Edizione completa degli scritti di Agricoltura, Arti e Commercio/Lettera I

Lettera I

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Appendice I Lettera II
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LETTERA I.



Molte cose abbiamo fra noi nel mondo così sotto alla vista, e tanto continuamente alle mani, ch’egli ci pare vederle, e per dir così, toccandole ogni giorno, di averne anche una pienissima informazione. Ma chi vorrà attentamente considerare ed esaminare sè medesimo, vedrà benissimo, che veramente l’udire spesso a nominare una cosa, ed il vederla con frequenza può fare bensì, che per la continua dimestichezza coll’idea di quella gli sembri di averne cognizione intera; ma finalmente ridottosi a stretto ragionamento sopra di essa con chi ne abbia la verità filosoficamente ricercata, comprenderà l’intelligenza sua ristringersi a poche, e poco importanti, o forse false particolarità, le quali non solo non fanno scien[p. 38 modifica]za, ma per lo più conducono l’ingegno lontano dal vero.

Di sì fatto genere di cose è certamente più di ogni altra la seta; imperciocchè veduta comunemente in bozzoli, o in fili, in tessuti, in vestimenti, ed in tante altre forme, che appena si potrebbe ricordarle, è divenuta così dimestica agli occhi, a’ pensieri, ed alle lingue di tutti, che non v’ha uomo per volgare, o materiale ch’egli sia, a cui non sembri di sapere, quanto alla seta appartiene.

Nientedimanco (nè credo io già d’ingannarmi) dopo un lungo esame fattone, con quanta esattezza fummi dalle mie forze conceduta, ho ferma speranza, che gli altri confessino, come ho io medesimo confessato, che ventilando le cose anche notissime si trovi materia di ammaestrare principalmente sè stesso, e di apportare giovamento alla società, a cui debbono per giusto debito essere indirizzate le nostre fatiche.

Prima però d’inoltrarci nella storia della seta, per apprirci meglio il cammino, a poterne con regola ed ordine favellare, e per darne più chiara contezza, comincieremo dall’esaminare quelle diverse opinioni, ch’ebbero gli antichi intorno ad essa; e paragonan[p. 39 modifica]dole a quelle de’ moderni ne ritrarremo, ajutandoci fra le prime e le seconde, una lunga sperienza, quella verità, che l’uomo, come cosa più d’ogni altra a sè propria, dee, secondo l’insegnamento di Cicerone, ricercare e sapere1.

Mai, cred’io, non vi fu nel commercio produzione veruna, la quale sia stata tanto soggetta all’esame degli uomini eruditi, quanto la seta. E già molti secoli erano trascorsi, che dagli agiati e più ricchi Europei veniva usata comunemente; stata era sotto le censure delle leggi, assoggettata a gabelle, e pubblici dritti, prima che l’origine sua fosse nota.

Ardita, e forse temeraria impresa sembrerà a molti la mia, quando sarò costretto a contrastare contro al parere degli uomini dotti, i quali presero in questa materia errore; ma di peggior biasimo dovrei temere, se non sembrasse a me confacente il ragionare di una merce, che appartiene a quella professione che io esercito; e se non sapessi in buona coscienza di aver cercato di erudirmi, tanto pel mio, quanto per l’altrui vantaggio. Non partendomi punto dall’esercizio [p. 40 modifica]che io professo, procurai di non meritarmi il rimprovero, che diede Apelle a quel calzolajo troppo saccente, il quale voleva giudicare più alto, che il suo mestiere non comportava; onde ne rimase il proverbio: Ne sutor ultra crepidam.

Incominciando dunque, dico, che per quanto io ne sappia, Aristotele fu quel primo, che della seta qualche cosa scrivesse, benchè di quella di Coo2 solamente parlasse, e quell’animaletto descrivesse, da cui vien essa quivi prodotta. A’ tempi di lui non si avea di altra seta conoscenza, fuorchè di quella; e per antichissima tradizione ricordavasi, che Panfila figlia di Latoe, o come altri dicono di Plate, fosse stata la prima che insegnasse a farne lavoro.

Descrivendo esso filosofo quell’animale, che tal seta produce, dice: ch’è di alcuni altri da lui delineati più grandicello; che gli spuntano una specie di cornicine, ed è del genere de’ bruchi: che dapprincipio è Bru[p. 41 modifica]co, indi diventa Bombice, e finalmente Necidalo; voce che significa rinato da morte: che queste varie successive trasformazioni giugnevano a compiersi in sei mesi: e che finalmente da certe femmine i bozzoli di questi animaletti venivano svolti, e ridotti in fili; de’ quali formavansi poi quelle vesti, che Bombicine eran dette3. Da questa descrizione abbiamo le trasformazioni del baco da seta in crisalide, e finalmente in parpaglione, o farfalla: il che sembra che da Aristotele sia stato riferito con ordine riverso; dacchè quest’animaletto non ha quella specie di cornicini, che quando è trasformato in farfalla.

Anche Plinio, il quale visse 400 anni dopo Aristotele, prese ad esaminare lo stesso animaletto, e poco dalla riferita descrizione si allontana; se non che cosa vi aggiunge tratta dalle altrui relazioni: ed è probabile, che quanto v’ha d’impostura, venisse dagli Arabi, da’ quali acquistarono per la prima volta la seta tanto gli Asiatici Occidentali, quanto gli Europei.

Descrive adunque egli pure un vermicello con due cornicini, che prima è baco; in[p. 42 modifica]di, con poca diversità dalla voce usata da Aristotele, diventa Bombylis, e finalmente Necydalus. Dice che nel giro di sei mesi tessono questi animaletti la loro tela a guisa di ragni, la quale viene riservata al lusso delle donne, ed a formar loro quelle vestimenta che Bombycina appellavansi; attribuendo anch’egli l’onore di averne fatto uso nell’ordirla, e nel tesserla la prima volta, a Panfila di Coo, e giudicando che non debba essere defraudata del merito di aver ritrovata una veste cosi sottile, che mostrava le donne ignude4. Nell’accennata descrizione non apparisce, ch’egli assegui a’ descritti vermicelli patria veruna; ma solamente si vede, che anch’egli reputò, essere stata Panfila l’inventrice di farne lavori.

Nè fu Plinio privo affatto di notizia della seta chinese; comecchè dell’origine, e dell’artificio di essa non potesse essere informato. “I primi uomini (dic’egli) che si conoscano nell’Indie, sono i Seri, nobili per la lana, che si fa nelle loro selve, i quali pettinano la canizie delle frondi bagnate coll’acqua: onde poi le donne nostre hanno a faticar doppiamente, cioè a [p. 43 modifica]riordire que’ fili, ed a tesserli di nuovo. Così con tanto artificio, e per sì lungo iaggio si va a cercare cosa da far comparire le donne ornate e vestite5”.

Maggiore stranezza si vede ancora nella descrizione del Bombice di Coo, per la quale molti con indiscreto rigore lo tacciano, come notò il celebre Ottavio Ferrari fra gli altri6. Ma benchè dir si possa, che talvolta troppo debole fosse nel prestare credenza altrui, io non saprò mai persuadermi, che fosse impostore; imperciocchè, laddove non potè da sè esaminare le cose, ma scrisse standone alle relazioni avute dagli altri, spesso lo accenna: e appunto cosi fa nel Capitolo XXIII. dell’undecimo libro, dove tratta la storia di questi filugelli di Coo da noi qui accennati, cominciando a parlare per detto altrui, come si può chiaramente vedere. L’uso delle vesti, che dal lavoro di cosi fatti animali si traevano, era a’ tempi di Plinio passato agli uomini; ma alle donne erano riserbate quelle di Soria7. [p. 44 modifica] Il Bombice di Soria, Siria, Assiria, di cui a questo passo Plinio favella, è, siccome andando più oltre vedremo, quella seta della China, la quale oggidì forma la più nobile, ed utile produzione dell’Italia, fattasi così universale fra noi. Non le si può nè per la nobiltà, nè per la preziosità paragonare quella di Coo, la quale credo, che a que’ tempi fosse lavorata in quella guisa che oggidì fra noi si lavora la bavella, siccome appresso vedremo; laddove l’altra forse lavoravasi come oggidì ne’ paesi nostri costumiamo.

Anche da Ulpiano viene precisamente distinta la seta di Coo dalla seta della China, così scrivendo egli:8 Vestimentorum sunt lanea omnia, linenque, vel serica, vel bombycina. Veramente a questo passo l’Accursio nella Glosa soggiugne: Bombycina, quae fiunt de Bombasio. Ma questo Glosatore anche qui ci ha voluto dare un argomento della non molta sua perizia della lingua Latina (accusa che giustamente gli vien data dagli autori della sua vita appresso il Moreri) e della poca cognizione che avea della seta,la cui arte essendo stata trasportata in Italia circa l’anno 1150, è probabile che cir[p. 45 modifica]ca l’anno 1200, in cui egli scrisse la sua Glosa, non fosse ancora passata a Firenze, dov’egli nacque. Di fatto essendo da’ Latinichia mata la bambagia, o il cotone filato, col nome di Gossipium, non so intendere come l’Accursio abbia voluto farci credere che Ulpiano per vestimenta Bombycina abbia inteso di parlar delle vesti lavorate di bambagia. Io son d’opinione pertanto, che qui vadano distinte le due sorta di manifatture che trar si ponno da’ lavori de’ filugelli, i cui bozzoli, o si lasciano bucare da, questi animaletti perchè escano tramutati in farfalle; e non potendo allora più ridursi in fili si lasciano macerare, e si pettinano a guisa della lana, formandosene poi que’ drappi che si chiaman di bavella: o si gettano, come ognun sa, nell’acqua bollente prima che vengan bucati, e sciogliendoli in fili, se ne formano poi quelle preziose manifatture che drappi di seta s’appellano. Ora poichè il costume delle donne di Coo, se crediamo ad Aristotele, era appunto di valersi de’ bozzoli de’ filugelli, pettinandoli9 con sottili scardassi di ferro, come s’usa della bavella, a differenza de’ Chinesi, i quali aveano ritrovato il modo [p. 46 modifica]di scioglierli in fili; quindi è appunto, che i drappi formati della seta di Coo chiamavansi Bombicini, e quelli ch’erano lavorati di seta Chinese s’appellavano Serici. Di questo sentimento è pure il conte Camillo Silvestri nelle sue annotazioni alla seconda satira di Giuvenale, dove tratta con erudizione da suo pari quest’argomento.

Due qualità di animali, che facevano la seta, vengono anche ricordate da Giulio Polluce, il quale visse dopo Plinio circa cent’anni10. Sono (dic’egli) i Bombici certi vermicelli che filano le tele come i ragni, e in questi si ravvisano quelli di Coo. Ma dove dice: Sonovi alcuni, che insegnano, i Seri raccogliere da certi animali le tele; di quelli della China favella.

Ma troppo lunga, e forse nojosa faccenda sarebbe, se io volessi in questo luogo raccogliere, quante de’ gravissimi scrittori antichi e moderni, e sacri e profani, e filosofi, e oratori, e poeti furono le ricerche, per saper qual fosse l’origine, la sostanza, e l’artificio, con cui questi preziosi fili si formavano. Oltre di che, avendo quasi tutti gli altri, venuti dopo, attinto alle fonti da me [p. 47 modifica]fino ad ora riferite, ed essendosi appoggiati agli allegati passi, per pubblicare, quanto essi pensavano particolarmente, altro non farei, che dire sotto diverso aspetto quello, che ho già detto; e intanto indugierei a condurvi a più importanti, e massiccie considerazioni. Aggiungasi ancora, che riuscendo impresa difficilissima l’indurre oggidì le persone ad applicare la mente a quello, che abbiamo di certo, di chiaro, e di sicura utilità universale; chi potrebbe lusingarsi di trattenerle a disaminare oscuri testi, e a conciliare contrarie opinioni?

Ma la gran dimostrazione di baldanza, colla quale scrisse Giulio Cesare Scaligero, mi fa lui solo, fra tanti altri che lascio indietro, eccettuare. Costui11, tacciato anche da monsig. Huezio, credendosi con una libertà senza freno, e col censurare magistralmente ciascheduno, di essersi perciò sollevato sopra quanti professarono mai dottrina; si avventa con rabbiosa mordacità contro tutti: e con definitiva sentenza vorrebbe far sì, che tutti gli altri dipendessero da’ detti suoi come da oracoli. Ma suppongo, che meco giudicherete, illustrissimi Signori, che, men[p. 48 modifica]tre egli rivede colla sua sottigliezza gli errori altrui, e di tutti si fa beffe, in nuovi sbagli cada egli medesimo, assai più ridicoli e più grossolani degli altri.

Asserisce dunque lo Scaligero12, che alcuni per curiosità, o piuttosto per ostinazione aveano destate nuove quistioni, e riscaldati vecchi pareri con gran fervore intorno a cose notissime, ricevute, approvate, e sperimentate abbastanza; e che alcuni scrittori novelli, eccitando antiche disputazioni, e sopra dimenticate contrarietà rabbiosamente contendendo, aggiugnevano sciocchezze moderne agli errori degli antichi13.

Aggiugne a tutto ciò, aver alcuni affermato, che noi ignoriamo affatto cosa fosse la seta degli antichi: farsi belli costoro con testimonianze ed autorità, anzi pur con favole e sogni di Pausania, e degli alberi Virgiliani, appoggiarsi a deboli puntelli di Plinio, ma nessuno però aver dimostrato essere questo un artificio di vermicelli: in vano aver tutti parlato, e con poca sostanza: e per confermare la sua proposizione, afferma, che a’ tempi suoi vedevansi nella Calabria tali vermicelli, lasciati in abbandono senza [p. 49 modifica]cura, nè attenzione veruna; i quali facendo la loro seta sugli alberi, quindi poi dagli abitatori veniva raccolta.

Fra la confusione, colla quale egli parla, e il sapere, che nessuno mai vide tal cosa, o per quanto io creda, non la scrisse anche mai, dà egli medesimo contro di sè la sentenza, giudicandosi fantastico, e molto più degli antichi e de’ moderni impostore.

Parlando poscia de’ Seri, dice, che erano questi a’tempi suoi un’orda di Tartari, i quali nel Turchestan, e nella Persia recavano i lavori della seta; adducendo per testimonio ciò, che aveva udito a raccontare da un ambasciator Veneziano14 a Sigismondo re di Polonia, il quale ritornava da Ussuncassano re di Persia; ed allegando di sì riputato e nobile uomo la testimonianza, per accreditare la sua menzogna.

Ma chiunque oggidì ha per poco pratica degli antichi e de’ moderni scrittori, non ha più dubbio veruno, che de’ Seri parlando, s’intenda quella nazione, che al presente è Chinese chiamata; nè altro crederà che sian le orde, fuorchè compagnie di Tartari erranti, a un tempo pastori e soldati; lascian[p. 50 modifica]do a sua possa allo Scaligero, che le credesse carovane di mercatanti15.

Poco sarebbe paruto allo Scaligero l’addurre il testimonio del soprallegato ambasciatore, s’egli non traeva inoltre fuori del borsellino della sua erudizione altri passi ancora di alcuni storici, suoi contemporanei, coll’ajuto de’ quali colloca la città di Seras negli ultimi confini della Persia; nella quale dice egli che si facevano in tanta abbondanza i lavori di seta, che dieci mila libbre il giorno se ne distribuivano. Per la qual cosa, se pur vera fosse, si potrebbe far ragione, che i soli operaj, colle famiglie loro, una popolatissima città formassero; e che tre milioni di libbre di seta ogni anno si consumassero.

Ma non parendogli ancora, di aver circoscritti i Seri abbastanza, ripiglia, ch’essi era[p. 51 modifica]no al re di Persia soggetti, e che comunemente chiamavansi Tartari; benchè col nome particolare di Calmucchi dagli altri si distinguessero16.

Nè parendogli ancora di aver sino a qui commessi errori abbastanza, come se delle orde parlando, e de’ Seri, e de’ Calmucchi, avesse colla sua profonda dottrina recate sicure cognizioni al mondo, entra ad affermare colla scorta della storia della navigazione da lui allegata, che dalla Taprobana ancora viene la seta, ivi da’ vermicelli sugli alberi fabbricata, e da que’ popoli raccolta: indi fattosi beffe di Virgilio, il quale asserisce, che i Seri pettinavano le lane degli alberi, dice, che questi non fanno obbiezione, o contrasto alla sua opinione.

Prima d’ogni altra cosa parmi, che cotesto maestro dell’universo dovesse definire e stabilire la vera situazione della Taprobana, di cui tanti ed antichi, e moderni geografi hanno avuto cosi varj pareri; benchè il Moreri, ed il Martinière affermino, questa essere l’Isola di Ceylan, dalla quale veramente il Savary nell’ultima edizione dice, che oltre [p. 52 modifica]molte altre produzioni si tragga ancora la seta. Non possono in ciò ingannare le merci portate dalle navi della compagnia dell’Indie di Amsterdam, tra le quali questa seta pure dovrà vedersi da chi prenderà a disaminarle, quando però vi sia. Ma lasciando ciò per ora, io non saprei, per qual ragione lo Scaligero potesse farsi beffe di Virgilio, il quale a’ tempi suoi non poteva aver notizia delle produzioni orientali, se non per quelle vie medesime, e intenebrata da quelle stesse imposture, colle quali Plinio l’avea ricevuta. E certamente pecca in maggiore credulità lo Scaligero stesso, riferendo, che nella Taprobana si coglieva dagli alberi la seta. Imperciocchè se Pausania, Virgilio e Plinio ciò si credettero, e lasciarono scritto; egli però era nato in un paese17, ed in tempi, ch’essendosi la seta renduta comune, e produzione di tutta l’Italia, non aveva più uopo di parlarne, come suol dirsi, per conghiettura; nè luogo a veruna scusa perciò gli rimane.

Non s’udì però mai più strana asserzione in tal proposito di quella, colla quale egli forma la conclusione del suo ragionamento. [p. 53 modifica]Imperciocchè affermando, che molti per astio contro il filosofare degli Arabi negavano contro il parere di questi, la seta poter portare ristoro e vigore al cuore, come quella ch’è di natura fredda, sendo prodotta da vermicelli nodriti col moro, che è di qualità fredda; fattosi degli Arabi partigiano, e della loro fazione filosofo, gli difende: e vanagloriandosi di una sua non più udita cognizione, dice, che se gli avversarj degli Arabi avessero saputo, quanto a lui è manifesto, cioè, che nella Siria e nell’Egitto i bachi non del moro, ma del fico selvaggio si alimentano, non si sarebbero cotanto ostinati a disapprovare, quanto gli Arabi avevano proferito della qualità e facoltà ristorativa della seta. Intorno alla qual cosa altro non si può dire, se non che sì solenne dottore s’ingannasse a leggere Sicomoro per moro, o sbaglio prendesse chi glielo riferì, come testimonio di veduta: forse credendo, che la grande abbondanza di tali alberi nella Soria e nell’Egitto dalla natura prodotta, o dall’arte mantenuta, fosse ad alimento de’ bachi apparecchiata; o che questa specie di fico, al moro anche somigliante, fosse il moro medesimo.

Nè vi dispiaccia, illustrissimi Signori, che io interrompa alquanto il filo principale del [p. 54 modifica]la storia, per far una breve digressione intorno alle qualità del sicomoro. Imperciocchè io mi appiglio a tutto quello, che può apportare chiarezza al mio argomento, e far meglio vedere, quanto sia necessario l’esame in ogni cosa a chi prende a scrivere e a dilucidare una materia.

È il sicomoro un albero di aspetto, di frondi, e di grandezza al nostro moro somigliante. La natura sua nel fruttificare è molto diversa da tutte le altre piante; poichè non sulle cime, nè fra i rami produce i suoi frutti, ma bensì su pel tronco, e pe’ rami più grossi, dove non sono foglie: e queste frutta sono nella grandezza, e nella forma simili a’ nostri fichi selvatici. Tratta è questa descrizione dal Mattioli,18 il quale un’altra ne aggiunge del sicomoro da {AutoreCitato|Galeno|Galeno}} veduto in Alessandria co’ frutti simili alle piccole piante de’ fichi bianchi. Non ha il frutto di esso sapor acuto veruno, ma solo è pendente al dolce, ed ha qualità piuttosto umida e fredda, come le frutta del moro. Due cose, da quanto ho fin qui detto di questa pianta, si possono dedurre: l’una, che coloro, da ’quali venne allo Scaligero ri[p. 55 modifica]ferito il nome dell’albero, che alimenta i filugelli, vedendo di Primavera spogliare i mori, per sicomori gli prendessero; non essendo a quel tempo il frutto, che li distingue, ancora spuntato: e l’altra, che avendo il sicomoro facoltà umida e fredda, come afferma il Mattioli per detto di Galeno, non giova più quell’argomenit, col quale lo Scaligero difende l’opinione degli Arabi filosofanti, dicendo, che la seta per l’alimento del sicomoro acquista calda natura.

Non saprei immaginarmi sopra qual fondamento affermasse il suddetto autore, che i vermi da seta si alimentino con le foglie dei fichi; ma è tale il concetto, che lasciò di sè fra gli uomini di lettere, che io non ardirei di oppormi alla sua asserzione, se alcune forti conghietture, e certissime sperienze contrarie a’ suoi detti, non mi dessero animo di farlo. È adunque in primo luogo da sapersi, che cosa veruna non v’ha, la quale rechi nocumento maggiore al baco da seta quanto l’aria, ed il cibo umido; a tal che chi dall’una, e dall’altro con somma diligenza non lo guardasse, ne avrebbe indubitata morte. Vedesi, quanto studio in ciò mettano coloro tutti, che i filugelli alimentano, e quanto s’ingegnino di non presentar ad essi le foglie [p. 56 modifica]del moro, se prima non sono diligentemente rasçiutte. Ora se l’umidità delle foglie del moro, che pure sono nodrimento lor naturale, come ciascuno vede, è a que’ fruttuosi animaletti così nociva; come diremo noi, che non sia loro pernicioso quel latte, di cui afferma il Mattioli essere il sicomoro, non altrimenti che il fico, ripieno? Io non dubito punto, che la qualità del latte tanto somigliante a quello del fico, non sia anche piena di un umor corrosivo, il quale riuscirebbe veleno mortale al dilicatissimo corpicciuolo del baco da seta, e gli troncherebbe la vita. Ma parmi avere abbastanza in una delle precedenti mie provato: essere il naturale ed omogeneo cibo de’ filugelli il moro, e che nodriti con altro alimento mai non producono seta.

Intanto posso io costantemente affermare, che cercando di aver informazione da persone, che fossero state in que’ paesi, dove pretende lo Scaligero, che i vermicelli da seta colle foglie del sicomoro sieno alimentati, mi abbattei in un uomo in Venezia, il quale per suo traffico era in que’ luoghi pel corso di 16 anni dimorato. Da questo intesi io a dire più volte, e con sicurezza l’affermava, che in Soria mai i bachi da seta d’altro non [p. 57 modifica]si pascono, che delle foglie del moro, come fra noi; nè per suo, o per altrui detto, per mio leggere e ricercare, ebbi notizia vernpa, che nell’Egitto seta si producesse.

Non intendo io però di contrastare allo Scaligero altro, che la sua opinione, e l’affermare, ch’egli fa, intorno al baco da seta nostrale, cose totalmente dalla sua qualità, e natura diverse. Chi sa, che quanto egli dice, non potesse d’altri bachi affermarsi? Nulla è più facile, quanto colle conghietture ingannarsi; il che spesso nell’esame di qualche cosa accade. Essendo venuto allo Scaligero il primo pensiero, che i bachi del sicomoro nodriti, sieno della natura di que’ medesimi, che qui colle foglie del moro alimentansi, in cambio di dubitarne, egli avrà tutti i secondi pensieri tirati a corroborare quel primo: e tutte le sue cognizioni in tal genere, e le ricevute informazioni avrà adattate a sostenere il parer suo; sembrandogli bello, perchè nuovo. Io mi guarderò molto bene da cosi fatto modo di ragionare, per quanto l’umana debolezza il concede: e sapendo di quante varie specie sono gli animaletti, che bozzoli e fili producono, quando negli antichi autori ritroverò cosa diversa da quel che veggo oggidi, circa il [p. 58 modifica]nodrimento, e la fattura de’ nostri bachi da seta, m’indurrò a credere, ch’essi piuttosto di altri bachi, che de’ nostrali parlassero. Ho l’onore di confermarmi.


  1. Cic. de Offic. l. 1. p. 18.
  2. Co, Coa, Cos, Coo (ora Stancho) è un’isola deil’Arcipelago adiacente all’Asia, celebre per la sua seta, e per essere stata patria d’Ippocrate e di Apelle. È situata verso la spiaggia della Caria fra i gradi 36, 37. di latit. I Turchi la chiamano Lango. Il suo circuito è di 550 stadj, che fanno circa miglia 70 Italiane. Moreri Grand Diction. Hoffmannus. Lexic. Geogr.
  3. Aristot. lib. V. Histor. Animal. cap. 19.
  4. Plin. Hist. Nat. Lib. XI. cap. 22.
  5. Lib. VI. cap.17.
  6. Octavii Ferrarii de re vestiaria cap. XIX.
  7. Nec puduit has vestes etiam viros levitate usurpare propter onera æstiva: in tantum a lorica gerenda discessere mores. Assiria tamen bombyce adhuc foeminis cedimus. Plin. Lib. XI. cap. 23.
  8. Digest. Lib. 54. Tit. 2. de auro, et argento legatis l. 35.
  9. Ex hoc animali bombycia mulieres quædam carminando resolvunt, ac lexunt. Arist. Lib. et cap. cit.
  10. Omomast. p. 329.
  11. Exotericarum. Exercitationum; Exerc. 158. num. 9.
  12. Ibid.
  13. Nacque nel 1484. Morì nel 1558.
  14. Cattarino Zeno.
  15. Orde, nome, che i Tartari abitanti di là dal Wolga ne’ regni di Astracan e Bolgar, danno a’ loro borghi composti di 50, ovvero 60 tende ordinariamente, nel mezzo delle quali lasciano una piazza vuota. Trasportansi queste Orde da luogo a luogo, secondo l’agio de’ pascoli. Gli abitanti di ciascuna Orda formano una compagnia di gente da guerra, e fra questi ordinariamente il più vecchio è principe, o capitano della nazione. Si dà altresi il nome di Orde alle tribù de’ Tartari vagabondi, e di quelli della Tartaria deserta. Moreri, e Chambers Diction. Art. Hordc.
  16. Sono i Calmucchi una nazione errante, solita ad abitare fra’ gr. 50 e 60, di latit. Settentr, ove, come vedremo, non può raccogliersi seta.
  17. Nacque sul lago di Garda a Riva.
  18. Mattioli. Discorsi a c. 191, 192.