Delle notti/Prima Notte

Prima Notte

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Edward Young - Delle notti (1745)
Traduzione dall'inglese di Giuseppe Bottoni (1770)
Prima Notte
Delle notti Seconda Notte
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PRIMA NOTTE.


Le Miserie dell’Umanità.


ARGOMENTO.


L’Incostanza, la rapida brevità, l’incertezza di tutto ciò, che chiamasi bene nella umana vita; ma sopra ogni altra cosa, il mescuglio d’infiniti mali che intorbidano, ed avvelenano le contentezze mondane, dà luogo al Poeta d’invitar l’uomo ad innalzarsi sopra se stesso, e rivolgere lo sguardo all’Eternità, che è quell’immenso spazio di esistenza, convenevole alla sua spirituale natura. Si mostra, come l’umana debolezza agitata dalla nativa sua instabilità, fa malvagio, o inutile uso di quel tempo, che deve porsi in uso per l’acquisto dell’Eternità felice.


D
olce de’ mali obblio, calma, e riposo

Della stanca natura... il sonno oh Dio
M’abbandona. Simile al guasto Mondo
Fugge dagli infelici. Esatto ei riede
5Ove ride fortuna. A vol trapassa
Ove gemere ascolta, e sovra gli occhi
Non bagnati di pianto ei si riposa.
Dopo un momento d’agitato sonno,
Nè a me tranquillo da gran tempo è noto,
10Mi risveglio.... Felice è chi sempre
Dorme: se pure i varj orridi sogni
Non spaventan gli estinti entro la tomba.
     Quai di sogni stravolti orridi flutti
Han battuto i miei sensi allorchè in braccio
15Era la mia ragion del sonno! Oh come
Di disastro in disastro errava; e tutto,

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Tutto il furor di un disperato affanno
Per sognati infortunj in me soffriva!
Reso a me stesso, alla ragione.... E quale
20Nel destarmi qual pro? Sol de’ miei mali
Cangiò l’orrida serie, e più del falso
Più mi ferisce, e mi tormenta il vero.
Il giorno è breve, al mio dolor non basta.
La notte? sì, che la più nera notte
25Nel momento che fa pompa maggiore
Di tenebre profonde, è ancor men trista
Del mio destin, dell’alma mia men cupa.
Giunta la notte del suo cerchio al mezzo,
D’ebano in trono alteramente assisa,
30Qual Dio cinto di nubi, e che del volto
Nasconde i vivi raggi, il plumbeo scettro
Sovra un Mondo sopito ella distende.
Oh qual silenzio! Oh qual profondo orrore!
Tutto è muto all’orecchio. È muto all’occhio
35Di luce ogni soggetto. In alto sonno
Posa il creato, e sembra morto il tutto:
Sembra che fermo sia quel moto interno,
Che vita imprime agli elementi, agli astri,
Che del tutto è cagion; che la natura
40Resti sospesa: oh che terribil pausa
Del dì final profetizzante immagine!
Questo giorno s’affretti, e chiuda il fato,
Or che tutto perdei, chiuda la scena.
Silenzio! Oscurità! Coppia solenne,
45Augusti figli dell’antica notte,
Voi, che guidate ogni pensier che nasce
Alla saviezza, che rendete all’alma
E coraggio, e valor, che l’uomo afflitto
Sollevate per vostra ignota possa,
50E della sua ragion signore il fate;
Assistetemi voi. Nell’urna aspetto
A ringraziarvi. È là che trono avete.
È là che questa vil salma, di cui
La polve è vostra, allor che in essa torni,
55Alla divinità vostra terribile

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Dovrà tra pochi dì render omaggio,
Ma... Perchè offrire a voi suppliche, e voti
Tentai finor? E chi mai siete in fatti
In faccia a quel, che colla voce ruppe
60Il silenzio del Caos, che del mattino
Mandò le stelle a cominciare il loro
Allegro corso sovra il Mondo infante,
Ad annunziargli il Creator? Supremo
Esser sei tu, che invoco, il qual dal seno
65Del nulla in grembo all’universo festi
Spiccar il Sol come scintilla accesa.
Scuoti quest’alma mia. Tu fa che in essa
La saviezza risplenda. È questa l’ora
In cui l’avaro, in mezzo a ognun che dorme,
70Veglia geloso al suo tesoro accanto.
Alto eterno Signor, il mio tu sei;
Te solo io veggio, e nel tuo sen pietoso
Cerco un asilo - Ahimè, che l’alma, i sensi
Orrida nebbia, e tenebrosa opprime!
75Deh ti degna, o Signor, che giunga a fronte
Di questo doppio orror, che la circonda,
Un raggio a lei, che la consoli, e accenda.
Io bramo sol che i miei tormenti almeno
Taccian per poco, e che la serie orrenda.
80Fugga dei mali miei, perchè di morte,
E della vita io possa il vario aspetto
Con vantaggio osservar. Tu sii mia guida,
Sì; tu m’inspira il ver. Reggi il mio canto,
Reggi l’azioni mie. La mia ragione
85Ammaestra nel ben. Forza a volerlo
Il voler mio. Tu m’incatena, e fissa
Alla virtù, perchè sborsare io possa
Quel tributo, che a lei negai finora,
È perchè alfin di tue vendette il vaso
90Non sia diffuso inutilmente, e sparso
Sovra questa, a te sacra, umil cervice.
     Batte un’ora... Da noi si contan queste
Quando perdute sono. È dunque saggio
L’uom se una voce almeno al tempo assegna.

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95Entro l’anima mia rimbomba il suono
Del fremente metallo: io la risento
Agitarsi così come agli accenti
Dell’Angelo, che annunzia il giorno estremo.
L’ultim’ora per me sonato ha il bronzo,
100Se ben compresi. E dove son frattanto
Le antecedenti a lei? Miste con gli anni
Son che del Mondo il nascimento han visto.
Sì, quel bronzo è per me nunzio di morte.
Quanto da far mi resta! Ed ora in questo
105Disordine crudel le mie speranze,
I miei timori si risveglian. Tutto
II mio essere è in moto. E dove vado?...
Dall’orlo angusto della vita il guardo
Tremante abbasso... Oh Dio, qual cupo immenso
110Abisso io veggio! Eternità terribile,
Sei tu che ti presenti. Io già non posso
Dubitarne: tu dei coll’esser mio
Unirti... E pome Eternità può mai
Di se vestire un fragile vivente,
115Esser mia, se d’un’ora io non son certo?
     L’uomo è un esser, che all’uom risveglia in petto
Maraviglia, e stupor. È dopo Dio
L’esser che men si concepisce. Ei stesso,
Se vuol di se men complicata idea,
120Convien che d’altre mille idee, che a lui
Sembrano stravaganti, a se la formi.
Contrasto è l’uom di povertà e ricchezza,
Di grandezza e viltà. L’uom quanto è vile!
Quanto augusto è mai l’uomo! E cosa è dunque
125Il Dio, che fece un’opra tal sì strana!
Maravigliosa union di due nature Differenti
tra loro. È l’uomo il centro
Donde si parton du’ Infiniti opposti.
Ei forma la sfumata ultima tinta,
130Da cui restan legati ambo gli estremi.
Occupa l’uomo, qual brillante anello,
In centro appunto in la catena immensa
Degli Esseri, che va dal niente a Dio.

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È un raggio estinto del divin splendore,
135Un imperfetto abbozzo, un smorto quadro
Della grandezza eterna. È un debol figlio
D’ignobil creta. È d’una gloria immensa
Erede illustre. È un fragile immortale.
Un insetto infinito. Un verme. Un Dio.
140Di me stesso atterrito io mi confondo,
In me stesso io mi perdo. Il mio pensiero,
Nel suo tetto stranier, tutto mi scorre
Con maraviglia di spavento mista.
L’anima mia se cerca, in se si posa
145Per vedersi qual è. Stupida, incerta
Se stessa osserva avidamente, e freme
Nel rimanersi ignota. E l’uom che strano
Mistero per se stesso! In questo stato
Di miseria, in cui vive, oh qual conserva
150Fregio di maestà! Qual aria altera
Regna tuttora di trionfo in questo
Esser che soffre! Tacita, indecisa
Tra speranza e timor la mia ragione
Rimansi inquieta, e sovra l’esser mio
155Pronunziare non sa. Ora di gioje
Ricca piena m’investe; i suoi trasporti
Risento, ed ora un fier timor m’abbatte
Onde in faccia a me stesso io tremo. Ma....
Chi può far salvi i giorni miei?... Ma pure
160Chi distruggermi puote? il braccio istesso
D’un Angel non potria tormi al sepolcro,
Nè in quel fissarmi mai potrian le intere
Squadre Angeliche. Nò. Dell’alma mia
la sostanza immortal dirsi non puote
165Semplice congettura: ampia riprova
N’è tuttociò, che di natura è figlio.
Geloso il Ciel dell’opra sua più bella,
La Terra, il Mare, e le rotanti sfere
Volle che luce a lei fossero, e guida
170A discuoprir se stessa: e al sonno ancora
Si aspetta ad erudirla, allor che questo
Tacito Nume alla sua dolce possa

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Soggetta i sensi miei. Desta mai sempre
L’attiva anima mia, senza soccorso
175Degli organi sopiti, il suo prosiegue
Infaticabil volo. Ora calpesta
Con fantastico piede il verde e i fiori;
Ora imboscata nel più folto orrore
D’erma foresta, la traversa in braccio
180Di mestizia, e timor; ella si affligge
Di non scuoprir d’un peregrin la traccia,
Che le additi un sentiero; ora ad un tratto
Precipita da un monte; ella si sente
Rotolar con error d’un in un altro
185Precipizio, e se mai l’accoglie un lago,
Termine al suo cader, fende con sforzo
L’onda spumante, la scoscesa riva
Afferra, e su per l’erta, e scabra rupe
Con gran pena alla mano il pie succede;
190Quante volte portata ella si sente
Sovra l’ali de’ venti in mezzo a mille
Strani fantasmi dall’idea prodotti!
Ma sia che goda d’un piacer sognato,
O che soffra di sue proprie chimere,
195Il sogno stesso all’alma mia fa noto,
Ch’ella è nobile più di quella polve,
Che la circonda; che di lei l’azione
Non ha limite alcun, che si compiace
D’innalzarsi, e che sempre essendo pronta,
200A tender là donde sen venne un giorno,
Fatta donna di se si libra, e sorge
Al di sovra di sua spoglia mortale,
Il dì cui peso a questo suol l’unisce
Cosi la notte ancor nel suo silenzio
205Un’anima immortale a me disvela,
Nè invano il sogno attorno a me s’aggira.
     Possono i sogni della notte a noi
Dettar utili dogmi: all’uom nemici
Son quei che desto inventa. Oh quante volte
210Formai d’idee più stravagante impasto
Del quadro informe, che colora il sonno!

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Ciò che unirsi non puote, unir volea;
A ciò, ch’esser non può, volea dar vita.
Insensato! A me stesso io già promisi
215Stabil piacer nell’incostante mondo;
Giorni sereni, e lieti in mezzo ai tanti
Perigli della vita; un ben costante
Sovra i torbidi flutti. Oh qual la mia
Giovinezza abitò mondo d’incanti!
220Quai ricche tinte il mio pensier prestava
Agli oggetti! Nè a me s’offrian sul Globo
Che ridenti pitture, e varie, e vaghe
Prospettive, piaceri ad altri uniti
In ben lunga catena, in ordin vario.
225Come il serico verme, anch’io godea
Di chiudermi in quel vel tutto tessuto
Dalla propria follia. Lo resi io stessa
Denso cosi, che alla ragion la vista
Togliea del Ciel, del vero; il di cui lume
230Perdendo a gradi, e da me fatto cieco,
Nel tenebroso error mio brancolando,
Senza posa accresceva i giri, i nodi
Di mie ritorte. Idolatrava il mio
Errore. Il mondo, ed il mio core, uniti
235Strettamente tra lor, resi incapaci
Eran di separarsi. Io mi pascea
Di folle speme in ricercar tra noi
Vera felicità.... Quando ad un tratto
Desto mi sono al penetrante suono
240Del funebre metallo, il qual non cessa
Di suonar sempre, e d’inviar non manca
Gli uomini a mille a mille al tetro altare
Dell’insaziabil Morte. Orror, spavento
Mi sorprese in destarmi; in me lo sguardo
245Volsi, e fremei nel rimirar me stesso
Già semivivo. Immaginarj beni,
Dolce illusion, che diveniste mai?
Di quello Impero sì brillante, e vasto,
U’ l’alma mia sedea quasi sovrana,
250Or che le resta? Una terrestre e frale

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Scorza, che già di rovinar minaccia.
Quelle fila, che ordisce industre Aracne
Nel far sua tela, son gomene a fronte
De’ legami, che l’uom tengono unito
255Alla vita, al piacer: li rompe un soffio.
Eterei, seggi, ove i beati spirti
Godono quel piacer, che mai non soffre
Limiti, o vario aspetto, in voi soltanto
Felicità si trova. Ella più tale
260Non è, se può finir. Dal cielo il bene
Fuggirebbe, se star potesse in cielo
Di perderlo il timor. Ma resta quegli
Sicuro in tale asilo, ove non giunge
L’influsso delle sfere, quai rotando
265Sulle nostre cervici, i bassi Mondi
Nel vortice de’ loro opposti moti
Volgono, e versan poi sovra di quelli
Ogni vicenda, il mal. Tra noi sol quanto
V’ha di funesto il gran Teatro adorna.
270Sulla misera Terra ognora imprime
Forme nuove. Oh com’è raro che in tanti,
E sì variati eventi il fato apporti
I più felici! E più di tutti sempre
Sono rapidi questi. Armato è il Tempo
275Di falce enorme, il di cui taglio miete
Qual erba in prato i vasti Imperi, e sono
Tutti i momenti ancor di ferro armati.
Vanno questi mietendo i piacer nostri.
Appena nati, e un barbaro diletto
280Si fanno d’annientare i semi in noi
Della felicità. Con qual prestezza
La mia vidi scemar, vidi svanire!
Sulla Terra piacer? Motto d’orgoglio,
Il soggetto dov’è? Credei goderlo,
285Io non strinsi che un’ombra. È sulla Terra
Unico ben quel che virtude apporta.
La virtù, come il Sol luce a se stesso,
A se stessa è piacer: questo è di lei,
Benché povera sia, fido compagno.

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290Ma quando un tal piacer dalla fortuna
Si ripete, o dall’uom, con lei si cangia,
E come appunto l’uom sorge, e tramonta.
Ah se de’ miei desiri a giusta lance,
Pria di legarmi a lor, posto gli oggetti
295Avessi, oh quanto più scevro sarei
Di rimorso, di duolo, e d’amarezza!
     Oh morte! A te, che le create cose
Possiedi, al nulla i più famosi Imperi
Ridur s’aspetta, e tor la luce agli astri.
300Tu sol globo non dei l’astro più bello
Che per poco soffrir. Verrà l’istante,
Che dal trono, in cui splende, a notte in seno
L’aurato Sol precipitar farai
E contenta tu dunque esser non puoi
305Di vittime sì grandi? E perchè adesso
Un atomo di mira il tuo furore
Prende, e me sceglie ad isfogar sua possa?
Non bastava per te ch’un de’ tuoi strali
Colto m’avesse? E perchè il terzo ancora
310Empia vibrarmi? Ah con tre colpi orrendi
M’hai lacerato il cor pria che tre volte
Di tutto il suo splendore in Ciel si fosse
Adorna Cintia. Invan del tempo il volo
Ore novelle apporta, invano io cangio
315Ordine, e loco. Ogni piacer sen fugge
Da quest’alma per sempre, a’ miei riflessi
Più non s’unisce, e questi acerbo strazio
Fan del povero cor. Del mio riposo
Nemico il mio pensiero in ogni istante
320Mi tormenta, m’affligge, e della notte
Le tenebre, la calma in suo vantaggio
Derivando il crudel, seco mi porta
Nel passato ove mostra a me un sollievo.
Sconsigliato! Ne’ cupi ermi recessi
325Seco men vo dei trapassati tempi:
Ma, qual empio sicario, in quelli appunto
Ei mi tradisce, e mi trafigge il seno.
Colà di nuovo il mio pensier mi guida

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U’ furo i miei diletti, e trovo, oh Dio,
330Solo un vasto deserto, in cui di quelli
L’ombre restano ancor per mio tormento.
De’ miei prim’anni le perdute io piango.
Ricchezze: io gemo sugli sparsi avanzi
Di mie felicità. Tutti gli oggetti,
335Che incantato m’avean, tutti quei beni
Sì cari un dì, che all’alma mia formaro
Estasi di piacer, mi fanno adesso
Di spavento tremar. Ciascun passato
Piacer m’immerge acuto dardo in petto.
     340Ma... Dolermi? Perchè? Perchè me solo
Compianger? Per me sol forse risplende
La gran lampa del Mondo, e sono io forse
L’unico sfortunato? Ah! ch’io mi lagno
D’un destino comune a mille a mille.
345Sotto forme diverse ogni mortale
Della Madre il dolor sempre divide.
È la pena un sicuro ampio retaggio,
Che la donna tramanda a tutti i suoi
Figli insiem colla vita. Ohimè! Qual folla
350Di flagelli diversi il Mondo opprime!
Peste, Fame, Vulcani, Incendj, e Guerre,
Fieri Nembi, Discordie, e rei Tiranni
L’umana specie straziano a vicenda,
La distruggono insieme. Or vede il Mondo
355Uomini, che di luce affatto privi,
Stando sepolti alle miniere in seno,
Scordan esservi il Sol. Esseri io veggio
Immortali sul mar, che in grembo a lui,
Come il signor, che l’incatena al remo,
360Vivon colle tempeste in fiera lotta,
Sempre soffron del mar gli sdegni, e l’ire,
E il lor profitto a disperar li porta.
Altri, sol per servir Regi inclementi,
Mutilati in battaglia, oggi sen vanno
365Pe’ Regni, che salvato ha il lor coraggio,
E pregando, e porgendo il solo braccio,
Che resta loro, a mendicar del pane.

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Gl’insanabili morbi, e la miseria
Assalgono a vicenda in fiera lega
370Mille e mille viventi, i quai soltanto
Nella tomba sperar ponno un asilo.
Vedi questa d’estinti enorme folla,
Che dei pubblici Ospizj esce dal seno!
Pallida in volto, e semiviva osserva
375Altra turba, che cresce, e chiede il luogo,
Che gli estinti lasciar! Quanti infelici
Nudriti già d’ogni piacere in braccio,
Imploran or la mano fredda e lenta
Di caritade; ed ahi vista crudele!
380Da lor s’implora in van! Molli opulenti,
Quando il piacer vi stanca, in quel momento
Che più non ha per voi diletti il Mondo,
A respirar venite ove trionfa.
La miseria, il dolor: soccorso, aita
385Date, e in veder tante di rea fortuna
Vittime sventurate, il senso in voi
Del piacer si ravvivi. Ah voi già siete
Senza rossore; e se tuttor vi tinge,
È la sola virtù, che in voi lo desta.
390Meglio saria, se la sventura il solo
Vizio assalisse; ma virtù, saviezza
Sono un debol riparo ai colpi suoi.
O sobrio l’uomo, o intemperante sia,
E dal malor sorpreso, e senza colpa
395Talor punito. E se di cupa selva
Abitator divenga, in quella ancora
Forse nol seguirà barbara noja?
Spesso siam men sicuri allor che l’alma
Va nel futuro a prevenir gli eventi,
400E il passo, che facciam per fuggir morte,
Quel passo appunto in braccio a lei ci porta.
Non dà giammai felicità quel tanto,
Che ne promette il nome; e siam mai sempre
Sorpresi di trovar tanta distanza
405Tra ’l ben, che ricercossi, e tra l’oggetto,
Che col ben si confuse. I nostri voti

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Compiuti sono, e noi non siam contenti;
E la vita più lieta ha le sue pene.
I nostri cari, e più sinceri amici
410Senza volerlo a noi fan qualche offesa.
Innocenti essi son; ma pur la nostra
Tranquillità si turba. Oh quante mai
Calamità senz’accidenti! E senza
Nemici oh quante ostilità! Non hanno
415Numero i nostri mali. Io non ho tanti
Sospiri da pagarne uno in tributo
Delle miserie nostre a ognuna specie.
     Quanto ristretta è la porzion del Globo
Occupata dall’uomo! Il resto è solo
420Una piaggia deserta, arida, e nuda.
Gelati mari, ovver bollenti sabbie,
Monti, o deserti, nascondigli impuri
Di serpi, di velen, di mostri, e morte.
Questo del nostro Globo orrido quadro
425È quel di nostra vita. Oh quanto è mai
Misero il regno, che fa l’uom sì fiero!
I suoi diletti oh quanto sono angusti!
Quanto vasti i suoi mali! Assedio a lui
Fanno i torbidi affanni. Il duol lo strazia;
430L’agitan le passioni. I rei flagelli
Il divoran. Di morte il tetro gorgo
S’apre sotto i suoi passi ad ogni istante,
E minaccia inghiottirlo. Oh Cintia! il nostro
Globo infelice è ancor del tuo più vario.
435Pallida, trista io ti rimiro: forse
Saresti tu delle miserie nostre
Sensibil testimone? Oh quanto ingiusto
Era piangendo solo i mali miei!
Il vecchio afflitto, ed il fanciullo imbelle
440Speme non han che in la pietade altrui.
Volle così natura in noi destare
Della pietade i moti. Un cor, che sente
Solo i suoi mali, a gran ragion li soffre.
Un moto generoso di pietade,
445Al di cui pianto l’uman Germe ha dritto,

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Nobile fassi, ed in virtù si cangia.
È sollievo per noi compianger gli altri,
E de’ lor mali dividendo il peso,
Meno sentiam la vigorìa de’ nostri.
450Dunque ciascun che geme abbiasi quella
Parte che deggio a lui nel pianto mio.
     Che oggetto di pietade è mai l’umana
Felicità per l’uom, che spinger puote
L’occhio nell’avvenir per un istante!
455Lorenzo, la fortuna or ti sorride:
Ti lasci tu dal lusinghier suo canto
Addormentar? Dei doni suoi tu trema.
Ella vende il piacer. Per porti in arme
Non attendere il nembo. Assai minaccia
460La calma più della tempesta, e sono
I favori del Ciel prova, e non premio.
Godi il presente, e l’avvenir paventa.
Non creder già, che il disturbar tua pace
Un barbaro piacer mi fia; vorrei
465Renderla fissa; ma quel ben, che godi,
Non mi lusinga. Il tuo piacer è pegno
Della tua pena. Il dilettevol sogno
Dolcemente agitato al ben tu pensi
D’un precipizio sulla sponda. Sai
470Tu che il mortal felice ha già contratto
Coll’infelicità debito certo?
L’avversità, qnal creditor severo,
Di sue dimore i cumulati frutti
S’affretta a dimandarti, e della scorsa
475Prosperità fa un barbaro tormento,
Da cui più acuta, e più crudel si rende
La pena all’infelice. I nostri vani
Piaceri, uguali a’ non sinceri amici,
De’ quai la tenerezza in odio è volta,
480S’arman contro di noi stracciando il seno,
Che carezzaro un dì. Spargono il tosco
Sulla tranquillità dei nostri giorni.
Non darti adunque con eccesso in preda
Al piacer che t’accende. I troppo vivi

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485Trasporti sono a soffocar bastanti
In noi tutti i contenti, e la soverchia
Gioja ci lascia più infelici assai
Di quel che fummo pria che il suo possesso
Si concedesse a noi. Temi, Lorenzo,
490Ciò che felicità dall’uom si chiama.
     La mia morì con te, caro Filandro
L’ultimo tuo sospir ruppe l’incanto.
Ora disciolto è della Terra affatto
il magico splendor. U’ sono adesso
495Que’ brillanti fantasmi, e quella ricca
Veste, di cui l’ornò la tua presenza?
Io più non veggio che un deserto nudo,
Un tetro error, una spogliata terra,
Ove canuto io resto in abbandono,
500Qua vil rifiuto di natura: è morto
Il grande incantator, e sparve quella
Fantastica region. Qual improvviso
Cangiamento! Ed oh quanto a me diverso
Sembra il mondo da quel che gli occhi miei
505Vider già pochi di! Filandro amato,
Tu più dunque non sei che poca polve
Perduta, e spinta in una tomba oscura?
Di tue dolci speranze eri già presso
A posseder l’oggetto; e quante pene,
510Quai sudor ti costò! D’onor, di gloria
Qual nobil foco t’accendeva! Oh come
Tua giovinezza alla virtù si volse
Con gigantesco piè! Ma pur frattanto
Che la tua gloria il guardo nostro abbaglia,
515La cruda morte nel tuo seno ascosa,
I tuoi progetti deridendo, all’ombra
Fea suo lavoro, ed in silenzio a’ tuoi
Giorni sicura disponea la mina.
     La prevision dell’uom giammai non puote
520La congettura oltrepassar: l’evento
È quel che di saviezza, o di follia
Nome le dona, e la più vaga idea
Termina spesso in un pensier molesto.

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Quanto debole mai, quanto ristretta
525È la vista dell’uomo! Ella non puote
Del momento presente esser più estesa.
L’istante successivo in densa nube
S’asconde, e il tempo si presenta a noi
Quasi rapido stral, che passa e vola.
530Giura al destino ciascheduno istante
Silenzio esatto sulla nostra sorte
Finché giunga ad unirsi alla catena
De’ nostri giorni: e intanto che sul nostro
Fato tace il futuro, ogni momento,
535Che scorre, cominciar può il corso eterno.
Pe’ decreti di Lei, che tutto crea,
Ciò, che posson produr tutti gl’istanti,
Un istante lo può, nè vario il dritto
È che all’ore fissò l’Arbitro Eterno.
540Qual più orgogliosa, e temeraria idea
Sorger può dunque in cor dell’uom che quella
Di contar, di fidarsi al dì che viene?
E dov’è questo dì? Quanti in un’altra
Regione andranno a ricercarne! In questa
545Per alcun non è certo, e sopra un forse
Di niuna fede per sue tante, e tante
Menzogne, come su marmorea base,
Senza fine fondiam nostro speranze?
Tutti gonfi d’idee, pieni di speme
550Pel susseguente giorno, oggi si muore.
Ah non contava ancor Filandro i giorni,
Ne’ quai l’uom pensa al suo funebre albergo.
     De’ nostri errori tutti error più strano
È che la vita ancor presso al meriggio
555Noi riguardiam qual biancheggiante aurora.
D’essere saggjo a se stesso ognun promette.
L’uomo attual fa plauso innanzi tempo
All’uomo, che sarà. Di tal futura
Saviezza concepisce il proprio amore
560Un immaturo orgoglio... Oh quanti belli
Saran quei dì, che non vivran giammai!
Si lascia in preda alla follia quel tempo,

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Di cui dispor si può: quel che il destino
Tiene ancora in sua man, viene assegnato
565Dall’uomo alla virtù. Finché possiede
Giovinezza e vigor, si fida altero
A quel tempo che gode. Un guardo solo
Al futuro non volge, e assai più saggio
Degli avi suoi si crede. Allor che bionda
570Quattro volte osservò l’ottava messe,
Pensa che forse è di ragion nemico
Dei suoi giorni il tenor: dopo due lustri
Ogni dubbio si scioglie, e al piano antico
Dà un sistema ch’è nuovo. Ei si rinfaccia
575Il suo ritardo vergognoso, e poscia
A dieci lustri nell’oprar da saggio
È fermo, è risoluto. Ancor rinnova
I propositi suoi: diman gli avvera;
Alfin muore qual visse. In simil guisa
580Anno ad anno succede, e lustro a lustro,
E per l’unico, grande, eterno affare
Un sol momento a noi rimane appena.
     Come se il viver mai termine avesse,
Vivon gli uomini appunto: e se dell’opre
585Lor si fa giusto peso, è forza il dire,
Che sicuri non son d’esser mortali.
Scossi per altro son quando la morte
Qualche improvviso stral lor vibra accanto.
Tutto s’agita il cor; ma benché vivo
590Resti tuttor della saetta il fischio,
Presto da noi si scorda, e più da noi
Non si rammenta il folgore che cadde
Quando n’è spento il fuoco, Il segno lieve
Del vol d’un augelletto in grembo all’aria,
595E il solco in mar, che vi segnò il naviglio,
Non così presto si disperde, quanto
II pensier della morte il cuor dell’uomo.
Da noi si chiude nella tomba istessa,
In cui restan color, che a noi fur cari;
600Nella tomba si perde insiem col pianto
Sulle ceneri lor da noi già sparso.

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Che? scordarmi potrei del mio Filandro?
No, non fia mai... Ohimè! Quanto il mio core
S’ange, si gonfia... Oh Dio, quanto è mai pieno!
605No, quando il freno al mio dolor sciogliessi
Pel giro intero, che la Dea triforme
Scorre degli astri in sen, gravido il ciglio
Sempre saria di pianto, e la leggera
Lodoletta verria col canto suo
610A disturbar miei dolorosi lai...
Io già la sento. È il penetrante suo
Canto, che fa sentirsi in cielo. Oh come
È vigilante a risvegliar l’aurora!
     Tenera Filomela, anch’io la notte,
615Come tu fai, ricerco. Anch’io nel core
Porto un dardo che il crucia, e i mali miei
Tento sopir col mio lugubre canto.
Si dirigono insiem da noi gli accenti
Verso de’ Cieli, e testimoni a noi
620Sono le stelle sol: sembra che ferme
Restino per udirti; al pianto mio
Insensibile sta tutto il creato.
In quell’ore d’orror, cinto dal manto
D’oscura notte, d’investirmi io tento
625Dell’estro lor per tessere un inganno
A’ mali miei, per sollevar quest’alma
Dal grave peso, che l’affanna, e opprime.
De’ lor trasporti io tutto m’empio; eppure
Erger non posso il vol fin dove giunge
630Il genio lor. Divino Omero, eccelso
Miltono, a cui dell’aurea varia luce
Il tesoro fu tolto, ambo cantaste
In quell’orror, di cui vi cinse il fato.
Di questo orror vo in traccia, e più del giorno
635Mi consola, m’alletta. E perchè in seno
Or non mi bolle il sacro fuoco istesso,
Che v’infiammò? Perchè non ho la voce
Dell’Angelico Cantor, in cui risorto
Vide la Terra quell’amabil Cigno?
640„ Che le muse lattar più ch’altri mai!

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Pope l’uomo cantò. L’uomo immortale
Io cantò, e spesso me medesmo io spingo
Al di là del confin di nostra vita.
E qual cosa può mai piacermi adesso
645Fuor che immortalità? Nel basso mondo
Io sono un infelice. Oh Dio! se Pope
Stato fisso non fosse entro l’angusto
Cerchio del tempo, e proseguito avesse
Le tracce illustri del suo volo ardito,
650L’avria questi condotto all’auree porte
D’Eternità: sull’ali sue di fuoco
Fermo stato saria nell’alte sfere,
Donde mia debolezza a terra cade.
Sì, l’immortalità dell’uomo avria.
655Celebrato co’ versi, e fora stato
Del Germe uman consolatore, e mio.