Della ragione di stato (Settala)/Libro I/Cap. III.

Cap. III.

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Capitolo III

Si esamina un’altra opinione, che cosa sia ragion di stato.

Altri, dividendo la ragion di stato in vera e apparente, la vera dissero esser la medesima con la prudenza civile; e questa appena si accontentano che possa aver tal nome: l’altra, che chiamano apparente, affermano esser sola quella, che a’ tempi nostri si chiama ragion di stato; e questa diffiniscono esser una dritta regola, con la quale si governano tutte le cose, secondo che richiede l’utile di colui, a cui appartengono. E questa dicono non essere prudenza, perché questa è sempre congiunta con la virtú morale; né arte, perché questa è nelle cose fattibili, e la ragion di stato nelle agibili; non scienza, perché questa è nella contemplazione delle cose e loro cause, e non nelle azioni umane, come è la ragion di stato. Dicono adunque esser una pedia o istituzione, come abito piú imperfetto della scienza. Ed in questo modo Senofonte intitolò i suoi libri della Pedio di Ciro, che cosí dimandò la cognizione di Ciro del governo del regno. Ma molte cose parmi che la proposta opinione contenga, che non possono stare al martello della veritá. Prima non è vero, che la vera e buona ragion di stato sia l’istessa con la prudenza civile: perché questa è come genere alla [p. 56 modifica] consultatrice, legislatrice e giudiciale; e la ragion di stato solo sotto la consultazione si trattiene; né circa tutta la materia a quella virtú appartenente si stende, ma in piú angusti termini si contiene, come mostreremo. Che poi solo la ragion di stato si dica dell’apparente, e che in sé contiene qualche mala azione, ancora potrá negarsi: perché non meno le buone che le ree hanno la sua buona ragion di stato: perché i mezzi, che si usano da buoni prencipi e buone republiche per conservarsi, saranno buoni. Ben è vero che per essere rari i buoni governi, ne nasce che la ragion di stato, la quale per lo piú si pratica, resta con la macchia dell’iniquitá, e per il piú contraviene alle leggi: perché per il piú, mirandosi ne’ governi difettosi all’interesse di cui regge, che al commodo de’ sudditi, non può la ragion di stato se non malamente accordarsi con le leggi, le quali hanno per lor fine principalmente il bene de’ privati.

Ma se questa apparente ragion di stato è cosí propria delle ree republiche, come potrá esser dritta regola? essendo che nelle cose morali e politiche, retta, giusta significa, e buona, indirizzata alla virtú e all’onesto, come per tutte le Morali ci insegna Aristotele. Ma diranno forsi per dritta regola intendere, che drittamente riguarda il commodo del prencipe, conforme a quello che dalla buona consultazione con l’esempio delle azioni del incontinente ne scrisse Aristotele nel sesto de’ Morali a Nicomaco al capo nono, e a quello che ne scrisse Eustrazio nel commento. Ma in esplicar quel luogo d’Aristotele e rifiutar la sposizione di Eustrazio, non mi affaticarò, avendo cosí dottamente e al longo fatto il mio signor Bonaventura nel terzo libro Della ragion di stato e prudenza politica. Quanto poi al genere che pigliano nella diffinizione, che sia una pedia: parmi, o che abbino preso un genere non proprio, che, tolto dal greco, l’istituzione de’ putti significa; o troppo universale, per istituzione nel suo governo regio, come usò Senofonte. Ma meno ci potrá servir per genere in quella diffinizione, se si appigliaremo al significato di pedia insegnatoci da Aristotele nel principio de’ libri Delle parti degli animali: che è un abito in quello che impara una scienza, con il quale conosce se, quello che insegna, ciò facci con buono e atto modo.