Dalla Terra alla Luna/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

../Capitolo XVII ../Capitolo XIX IncludiIntestazione 24 marzo 2011 100% Romanzi

Jules Verne - Dalla Terra alla Luna (1865)
Traduzione dal francese di C. o G. Pizzigoni (1872)
Capitolo XVIII
Capitolo XVII Capitolo XIX


[p. 147 modifica]

IL PASSAGGIERO DELL’“ATLANTA”

Se questa fulminante notizia invece di volare sui fili elettrici fosse arrivata semplicemente colla posta e sotto busta suggellata, se gli impiegati francesi, irlandesi, di Terranuova, dell’America non fossero stati necessariamente in confidenza col telegrafo, Barbicane non avrebbe titubato un solo istante, avrebbe servato il silenzio per viste di prudenza, e perchè l’opera sua non ci scapitasse. Il telegramma poteva celare una mistificazione, specialmente perchè veniva da un francese. Come credere che un uomo qualunque fosse tanto audace soltanto da concepire l’idea di simile viaggio? E se quest’uomo esisteva, non era pazzo che bisognava rinchiudere in un capannotto e non in una palla da cannone?

Ma il dispaccio era conosciuto, perchè gli apparecchi di trasmissione per loro natura sono poco segreti, e la proposta di Michele Ardan già [p. 148 modifica]correva pei diversi Stati dell’Unione. E però Barbicane non aveva più alcuna ragione di tacere. Egli dunque riunì i suoi colleghi presenti a Tampa-Town, e senza lasciar trasparire il suo pensiero, senza discutere del maggiore o minor grado di credenza che si meritava il telegramma, ne lesse freddamente il testo laconico.

«Non è possibile! - È inverosimile! - Puro scherzo! - Ci hanno preso a giuoco! - Ridicolo! - Assurdo!» Tutta la serie delle espressioni che servono ad esprimere il dubbio, l’incredulità, la sciocchezza, la follia, si svolse per alcuni minuti, con accompagnamento dei gesti soliti in simile circostanza. Ognuno sorrideva, rideva, alzava le spalle o scoppiava dalle risa, secondo la propria disposizione d’animo. Il solo J. T. Maston uscì con parole superbe:

«È un capriccio come un altro!» esclamò.

- Sì, gli rispose il maggiore, ma se è talvolta permesso di aver idee di tal fatta, gli è a patto di non pensare neppure a metterle in esecuzione.

- E perchè no? replicò vivamente il segretario del Gun-Club, pronto ad entrare in discussione. Ma non si volle più oltre istigarnelo.

Intanto il nome di Michele Ardan già circolava nella città di Tampa; gli stranieri e gl’indigeni si guardavano, s’interrogavano e pigliavano a scherzo, non già l’europeo, - un mito, un essere chimerico - ma J. T. Maston, che aveva potuto credere all’esistenza di questo personaggio da leggenda. Quando Barbicane propose di mandar un proiettile alla Luna, a tutti parve impresa naturale [p. 149 modifica], praticabile, una semplice prova di balistica. Ma che un essere ragionevole si offrisse di pigliar posto nel proiettile, di tentare questo viaggio inverosimile, era un pensiero da vaneggiatore, uno scherzo, in una parola una mistificazione!

Le piacevolezze, i sarcasmi durarono fino alla sera senza interruzione, e si può affermare che tutta l’Unione fu presa da una gran voglia di ridere; ciò che non è cosa solita in un paese in cui le imprese impossibili trovano spesso dei panegiristi, degli addetti, dei partigiani.

Però, la proposta di Michele Ardan, come tutte le idee nuove, non lasciava di tormentare certe teste. Era cosa che perturbava il corso delle solite emozioni. A ciò non s’era pensato. Questo incidente divenne in breve un peso insopportabile per la sua stessa stranezza. Ci si rifletteva. Quante cose negate un giorno furono riconosciute realtà all’indomani! Perchè tale viaggio non lo si potrebbe compiere un giorno o l’altro? Ma, in ogni modo, l’uomo che voleva arrischiarsi così doveva essere pazzo, e in sostenza, poichè il suo piano non poteva essere preso sul serio, egli avrebbe fatto assai meglio di tacere, invece di disturbare tutto un popolo colle sue ridicole spacconate.

In primo luogo, esisteva realmente questo personaggio? Domanda seriissima! Il nome di Michele Ardan non era sconosciuto in America. Apparteneva ad un europeo molto in fama per le sue audaci imprese. Inoltre, quel telegramma lanciato attraverso le profondità dell’atlantico, l’indicazione [p. 150 modifica]del bastimento sul quale il francese diceva di aver preso posto, la data stabilita pel suo prossimo arrivo, tutte queste circostanze davano alla proposta un certo carattere di verosimiglianza. Bisognava sincerarsene. In breve, le persone isolate costituirono de’ gruppi; i gruppi si condensarono sotto l’azione delle curiosità come atomi in virtù dell’attrazione molecolare, e finalmente ne risultò una folla compatta, che mosse verso l’abitazione del presidente Barbicane.

Questi, fino dall’arrivo del dispaccio, non erasi pronunciato; egli aveva lasciato esternare il parere di J. T. Maston, senza manifestare nè approvazione nè biasimo; stavasene tranquillo e proponevasi di aspettare gli avvenimenti, ma contava senza l’impazienza pubblica, e vide con occhio poco soddisfatto radunarsi sotto le sue finestre la popolazione di Tampa. Tosto mormorii e vociferazioni d’ogni sorta l’obbligarono a mostrarsi. Vedesi ch’egli aveva tutti i doveri e, per conseguenza, tutte le noie della celebrità.

Ei dunque apparve al balcone; si ristabilì il silenzio, ed un cittadino, pigliando la parola, gli fece questa domanda esplicita: il personaggio indicato nel dispaccio sotto il nome di Michele Ardan è in viaggio per l’America, sì o no?

- Signori, rispose Barbicane, io non lo so più di voi.

- Bisogna saperlo, gridarono alcune voci impazienti.

- Il tempo ce lo farà conoscere, rispose con freddezza il presidente. [p. 151 modifica]

- Il tempo non ha diritto di tenere sospeso un intero paese, riprese l’oratore; avete modificato i piani del proiettile, come lo domanda il telegramma?

- Non ancora, signori; ma, avete ragione, bisogna saper bene in quali termini sta la cosa; il telegrafo, che ha cagionata questa perturbazione, vorrà completare le sue indicazioni.

- Al telegrafo! al telegrafo! esclamò la folla.

Barbicane discese, e precedendo l’immensa turba, si diresse verso gli ufficî dell’amministrazione.

Alcuni minuti più tardi, veniva spedito un dispaccio al sindaco dei sensali di navi a Liverpool. Ghiedevaglisi una risposta alle seguenti domande:

«Che sorta di nave è l’Atlanta? - Quando ha lasciato l’Europa? - Aveva a bordo un francese chiamato Michele Ardan?»

Due ore dopo, Barbicane riceveva risposte così precise, che non lasciavano più adito al menomo dubbio.

«Il vapore l’Atlanta, di Liverpool, ha preso il largo il 2 ottobre, facendo vela per Tampa-Town, con a bordo un francese, scritto nel libro de’ passeggieri sotto il nome di Michele Ardan.»

A questa conferma del primo dispaccio, gli occhi del presidente brillarono d’inusato fuoco; ei chiuse i pugni con violenza e lo si intese mormorare:

«È dunque vero! è dunque possibile! questo francese esiste! e tra quindici giorni sarà qui! Ma è un pazzo! un cervello sgangherato!... Io non acconsentirò mai...»

Tuttavia, quella sera stessa, scrisse alla casa [p. 152 modifica]Breadvill e compagni, pregandola di sospendere sino a nuovo ordine la fusione del proiettile.

Ora, descrivere la commozione che invase tutta l’America; in qual modo l’effetto della comunicazione Barbicane fu superato dieci volte; ciò che dissero i giornali dell’Unione; il modo con cui accettarono la notizia e su qual metro cantarono l’arrivo di questo eroe del vecchio continente; dipingere l’agitazione febbrile nella quale visse ognuno, contando le ore, contando i minuti, i secondi; dare un’idea, anche lontana, di questo faticoso assedio di tutti i cervelli dominati da un solo pensiero; mostrare le diverse bisogne che lasciavano il passo ad una sola preoccupazione; i lavori ed il commercio sospesi; le navi già pronte a partire che se ne stavano ancorate nel porto, per non lasciar isfuggire inosservato l’arrivo dell’Atlanta; i convogli che arrivavano pieni e ritornavano vuoti, la baia Espiritu-Santo continuamente solcata dai vapori; i pachebotti, i yachts per diporto, i fly-boats di tutte le dimensioni; enumerare le migliaia di curiosi che quadruplicarono in quindici giorni la popolazione di Tampa-Town e dovettero accampare sotto le tende come un esercito in campagna, è un compito al disopra delle forze umane, che non si potrebbe intraprendere senza temerità.

Il 20 ottobre, alle nove del mattino, i semafori del canale di Bahama videro un denso fumo all’orizzonte. Due ore più tardi un gran vapore scambiava con essi de’ segni di riconoscimento. Tosto il nome dell’Atlanta fu spedito a Tampa-Town. [p. 153 modifica]Alle quattro, la nave inglese entrava nella rada d’Espiritu-Santo. Alle cinque, superava i passi della rada Hillisboro a tutto vapore. Alle sei, calava le ancore nel porto di Tampa.

L’àncora non aveva ancor tocco il fondo sabbioso, che cinquecento barche circondavano l’Atlanta, e lo steamer era preso d’assalto. Barbicane, pel primo, uscì fuori dai bastingaggi, e con una voce di cui voleva inutilmente nascondere la commozione, esclamò:

«Michele Ardan!»

- Presente! rispose un uomo salito in piedi sopra il cassaretto.

Barbicane, colle braccia incrociate, l’occhio interrogatore, la bocca muta, guardò fisso il passaggiero dell’Atlanta.

Era un uomo di quarantadue anni, grande, ma già un po’ curvo, come le cariatidi che portano de’ balconi sulle spalle. La sua testa era grossa, vera testa da leone, squassava ad ogni momento una capellatura fulva che formavagli una vera criniera.

Una faccia corta, larga alle tempia, resa più avvenente da due mustacchi irti come i baffi d’un gatto e da ciuffetti di peli giallognoli sparsi per le guance, occhi rotondi un po’ stralunati, uno sguardo da miope, completavano quella fisonomia, al sommo grado felina. Ma il disegno del naso era arditissimo, la bocca regolare, la fronte alta, intelligente e solcata come un campo che mai non istà in riposo. Finalmente un busto assai sviluppato e ben collocato su due lunghe gambe, braccia [p. 154 modifica]muscolose, leve potenti e salde, un portamento spigliato, costituivano dell’europeo un pezzo d’uomo solidamente costrutto «meglio lavorato che fuso,» per valermi di una espressione dell’arte metallurgica.

I discepoli di Lavater e di Gratiolet avrebbero decifrato senza fatica sul cranio e sulla fisonomia di quel personaggio i segni indiscutibili della combattività, cioè del coraggio nel pericolo e della tendenza a vincere gli ostacoli; quelli della benevolenza e quelli della maravigliosità, istinti che portano certi caratteri ad accalorarsi per le cose sovrumane; ma, all’incontro, le protuberanze dell’acquisività, il bisogno di possedere e d’acquistare mancavano assolutamente.

Per completare il tipo fisico del passaggiero dell’Atlanta, convien parlare de’ suoi abiti larghi di forma; i calzoni ed il pastrano erano di tale ampiezza, che lo stesso Michele Ardan si soprannominava la morte del panno; la cravatta non la teneva annodata. Dalla camicia aperta usciva un collo robusto, ed i manichini, invariabilmente sbottonati, lasciavano sfuggir di sotto mani febbrili. Ben comprendevasi che anche ne’ giorni più duri dell’inverno ed in mezzo a’ pericoli, quell’uomo non doveva mai sentire il freddo, - nemmeno agli occhi.

Sul ponte dello steamer, fra la ressa, andava, veniva, non istava mai al posto, arando nelle sue ancore, come dicevano i marinai gesticolando, dando del tu a tutti e rosicchiandosi le unghie con nervosa avidità. Era uno di que’ bizzarri uomini [p. 155 modifica]che il Creatore inventa in un momento di capriccio, e di cui spezza tosto la forma.

Infatti, la personalità morale di Michele Ardan offriva largo campo alle osservazioni dell’analitico. Quest’uomo sorprendente viveva in perpetua disposizione all’iperbole e non aveva ancora varcata l’età dei superlativi: gli oggetti dipingevansi sulla retina del suo occhio con ismisurate dimensioni; d’onde un’associazione di idee gigantesche; ei vedeva tutto in grande, fuorchè le difficoltà e gli uomini.

Era del resto una natura ricchissima, artista per istinto, giovane spiritoso, che non faceva un fuoco continuo di motti e di bottoni, ma che si schermiva piuttosto da abile tiratore. Nelle discussioni, poco amante della logica, ribelle al sillogismo, ch’egli mai non aveva inventato, erasi riserbato delle botte a lui solo conosciute.

Egli usciva di punto in bianco con certi argomenti ad hominem, di effetto sicuro, e ci trovava gusto a difendere ad oltranza le cause disperate.

Tra le altre bizzarrie, proclamavasi «un ignorante sublime» come Shakespeare, ed affettava disprezzo pei dotti; «persone, diceva, le quali altro non fanno che segnare i punti quando noi giochiamo la partita.» Era insomma uno zingaro del paese de’ monti e delle maraviglie, avventuroso ma non avventuriere, un rompicollo, un phaéton che conduceva a precipizio il carro del sole, un Icaro con ali di scambio. Del resto ci metteva la pelle, e ce la metteva per bene; buttavasi a testa alta nelle pazze imprese, ad occhi chiusi, e con [p. 156 modifica]maggior lena di Agatocle, e, disposto a farsi rompere le reni ad ogni ora, costantemente finiva col ricadere in piedi, al pari di que’ fantoccini di midollo di sughero, trastullo de’ ragazzi.

In due parole, il suo motto era: Quand’anche! e l’amore per l’impossibile, la sua ruling passion1, secondo la bella espressione di Pope.

Però quest’uomo, d’incomparabile coraggio, aveva pure i difetti delle sue qualità! Chi non risica non rosica, si suol dire. Ardan arrischiò molte volte, ma non avvantaggiò di nulla mai. Era un divoratore di danaro, il vaglio delle Danaidi. Del resto, perchè uomo disinteressato, prestava orecchio tanto al cuore quanto al cervello; servizievole, cavalleresco, non avrebbe sottoscritto la sentenza di morte del suo più crudele nemico, e si sarebbe venduto per riscattare un negro.

In Francia, in Europa, questo personaggio brillante e rumoroso era da tutti conosciuto. Non faceva egli forse parlare di lui le cento voci della Fama, diventate rauche al suo servizio? Non viveva egli in una casa di vetro, pigliando l’universo intero per confidente de’ suoi più intimi segreti? Eppure, possedeva un’ammirabile accolta di nemici fra coloro che egli aveva più o meno toccati nel vivo, feriti, rovesciati senza pietà, lavorando di gomiti per aprirsi un varco nella folla.

Generalmente però era amato, lo si trattava da beniamino. Secondo l’espressione popolare, reputavasi uomo da pigliare o da lasciare, e lo si pigliava. Ciascuno prendeva parte coll’animo alle sue [p. 157 modifica]ardite imprese, e lo seguiva con inquieto sguardo. Sapevasi ch’era audace ed imprudente: Quando qualche amico voleva arrestarlo, predicendogli una disgrazia prossima: - «La foresta non arde che per colpa de’ suoi stessi alberi,» - ei rispondeva con amabile sorriso, e senza sospettare che citava il più bello di tutti i proverbi arabi.

Tal era il personaggio dell’Atlanta, sempre agitato, sempre bollente sotto l’azione di un fuoco interno, sempre commosso, non per ciò ch’egli veniva a fare in America, - non ci pensava neppure, - ma per effetto del suo carattere febbrile. Se mai furonvi due uomini che offrissero un contrasto sorprendente, erano certo il francese Michele Ardan e lo Yankee Barbicane, ambi però intraprendenti, arditi, audaci a modo loro.

La contemplazione alla quale abbandonavasi il presidente del Gun-Club al cospetto di questo rivale, che veniva a porlo in seconda linea, fu tosto interrotta dagli evviva della folla. Le grida diventarono sì frenetiche, e l’entusiasmo assunse forme così colossali, che Michele Ardan, dopo di avere stretto un migliaio di mani, nelle quali poco mancò non lasciasse le dita, dovette rifugiarsi nella sua cabina.

Barbicane lo seguì senza aver pronunciata una parola.

«Siete voi Barbicane?» gli domandò Michele Ardan, non appena furono soli, e coll’accento col quale avrebbe parlato ad un amico di vent’anni.

- Sì, rispose il presidente del Gun-Club.

- Buongiorno, Barbicane. Come state? Benissimo? benone? benonone? [p. 158 modifica]

— Dunque, disse l’americano, senz’altri preliminari, siete deciso a partire?

— Assolutamente deciso.

— Nulla vi tratterrà?

— Nulla. Avete modificato il proiettile, così come lo indicava il mio dispaccio?

— Aspettava il vostro arrivo. Ma, domandò Barbicane di bel nuovo insistendo, avete ben riflettuto?...

— Riflettuto? Ho forse io tempo da perdere? Trovo l’occasione di andar a fare un giro nella Luna, ne approfitto; ecco tutto. Mi pare che ciò non non meriti molta riflessione.

Barbicane si mangiava cogli occhi quell’uomo che parlava del suo progetto di viaggio con una leggerezza, una noncuranza sì completa e affatto scevra da qualsiasi titubanza.

«Ma almeno», gli disse, «avete un piano, mezzi d’invenzione?»

— Eccellenti, mio caro Barbicane. Ma permettetemi che vi faccia un’osservazione: io preferisco raccontare una buona volta la mia storia a tutti, e che non se ne parli più. Così si eviteranno le ripetizioni. Dunque, salvo miglior avviso, convocate i vostri amici, i vostri colleghi, tutta la città, tutta la Florida, tutta l’America, se volete, e domani sarò pronto a sviluppare i miei mezzi così come a rispondere alle obbiezioni quali si siano. Siate tranquillo, io le aspetterò di piè fermo. Vi accomoda?

— Mi accomoda, rispose Barbicane.

Ciò detto, il presidente uscì dalla cabina per comunicare [p. 159 modifica]agli astanti la proposta di Michele Ardan. Le sue parole furono accolte con calpestî e grugniti di gioia. Tutte le difficoltà erano troncate. Il giorno appresso tutti avrebbero potuto contemplare a bell’agio l’eroe europeo. Pure, certi spettatori più testerecci non vollero abbandonare il ponte dell’Atlanta; passarono la notte a bordo. Tra gli altri, J. T. Maston aveva infisso il suo uncino nel listello del cassaretto. Ci sarebbe voluto un argano per istrapparvelo.

«È un eroe! un eroe! egli esclamò su tutti i tuoni, e noi non siamo che donniciole a petto di quell’europeo.»

Quanto al presidente, dopo aver invitato i visitatori a ritirarsi, rientrò nella cabina del passeggero, e non l’abbandonò che nel momento in cui la campanella dello steamer suonò il quarto di mezzanotte.

Allora però i due rivali in popolarità stringevansi calorosamente la mano, e Michele Ardan dava del tu al presidente Barbicane.

Note

  1. La sua passione predominante.