni d’oggidi, e per quanto io mi metta gli occhiali, non [p. 7 modifica]posso trovar a ridire a un verso solo. Corpo di me, venite presto, ché v’ imparadiserete, affé’ di me, corpo di me, ché vuo’ dirlo mille volte. Ma cappe! la lettera si avanza di molto, ed io non ho ancora parlato del Baretti ; orsù, vi contenterete di dar di mano a quest’altro foglio, ché vuo’ parlarvi de’ fatti nostri anco una bricia, e, se mi vien destro, vuo’ ficcarvi qualche verso, ché tanta prosa poi è un vituperio; ma prima diciamo un’altra cosa, ma, com’io diceva, pigliate quest’altro foglio, ché questo è finito affatto.

Io vorre’, dottor mio, che mi feste un piacere. Due, Baretti. No, no, basta uno. Vorre’ che mi riveriste umilmente quel padre lettore del Giardino, di cui non sovviemmi più il nome; basta, quel tal padre, che io vi dissi esser amico del Grazioli e che voi diceste di conoscere, perché è venuto risedere costi; vorre’ dunque che me gli feste tanto servitore, e che nello stesso tempo il pregaste a darvi copia del capitolo sopra la mosca del Grazioli, che egli ha, che pregovi far copiare da qualcuno e di mandarmelo subito, ché vuo’ rimandarlo al Grazioli, che non l’ha più, e vuo’ che gli faccia qualche mutazione: ergo lo vuo’ nella mia Raccolta; caro voi, fatemi questo piacere, ma pigliamo un’altra penna, ché questa scrive male. Veniamo a noi.

Io in questi giorni ho fatto tanti versi, che è uno spavento, un flagello; e prima che la carta mi manchi tra le mani, sentite due sonetti, e non più.


Risposta a un rancido sonetto di Benedetto Bardi

di Torino.


     Un anno è ormai, ch’io vidi, o Bardi mio,
tre tuo’ sonetti, ch’ora non ho in mente,
sopra un tal micio, che in l’atto merlo,
che appiccava l’uncino egregiamente.
     Tu li mandasti al Balestrieri, ch’io,
come se fosse adesso, l’ho presente,
ma se te l’ho a dir, per Dio, per Dio,
e’ non valean niente, niente, niente.

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     E il naso non alzar, s’io parlo schietto,
ché, se fossero pure stati buoni,
nella Raccolta sarebbono entrati.
     Gli è ver, che in quella furono stampati
alcuni versi di certi coglioni,
che non valean un iota maladetto;
          ma il Balestrieri ha detto
che essendo que’ cotali barbassori,
o dotti in greco, o marchesi, o dottori,
          ei non volea rumori,
volendo anzi la quadra farsi dare,
che con quei spicchi s’ imbrigare.
          Tu mo, che un bacalare
non se’, ma, al par di me, se’ un giovinetto
che di frega si muor di parer dotto,
          sei andato di sotto,
da lui fosti scartato, voglio dire,
con altri, ch’or non giova riferire.
          E guarda a non grugnire,
s’io ti faccio la barba a contrappelo,
ché questo, ch’io ti dico, gli è il Vangelo.
          Vuoi ch’io ti lodi a cielo,
se non lo posso fare in coscienza?
Sarebbe come un darti l’eccellenza.
          Con tua buona licenza,
a rivolger più i fogli ed i quaderni
ti suggerisco del mio santo Derni;
          i trebbiani, i falerni,
che tu mi di’ che bèi pria di comporre,
lascia da un canto, o vadinsi a riporre:
          chi indosso si vuol porre,
e affibbiar la poetica giornea,
uopo è che studi e soverchio non bea;
          e se Orazio il dicea,
quando pur t’abbia a dir anch’io la mia,
e’ dicea una gran coglioneria.
          Ma per venire al quia,
io ti ringrazio dell’onor mi fai,
della memoria che di me tu hai.

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     Tu mi perdonerai,
se ho detto troppo chiaro il mio pensiero,
ch’io voglio dir le cose che son vere.
     Io sono al tuo piacere;
se di servirti mi credi capace,
di me disponi, come piu ti piace.

Vi piace mo cotesta schiettezza barettesca? Ma, oimè, ché colui mi ha risposto in prosa, e che roba arrabbiata! Onde bisognerà che il faccia entrare nella mia Raccolta con una mezza dozzina di sonetti fatti sul gusto del seguente, che da me fu scritto a Meneghino una sera che si dicea per Milano esservi una critica contro il Gatto. Sentitelo, ché è bello

     Un certo barbalacco ha giù la buffa,
e s’inliona, s’indraca, s’ imbiscia;
contro di te, compar, stiammazza e sbuffa,
contro di te già dirizza la striscia.
     Guardati, beco, ché s’egli ti ciuffa,
io tei so dir, ti farà far la piscia;
su, t’apparecchia da senno alla zuffa,
e la corazza indossa, e l’armi liscia.
     Fa’ presto, beco, ch’e’ non ti sgranocchi
cotesto imbestialito basalistio,
ché non hai mica a far con de’ marmocchi.
     Beco, fa’ presto, pria, che cresca il ristio,
provvedi a’ fatti tuoi, guàrdati agli occhi
che e’ non ten cavass’uno sol col fìstio:
i’ non te la cincistio,
ma e’ vuol fuor fuora traforarti il giacco
il prefato cotale barbalacco.

Orsù, il mio Bicetti, siamo all’ottava facciata, e non vuo’ darvi più fine e tenervi qui a disagio più lungamente. Trattone il Balestrieri, l’Agudio e il Tanzi, tutto il resto degli amici è fuori ancora. I miei complimenti alle signore Cecche, alla sig.ra Anna, alla monachina, al sig.r monachino, ve’ matto! vo’ dire al sig.r Cecchino, ed anco al sig.r Canzoli, [p. 10 modifica]s’egli è costà. State allegro voi, ché io sino adesso mi sono arrabbiato, e sono mezzo morto di maninconia perché ero qui solo, come un bel becco fottuto, e se mi sono annoiato il Ciel lo sa; non ci era che il Tanzi, ma gli è impossibile averlo con quella maledizione de’ suoi amorazzi! Eccomi al fine al fine anco di questo foglio, onde buon giorno, buon giorno.

Il v.ro Baretti.