Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XIV

Capitolo XIV

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CAPITOLO XIV.


Seguita l’avventura del cavaliere dal Bosco.


PP
rosegue l’istoria narrando che dopo molti altri ragionamenti, il cavaliere dal Bosco, disse a don Chisciotte: — Finalmente, signor cavaliere, bramo che voi sappiate che il mio destino, o a meglio dir la mia elezione, mi trasse ad innamorarmi della senza pari Casildea di Vandalia1; senza pari la chiamo perchè non ha chi la agguagli sì nella perfetta grazia come nella bellezza. Questa Casildea, di cui vi ragiono, compensò i miei retti pensieri e le oneste mie brame obbligandomi, come fece la matrigna di Ercole, in molti e diversi cimenti; promettendomi sempre, al superarne di uno, che al fine dell’altro avrei ottenuto quello a cui tendevano le mie mire. Per tal modo si sono andate succedendo le mie imprese a segno di diventare innumerabili, nè io so ancora quale sarà l’ultima che darà principio al compimento delle mie brame. Mi comandò una volta che andassi a sfidare a tenzone quella famosa gigantessa di Siviglia, chiamata la Giralda2, il cui valore [p. 120 modifica]e fortezza la fa credere di bronzo, e che senza cambiar mai di luogo può contarsi per la più mobile e volubile donna di questo mondo. Andai, la vidi, la vinsi, e la ridussi a starsene ferma e a segno; perchè pel corso di più che una settimana altri venti non soffiarono fuor quello di tramontana. Altra volta mi fece comando che andassi a pigliare di peso le pietre portate dai bravi tori3 di Guisando, impresa più da facchino che da cavaliere. Comandò altra volta che mi precipitassi e sprofondassi nella fogna di capra (pericolo inaudito e spaventosissimo!), e che le dessi conto preciso di ciò che rinserrasi in quella oscura profondità4: fermai la Giralda, portai le pietre dei tori di Guisando, mi precipitai nella fogna, trassi alla luce quello che rinchiudevasi nell’abisso; ma rimasero più morte di prima le mie speranze, ed i suoi comandi e i suoi sdegni più vivi che mai. In fine mi comandò che scorressi le provincie tutte di Spagna, e obbligassi tutti i cavalieri erranti che vanno per quelle [p. 121 modifica]vagando, a confessare che in bellezza ella è la sola e la prima sopra quante altre vivono oggidì, e che io sono il più valoroso ed il meglio innamorato cavaliere dell’orbe. Per adempire a questo nuovo comando ho già percorsa la maggior parte della Spagna, e ho trionfato di molti e molti cavalieri che hanno avuto ardire di contraddirmi. Quello poi di cui più mi pregio e vanto, e che rende immortali le mie palme, si è l’aver avuto vittoria in singolare tenzone di quel sì famoso cavaliere don Chisciotte della Mancia, e costrettolo a confessare che la mia Casildea è più bella della sua Dulcinea; e con questa sola vittoria fo conto di aver vinto tutti i cavalieri del mondo, poichè quel don Chisciotte di cui ragiono, aveva superati gli altri, ed essendo stato da me debellato, la sua gloria, la sua fama, il suo onore si sono trasferiti nella persona mia. Tanto è maggiore il trionfo di un vincitore quanto più il vinto è tenuto in celebrità, ond’è che vanno ormai per mio conto, e sono mie tutte le sue innumerabili imprese„.

Rimase stupefatto don Chisciotte udendo le parole del cavaliere dal Bosco, e stava per dargli una mentita, e già la teneva sulla punta della lingua, ma si astenne il meglio che potè per fargli confessare di propria bocca le sue bugie: in fine così gli disse con molta gravità. — Niente oppongo alle vittorie testè vantate da vossignoria, signor cavaliere, sopra la maggior parte dei cavalieri erranti di Spagna, ed anche del mondo intero; ma dubito assai che abbiate vinto don Chisciotte della Mancia: ma forse così avete creduto ingannandovi una qualche grande somiglianza, benchè pochi sieno che si rassembrino a lui. — Come no? replicò quello dal Bosco: per lo cielo che ci sta sopra che io ho combattuto con don Chisciotte, e l’ho vinto e sconfitto. È un uomo alto di corporatura, secco di viso, snello, di membra robuste, canuticcio, di naso aquilino e alquanto piegato, con basette nere, grandi e cadenti; campeggia sotto il nome di cavaliere dalla Trista Figura, conduce per suo scudiere un contadino chiamato Sancio Panza, opprime i lombi e regge il freno di un famoso cavallo chiamato Ronzinante, ed in fine ha per signora della sua volontà una tale Dulcinea del Toboso, chiamata un tempo Aldonsa Lorenzo, come la mia, che per chiamarsi Casilda ed essere nativa di Andalusia, la nomino adesso Casildea di Vandalia. Se tutti questi contrassegni non bastano per avvalorare la verità, ho qui al mio fianco una spada che saprà dare piena fede alla incredulità stessa. — Tranquillizzatevi, signor cavaliere, disse don Chisciotte, e ascoltate quello che voglio dirvi. Dovete sapere che quel don Chisciotte, di cui ragionate, è il maggior amico che io abbia al mondo, e tale che asserire potrei francamente [p. 122 modifica]essere egli un altro me stesso. Per tutti i segnali che mi avete dati sì esatti e veridici resto convinto che altri non sia se non se lui medesimo colui che voi asserite di aver superato: veggo per altra parte cogli occhi miei proprii, e tocco con mano non esser ciò possibile, quando non fosse che avendo egli molti incantatori nemici, ed uno specialmente che d’ordinario il perseguita, non avesse costai pigliata a prestito la sua figura per lasciarsi vincere, e così defraudarlo della fama da lui guadagnatasi mercè quelle illustri cavallerie che l’hanno reso conosciutissimo per tutta la terra scoperta. In conferma di questo voglio che sappiate ancora, che questi tali incantatori nemici suoi trasformarono, non ha guari, la figura e persona della bella Dulcinea del Toboso in una sozza e vile contadina, e al modo stesso avranno operato anche la trasformazione di lui. Se tutto ciò non bastasse per farvi capace della verità che vi ho detta, eccovi presente lo stesso don Chisciotte in persona che le sosterrà coll’arme alla mano, a piedi o a cavallo o in qualunque altro modo che più vi piacesse„. In ciò dire si rizzò in piedi, e impugnò la spada aspettando che risoluzione prendesse il cavaliere dal Bosco; il quale con tuono egualmente grave rispose a questo modo: — A buon pagatore non dolgono i pegni: colui che una volta, o signor don Chisciotte, ebbe possanza per vincervi trasformato, può molto ben confidare di vincervi nella vostra propria figura: ma perchè sta male che i cavalieri vengano a tenzone all’oscuro come fanno gli assassini e gli sgherri, attendasi il giorno, e sia testimonio il sole delle nostre azioni: sia intanto condizione della battaglia, che il vinto debba rimanere soggetto alla volontà del vincitore, sicchè possa questi disporre di lui a sua voglia, sempre però entro i confini che si convengono ai cavalieri d’onore. — Sono più che contento di questo patto, ed accetto„, rispose don Chisciotte.

Dette queste parole andarono dove stavano i loro scudieri, e li trovarono russanti e sdraiati in quella stessa postura in cui il sonno li aveva sorpresi. Li svegliarono, comandarono loro che tenessero in punto i cavalli, perchè al nascere del sole doveano venire tutti e due a sanguinoso singolare e disuguale combattimento. Sancio rimase attonito e spasimato a questa intimazione, temendo per la vita del suo padrone, attese le prodezze che aveva udite narrare dell’altro. Senza fare altre ciarle se ne andarono i due scudieri a trovar le loro bestie, chè già tutti e tre i cavalli e il leardo cransi fiutati, e stavano insieme. Nel cammino, quello dal Bosco disse a Sancio: — Avete a sapere, o fratello, che i combattenti dell’Andalusia quando sono padrini di qualche battaglia non rimangono mai oziosi con le mani a cintola intanto che i loro appadrinati combattono; e dico questo [p. 123 modifica]per avvertirvi che mentre saranno alle prese i nostri padroni, noi per egual modo abbiamo ad azzuffarci insieme, e a darci in testa se ci riesce. — Questo costume, signor scudiere, rispose Sancio, potrà correre nei vostri paesi, ed aver luogo con gli smargiassi e gli sgherri, ma non è applicabile neppure per ombra agli scudieri dei cavalieri erranti: almanco io non ho mai sentito dal mio padrone a far parola di tali usanze, eppure egli sa a mente e di punto in punto tutte le regole della errante cavalleria. E poi sia pure verità e legge espressa che abbiano a menare le mani fra loro gli scudieri intanto che i padroni combattono, io non mi ci adatterò sicuramente, e piuttosto pagherò la pena inflitta agli scudieri pacifici, la quale non dovrebbe oltrepassare le due libbre di cera5, ed anche la pagherò volentieri, perchè importerà assai meno delle fila che potrei consumare in medicarmi la testa, che già mi pare di vedere partita in due; e c’è anche una ragione di più che mi rende impossibile il combattere, ed è quella che io non porto spada, nè l’ho portata in vita mia. — A questo si rimedia assai facilmente, disse quello dal Bosco: io tengo con me due sacchetti di grossa tela della stessa misura: voi piglierete l’uno ed io l’altro, e combatteremo a sacchettate con arme eguali. — Oh s’ella è a questo modo, sia in buon’ora, rispose Sancio, perchè in vece di ferire serviranno a sbatterci la polvere di dosso. — Non deve essere a tal modo, replicò l’altro, poichè dentro ai sacchetti, per impedire che vadano sventolando, si deve mettere mezza dozzina di pietre lisce e pelate, che tanto pesi l’una quanto l’altra, e in questa maniera ci potremo sacchettare senza farci gran male. — Corpo di mio padre! sclamò allora Sancio, e volete voi riempirli di quelle lisce cipolle, di quei bioccoli di bambagia scardassata che possono fracassarci la testa e macinarci tutte quante le ossa? Sappiate, amico e compagno mio, che quand’anche fossero i sacchetti pieni di bozzoli di seta io non intendo nè voglio menar le mani; combattano pure i nostri padroni, e male si abbiano, ma noi badiamo a bere ed a vivere allegramente, e lasciamo al tempo la briga di farci terminare la vita quando sarà matura senza cercare di abbreviarla con questi loro falsi gusti e appetiti. — Non posso essere del vostro avviso, replicò quello dal Bosco, e bisogna combattere almeno per una mezz’ora. — E io dico di no, rispose Sancio, chè non voglio esser ingrato e discortese a chi mi ha dato da mangiare e da bere senza che vi sia stato fra noi il più piccolo segno di collera e di amarezza. Chi diamine [p. 124 modifica]ha essere colui che venga così in secco a menare le mani? — A questo, rispose quello dal Bosco, rimedierò io facilmente, ed eccovi il modo: prima di cominciar il combattimento io mi accosterò pian pianino a vossignoria, e vi darò tre o quattro schiaffi tali da fervi cadere ai miei piedi; voi vi sveglierete alla collera se anche foste addormentalo come un ghiro. — Ed io, rispose Sancio, a questo rimedio avrò un contrarimedio che non sarà da manco del vostro. Prenderò un buon bastone, e prima che vi riesca di firmi andare in collera, vi addormenterò a colpi di bastonate, in modo che non vi sveglierete se non al mondo di là, dov’è noto abbastanza ch’io non mi lascio pestare il muso da chicchessia. Eh badi ognuno a quello che fa, ed io consiglierei che lasciassimo dall’una e dall’altra parte dormire le nostre collere, chè uno non sa l’animo di un altro, e qualche volta accade che chi va per lana torna in vece tosato, e Dio benedice la pace, e ha in odio la contesa; e se un gatto imbestialito è chiuso, diventa un leone; ed io che sono un uomo, Dio sa in che cosa potrei cambiarmi: in fine protesto a vossignoria, signor scudiere, che starà a vostro carico tutto il male e tutto il danno che fosse per risultare da tal contrasto. — Ho inteso, replicò quello dal Bosco, e vedremo dimani come andrà a finire questa faccenda„.

In questo mentre già cominciavano a garrire sugli arbori mille sorte di vaghi augelletti, e nei lieti e varii loro canti pareva che si congratulassero e salutassero la fresca aurora che per le porte e pei balconi dell’oriente veniva scoprendo la vaghezza del suo sembiante, e scuotendo dai capelli una pioggia di perle, nel cui soave liquore l’erbe inumidite sembrava che germogliassero, e facessero nascere altrettante perlette bianche e minute. I salci stillavano la saporosa manna, rideano le fonti, mormoravano i ruscelli, si rallegravano le selve, e per la sua venuta si smaltavano i prati. Ma appena il chiarore della mattina permise di potere vedere e distinguere le cose, il primo oggetto che si presentò agli occhi di Sancio Panza fu il naso dello scudiere dal Bosco, il quale era sì grande che facea ombra a quasi tutta la persona. Dicono che veramente fosse di strabocchevole misura, curvo nel mezzo, pieno tutto di porri, di colore mezzo pavonazzo come quello dei marignani, e che arrivava due dita sotto la bocca. La grandezza, il colore, i porri, l’incurvamento gli rendeano sì deforme il viso, che Sancio veggendolo incominciò a battere le mani e a dimenare i piedi come fanciullo che farnetica, proponendo in cuor suo di lasciarsi dare dugento schiaffi piuttosto che incollerirsi e venire alle prese con quella fantasima. Anche don Chisciotte guardò il suo competitore, e vide ch’erasi posta già la [p. 125 modifica]celata, e avea mandata giù la visiera, per modo che non poteva riconoscerlo in volto, e notò unicamente ch’era uomo membruto e di statara non molto alta. Portava di sopra all’arme una sopravveste o casacca di una tela che sembrava di oro finissimo, su cui erano sparse molte piccole lune di risplendenti specchi che la rendevano eccessivamente bella e vistosa. Sulla celata sventolavano in gran quantità piume verdi, gialle e bianche; e la lancia che stava appoggiata ad un arbore, era grandissima e molto grossa e di un ferro acciaiato per oltre un palmo. Vide e notò ogni cosa, e dalle minute sue osservazioni arguì che quel campione doveva esser [p. 126 modifica]uomo di grandi forze; ma non per questo gli entrò in cuore lo spavento come a Sancio, chè anzi con garbato modo si fece a dire all’incognito cavaliere dagli specchi: — Se l’ardente desio di combattere non v’impedisce, signor cavaliere, di essere cortese, vi prego che alziate un poco la visiera, affinchè io possa vedere se le forme del vostro sembiante a quelle corrispondano della vostra persona. — Vinto, o vincitore che usciate di questa impresa, signor cavaliere, rispose quello dagli Specchi, vi resterà largo spazio di tempo per vedermi; ma se adesso mi rifiuto di soddisfarvi, egli è unicamente perchè sembrami di far torto notabile alla bella Casildea di Vandalia, gettando via il tempo che occorre per alzare la visiera prima di astringervi a confessare quanto voi sapete che da me si pretende. — Intanto che montiamo a cavallo, soggiunse don Chisciotte, potreste almeno dirmi se io sono quel don Chisciotte che pretendete di avere vinto. — A questo vi rispondiamo, disse quello dagli Specchi, che rassomigliate come uovo ad altr’uovo al cavaliere che io vinsi; ma avendomi voi assicurato ch’egli è perseguitato da incantatori, non oserei affermare che siate quello o nol siate. — Non m’occorre di più, replicò don Chisciotte, a persuadermi del vostro inganno; ma per cavarvene di tutto punto avanzino ora i nostri cavalli, chè in meno tempo che impieghereste in alzarvi la visiera, se mi assistano Dio, la mia signora e ’l mio braccio, io vedrò il vostro volto, e voi conoscerete in effetto se io non sono quel vinto don Chisciotte che supponete„. E senz’altre parole montarono a cavallo, e don Chisciotte voltò le redini a Ronzinante per prendere il largo che conveniva nel campo, e volgersi ad incontrare il sno avversario: e così fece quello dagli Specchi. Era appena scostato don Chisciotte venti passi, che si udì chiamare da quello dagli Specchi, ed incontrandosi ambedue, gli disse: — Rammentatevi, signor cavaliere, che il patto della nostra tenzone si è, come già vi ho detto, che il vinto debba restare a discrezione del vincitore. — Me ne rammento, rispose don Chisciotte; ben inteso per altro che ciò che verrà imposto e comandato al vinto abbia ad essere limitato al dovere e al decoro della cavalleria. — Questo s’intende„, rispose l’altro.

Si offerse in quel mentre alla vista di don Chisciotte lo straordinario naso dello scudiere, e non n’ebbe minore maraviglia di Sancio, tanto che lo tenne per qualche mostro o per uomo nuovo e di quelli che più non si usano al mondo. Sancio che vide muoversi il padrone per pigliare la carriera, non volle restarsene da solo a solo col nasuto, temendo che un solo colpo di quel gran naso avesse a terminare la quistione fra loro, e gittarlo in terra morto [p. 127 modifica]o per la forza della percossa o per l’effetto dello spavento. Se n’andò pertanto dietro al suo padrone, preso avendo lo staffile che serviva per Ronzinante; e quando gli parve che fosse tempo di voltarsi disse a don Chisciotte: — Supplico vossignoria, signor mio, che prima che torni ad incontrare il nemico ella mi aiuti a montare sopra quell’albero, di dove potrò vedere con tutto il mio comodo, meglio che standomi in terra, il gagliardo incontro di vossignoria con questo cavaliere. — Io credo piuttosto, o Sancio, disse don Chisciotte, che tu brami salire sul palco per vedere la festa dei tori senza pericolo. — Se debbo confessare la verità, replicò Sancio, il formidabile naso di quello scudiere mi riempie di stupore e di paura, nè mi arrisico di stargli accanto. — Per verità quel naso è tanto smisurato, soggiunse don Chisciotte, che se non fossi quello che sono mi metterei io pure in apprensione, e però vieni pur qua chè ti assisterò a montare sull’albero„. Nel tempo che si trattenne [p. 128 modifica]don Chisciotte, perchè Sancio montasse sopra un sughero, quello dagli Specchi prese il campo che gli sembrò più a proposito, e credendo che don Chisciotte avesse fatto lo stesso, senza aspettar suono di trombe od altro segnale, tirò la briglia al suo cavallo (che non era nè più leggiero nè di migliore portata di Ronzinante), e di mezzano trotto venne ad azzuffarsi col suo nemico. Avvicinatosi alquanto potè accorgersi che don Chisciotte stava aiutando Sancio a montare, sicchè ritenne la briglia, e si fermò a mezzo il corso, della qual cosa il cavallo gli fu gratissimo, perchè non potea andare innanzi. Don Chisciotte, cui parve che il suo nemico gli venisse incontro volando, spronò sì fortemente i malconci fianchi di Ronzinante, e siffattamente lo fece correre, che la istoria racconta quella essere stata l’unica volta in cui fu veduto andar di galoppo, atteso che in tutte le altre non furono mai altro che trotti belli e buoni. Con questa non più veduta furia raggiunse quello dagli Specchi, il quale benchè piantasse nel corpo del suo cavallo gli sproni sino al bottone non gli riuscì di poterlo far muover nè manco un solo dito dal luogo dove avea posto la meta al suo corso. Colto l’avversario in sì difficile circostanza, imbarazzato molto dal suo stesso cavallo, ed occupato dalla lancia che non potè o non seppe a tempo mettere in resta, don Chisciotte non si curò punto di questi inconvenienti, ma a man salva e senza pericolo di sorte assalì quello dagli Specchi con sì gran furia, che a suo marcio dispetto lo fece stramazzare a terra per le groppe del suo cavallo. Tale si [p. 129 modifica]fu la caduta, che non movendo nè piè nè mano diede manifesti segni di essere rimasto morto. Appena Sancio lo vide a terra, sdrucciolò giù dal sughero, e con grande velocità raggiunse il suo padrone, il quale, smontando da Ronzinante fu sopra a quello dagli Specchi, e levandogli i cappii dell’elmo per vedere se fosse morto, o per fargli prendere una boccata d’aria se a caso vivesse ancora, vide... chi potrà dire ciò che vide, senza ingenerare maraviglia e terrore in chi ascolta? Vide, dice l’istoria, lo stesso volto, la medesima figura, l’aspetto istesso, la stessa fisonomia, la medesima effigie, l’identica prospettiva del baccelliere Sansone Carrasco. Lo riconobbe appena che sclamò ad alta voce: — Corri qua, Sancio, e guarda quello che si può guardar e non credere! fa presto, figliuolo Sancio, e considera di quanto è capace la magia, e quanto possono gli stregoni e gl’incantatori„. Arrivò Sancio, e non sì tosto conobbe il volto del baccelliere, che prese a farsi mille segni di croce ed a chiamare tutti i santi. L’atterrato cavaliere non dava segni di vita, e Sancio disse a don Chisciotte: — Sono di parere, signor mio, che vossignoria ficchi e cacci per la bocca la spada in corpo a costui che pare Sanson Carrasco, perchè forse le riuscirà in questo modo di ammazzar qualcuno dei suoi nemici incantatori. — Non dici male, soggiunse don Chisciotte, perchè di nemici io non manco: e sfoderata già la spada per mandare ad effetto l’avvertimento e il consiglio di Sancio, arrivò tutto ansante lo scudiere del vinto, spoglio di quel gran naso per il quale era paruto sì brutto, e sclamò: — Guardi bene quello che fa, signor don Chisciotte, chè questo che tiene a’ suoi piedi, è il baccelliere Sansone Carrasco suo amico, ed io sono il suo scudiere„. Vedendolo Sancio senza la deformità di prima, gli disse: — E dov’è il naso?„ Cui rispose: — L’ho qua in tasca„; e mettendo la mano alla diritta cavò fuori un naso di pasta e verniciato per maschera. Lo guardò Sancio una e più volte, e tutto trasecolato disse: — Santa Maria, aiutami! costui non è egli Tommaso Zeziale mio vicino e compare? — E come lo sono, rispose lo snasato scudiere: io sono Tommaso Zeziale vostro compare ed amico, Sancio Panza mio caro, e vi dirò poi gl’imbrogli, gl’intrighi, i pretesti che mi hanno qua strascinato; ma intanto supplicate il vostro padrone che non tocchi, maltratti, ferisca, o uccida il cavaliere dagli Specchi che sta disteso ai suoi piedi, perchè è infallibilmente l’ardito e malconsigliato baccelliere Sansone Carrasco nostro paesano„.

Durante questi discorsi tornò in sè quello dagli Specchi, ed accortosene don Chisciotte, gli appuntò tosto la spada ignuda agli occhi, e gli disse: — Cavaliere, siete morto se non confessate che [p. 130 modifica]la senza pari Dulcinea del Toboso porta il vanto della bellezza sulla vostra Casildea di Vandalia, e se non giurate (purchè vita vi resti dopo questa battaglia e caduta) di recarvi alla città del Toboso e presentarvi dinanzi a lei da mia parte perchè faccia di voi il suo volere. Se vi lascerà arbitro della vostra volontà dovrete tornare in traccia di me, seguitando l’orma delle mie prodezze, per darmi conto di quanto avrete con lei convenuto: patto ch’è conforme al nostro accordo prima della tenzone, e che non eccede i limiti della cavalleria. — Confesso, disse il vinto cavaliere, che più vale una scarpa sdrucita e sudicia della signora Dulcinea del Toboso, che i capegli malpettinati, benchè puliti, di Casildea; e prometto di andare e di tornare dalla sua presenza alla vostra, e di darvi esatto e particolare ragguaglio di quanto m’imponete. — Dovete eziandio confessare, soggiunse don Chisciotte, che il cavaliere da voi altra [p. 131 modifica]volta vinto non fu, nè potè essere don Chisciotte della Mancia, ma un altro che lo somigliava, come io confesso e credo che voi, sebbene sembrate il baccelliere Sansone Carrasco, nol siate già, ma un altro che a lui somigli, e che i miei nemici vi facciano apparire tale perchè io trattenga e temperi l’impeto del mio sdegno, ed usi in modo assai mite la gloria del mio trionfo. — Confesso e credo, rispose il rinato cavaliere, ogni cosa, e credo e giudico e sento al modo stesso che da voi si crede, si giudica e si sente; ma intanto concedetemi, vi prego, ch’io possa alzarmi, se però potrò farlo dopo questa orribile stramazzata„. Lo aiutarono a levarsi don Chisciotte e Tommaso Zeziale scudiere, dal quale Sancio Panza non distoglieva mai gli occhi, e gli faceva mille dimande, e riceveva brevi risposte, ma pur tali da assicurarlo che veramente fosse quel Tommaso Zeziale che diceva di essere. Dopo tutto questo, l’apprensione di Sancio per le parole dette dal suo padrone, che gl’incantatori avessero trasformata la figura del cavaliere dagli Specchi in quella del baccelliere Carrasco, dubbia gli rendeva quella reale verità che co’ suoi propri occhi stava guardando. In fine restarono nel loro inganno padrone e servo; e quello dagli Specchi e il suo scudiere in valigia e colla testa rotta, se ne andarono con intenzione di cercarsi ricovero in qualche luogo per apprestare rimedio alle costole fracassate. Tornarono don Chisciotte e Sancio sulla strada di Saragozza, dove li lascia l’istoria per dare più minuto ragguaglio del cavaliere dagli Specchi e del suo nasuto scudiere.



  1. L’antica Betica occupata dal Vandali fu denominata Vandalia o Vandalusia, e dagli Arabi, secondo la loro pronunzia, Andalusia.
  2. Giralda è una grande statua di bronzo rappresentante la Fede o la Vittoria, che sulla torre della cattedrale di Siviglia girando indica il variarsi dei venti.
  3. Si dà questo nome a quattro enormi massi di pietra che stanno in mezzo a a una vigna del convento dei Geronimini di Guisando nella provincia d’Avila.
  4. È questa un’apertura, forse cratere di antico vulcano, sulla cima di Sierra de Cabrera nella provincia di Cordova.
  5. Era questa l’ammenda ordinaria imposta ai membri di una confraternita che non intervenivano alle unioni.