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Della moneta Libro I

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PROEMIO

È cosa maravigliosa ed assai difficile a spiegare donde avvenga che gli uomini, i quali alla cultura dell’animo si sono applicati ed il nome di savi e virtuosi han bramato meritare, quasi tutti hanno cominciato dal rendersi inutili alla umana societá, e, fuori di lei in certo modo trattisi, a quegli studi ed a quel genere di vita si sono dati, in cui poco a sé, niente agli altri potevano d’utilitá arrecare; e per questo stesso appunto, quando meritavano biasimo e disprezzo, sono stati dal popolo ad una voce lodati ed ammirati. Quindi è derivato che molte delle scienze piú necessarie sono state o in tutto abbandonate o vilipese. La notizia delle lingue giá morte, degli antichi costumi, de’ movimenti degli astri e delle opinioni altrui intorno alle ignote cause naturali, o al piú l’intelligenza delle oscure leggi di popoli da noi e per religione e per governo e per indole e per antichitá divisi, ha ottenuto l’augusto nome di «sapienza», e gli uomini in tali cose versati sono sembrati degni di comandare. Fu, è vero, Socrate negli antichi tempi, che dalle sfere richiamò la filosofia ed alla umana vita la volse, impiegandosi a formar utili cittadini alla sua patria ingrata; ma, quantunque da lui quasi tutte le scuole de’ filosofi provenissero, niuna ne venne che fosse fedele imitatrice di tanto maestro. Cosí l’arte del governo, piú d’ogni altra di cultori sfornita, fino a’ nostri di s’è condotta, e [p. 2 modifica]solo provveduta de’ materiali onde poterla ritrarre. Sono questi nella storia contenuti. La storia è un non interrotto racconto degli errori e de’ gastighi del genere umano: onde è facile, in essa meditando e sugli sbagli altrui divenendo savio, emendare i primi o riparare i secondi. E non altrimenti che dall’aversi le osservazioni astronomiche di molti secoli non è stato difficile formare del moto de’ pianeti il sistema, cosí avviene nella scienza del governare. E quindi è forse che in ogni tempo gli storici, e que’ principalmente che hanno descritte le storie particolari e contemporanee, sono stati per maestri di politica reputati. Ma picciola parte del tutto hanno essi toccata; e piú sono stati solleciti d’insegnar a’ principi le arti onde acquistare e custodire l’imperio, che quelle di render felice e dolce l’ubbidienza ne’ sudditi. Perciò non è strano se hanno trascurato intieramente di esaminare l’esatto regolamento della moneta, il quale a primo aspetto pareva piú importare a’ sudditi che non al sovrano. Strano è però che molti scrittori, piú a noi vicini di etá e ripieni di zelo ardente al ben pubblico, niente abbiano scritto sulla moneta.

Così il grande ed immortale Ludovico Antonio Muratori, nella sua ultima opera Della pubblica felicitá, che è stata «morientis senis quasi cygnea vox», ha, con ingenua confessione d’impotenza, trapassata questa parte che riguarda le monete: assai per altro piú lodevole che se, come altri ha forse fatto, di quello, che non intendeva, avesse presuntuosamente ragionato.

Fra coloro dunque che trattano della moneta, solo io veggo che si distingua l’autore del Saggio sul commercio, creduto essere il signor Melun, uomo d’ingegno grandissimo e d’animo veramente onesto e virtuoso. Ma, non avendo egli accoppiate nell’opera sua le dimostrazioni alle veritá insegnate, siccome meglio di tutti ha pensato, cosí è stato meno d’ogni altro seguito, e letto solo per esser confutato da coloro che non aveano avuto dal cielo tanto acume di mente da capirlo. Dopo il Melun nominerò Giovanni Locke, inglese, che in una lettera racchiuse due trattati, l’uno sullo sbassamento de’ prezzi dell’interesse, l’altro sull’alzamento della moneta. Da lui sarebbe stato desiderabile che in ciò che ha scritto si scorgesse piú metodo ed ordine, e che [p. 3 modifica]non una informe lettera ma una ordinata opera si fosse fatta da un uomo tale. Ma egli, nella fretta con cui trattò quelle materie, ha una parte in tutto taciuta, e l’altra tanto oscuramente scritta, che al piú de’ lettori non può arrecar utile o piacere alcuno. Meritano anche onorata ricordanza Carlo Broggia e Troiano Spinelli duca d’Aquara, de’ quali l’uno l’intiera scienza delle monete, l’altro dell’alzamento con lode hanno trattato.

Che da costoro io abbia tolte varie notizie, nol nego: vero è che forse molte, meditando, avrò io trovate, che sembreranno prese da altri, sebbene cosí non sia. Ché se nell’opera non mi trattengo a citare alcuno, egli è perché le cose, che tratto, voglio che abbiano il loro vigore dalla ragione, non dall’autoritá. Similmente mi sono sempre astenuto dal contraddire ad altri citandolo, conoscendo che la dimostrazione della veritá è per se stessa una confutazione potentissima del falso; e la pompa di citare o di rispondere a molti ed in ciò dilungarsi, io credo che sia sempre da piccolezza d’animo cagionata. Inoltre ho procurato evitare ogni locuzione che sentisse di sublime geometria, e quella chiarezza maggiore, che per me si è potuta, ho tentato, con esempi e con dichiarazioni replicate, in sí oscura materia apportare; nel che forse, volendo altrui giovare, avrò me stesso offeso. Poiché le cose spiegate sembreranno tanto facili e piane, che i lettori, non ricordandosi della maniera con cui sono dagli altri, non dico esposte, ma inviluppate, le crederanno vecchie ed assai conosciute: tale essendo la luce della veritá, che, qualora si presenta all’animo luminosa ed aperta, sempre quasi antica e nota vi arriva. Ma io ho voluto piuttosto al pubblico bene con mio dispregio attendere, che senza utile altrui farmi credere intelligente di studi difficili ed astrusi. Il parlar misterioso è delle cose puerili l’ingannevole ingrandimento; e perciò a me, che di grande ed utile materia favello, mal si conviene. Finalmente non sono qui a chiedere compatimento e scuse, e della inespertezza, che fingessi credere in me, a fare una non sincera confessione. Colui, che ha di sé bassa stima, al pubblico non si ha da esporre; e, se il facesse, dell’ardire [p. 4 modifica]avuto merita riprensione e gastigo. Io per me, qualunque siesi l’opera, confesserò, colla ingenuitá propria agli animi ben formati, ch’io credo meritar lode, mentre le forze e i talenti da Dio ricevuti tutti alla patria ed alla umana societá rendo e consagro. Volesse il cielo e potessi ad esse divenir utile tanto, che le infinite obbligazioni mie verso di loro si venissero cosí almeno in parte a soddisfare.