Della moneta/Libro V/Capo I

Capo I - Dell'interesse e delle usure

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Capo I - Dell'interesse e delle usure
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CAPO PRIMO

dell’interesse e dell’usure


Breve narrazione delle controversie sull’usura — Donde venga l’oscuritá della questione — Falso giudizio degli antichi intorno alla Fortuna — Che cosa sieno il cambio e l’interesse — Origine degli errori del Broedersen — Abbaglio d’alcuni teologi intorno alla spiega d’alcune definizioni — Spiegazione della bolla di Benedetto decimoquarto — Due quesiti ne’ quali sta il nodo della questione — Mezzi per render moderate le usure — Perché non si possa fissare con legge il frutto del danaro — Nemmeno dalla legge si può variare.

Hanno da antichissimo tempo gli uomini ricchi tratto frutto dal denaro in varie forme di contratti; e nel tempo stesso i poveri si sono doluti della maggior parte di tali convenzioni come d’ingiuste e malvagge. E, siccome è proprio di chi gode tacere e soffrire i pianti altrui, come per contrario in chi si duole le grida e gli strepiti sono sempre grandissimi, perciò sono stati tutti i secoli, fino al decimoquinto, ripieni di voci concordi in biasimare ogni frutto del danaro e detestarlo. Nel secolo decimosesto, quando la scoperta dell’Indie nuove, l’accrescimento dell’arti, dell’industria, del commercio e della moneta, l’istituzione delle rendite su’ debiti dello Stato, fatta la prima volta nelle monarchie da Francesco primo re di Francia ed imitata dagli altri principi, la distruzione de’ giudei, crudelissimi usurai, e l’istituzione de’ monti di pietá, ebbero quasi estinte affatto le usure e quetata la plebe, si videro con mirabile accidente uscir fuori ingegni acutissimi a proteggere e sostenere l’usura, giá morta, che, viva, non era stata difesa da [p. 290 modifica] alcuno. Claudio Salmasio, uomo di cui non v’è forse stato chi abbia avuto ingegno e lettura piú grande (sebbene ei n’abbia fatto uso solo nel piccolo), fu il primo che scrisse compiutamente delle usure con non minore dottrina che inclinazione a giustificarle. Dietro lui scrisse Nicolò Broedersen, canonico della chiesa d’Utrecht, e poi altri; e ad essi s’oppose un numero grandissimo di scrittori d’ogni nazione. Negli anni passati si riaccese la disputa in Italia, dove Scipione Maffei, gentiluomo veronese, scrisse Dell’impiego del danaro; e, siccome l’animo suo nobile e generoso e l’opinione della virtú e dottrina sua, meritamente stabilita presso tutti, faceano conoscere non essere egli stato trasportato da passione o da riguardo alcuno, eccitò il libro negli animi di molti grandissima commozione. Gli si oppose fra Daniello Concina, dell’ordine dei predicatori, con due libri (de’ quali il primo fu stampato in Napoli), ripieni di fervore e fuoco incredibile e tanto meno aspettato, quanto parea doversi vedere fra uomini amici, dotti e soitoposti allo stesso principe maggiore placidezza. Ma furono le dispute interrotte con savio consiglio dalle supreme potestá; conoscendosí che coloro, i quali tanto ragionano del peccato dell’usura, non hanno per ordinario avute dalla provvidenza facoltá da poterlo commettere; e coloro al contrario, che vi potriano cadere, non sono stati, per colpa della loro educazione, posti in istato d’intendere le controversie.

Non si può negare che, sebbene la ragione sia per lo piú dalia parte del Concina, abbiano gli avversari in favor loro molte plausibili e speciose ragioni. Ora io son persuaso che, quando in due opposte sentenze si vede quasi divisa la veritá ed inclinare non piú all’una che all’altra, conviene che qualche abbaglio o inganno di voce siavi per lo mezzo; essendocché il vero colla sua luce discuopre subito l’origine sua e la concatenazione con tutte l’altre veritá e tinge sí fattamente di nero il falso, ch’è impossibile non avvedersene. Quindi, meco stesso ripensando, ho avvertite quelle cose che mi sembrano aver prodotte tante dispute, e qui le anderò manifestando il meglio ch’io sappia fare. [p. 291 modifica]

Ne’ secoli d’ignoranza gli uomini prendevano tanto spavento degli accidenti del caso e della fortuna, che, non altrimenti che da un cavallo indomito e calcitrante, fuggivanla paurosi e da lei cercavano salvarsi alla meglio. La luce delle vere scienze scoperse finalmente niuna cosa esser meno fortuita del caso, avere le sue vicende un ordine costante ed una regolata ragione, e potersi tra il certo presente e l’incerto avvenire trovar proporzione. Così, quetata a poco a poco la paura, cominciarono gli uomini, domesticatisi colla fortuna, a trattarla ed a giocarvi intorno. S’udì la prima volta disputare della giustizia ne’ giuochi di pura sorte; e l’arte d’indovinare, tanto vilipesa, divenne in mano del Bernoulli figlia delle matematiche e della veritá. Da’ giuochi si passò a cose piú serie; e furono le navigazioni, le vite degli uomini e le ricolte delle campagne, state giá tanto tempo scherno della sorte, furono, io dico, misurate, apprezzate e contro l’arbitrio della fortuna assicurate, ponendole la prudenza umana le redini e le catene. Fu allora conosciuto che il valore intrinseco era sempre mutabile secondo i gradi di probabilitá, che si aveano, a dovere o non dover godere di qualche cosa; e si conobbe che cento ducati lontani dalla mano d’alcuno, quando hanno novanta gradi di probabilitá a non perdersi e dieci a perdersi, diventano novanta ducati presenti, e per novanta s’hanno a valutare in qualunque contratto o di giuoco o di baratto. Così, mediante le matematiche, furono raddrizzate molte convenzioni e richiamatavi quella giustizia, che le tenebre delle false scienze ne aveano discacciata. L’ardire degli uomini incontro al caso fu calcolato e ristretto tra limiti certi e stabiliti.

Quindi nacquero il cambio e l’interesse, fratelli tra loro. L’uno è l’eguagliamento tra il danaro presente e il danaro lontano di luogo, fatto con un soprappiú apparente, che s’aggiunge alle volte al danaro presente, alle volte al danaro lontano, per render eguale il valore intrinseco o dell’uno o dell’altro, diminuito dalla minor comoditá o dal maggior pericolo. L’interesse è la stessa cosa fatta tra il denaro presente e il lontano di tempo, operando quello stesso il tempo, che fa il [p. 292 modifica] luogo; e il fondamento dell’un contratto e dell’altro è l’egualitá del vero intrinseco valore. Tanto è ciò vero, che talora nel cambio il danaro presente vai meno del lontano, e dicesi «cambio di sotto al pari»; e le carte rappresentanti il danaro, che a buon conto non son altro che danaro futuro, molte volte han valuto piú del contante, e questo di piú è detto «agio».

Ecco che ora si scuopre come tutto il falso de’ sentimenti di Nicolò Broedersen nasce da idee false e da cattivo uso delle parole; e tutta quella sembianza di vero, che vi traspare, sta nascosta in una veritá mal ravvisata. È stato errore chiamar «lucro» e «prò» del danaro ciò ch’è riempimento del mancante, posto per pervenire all’egualitá. Ogni lucro, o grande o piccolo, dato dal danaro, di sua natura infruttifero, è biasimevole: né si può dir frutto delle fatiche, poiché le fatiche son fatte da chi prende in prestanza, non da chi dá. Ma, dove è egualitá, non è lucro; e, dove il prezzo intrinseco è magagnato e scemato dal rischio e dall’incommodo, non si può dir lucro il riempirlo. Falso pensiero è poi ed abominevole di lui e de’ suoi seguaci trovar disparitá tra ’l povero e ’l ricco, e confonder la giustizia colla compassione. Il giusto si può a ragione domandare e pretender del pari dal piú ricco e felice che dal piú sfortunato: l’ingiusto non si può pretender da alcuno. Né chi rende altrui sua ragione, ha da entrare a correggere le disposizioni della provvidenza e compartire diversamente, colla debolissima opera sua, la prosperitá e la miseria, essendo la povertá piú frequentemente generata da’ vizi che dalle sventure.

Per contrario molti teologi, avendo benissimo definita l’usura e il mutuo, hanno poi mal intesa la definizione loro medesima. «Usura» è quel lucro che si riceve oltre la sorte in virtú del contratto del mutuo. Giustissima definizione; e chiunque (come molti recenti non cattolici han fatto) vorrá variarla, e dire che il mutuo non gratuito non è mutuo, e allora il suo frutto non è usura, scherzerá sulle parole, non meno empiamente che senza utilitá: perocché a Dio non v’è arte né mezzo da imporre; agli uomini non v’è necessitá. Sono state [p. 293 modifica] inventate tante formole diverse da eluder il rigore dell’umane leggi contro l’usura, che è veramente poi soverchio ed intollerabile voler finanche venire ad insultare l’interno conoscimento del giusto e perturbarlo. La definizione del mutuo è del pari giustissima, consistendo in consegnare una cosa con patto di riaver l’equivalente e niente di piú. Ma di questo «equivalente», espresso dalla voce latina «tantundem», l’idea dovrebbe esser migliore e piú chiara. Il valore è la proporzione che le cose hanno a’ nostri bisogni. Equivagliono quelle ch’apportano egual comoditá a colui rispetto al quale si dicono «equivalenti». Chiunque cercherá l’egualitá altrove, seguendo altri principi, e la vorrá trovare o in sul peso o nella simile figura, si mostrerá poco intelligente de’ fatti umani. Un foglio di carta equivale molte volte al danaro, da cui è difforme e per peso e per figura: molte volte al contrario due monete d’egual peso e bontá e di simile figura non equivagliono. Quando in un luogo non è dato corso a una moneta straniera, ancorché buona (come è fra noi della moneta d’argento romana), non arreca egual comodo l’aver un pezzo di metallo inutile e ricusato da tutti che un altro pezzo simile, ma in libero commercio. E perciò s’ha da pagar meno la moneta vietata, e s’ha da stimare per tanto per quanto non è ricusata, cioè pel valore intrinseco del suo metallo; il che è una sorte di cambio assai giusto e ragionevole. Infine è certo che fra gli uomini non ha prezzo altro che il piacere, né si comprano se non le comoditá; e, siccome uno non può sentir piacere senza ncommodo e molestia altrui, non si paga altro che il danno e la privazion del piacere ad altri arrecata. Il tenere alcuno nel batticuore è dolore: dunque conviene pagarlo. Ciò, che si chiama «frutto del danaro», quando è legittimo, non è altro che il prezzo del batticuore; e chi lo crede cosa diversa, s’inganna.

Se ora co’ principi da me esposti si rivolgeranno gl’insegnamenti del pontefice Benedetto decimoquarto, si troveranno meravigliosamente ripieni di sapienza e di veritá: se si guarderanno le operazioni umane non biasimate dal popolo, si conosceranno conformi alle massime sopraddette. [p. 294 modifica]

Quattro principali dottrine nella bolla, che comincia «Vix pervenit», sono a’ fedeli insegnate. La prima, che il mutuo sia la restituzione dell’equivalente: l’usura, il guadagno di sopra all’equivalente; onde si conclude: «Omne propterea huiusmodi lucrum, quod sortem superet, illicitum et usurarium est». Insegnamento verissimo. Ma non s’ha da chiamar «guadagno» l’apparente ed ideale accrescimento, che si mostra tale per colpa del mal valutato prezzo della sorte principale.

In seconda si condanna a gran ragione ogni guadagno, o grande o piccolo, come peccaminoso e riprensibile, «avendo i contratti umani per base e fondamento l’egualitá».

In terza si dice non esser intrinseco al mutuo questo «soprappiú»: del che non si può dir cosa piú vera. Anzi egli è tanto vario, quanti sono vari quasi all’infinito i gradi delle probabilitá della perdita, la quale, siccome alle volte è grandissima (come nelle usure marittime), cosí discende alle volte fino al zero (come è ne’ banchi e nelle compagnie delle repubbliche), e talvolta anche di sotto al zero, scendendo nelle quantitá negative (come avvenne in Francia al tempo del sistema del Law).

In quarta è dichiarato che non in ogni prestito si può trovar ragione da pretendere il soprappiú dell’egual peso di metallo. Quest’ancora è sentenza non meno vera che manifesta; mentre, se fosse vero il contrario, non avrebbono potuto sussistere i banchi delle repubbliche; non si vedrebbero pieni di danaro infruttifero; né, quel ch’è piú, vi sarebbe chi si contenta d’avere il suo danaro nel banco senza pro e ricusa porlo a fruttificare in mano privata. Né vale dire che i banchi sieno depositi, essendo noto che que’ d’Olanda e di Venezia hanno mutata natura da deposito ad imprestito, ma imprestito, per la somma sicurezza sua, meritamente infruttuoso.

Sarebbero, s’io piú mi trattenessi in questo ragionamento, oltrepassati i limiti di quanto mi si conviene. Intanto, se ciò che ho detto cagionasse negli animi d’alcuno dubbi e difficoltá, se ne potrá altrove piú agiatamente disputare. Prego solo coloro, che mi si volessero opporre, a percuoter me, e non un finto inimico, da essi a piacer loro creato ed armato. E, per [p. 295 modifica] non errare nel nodo della disputa, basterá, prima d’ogni altro, risolvere i seguenti quesiti. In ogni paese, dove la restituzione dell’equivalente si misurasse sempre coll’egualitá del peso del metallo senz’altra considerazione, è certo che gl’imprestiti sarebbero difficili e rarissimi. Ora, se per eccitare gli uomini a prestare, una compagnia di ricchi mercanti si risolvesse d’assicurare coloro che prestano, mediante un tanto per cento pagato da chi prende in prestanza, sarebbe lecita o illecita tale assicurazione? Dopo risoluto questo, s’ha da risolver l’altro quesito. Se colui che presta, non curando sicurtá estrania, risedesse egli stesso il prezzo dell’assicurazione, cambierebbe natura il contratto e da giusto diventerebbe peccaminoso?

Vengo ormai a parlare dell’interesse per quella parte che riguarda l’arte di governare. Intorno a che imprima è manifesto esser desiderabile che gl’interessi, tanto giusti quanto ingiusti, soliti a riscuotersi in una cittadinanza sotto qualunque titolo, sieno quanto piú si possa piccoli e moderati. Ho uniti insieme i contratti buoni e i cattivi; perché il rimediare a’ mali col solo timore delle pene eterne e colla riverenza della religione non s’appartiene alla politica, la quale sará ridicola e sciocca, se tutta s’abbandonerá sulla pietá. La morale guida gli uomini dopo miglioratigli e fattigli virtuosi: la politica gli ha da riguardare come lordi ancora e coperti delle loro ordinarie passioni. Perciò conviene al principe provvedere che anche lo scellerato usuraio, volendo, non trovi a prestare con grossa usura; e sará sempre piú lodevole quando impedisce le colpe che quando le castiga.

Per render bassi gl’interessi, secondo l’esposto di sopra, basta evitare il monipolio del danaro e assicurare la restituzione. Perciò non è stata la sola abbondanza de’ metalli preziosí che ha sbassate e quasi estinte le usure da due secoli in qua, ma principalmente la dolcezza del governo quasi in ogni regno goduta. Sieno le liti brevi, la giustizia certa, molta industria ne’ popoli e parsimonia, e saranno tutti i ricchi inclinati a prestare. Lá dove è folla di offerenti, non possono esser dure le condizioni dell’offerta. Cosí saranno i poveri trattati senza crudeltá. [p. 296 modifica]

Dagli stessi principi viene che non si possa per legge fissare il frutto della moneta sempre tra certi limiti. Se il frutto sta in quella proporzione al capitale, come sta la probabilitá della perdita alla probabilitá della restituzione, da infinite circostanze ha da dipendere la determinazione di ciò che si dice «frutto del danaro», e che piú acconciamente si potrebbe chiamar «prezzo dell’assicurazione». Ma, avendo sopra tal materia lungamente discorso Giovanni Locke in un suo trattato, a quello mi rimetto; che, sebbene sia ancora nella sua lingua originale inglese, non dubito che sará, una volta o l’altra, tradotto in lingua a noi piú comunale.

Appare finalmente non potersi dalla legge variar il valore dell’interesse ed alzarlo o sbassarlo a piacere; ma doversi ciò fare dalla natura medesima, e potersi colla mutazione dello Stato e de’ costumi in un regno ottenere. E, siccome ne’ contratti, quando la legge opponsi alla natura, è trasgredita; cosí da una legge fatta fuori di tempo intorno all’interesse non si può sperare la restaurazione e la salute d’un paese.

La miglior maniera di minorar l’interesse è il fare i frutti de’ debiti dello Stato minori che sia possibile. Intorno a che voglio discorrere nel seguente capo.