Elogi di uomini illustri/Giambatista Marino

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Ottavio Rinuccini Alessandro Farnese
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Volgendo la mente sopra Giambatista Marino sovvienimi di Pindaro, quando egli cantava contra Bachilide. Diceva quell’uomo chiarissimo, che tra poeti coloro erano eccellenti, i quali della natura aveano lor movimento; ma se altri pigliava vigore solo dall’arte, egli averebbe gracchiato siccome un corbo. Il Marino, il quale non prima ebbe favella che vena, ed a cui per altro conceduta non fu la lingua, salvo perchè egli cantasse, può farne manifestissima prova fra noi. E come senza largo favor di natura amicissima potevansi mettere insieme cotanti versi, e di cotante maniere, ed addattarsi a cotante generazioni di poemi? Certamente altri guardando al gran numero, dispera della lor gran bontà, ed esaminando la lor gran bontà, non dà fede a se medesimo del loro sì grande numero; e se parlando di poeta altri volesse poeticamente parlare, acconciamente piglierebbe argomento della patria; perciocchè essendo il Marini venuto al Mondo sulle bellissime piagge di Napoli, potremmo dire, ch’egli apprendesse dalle Sirene a mirabilmente cantare, ma non per affogare alcun passaggiere, anzi per far giocondi gli ascoltatori. Visse oltra cinquantacinque anni, caro a chiunque ebbe con lui amistà, celebrato da [p. 369 modifica]popoli, diletto a Principi, ed il reame di Francia, ove fece soggiorno non breve, l’ammirò non poco, ed è vero, che ivi fu gradito da’ Re medesimi: alfine ritornando in Italia vago di rivedere le case paterne e la patria, vi si condusse, e fra le braccia de’ parenti, e degli amici fornì suoi giorni. Fu con molto splendore sepolto, e con tristezza lagrimato; e per molte maniere mostrossi di sua persona desiderio e rimembranza. Tuttavia possiamo dire veracemente, che il nostro Parnaso non ha lauri abbastanza per coronarlo, e che la sua gloria non ha mestiere alcuno di marmi. Le doti, delle quali fornillo natura, onde egli diede battaglia alla morte, e le porte si aperse all’immortalità, gli fanno cotale sepolcro, che le spoglie non men vaghe che ricche di Signori grandissimi rimangono vile cosa, e solamente segno alle popolari ammirazioni.1

Note

  1. Il Marini ebbe grande ingegno, e somma fortuna, ma ne abusò; la poesia si risente per lui di una indecente laidezza, che la fa detestevole alla Religione non meno che alla purità del costume, e di uno stile men cauto, che diè poi luogo alle tante e sì mostruose metafore onde fu deturpato il secolo decimosettimo.
    L’Edit.