Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto I

Purgatorio
Canto primo

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Purgatorio - Proemio Purgatorio - Canto II

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CANTO   I.



1Per correr millior acqua alza le vele12
     Ormai la navicella del mio ingegno,
     Che lascia dietro a sè mar sì crudele:
4E canterò di quel secondo regno,
     Dove l’umano spirito si purga,
     E di salir al Ciel diventa degno.3
7Ma qui la morta poesi risurga,
     O sante Muse, poi che vostro sono,
     E qui Calliope alquanto surga,
10Seguitando il mio canto con quel suono,
     Da cui le Piche misere sentiro
     Lo colpo tal, che disperar perdono.

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13Dolce color d’oriental zaffiro,
     Che s’accollieva nel sereno aspetto4
     Dell’aire puro infine al primo giro,4
16Alli occhi miei ricominciò diletto,
     Tosto ch’io fuor usci’ dell’aura morta,
     Che m’avea contristato li occhi e il petto.
19Lo bel pianeto, che ad amar conforta,
     Faceva tutto rider l’oriente,
     Velando i Pesci, ch’erano in sua scorta.
22Io mi volsi a man destra, e puosi mente
     All'altro polo, e viddi quattro stelle
     Non viste mai, fuor che alla prima gente.
25Goder pareva il Ciel di lor fiammelle:
     O settentrional vedovo sito,
     Poi che privato se’ di mirar quelle!5
28Com’io dal loro sguardo fui partito,6
     Un poco me volgendo all’altro polo
     Là onde il Carro già era sparito,
31Viddi presso da me un vecchio solo,
     Degno di tanta reverenzia in vista,
     Che più non dè a padre alcun fìlliuolo.7
34Lunga la barba e di pel bianco mista
     Portava a’ suoi capelli similliante,
     De’ quai cadeva al petto doppia lista.
37Li raggi de le quattro luci sante
     Fregiavan sì la sua faccia di lume,
     Ch’io ’l vedea, come il Sol fosse davante.

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40Chi siete voi, che contra il cieco fiume
     Fuggito avete la prigione eterna?8
     Disse el, movendo quelle oneste piume.
43Chi v’à guidati? e chi vi fa lucerna,9
     Uscendo fuor de la profonda notte,10
     Che sempre nera fa la valle inferna?
46Son le leggi d’abisso così rotte?
     O è mutato in Ciel nuovo consillio,
     Che dannati venite a le mie grotte?
49Lo Duca mio allor mi diè di pillio,
     E con parole, e con mani, e con cenni,
     Reverenti mi fe le gambe e il cillio.
52Poscia rispuose a lui: Da me non venni:
     Donna scese dal Ciel, per li cui preghi
     De la mia compagnia costui sovvenni.
55Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
     Di nostra condizion, com’ella è vera,
     Esser non puote il mio che a te si neghi.
58Questi non vidde mai l’ultima sera;
     Ma per la sua follia li fu sì presso,
     Che molto poco tempo a volger era.
61Sì, come io dissi, fui mandato ad esso
     Per lui campare, e non v’era altra via,
     Che questa per la quale io mi son messo.
64Mostrato ò a lui tutta la gente ria,
     Et ora intendo a mostrar quelli spirti,
     Che purgan sè sotto la tua balia.
67Come io l’ò tratto seria lungo a dirti:
     Dell’alto scende virtù, che m’aiuta
     Conducerlo a veder te et a udirti.

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70Or ti piaccia gradir la sua venuta:
     Libertà va cercando, ch’è sì cara,
     Come sa chi per lei vita rifiuta.
73Tu il sai, che non ti fu per lei amara
     In Utica la morte, ove lassasti
     La veste, che al gran dì serà sì chiara.
76Non son li editti eterni per noi guasti:
     Chè questi vive, e Minos me non lega;
     Ma son del cerchio, ove son li occhi casti
79Di Marzia tua che in vista ancor ti prega,
     O santo padre, che per tua la tegni:
     Per lo suo amore adunqua a noi ti piega.
82Lassane andar per li tuoi sette regni:
     Grazie reporterò di te a lei,
     Se esser mentovato laggiù degni.
85Marzia piacque tanto alli occhi miei,
     Mentre ch’io fui di là, disse elli allora,
     Che quante grazie volse da me, fei.
88Or che di là dal mal fiume dimora,
     Più muover non mi può per quella legge,
     Che fatta fu, quando me n’usci’ fuora.
91Ma se donna del Ciel muoveti e regge,
     Come tu dì, non c’è mestier lusinghe:
     Bastiti ben, che per lei mi richegge.
94Va dunque, e fa che tu costui recinghe
     D’un giunco schietto, e che li lavi il viso,
     Sì che ogni sucidume quindi stinghe:
97Chè non si converrà l’occhio sorpriso
     D’alcuna nebbia andar dinanzi al primo
     Ministro, ch’è di quei di Paradiso.

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100Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
     Laggiù colà, dove la batte l’onda,
     Porta de’ giunchi sopra il molle limo.
103Null’altra pianta, che facesse fronda,
     O indurasse, vi puote aver vita:
     Però che a le percosse non seconda.
106Poscia non sia di qua vostra redita:
     Lo Sol vi mostra, che resurge omai:
     Prendete il monte a più lieve salita.
109Così sparì; et io su mi levai
     Senza parlare, e tutto mi ritrassi
     Al Duca mio, e l’occhio a lui drizzai.
112El cominciò: Filliuol, segui i miei passi;
     Volgianci indietro, che di qua dichina
     Questa pianura ai suoi termini bassi
115L’alba vinceva l’ora mattutina,
     Che fuggia inanzi, sì che di lontano
     Cognobbi il tremolar della marina.
118Noi andavam per lo solingo piano,
     Com’uom che torna a la perduta strada,
     Che infine ad essa li par ire invano.
121Quando noi fummo dove la rugiada
     Pugna col Sol, che per esser in parte
     Dove dorezza, poco si dirada,
124Ambo le mani in su l’erbetta sparte
     Soavemente il mio Maestro puose;
     Ond io, che fui accorto di su’ arte,
127Porsi ver lui le guance lagrimose:
     Ivi mi fece tutto discoperto
     Quel color che l'Inferno mi nascose.

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130Venimmo poi in sul lito diserto,11
     Che mai non vidde navigar su’ acque
     Om che di ritornar sia poscia sperto.
133Quivi mi cinse, sì come a lui piacque:
     O meravillia! che qual’elli scelse12
     L’umile pianta, cotal si rinacque
136Subitamente là ond’ei la svelse.

  1. v.1. millior, I nostri antichi, imitando i Romani e’ Provenzali, adoperavano due ll, dove noi ora gl, dicendo s’accollieva, filliuolo, similliante ec. E.
  2. v. 1. C. M. miglior
  3. v. 6. C. M. del salir
  4. 4,0 4,1 vv. 14-15. L’Antaldino legge «Che s’accoglieva nel benigno aspetto Del mezzo puro infino al primo giro».
  5. v. 27. C. M. di veder
  6. v. 28. C. M. da loro
  7. v. 33. , per deve, da dere, sarà bene vada coll’accento, perchè si distingua dal segnacaso de o de’. E. C. M. al padre alcun figliuolo.
  8. v. 41. C. M. pregione
  9. v. 43. C. M. fu lucerna,
  10. v. 44. C. M. della
  11. v. 130. C. M. su lo lito
  12. v. 134. C. M. O meraviglia!

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C O M M E N T O

C. I — v. 1-6. In questi due primi ternari lo nostro autore fa esordio a questa seconda cantica, proponendo la materia de la quale dè trattare; et usa qui uno colore che si chiama da Tullio nella sua Retorica permutazione, e fassi quando si transumo tutta l’orazione, come avale 1: imperò che s’intende così: Per correr; cioè per trattare, millior acqua: cioè materia, che non abbo trattato innanti, ove trattai de la pena dei dannati, la quale benché per rispetto di loro non sia buona, è buona in sè per rispetto di iustizia punitiva, e per rispetto di Dio che l’à ordinata; ma questa è milliore, perchè è purgativa, et è buona per sè e per rispetto di Dio e dei purgati, alza le vele; cioè lo modo del dire: imperò che come la vela mena la nave per mare; così lo modo del dire atto a la materia conduce la materia al suo fine. Et è qui da notare che ne la prima cantica usò l’autore infimo stilo, in questa seconda usò lo mezzano, e ne la terza usò lo sublime. Omai; cioè in giù mai, la navicella del mio ingegno; cioè la facultà e possibilità del mio ingegno: imperò che come la nave è atta a portare proporzionato carico; così lo ingegno umano, materia conveniente alla sua facultà, Che; cioè la quale navicella, lascia dietro a sè mar sì crudele; cioè la materia dello inferno de la quale à trattato infine a questa, ne la quale nulla remissione è; e però lo chiama crudele. E canterò; cioè io Dante dirò in versi, lo quale dire è cantare, di quel secondo regno; cioè del purgatorio lo quale chiama regno, perchè quive regnano gli angeli, come nell’inferno li dimoni, Dove l’umano spirito si purga; de le colpe commesse nel mondo, E di salir al Ciel diventa degno; purgandosi de le colpe. Ecco che à proposta la [p. 11 modifica]materia, in de la quale si dè trattare litteralmente de lo stato de l’anime passate di questa vita, poste a purgare le loro peccata; et allegoricamente de lo stato delli uomini che sono in questa vita in atto di penitenzia; e per tanto fa l’auditore noto de la materia che dè trattare; e così acquista docilità, benivolenzia et attenzione come fanno li poeti et autori nelli esordi.

C. I — v. 7-12. In questi due ternari lo nostro autore fa la sua invocazione, come usanza è dei poeti d’invocare l’aiuto divino nei princìpi de’ loro poemati, dicendo: Ma qui; cioè in questa seconda cantica sì, come ne la prima ancora, la morta poesi: poesi è scienzia che s’appartiene ai poeti, che insegna a fingere e componere le cose non vere sì, che paiano vere; e perchè al tempo dell’autore già tale scienzia poco era in uso, anco niente, però si potea dire morta; e però dice: risurga; cioè ritorni in uso; o volliamo intendere che morta fusse la poesi, quando trattò de le cose infernali dove è morte perpetua; però risurga qui dove tratta de la penitenzia, per la quale l’anima della morte del peccato si rileva e torna a la vita de la grazia, O sante Muse: qui invoca l’autore le muse le quali invocò ancora ne la prima cantica nel secondo canto; e però chi vuole la sposizione di quelle, ricorra quive, poi che vostro sono; io Dante. Ogni poeta è de le muse: imperò che li poeti sono ministri et officiali de le muse e d’Apolline, lo quale era detto dio de la divinazione e de la sapienzia; e però a lui erano attribuite le muse; cioè suoe ministre e servigiali, per che tutte serveno a la sapienzia. Anco elli era detto lo decimo: imperò che chi avea le nove condizioni, che sono figurate per le 9 muse, avea poi la decima; ch’elli era savio e divino delle cose venture: però che per conietture molte cose lo savio uomo previde2; e però bene dice l’autore ch’elli era de le muse: però che nei loro ofici sè esercitava. E qui; cioè in questa cantica seconda, Calliope; cioè la nona de le muse che è chiamata Calliope; cioè ottima voce, alquanto surga; cioè si levi: imperò che, qui; cioè in questa cantica seconda è più alto stile che ne la prima; e però si può dire che si levi che quive3 stette cheta, e bassa quanto a la materia, e quanto al modo del dire; ma dice, alquanto; perchè ne la terza al tutto si leverà: imperò che quive monsterrà ogni sua potenzia nel modo del dire e ne la materia, Seguitando il mio canto; cioè che io metterò in questa cantica, con quel suono; cioè con quel modo del dire, Da cui; cioè dal qual modo, le Piche misere; cioè le figliuole di Pierio che funno mutate in piche; cioè in gazze, ovvero taccule: imperò che queste due spezie d’uccelli paiano essere d’una medesima natura, se non che sono [p. 12 modifica]diverse in colori, che le gazze sono nere e bianche, e le taccule sono tutte nere, sentiro Lo colpo tal; cioè sì fatto colpo, che disperar perdono; cioè che non ebber speranza di remissione: potrebbe anco dire lo testo: che dispettar perdono; cioè ebbeno in dispetto che fusse loro perdonato, perchè così mostra Ovidio nel medesimo logo. Et è qui da notare la finzione che pone Ovidio in v Metamorfosi. Dice Ovidio che in Grecia in sul monte detto Parnaso era uno fonte che era consacrato a le muse, perchè quive cantavano, e presso era lo tempio d’Apolline al quale servivano; e che in quel tempo fu uno Pierio della città Pelle d’Egitto, lo quale ebbe nove figliuole molto sapute in ogni arte e tanto superbe che venneno a questo fonte, e provoconno le muse a disputare con seco; e vinte ne la disputazione, non potendosi difendere per altro modo, incominciorno a villaneggiare le muse, unde le muse indegnate le mutorno in gazze; li quali uccelli sono garruli e maldicenti, come noto è. E perchè Calliope fu quella a cui, secondo che finge Ovidio nel detto luogo, fu dato dalle suore la disputazione e vinse col suo canto; così dice l’autore che seguitò ora lo suo canto con quel suono, con che vinse le Piche misere. E puossi intendere che l’autore dica, con quel suono, perchè Calliope disse lode de l’iddii, e le Piche infamie; cioè co la loda vera del vero Iddio.

C. I — v. 13-21. In questi tre ternari lo nostro autore, fatta la sua invocazione, incomincia a narrare la sua materia descrivendo le condizioni dell’aire e del cielo de l’altro emisperio dove elli finge che si trovasse, uscito fuora dell’inferno con Virgilio per uno buco tondo, come detto fu ne la fine de la prima cantica, dicendo così: Dolce color; cioè dilettevile: imperò che come la cosa dolce diletta il gusto, così la cosa di bello colore diletta la vista; et è qui uno colore retorico che si chiama transazione, d’oriental zaffiro: questa è una pietra preziosa di colore biadetto, ovvero celeste et azzurro, molto dilettevile a vedere, et è de grande virtù, come dice lo Lapidario: e sono due specie di zaffiri; l’una si chiama l’orientale perchè si trova in Media ch’è nell’oriente, e questa è melliore che l’altra e non traluce; l’altra si chiama per diversi nomi com’è di diversi luoghi. Che s’accollieva; cioè si comprendea, nel sereno aspetto; cioè quello colore dilettevile s’accollieva nel chiaro ragguardamento, Dell’aire puro; che era in quello emisperio dove era Dante con Virgilio, infine al primo giro; cioè tutto puro era quive l’aire senza nebbia o nugolo o altra offuscazione o turbulenzia di vento, infine al primo circulo della luna, dal quale in su niuna turbulenzia può essere; anco nel nostro emisperio da la luna in giù in verso la terra sono le mutazioni tutte, Alli occhi miei; cioè di me Dante, ricominciò diletto; cioè ricominciò a dilettare quello colore [p. 13 modifica]dell’aire così puro li miei occhi, li quali aveano perduto quello diletto, mentre che fui nello inferno, e però seguita: Tosto; cioè incontenente, ch’io fuor usci’ dell’aura morta; cioè de lo inferno, dov’è l’aire morto, perchè quive è aire oscuro e tenebroso, et evvi morte perpetua, Che m’avea contristato: cioè quello oscuro aire, li occhi; cioè corporali, e il petto; cioè la mente. E questo s’intende secondo la lettera; ma secondo l’allegoria l’autor nostro vuole dimostrare come uscito de la medesima4 sozza del peccato che avea attristato la ragione e l’intelletto figurati5 per li occhi, e la considerazione figurata per lo petto, intrando poi ne la materia virtuosa de la purgazione del peccato, le dette parti preseno letizia et iucundità. Lo bel pianeto; cioè Venus, che ad amar conforta; diceno li Astrologi che questo pianeto Venus àe a dare influenzia d’amore e di concordia tra li uomini, Faceva tutto rider l’oriente, perchè era uscito fuora in oriente in quello emisperio inanti al sole; et è l’oriente in quello emisperio contrario al nostro sì, che tutto l’oriente faceva chiaro e splendiente, Velando i Pesci; cioè coprendo quel segno che si chiama Piscis che è uno de’ 12 segni del Zodiaco; cioè l’ultimo che si congiunge con l’Ariete, che è lo primo del Zodiaco, e desi notare la fizione poetica del segno Piscis. Fingono li Poeti che quando occorse la battallia dei giganti colli dii, Venere con Cupidine suo filliuolo sedea ne la regione Palestina sopra la piaggia del mare. Udito lo tumulto della battallia, credendosi esser perseguitata da Tifeo gigante, gittossi col filliuolo Cupidine in mare, allora du’ pisci grandi li ricevetteno e portonnoli di là dal mare; e per questo li nostri dii questi 2 pesci portorno6 in cielo, e feceli segno del Zodiaco che si chiama Pisces. E ben dice che copria il segno: imperò che il segno è più alto che il pianeto, sì che il pianeto è di sotto al segno e vela; cioè cuopre il segno, ch’erano in sua scorta; cioè in suo sguardo: imperò che Venus era sì sotto lo segno chiamato Pisces, che chi lo volea vedere convenia ragguardare Venus; e di sopra arebbe veduto Pisces. Potrebbe anco dire lo testo: ch’erano sua scorta; cioè erano guida di Venus: imperò che si dice che il pianeto entra nel segno, e qual vi sta poco e quale assai, secondo che pena a passare; e però si può dire che il segno guidi lo pianeto. E perchè àe detto l’autore che in quell’oriente di quello emisperio era montato Venus che era in Pisces, dà ad intendere che era presso al di’ forsi una ora o poco più: imperò che poi dovea di po’ Pisces seguitare Aries, secondo l’ordine del Zodiaco nel quale era allora lo sole, sicché nel suo montamento si dovea fare di’.

C. I — v. 22-27. In questi due ternari lo nostro autore finge [p. 14 modifica]che vidde nell’altro polo una nuova costellazione, dicendo: Io; cioè Dante, mi volsi; cioè volsi me, a man destra; cioè in verso lo polo antartico, lo quale in quello emisperio venia a mano destra, come in questo nostro emisperio viene lo nostro artico a mano sinistra: imperò che, ponendo uno omo ritto in piede nel nostro emisperio, volto col volto inverso l’oriente, lo braccio ritto stenderebbe, se fusse nel nostro emisperio, inverso l’antartico. Et è lo polo antartico, di là dal mezzodi’ per opposito al polo artico nostro, e ’l manco braccio inverso lo nostro artico; e così per opposito è nell’altro emisperio: imperò che oriente è dove è a noi occidente; et occidente è quive, dove è a noi oriente; e però da man ritta viene lo polo antartico a chi stesse di là per lo sopraditto modo, come anco a man sinistra viene a chi stesse di qua al ditto modo lo polo artico. E questo si manifesta: imperò che come l’autore finge ne la prima cantica che sempre andasse col Sole dirieto, inverso mano sinistra; così finge in questa che sempre andasse col Sole inanti, inverso mano destra. e puosi mente All’altro polo; cioè a l’antartico: polo tanto è a dire quanto perno; ma qui si pone per lo capo del perno; lo perno in su che stanno li cieli; cioè l’uno capo a settentrione e chiamasi polo artico; e l’altro capo àe per opposito in verso mezzo di’ di là sì, che il mezzo di’ viene in mezzo tra l’uno e l’altro polo, e chiamasi quello altro capo antartico; e di quello intende l’autore. e viddi quattro stelle: a quello altro polo presso come al nostro polo sono presso quasi al lato e che si chiamano lo corno, et altre sette poco de lungi che si chiamano lo carro. E queste quattro stelle allegoricamente finge che significhino le 4 virtù cardinali; cioè iustizia, prudenzia, fortezza e temperanza; benché litteralmente finga che siano stelle presso al polo antartico et abbiano a dare influenzia delle ditte virtù, Non viste mai; dice di quelle 4 stelle che non funno mai vedute, nè cognosciute se non da’ primi padri Adamo et Eva, mentre stetteno in stato d’innocenzia, perchè stetteno in paradiso che è nell’altro emisperio sì, che secondo la fizione litterale le doveano vedere; ma secondo la fizione poetico e morale, la prima età che fingeno essere stata sotto Saturno, vidde e cognove7 queste 4 virtù et osservò benchè non perfettamente; et a questo modo intese l’autore: imperò che gente è congregazione di più uomini e non di due, benchè in uno omo, secondo dialettici, si salva la specie umana; et anco si può intendere gente di loro e di loro descendenti, se si fusseno conservati in stato d’innocenzia. Goder pareva il Ciel di lor fiammelle; cioè parea che quello cielo si facesse più splendiente e bello per le loro fiamme. Allegoricamente intende [p. 15 modifica]che le loro fiamme sono li omini adornati de le virtù, che fanno penitenzia, accordandosi co la Santa Scrittura dicente: Dico vobis quod ita gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente, quam super nonaginta novem iustis, qui non indigent poenitentia. — O settentrional vedovo sito; esclama l’autore, usando lo colore, che si chiama esclamazione da Tullio, al nostro polo artico fingendo che sia vedovo e privato di quelle 4 stelle: sito tanto è a dire quanto luogo, e però dice: O settentrional sito; cioè o luogo di settentrione, ben se’ vedovo e privato di bellezza, e rende la ragione, Poi che privato se’; tu settentrione, di mirar quelle; cioè quelle 4 stelle! E secondo la lettera s’accorda colla Santa Scrittura che dice: Ab aquilone surget omne malum; ma allegoricamente l’autore intese delli omini del mondo, li quali sono tutti divisi in due parti; cioè buoni e rii; e pone li buoni per quelli che sono inverso l’antartico, li quali sempre mirano le virtù cardinali e le loro specie operando quelle; e li rei pone per quelli che sono inverso l’artico polo; cioè settentrione, li quali non mirano mai a le virtù, perchè sono dati ai vizi. Et usa questa fizione, perchè il settentrionale polo è freddo, che significa lo vizioso stato che è privato di carità, e quive fu messo l’uomo in esilio, cacciato del paradiso; e di lì dal mezzo di’, lo quale è caldo nell’altro emisperio, finge essere lo paradiso nel quale serebbe sempre stato l’uomo acceso di carità, e così sarebbe stato in stato virtuoso; e però finge che quinde si veggano quelle 4 stelle di Dio: imperò che per grazia influente dal cielo, l’omo serebbe stato naturalmente disposto a le ditte virtù, et in esse continuato; e per la grazia di Dio cooperante arebbe quelle e le 3 teologiche avute in atto et operazione. E perchè l’autore intende ingiummai a trattare di quelli che sono in stato di penitenzia et àe lassato quelli che sono in vita viziosa, e però finge che sia ora sotto l’altro polo; cioè in considerazione de la vita virtuosa dove risplendeno le virtù cardinali e tutte loro specie, de la quale vita ànno allegrezza li angeli, e li santi; e però finge che il cielo goda dei loro splendori. E mentre che trattò dei vizi e dei peccati, finse essere sotto lo nostro polo settentrionale, del quale àe posto la sua esclamazione, perchè chi sta in tale vita, che si può dire morte più tosto che vita, è privato delle virtù cardinali e de le loro specie, e però quelli cotali ben sono vedovi: imperò che sono sensa Dio lo quale è sposo dell’anime umane, mentre che sono virtuose; ma quando diventano viziose, si parte da loro. E per questo chiaramente si vede che lo nostro autore una cosa finge et un’altra intende sì, che non si dè pur considerare la lettera; ma anco la sua allegoria.

C. I — v. 28-39. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come in quello luogo, dove àe detto che era, elli trovò Catone, del [p. 16 modifica]quale fu detto ne la cantica passata et anco si dirà di sotto; et è qui bello allegorico intelletto, come si dirà di sotto. Dice così: Com’io; cioè Dante, dal loro sguardo; cioè dall’avvisamento delle dette 4 stelle, fui partito, Un poco me volgendo all’altro polo; cioè a settentrionale, Là onde il Carro già era sparito; cioè le 7 stelle che stanno in modo di carro; cioè 4 di pari; cioè 2 e 2, e poi 3 in filo; cioè, 2, e poi una torce a drieto in questa forma E questo finge l’autore, secondo la lettura: imperocché visibile è che chi fusse nell’altro emisperio nell’isola che fìnge l’autore essere stato, elli ragguardando verso settentrione vedrebbe tanto lo carro de le dette 7 stelle quanto penasse a far la volta di verso l’isola, sicché a lui nascerebbe et occiderebbe. Sì che quanto a la lettera vuole dire che il carro avea dato la sua revoluzione di verso l’isola; ma quanto all’allegorico intelletto si dè intendere qui la bella allegoria che lo nostro autore intese de innarrare in questo luogo. Et è qui da intendere che l’autore vuole significare che, se l’uomo si fusse mantenuto in stato d’innocenzia, come fu creato da Dio, sarebbe stato in paradiso delitiarum, lo quale finge essere nell’altro emisperio ne la sommità del monte dove finge essere fatto per li balzi de la sua montata lo purgatorio, et avrebbe sempre veduto le 7 stelle; cioè le 4 virtù cardinali e le 3 teologiche; e quelle arebbe veduto, perchè sarebbe stato virtuoso, e di quelle non si serebbe partito et arebbele avute senza acquistarle per grazia infusa di Dio; ma perchè fu disobediente e peccò, fu cacciato del paradiso e messo in questo altro emisperio, dove li sono mostrate 7 stelle che sono nel carro; cioè le 4 virtù cardinali ditte di sopra, e le 3 teologiche; cioè fede, speranza e carità, perchè liele conviene acquistare operando colla grazia di Dio. E come arebbe in aiuto le suprascritte 7 virtù per dono di natura, che Dio avea così dotata la natura umana, perchè avea creato l’omo ne la sua grazia senza fatica, e serebbenoli bastate a stare in quella felicità; così è stato bisogno che con fatica acquisti le dette 7 virtù; cioè le dette 4 e le dette 3, se vuole ritornare a lo stato de la beatitudine a che Dio lo creò. E che l’autore finga avere ragguardato prima lo polo antartico, e poi l’artico non è senza allegorico intelletto: imperò che per questo significa che prima considerasse lo stato felice in che sarebbe stato l’omo, se non avesse peccato, e poi riguardò la miseria in che cade per lo peccato, e vidde quanto a la vista sua che ’l carro già era sparito; cioè le 4 virtù cardinali, e le 3 teologiche: imperò che in pochi si trovavano nel suo tempo. E puossi muovere qui uno dubio; cioè perchè non fìnse che di là fusseno 7 stelle, come de qua, considerando che ’l primo omo ebbe le cardinali e le teologiche. A che si può rispondere che l’autore [p. 17 modifica]parla qui secondo le finzioni poetiche, che fingeno che nel reggimento di Saturno fusse l’età dell’oro, e che s’osservasseno allora le 4 virtù cardinali e l’altre 3 comprenderanno sotto queste, come mostra Ovidio nel primo Metamorfosi; o volliamo dire ch’elli finge, benché vi siano anco le 3 teologiche come apparrà nel canto viii; ma finge che le 4 stelle si veggano la mattina e le 3 la sera, a denotare che prima funno mostrate all’omo le 4 virtù e poi le 3 virtù. E finge che, mentre che stava in tale considerazione, vidde Catone romano presso da sè, lo quale finge che stia a guardia de la piaggia de la detta isola, e per solicitatore dell’anime che vadano a purgarsi. E questo finge per mostrare che, pensando de li omini del mondo quale potesse mettere in quello luogo a sì fatto officio, lo quale mondo vedea privato de le virtù universalmente, li occorse Catone romano, uticense, nipote; cioè discendente del grande Catone, detto Catone censorio, perchè fu iudicatore dei costumi, e così lo nipote fu reprenditore de’ vizi e confortatore a le virtù, come testificano li autori; et uccise sè medesimo in Utica, vedendo perduta la libertà di Roma, e la speranza di racquistarla, e fu marito di Marzia; e di ciò fu detto sufficientemente a la materia nella prima cantica. E però seguita: Viddi presso da me; io Dante, un vecchio solo; cioè Catone sopradetto, e dice solo; perchè nolliene8 occorsero più degni di tale officio, Degno di tanta reverenzia in vista; questo dice, perchè Catone venne omo molto degno di reverenzia, e per la sua virtù era riverito da tutti i Romani; unde recita Valerio, lib. 2. cap. 5. De maiestate, che facendosi lo giuoco della dia Flora, nel quale si faceano disonesti atti, pervenendo Catone nel teatro dove si facea, fue9 interrutto lo giuoco per reverenzia di lui, e non si fe niuno atto infin che non fu partito. Che più; cioè reverenzia, non dè a padre alcun filliuolo. E qui si nota quanta sia la riverenzia che dè lo filliuolo al padre; cioè la maggiore che sia di po' Dio; e descrive com’era fatto dicendo: Lunga la barba; che è segno di onestà, e di pel bianco mista; cioè canuta, a che si dè onore, secondo l’autorità: Honora canos— , Portava; lo detto Catone, a’ suoi capelli similliante; cioè canuta, come li capelli del capo, De’ quai; cioè capelli, cadeva al petto doppia lista; cioè due nellie10, l’una dall’uno lato e l’altra dall’altro. Li raggi de le quattro luci sante; cioè di quelle 4 stelle, che significano le virtù cardinali, Fregiavan sì la sua faccia di lume; secondo l’allegoria s’intende la sua fama, benchè il testo dica del volto, Ch’io; cioè Dante, ’l vedea, come il Sol fosse davante; cioè benchè fusse di notte, lo vedea come se fusse di [p. 18 modifica]di’ per la luce di quelle stelle. Et allegoricamente intende che le virtù sempre fanno chiaro lo virtuoso; e questo finge, per mostrare che la sensualità sua dicesse: Tu vuoi andare a la penitenzia, come se’ tu disposta a ciò? Guarda se tu ài libertà et iustizia, come si conviene a sì fatto montamento; e per questo fìnge che li occorresse Catone, esempio di libertà e di iustizia, lo quale conoscea per la fama ch’è de lui apo li autori, quasi dica, ch’elli avea notizia di Catone: tanta era la fama de la sua virtù, come s’elli lo vedessi colli occhi corporali, perch’elli lo vedea colli occhi de la mente.

C. I — v. 40-48. In questi tre ternari lo nostro autore fìnge che Catone, vedendo loro; cioè Virgilio e lui, riprendesse la loro venuta dicendo: Chi siete voi; disse Catone a Dante e a Virgilio, che contra il cieco fiume; questo è quel fiume che descende del nostro mondo, del quale fece menzione nella prima cantica nel canto xiv, e nel canto ultimo che finge, che entri nel centro de la terra dall’altro emisperio, e roda uno sasso col corso suo; cioè quello, dov’è lo punto centrale dell’universo, per la quale rosura passa di là dal centro, e fa Cocito; e finge che contra quel fiume venisseno nell’ultimo canto de la detta cantica prima, quando disse: Luogo è là giù da Belzebub remoto, Tanto quanto la tomba si distende, Che non per vista; ma per suono è noto D’un ruscelletto, che quivi discende Per la buca d’un sasso ch’egli à roso Col corso che lì avvolge, e poco pende. Lo Duca et io per quel cammino ascoso ec. E di questo fiume parla qui Catone, secondo la fizione dell’autore: imperò che contra questo fiume venneno Dante e Virgilio, escendo de l’inferno per luogo tenebroso dove non si vedea niente, se non che s’udia lo suono dell’acqua, come detto è; dunque ben dice cieco fiume, quanto a la lettera; quanto all’allegoria s’intende contra la colpa: però che la colpa è quella che ci obliga a l’inferno, et è cieca: imperò che ogni colpa o procede da ignoranzia o induce ignoranzia. Fuggito avete la prigione eterna; cioè l’inferno, che è prigione eterna dei dannati? E notantemente dice che contra ’l cieco fiume sono venuti, et usciti de l’inferno: imperò che continuamente l’autore nostro àe dannato la colpa, sì che continuamente è venuto contra essa; et è fuggito da essa, dannandola elli e Virgilio; cioè la sensualità e la ragione. Disse el; cioè Catone, movendo quelle oneste piume; cioè la barba canuta, che era segno di onestà; et è notabile che la barba significa onestà. Chi v’à guidati; voi due? e chi vi fa lucerna; cioè chi vi fa lume? Ecco che dimanda di due cose; cioè de la guida e del lume, come sono necessarie due cose ad uscire de la colpa e venire a la penitenzia; cioè grazia illuminante e cooperante: la cooperante s’intende per la guida, e la lucerna dà ad intendere la illuminante. Uscendo fuor de [p. 19 modifica]la profonda notte; cioè de la profonda oscurità, Che sempre nera fa la valle inferna; cioè lo inferno che è nero et oscuro, perchè sempre v’è oscurità e notte? E questo è quanto a la lettera; ma quanto all’allegoria s'intende profonda cechità di mente che viene per la colpa, e fa intendere la mente pure a le cose vili e sozze, come è lo vizio e lo peccato; e così fa la valle inferna nera; cioè piena d’ignoranzia et intendente a le cose terrene. Son le leggi d’abisso così rotte? Questa dimanda fa Catone a Dante e a Virgilio; se le leggi dell’inferno sono sì rotte, che l’omo ne possa uscire quando vuole; e questo dice, perchè sa che sono venuti de l’inferno. O è mutato in Ciel nuovo consillio; ecco l’altro dimando che fa anco a proposito; cioè se in cielo è fatto nuovo statuto, Che dannati; cioè che voi dannati, venite a le mie grotte; cioè a queste grotte di questo monte, che sono inanti al purgatorio, dove io Catone sono posto a guardia? E questo è quanto a la lettera dove si dimostra che impossibile sia uscire dell’inferno et andare in purgatorio; ma quanto a l’allegoria dimostra che chi è nel mondo ostinato nel peccato impossibile sia a venire a stato di penitenzia per due vie, che l’una e l’altra è necessaria cagione; l’una è per la legge del peccato che induce morte eterna, l’altra è per consillio e statuto celeste fatto ab eterno; cioè che l’ultima dannazione è irrevocabile; e questo s’intenderebbe de’ mondani che sono presciti esser dannati, et assai chiaro si dimostra nel testo quando, dice: Che dannati. Et è da notare che però finge l’autore che Catone sia posto a questo officio, perch’elli fu molto amatore di iustizia, intanto ch’elli fu tenuto severo e rigido, e fu omo molto esemplare, come detto fu di sopra; e però dice a le mie grotte; ma allegoricamente per Catone intende l’autore lo stato libero dell’anima: imperò che a volere uscire de peccato, et andare a la penitenzia, è necessario che l’animo sia libero da ogni impaccio, e lassi ogni lentezza, et eziandio per questa libertà metta la vita, come misse Catone, se bisogno fusse. Et anco intende lo stato iustificato dell’anima: imperò che Catone fu iustissimo sì, che c’insegna che, se l’anima vuole andare a la penitenzia, ella si dè iustificare, poi che s’à liberato dall’impacci umiliandosi contra la superbia de la vita, levandosi da la concupiscenza della carne, da la cuncupiscenzia delli occhi; e cusì liberata et iustificata può andare a purgare la negligenzia avuta, innanti che vegna all’atto de la penitenzia. Et àe indutto Catone, sì come esempio de la libertà e della iustizia, più tosto che niuno altro per fare verisimile la sua fizione: imperò che del Vecchio Testamento non potea inducere nessuno a guardia del purgatorio: imperò se n’andonno in cielo con Cristo, quando spolliò lo limbo; nè del Nuovo era convenevile che introducesse li santi a stare in purgatorio: imperò che [p. 20 modifica]sono in vita eterna. Et induce l’autore Virgilio a parlamentare con lui: imperò che a la ragione s’appartiene di fare questa esaminazione, e non a la sensualità: anco la sensualità dè stare cheta e reverente, e però finge che s’inginocchiasse e stesse tuttavia in ginocchione, infine che durò lo parlamento con Catone.

C. I — v. 49-54. In questi due ternari lo nostro autore finge come Virgilio, sua guida, risponde ai dimandi di Catone; ma prima in generale e poi nella seguente lezione specialmente, dice così, inducendo prima Dante a fare riverenzia a Catone: Lo Duca mio; cioè Virgilio, che significa la ragione, come fu detto ne la prima cantica, lo quale finge l’autore che anco lo guidasse per lo purgatorio: imperò che la ragione guida l’omo per li gradi de la penitenzia, allor mi diè di pillio; cioè m’afferrò, poi che Catone ebbe fatto li sopraditti dimandi, E con parole; dicendo: Falli reverenzia, e con mani; piegandomi, e con cenni; inchinando lo corpo mio, et anco inchinando col suo, et inginocchiandosi, Reverenti mi fe le gambe e il cillio; cioè mi fe mostrare atto di reverenzia co le gambe, inginocchiandomi, e col cillio inchinando lo capo. Per questo puossi notare li modi e li segni de la reverenzia, e che la ragione comandò a la sensualità che stesse cheta. Poscia rispuose a lui; cioè a Catone Virgilio: Da me non venni; ecco che dimostra come per sè medesimo niuno è sofficiente ad uscire del peccato e venire a la penitenzia; e questo risponde la ragione significata per Virgilio: imperò che c’è bisogno la grazia preveniente, illuminante e cooperante, et ecco che ’l manifesta: Donna scese dal Ciel; questa fu Beatrice, che significa la grazia cooperante e consumante, senza la quale niuno si può salvare, e questa mai non si dà da Dio se le due prime non vanno inanti, de le quali pienamente è detto ne la prima cantica, sopra lo canto secondo: chi vuole vedere, ritrovilo quive. per li cui preghi; cioè di detta donna, De la mia compagnia costui sovvenni; cioè io Virgilio sovvenni Dante, facendoli compagnia per li preghi de la detta donna. E questo dice, per mostrare che la ragione pratica et inferiore, significata per Virgilio, non guiderebbe bene la sensualità, nè perfettamente per li gradi de la penitenzia, se non fusse la grazia cooperante e consumante. E qui finisce la prima lezione.
     Ma da ch’è tuo voler ec. Questa è la seconda lezione del canto, e seconda parte de la principale divisione, nella quale si contiene li ragionamenti che Virgilio ebbe con Catone, e l’osservanzie che convenne osservare a Dante, secondo l’ammonimento di Catone; e dividesi in parti vii, perchè prima Virgilio specifica singularmente a Catone la loro condizione di sopra in genere; ne la seconda parte lo prega che li lassi andare, e risponde a le ragioni mosse prima per Catone, quive: Or ti piaccia gradir ec.; ne la terzia finge come [p. 21 modifica]risponde Catone al prego di Virgilio, quive: Marzia piacque tanto ec.; ne la quarta, come Catone predice loro quello che deno 11 fare, quive: Questa isoletta ec.; ne la quinta finge come Virgilio si mette ad andare a fare quello che è stato comandato per Catone, quive: El cominciò: Filliuol ec.; ne la sesta finge come Virgilio l’una misse ad esecuzione de le cose preditte da Catone, quive: Quando noi fummo ec.; ne la settima, come Virgilio misse ad esecuzione l’altra, quive: Venimmo poi ec. Divisa la lezione, ora è da venire ad esponere lo testo singularmente, ponendo l’allegorico intelletto.

C. I — v. 55-69. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Virgilio singularmente manifesta le loro condizioni a Catone, detto di sopra, insomma dicendo così: Ma da ch’è tuo voler; Catone, dice Virgilio, che più si spieghi Di nostra condizion; cioè si manifesti a te de la condizione nostra, com’ella è vera; cioè la nostra condizione, Esser non puote il mio; volere, s’intende, che a te si neghi; lo spiegar la nostra condizione, quasi dicesse: Poi che tu vuoi che più si manifesti vera la nostra condizione, io non posso volere negartelo. Che Catone volesse questo, appare per la sua dimanda dove prima dimanda chi sono; secondo chi li à guidati; terzio chi li à illuminati; quarto, se le leggi de l’inferno sono rotte; quinto, se in cielo è mutato statuto; le quali cose due ultime sono impossibili e seguitrebbeno, se la conclusione fosse vera; cioè che li dannati venisseno in purgatorio. E perchè di sopra non è stato risposto se non ad una delle dimande; cioè della guida, appare che l’addimandatore richiede di più sapere e vuole. Appresso debbiamo sapere che quando la dimanda è iusta et onesta, la ragione dè volere adimpierla, anco è impossibile ch’ella non vollia, e però dice così nel testo: Esser non puote il mio ec. Questi; cioè Dante, ecco che spiega de le ragioni, non vidde mai l’ultima sera; cioè non morì ancora: e litteralmente dice della morte corporale, et allegoricamente s’intende della morte spirituale, come dimostra lo testo, Ma per la sua follia; cioè per lo suo fallo e stoltia, li fu sì presso; cioè a la morte spirituale, Che molto poco tempo a volger era; ch’elli l’arebbe veduta l’ultima sera; cioè la morte spirituale: imperò che sarebbe caduto in ostinazione; e nel testo dimostra che ’l tempo sta nella revoluzione de’ cieli, dicendo che molto poco tempo a volger era; cioè era a venire: come Dante vi fusse presso appare nel primo canto de la prima cantica. Sì, come io dissi; dice Virgilio a Catone, fui mandato ad esso; cioè a Dante da Beatrice, come ditto fu di sopra, Per lui campare; cioè per camparlo de la morte spirituale, e [p. 22 modifica]non v’era altra via; a camparlo, Che questa per la quale io mi son messo; la quale specifica di sotto. Mostrato ò a lui; cioè a Dante, tutta la gente ria; cioè litteralmente lo inferno; ma allegoricamente le specie dei peccati e li omini peccatori, Et ora intendo a mostrar quelli spirti, Che purgan sè sotto la tua balia; cioè lo purgatorio, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria quelli omini, che sono in stato di penitenzia e li gradi de la penitenzia, li quali sono sotto la balia di Catone; cioè dell’osservazione de la iustizia: imperò che Catone qui significa allegoricamente l’austerità e rigidità de la iustizia, la quale si richiede ne la penitenzia. Come io; cioè Virgilio, l’ò tratto; cioè lui Dante, seria lungo a dirti; e però si scusa de la narrazione per la lunghezza: Dell’alto scende; cioè di cielo da Dio, virtù, che m’aiuta; cioè cooperante e consumante grazia, Conducerlo a veder te; cioè Catone, cioè esecutore rigido et austero di iustizia, et a udirti; cioè te Catone; e moralmente s’intende, a considerare la virtù tua et udire coloro che ànno scritto de la tua virtù.

C. I — v. 70-84. In questi cinque ternari risponde l’autore prima a le ragioni mosse per Catone; appresso lo prega che li lassi andare, dicendo: Or ti piaccia gradir; cioè avere a grado a te, Catone, la sua venuta; cioè di Dante, del quale fu detto di sopra: Libertà va cercando; cioè Dante dal vizio e dal peccato e da ogni impaccio che li desse lentezza ad andare a lo stato de la penitenzia, ch’è sì cara; cioè la libertà, Come sa chi per lei vita rifiuta: multi virtuosi omini ànno refiutato la vita, per non perdere la loro libertà. Tu il sai; cioè tu, Catone, che non ti fu per lei amara In Utica la morte; questo dice, perchè Catone essendo in Utica, che è città d’Africa, vedendo che Cesare al tutto avea occupato la republica e non c’era più speranza di libertà, si diè la morte gittandosi in sul proprio coltello; e poi essendo a giacere, perchè non morìa così tosto, misse le dita ne la ferita del petto e stracciolla, acciò che più tosto n’escisse lo spirito, ove lassasti La veste; cioè lo corpo, che è veste dell’anima, che al gran di'; cioè dopo la resurrezione generale, quando serà di’ sì grande, ovvero perpetuo, che serà vita che non verrà mai meno, serà sì chiara: imperò che li beati risuscitati risplenderanno più che lo sole. E per questo l’autore dimostra che Catone debbia essere salvo: pietosamente si può credere che omo di tanta virtù fusse al fine suo illuminato de la fede, e che si pentisse de la morte indutta da sè medesimo e de’ peccati ch’avea commesso. Non son; ora risponde a le dimande fatte di sopra da Catone a Virgilio et a Dante, dicendo: Non son li editti eterni; cioè li statuti eterni, cioè che Dio ordinò ab eterno, per noi; cioè per me e per Dante, dice Virgilio, guasti: però che non abbiamo fatto contrario: Chè questi; cioè Dante, vive; e così dimostra che Dante [p. 23 modifica]possa iustamente essere uscito de lo inferno: imperò che l’anima non è obligata a lo inferno, se non dopo la morte, e Minos; cioè lo iudice de lo inferno, del quale fu detto ne la prima cantica nel canto quinto, me; cioè Virgilio, non lega; cioè non sono sotto la sua guardia: imperò che io sono di quelli del limbo, come fu detto di sopra ne la prima cantica, nel canto quarto, dove si trattò del castello. E questo è secondo la lettera; ma allegoricamente s’intende di Dante ch’elli non era secondo la sua sensualità sì ostinato nel peccato, ch’elli fusse prescito da Dio esser dannato: anco più tosto si potea dire predestinato a beatitudine, perch’elli era ne la grazia di Dio che si potea comprendere: imperò che avea trattato de la abominazione de’ vizi e de’ peccati, et ora de la penitenzia intendea de trattare; nè anco la ragione di Dante significata per Virgilio obligata a Minos, cioè a la coscienzia: imperò che non avea coscienzia d’aver fatto cosa, per ch’elli fusse prescito a lo inferno: imperò che Minos allegoricamente significa la coscienzia, come sposto fu nell’allegato canto di sopra. Ma son del cerchio; cioè primo, ove son li occhi casti Di Marzia tua; questa fu donna di Catone castissima, come detto fu nel suddetto canto, e dice li occhi casti, perchè li occhi sono lo maggior segno che sia de la castità de le donne, quando stanno calati e verecundi; e dice: in vista; quasi dica: Tanta fu l’affezione sua d’esser tua quando vivea, ch’ella te ne pregò si affettuosamente, come scrive Lucano, che anco par che te ne preghi, che in vista ancor ti prega; cioè questa Marzia che fue tua donna, O santo padre; dice Virgilio a Catone, che per tua la tegni: come la tenesti in vita; cioè che tu l’ami come l’amasti in vita. E qui si dimostra che la ragione di Dante, per questo detto si sforza di compiacere a Catone e prendere sua binivolenzia 12, acciò che sia inchinevile a la dimanda che intende di fare; e però si può notare che in questo finga l’autore che Virgilio parli a questo modo, per dare ad intendere che la ragione pratica non apprende de le cose dell’altra vita, se non come pratica in questa de le cose mondane: imperò che Virgilio significa la ragione pratica et inferiore, com’è stato sposto ne la prima cantica. Per lo suo amore adunqua a noi ti piega; cioè per l’amore di Marzia ti piega a farci grazia. Lasciane andar; cioè noi, per li tuoi sette regni; cioè per li sette balzi del monte, u’elli 13 finge che siano sette distinti luoghi ordinati a purgare li sette peccati mortali, dell’ordine de’ quali si dirà di sotto quando tratterò d’essi. Grazie reporterò di te a lei; cioè io ringrazierò lei de la grazia che tu ci farai per suo amore, Se esser mentovato laggiù degni; [p. 24 modifica]cioè ti reputi degno, cioè se tu vuoi essere ricordato laggiù, cioè nel primo cerchio de lo inferno, quasi dica: Tu se’ tanto virtuoso et eccellente, che tu non meriti d’essere nominato in sì fatto luogo.

C. I — v. 85-99. In questi cinque ternari lo nostro autore puone la risposta che 14 finge che facesse Catone a la dimanda di Virgilio, dicendo: Marzia piacque tanto alli occhi miei; dice Catone a Virgilio, Mentre ch’io fui di là; cioè nel mondo, disse elli allora; cioè Catone, Che quante grazie volse da me; Marzia, fei; io Catone. Or che di là dal mal fiume dimora; cioè imperò che Marzia sta di là dal mal fiume al ponente 15. Questo mal fiume, intende l’autore lo fiume de la colpa, che discende da la statua che descritta fu di sopra ne la cantica prima, canto xiv; lo quale fiume, secondo la lettera era ora in mezzo tra Marzia e Catone, quanto al sito in che fìnge l’autore esser Marzia e Catone; cioè Marzia ne l’emisperio nostro, e Catone nell’altro; l’una nel limbo, e l’altro ne la piaggia inanti a la montata al purgatorio; ma allegoricamente dobbiamo intendere qui una bella fizione, la quale fece l’autore in questa intrata de la seconda cantica; cioè che Catone significa la libertà dell’animo, e Marzia significa fortezza, ovvero forte resistenzia: imperò che si dice da Marte, che è detto dio di battallia, e questo non è altro che quella virtù che si chiama fortezza, dunqua forte resistenzia è bene derivata da lui, et è naturalmente mollie di Catone: imperò che sempre all’omo di libero animo conviene esser coniunta la forte resistenzia, mentre che si sta in questa vita e deve l’omo libero e virtuoso esser, et averne piacimento. Ma poichè l’omo è partito di questa vita, non n’à bisogno più, e però non ne dè essere più vago, nè più muoversi per lei: però che è fuor de le tentazioni de li peccati, e de le negligenzie, e però ben seguita: Più muover non mi può; cioè me Catone, questa Marzia, per quella legge; cioè per la legge divina, Che fatta fu; cioè per la legge coniugale che fu compiuta; e questa viene a dir fatta, o volliamo intendere di nuova legge che fu fatta; cioè fu fermata, et io fui fatto sotto quella legge e fermato, quando me n’usci’ fuora; cioè quando uscitti fuora de la vita mondana, fu fatta una legge singulare che l’anima mia non fusse più obligata a le virtù cardinali, per resistere con esse alla sensualità: imperò che da quella 16 è libera; e benchè questa legge sia universale a tutti, niente di meno a ciascuno è sua legge, secondo che uno è infestato più da una tentazione che da un’altra; e contra quella li fa bisogno più una virtù che un’altra, la quale di po’ la vita nolli 17 è [p. 25 modifica]bisogno; ma a tutti è bisogno forte resistenzia, mentre che si vive: ma poi no; imperò che chi è fuor di questa vita non à più di vizio battallie, sì che nolli fa bisogno forte resistenzia. E ben dice l’autore che finge, che Catone dicesse: quando me n’ usci’ fuora: imperò ch’elli medesimo si separò l’anima dal corpo; e quanto a la lettera anco questa sentenzia è notabile; cioè che l’amore onesto matrimoniale, che fu tra Catone e Marzia, lo mosse a fare sempre quelle grazie che ella li addimandò, che non funno se non oneste; ch’ella era sì onesta che non arebbe dimandato cosa che non fusse stata onesta; ma di po’ la morte non è più questo amore: imperò che è soluto, e non s’ama da’ beati, se non per vera carità, quelli che sono beati, e non li dannati; e però seguita: Ma se donna del Ciel; cioè Beatrice, la grazia cooperante e consumante, muoveti e regge; cioè te Virgilio, cioè la ragione pratica et inferiore, Come tu dì: imperò che così avea detto Virgilio di sopra, non c’è mestier lusinghe, quasi dica: Non è mistieri che tu mi lusinghi per Marzia, che per lei non mi movrei, che è dei dannati; ma per li celestiali sì, ai quali per vera carità sono disposto a compiacere: Bastiti ben, che per lei mi richegge; cioè basta, ch’io sappia lo volere de li celestiali, ai quali sono disposto ad obedire e piacere. Va dunque; ora insegna quello che Virgilio dè fare a Dante, inanti che lo meni a la montata del purgatorio; cioè che vada a la marina, e pillii uno giunco di quelli che vi sono, e cinga Dante, e lavili lo volto co la rugiada, sì che l’abbia netto; e questo dice in figura, come si sporrà di sotto. Va dunque; tu, Virgilio, e fa che tu; Virgilio, costui; cioè Dante, recinghe; cioè una altra volta cinghi: chè Dante era cinto; ma ora anco lo dovea cingere, D’un giunco schietto; e che non vi sia altro, e che li lavi il viso; cioè lo volto, Sì che ogni sucidume quindi stinghe; cioè sì che ne mandi ogni sucidume. Ora assegna la cagione di questo lavamento: Chè non si converria l’occhio sorpriso; cioè abballiato et 18 offuscato, D’alcuna nebbia; come erano quelle ch’avea veduto e sostenuto ne l’inferno, andar dinanzi al primo Ministro; cioè al primo angiulo, ch’è di quei di Paradiso. Per questo dà ad intendere allegoricamente che chi vuole nel mondo intrare ne la penitenzia, conviene esser sopra cinto d’alcuno grado d’umilitade, secondo la condizione dell’omo: imperò che altro grado si conviene ad uno, et altro ad un altro. E così si dè eleggere lo grado conveniente a la condizione del peccatore, quando vuole intrare ne lo stato de la penitenzia, ne la quale s’entra con grado d’umiltade che è significata per lo giunco: imperò che come lo giunco è fondato in natura 19 per suo nutricamento, senza fronde e senza fiori; così l’omo [p. 26 modifica]umile non dè avere appetito di cose mondane, se non estremamente per vivere; e dè essere sopra cinto: imperò che una cintura dè avere che lo faccia forte contra le concupiscenzie et appetiti carnali, et un’altra che lo faccia paziente a lo stato de la penitenzia. E perchè santo Gioanni distingue li peccati in tre specie; cioè superbia di vita, contra la quale si conviene cingere lo grado de la umiltà significato per lo giunco; e concupiscenzia di carne, contra la quale s’intende cingere la cintura de la continenzia, la quale pone che Dante avesse già cinta; e l’ultimo è la concupiscenzia delli occhi, contra la quale dice che si vuole lavare lo volto co la rugiada, ch’è ne la piaggia del purgatorio caduta dal cielo, e non desiccata per lo caldo del sole mondano, che significa la grazia illuminante che discende di cielo, e non s’asciuga per li splendori mondani che si cognoscono essere vili, e schiara li occhi abballiati di nebbia; cioè lo intelletto e la ragione occupati de la ignoranzia co la quale desiderante li beni falsi mondani non si conviene d’andare inanti ai ministri di paradiso, anco con perfetta scienzia desiderante li beni eterni.

C. I— v. 100-111. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Catone insegnò a Virgilio lo luogo dove dovea trovare lo giunco, e la via che dovea tenere, dicendo: Questa isoletta; ecco finge che lo purgatorio sia in una isula nel mare oceano, posto nell’altro emisperio per opposito a Gerusalemme, intorno ad imo ad imo; cioè d’ogni parte a la marina ch’è al basso, Laggiù; ecco che mellio lo dichiara, colà, dove la batte l’onda; del mare, Porta de’ giunchi sopra il molle limo; cioè nasce de’ giunchi giù a la marina quive, dove batte l’onda del mare in sul terreno molle. Null’altra pianta, che facesse fronda, O indurasse, vi puote aver vita; quasi dica: Quive non può durare se non giunchi; altre piante che frondisceno e che indurano, no; et assegna la cagione: Però che a le percosse non seconda; ecco la cagione, perchè non consente quando l’onda la percuote; e non consentendo, l’onda la rompe o la spollia de le suoe fronde, e così perde la vita. E questo è secondo la lettera; ma secondo l’allegoria intende l’autore che lo stato de la penitenzia nel mondo è intorneato de la tempesta delle tribulazioni, ne la quale non puote durare, se non li umili e poveri che non contastano 20 co la fortuna; ma inchinansi a portare pazientemente ogni cosa; ma chi fusse duro, si romprebbe per desperazione, o chi fusse ricco, perdendo le suoe ricchezze. Poscia non sia di qua vostra redita; ecco che insegna lo cammino, dicendo che non tornino quive u’elli 21 erano; e per questo vuole dimostrare che li gradi de la penitenzia son [p. 27 modifica]ordinati in questo modo; cioè che chi vuol entrare nello stato de la penitenzia, prima si dè recare in libertà e spacciarsi da ogni impedimendo; appresso si dè componere in umilità, che è lo secondo grado; poi dè sallire per lo monte; cioè per l’asprezze de la penitenzia più leggiermente che può, secondo che li mostra la grazia illuminante di Dio, la quale intende per lo sole, e così dè sempre procedere inanti e non tornare adrieto. Lo Sol vi mostra; la via che dovete tenere, dice Catone a Virgilio, che resurge omai; cioè che incomincia a dare la sua luce. Allegoricamente intende la grazia illuminante di Dio vi mostra la via che dovete tenere, la quale si leva in voi et in ogni uno che si parte dal peccato per considerazione de la viltà e de la pena del peccato, quanto 22 prima ciò si fa; e poi resurge, quando quinde si viene a lo stato de la penitenzia. Prendete il monte a più lieve salita; cioè montate quinde, dov’è minore fatica. E questo è notabile contro li presuntuosi che tanto si fidano di potere, che si metteno in asprezze che non possano poi sostenere: l’omo dè andare per li gradi de la penitenzia più agevili al principio, e quanto più vi dura più s’inalza e viene ne le malagevilezze, le quali sono supportabili per l’uso. Così sparì; Catone da noi, dice Dante, cioè uscitte tal considerazione de la mia fantasia, et io; cioè Dante; su mi levai Senza parlare; cioè intrai col pensieri a proceder più oltra, e leva’mi di terra, perch’era stato ginocchione, infin che Virgilio liel comandò 23, tutta via poi infine avale. Et è qui da notare che l’autore, secondo la lettera, dimostra che Virgilio parlamentasse con Catone et elli stesse tutta via ginocchione ad ascoltare, per mostrare che, quando li venne in animo d’entrare a lo stato de la penitenzia, la ragione significata per Virgilio disse: Veggiamo come tu se’ libero da’ vizi che potrebbeno impacciare la penitenzia, e come tu se’ iustificato tanto quanto si richiede lo ’ntramento de la penitenzia; e però indusse Catone e consilliossi con lui; e la sensualità stette reverente et obediente, infin che la ragione ebbe preso lo consillio. e tutto mi ritrassi Al Duca mio; cioè a Virgilio; cioè tutto mi strinsi a la ragione, e l’occhio; mio; cioè l’intelletto, a lui; cioè a Virgilio; cioè a la ragione, drizzai; cioè a seguire la ragione. Non sensa cagione disse l’autore 'l’occhio, e non li occhi, per dimostrare che due son li occhi dell’anima; la ragione l’occhio ritto, e l’intelletto l’occhio manco: e come l’occhio manco si dè dirizzare a seguire l’occhio ritto in vedere le cose 24; così l’intelletto si dè dirizzare a la ragione nel comprendere le cose mentali.

C. I — v. 112-120. In questi tre ternari lo nostro autore [p. 28 modifica]dimostra come Virgilio lo guida, demostrando la via; appresso descrive lo tempo, e poi dimostra Io cammino. Dice: El; cioè Virgilio, cominciò; a parlare a me Dante: Filliuol, segui i miei passi: tanto va bene la sensualità, quanto ella seguita la ragione, Volgianci indietro; questo dice, perchè inanti era la montata, che di qua; cioè di rieto, dichina Questa pianura ai suoi termini bassi; cioè a la marina. E per questo dimostra che tanto stette Dante in stato eguale, quanto tardò a conducersi in libertà da ogni impaccio; e così sta ogni uno che a la penitenzia vuole montare, poi si volge a rieto quando, considerata l’altezza de la penitenzia, si volge a pilliare lo grado dell’umilità che li è bisogno. L’alba; cioè la bianchezza che appare nell’oriente, quando incomincia a venire lo di’, vinceva l’ora mattutina; cioè l’ora del mattino, ch’è l’ultima parte de la notte, Che fuggia inanzi; cioè a l’alba, sì che di lontano; cioè da lunga, Cognobbi il tremolar della marina; cioè dell’acqua marina che continuamente è in movimento. Noi andavam; cioè Virgilio et io Dante, per lo solingo piano; cioè solitario; e per questo si dè intendere che nullo o pochi sono quelli che descendeno a pilliare lo grado dell’umilità, che si richiede a chi vuole montare a l’altezza de la penitenzia, Com’uom che torna a la perduta strada; cioè dolenti, come va l’omo che torna a la strada perduta a rieto: e così andavano Virgilio e Dante; cioè la volontà e la ragione, che doveano avere preso lo grado dell’umilità, innanti che sallisseno a la penitenzia; e perchè nol presono, tornonno a rieto ammoniti da Catone per pilliarlo; e questo è ammonimento a ciascuno che vuole sallire a la penitenzia, che innanti che vi sallia si cinga d’umilità, Che infine ad essa li par ire invano; cioè infìn che ritorna a la strada perduta li pare perdere lo tempo; ma non lo perde in tanto, che sensa tornare ad essa non può avere lo fine desiderato.

C. I — v. 121-129. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Virgilio facesse lo secondo consillio che Catone li diede, del quale fu detto di sopra, dicendo: Quando noi; cioè Virgilio et io Dante, fummo dove la rugiada: questo è umore de la terra che il caldo del sole tira e leva in alto, lo quale poi la notte ricade giuso, cessato lo sole, che nollo tira più a sè, Pugna col Sol; questo dice, in quanto non si lassa liverare 25, o vero risolvere, che per esser in parte; ecco che assegna la cagione, perchè, dicendo, che; cioè la quale rugiada, per esser in parte Dove dorezza; cioè u’è ombra sì, che il sole nolla vede: quello che noi diciamo rezzo, altri dicono dorezza, poco si dirada; ecco in che modo si disfà la rugiada; cioè che si dirada come l’umore tirato insù dal sole: per lo freddo della luna si spissa 26 e [p. 29 modifica]congrega insieme; così poi per lo caldo del sole si dirada e risolvesi, Ambo le mani; di Virgilio, in su l’erbetta; che era ne la pianura, sparte; cioè ampie e non chiuse, Soavemente; cioè pianamente: imperò che, se avesse fatto fortemente, arebbe fatto cascare la rugiada, il mio Maestro; cioè Virgilio, puose; in su l’erbetta, come fu ditto, Ond’io; cioè Dante, che fui accorto di su’ arte; cioè m’avviddi di quello che volea fare, Porsi ver lui; cioè inverso Virgilio, le guance lagrimose; cioè piene di lagrime: imperò che Dante, non liberato ancora da la concupiscenzia delli occhi, rallegravasi de l’abbondanzia dei beni temporali, e dolevasi de la miseria e de la carenzia di quelli; e però avea pianto de la miseria de l’infernali, come appare di sopra nella prima cantica: anco ne fu ripreso da Virgilio. Ivi mi fece tutto discoperto; cioè Virgilio co le mani rugiadose, Quel color; cioè lo sucidume del volto, che; cioè lo quale, l’Inferno mi nascose; cioè m’appiattò lo Inferno, ch’io nol potetti mai vedere, secondo la sensualità mia, se la ragione noll’avesse guidata; e però finge che Virgilio lo guidasse e facesselelo vedere, e questo s’intende, secondo la lettera. Secondo l’allegoria si dè intendere che Virgilio; cioè la ragione, bagnato amburo 27 le mani, che significano l’operazioni che sono due; cioè coniungere e dividere, ne la rugiada che significa la grazia illuminante che discende di cielo, lavò lo volto a Dante; cioè la concupiscenzia delli occhi che sta in due specie; cioè ne’ beni intrinsechi et estrinsechi. E questa grazia, quando è qui u’è lo splendore de le cose mondane, non àe vigore, et è fredda la mente di quel caldo significato per lo sole col quale ella sempre pugna e combatte, poco viene meno in quella cotale mente che è fredda del caldo dei beni mondani; ma pur verrebbe meno, se grazia non venisse sopra grazia; e però sempre si vuole dimandare, acciò che grazia s’aggiunghi a grazia sì, che cresca e mai non si spegni. Questa così fatta grazia lavò lo sucidume dei peccati; cioè l’appetito e lo desiderio che era anco ne la sensualità di Dante, che nolli avea lassato vedere lo inferno; non avea la sensualità di Dante cognosciuto la viltà del peccato nè ’l suo demerito, se non che la ragione liel’avea mostrato, e non basta cognoscere la viltà del peccato e lo suo demerito ad avere salute: imperò che ci vuole esser mezzo la penitenzia. Et alla penitenzia non si può sallire, se prima non si lassa l’appetito del peccare, che è significato per lo lavamento del volto; et appresso, se non si pillia lo grado dell’umilità significata per lo giunco, del quale si dirà appresso.

C. I — v. 130-136. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Virgilio misse ad esecuzione lo primo consillio [p. 30 modifica]che Catone li diede, dicendo: Venimmo poi; Virgilio et io Dante, poi ch’io m’ebbi lavato lo volto dal sucidume del peccato, in sul lito diserto; cioè in su’ la piaggia abbandonata; e per questo significa la pocanza 28 di quelli che vadino in purgatorio quanto alla lettera; e quanto all’allegoria, di quelli che saglino a l’altessa de la penitenzia, Che mai non vidde navigar su’ acque; questa piaggia detta di sopra; et appella piaggia lo stato che è mezzo tra l’escimento del peccato, e il sallimento a la penitenzia. E finge l’autore che per mare si vegna a questa isula, sì come è verisimile, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria questo mare per quelli, che sono di là, è la morte; e secondo quelli del mondo è lo passamento che si fa da la colpa a la penitenzia; e però dice: Che mai non vidde navigar su’ acque Om che di ritornar sia poscia sperto; cioè che pilli poi esperienzia di ritornare; e questo è vero, secondo li vivi e secondo li morti: li morti mai non ritornano 29, e questo è certo, e così ancora chi fa vero passamento, sì come si dè fare dal peccato a la penitenzia, mai non ritorna a rieto al peccato. E potrebbesi qui ostare che l’autore dice contra sè: imperò che tornò. A che si può rispondere che litteralmente, secondo fizione poetica finge che v’andasse, e così per quel modo finge che tornasse; ma allegoricamente si dè intendere che, poi ch’elli mirò 30 ne lo stato de la penitenzia, elli continuò infine a la fine. Quivi: cioè in quella piaggia, mi cinse; cioè me Dante d’uno giunco marino, che significa grado d’umilità, sì come a lui; cioè a Virgilio, piacque: imperò che la ragione scielse 31 quel grado che a lui si convenia. O meravillia! Parla l’autore, ammirandosi di quel che seguita; cioè, che qual’elli scelse; cioè Virgilio, L’umile pianta; cioè lo giunco che non cresce troppo, e però lo pone per lo grado dell’umilità, cotal si rinacque; cioè simile rinacque in quel medesimo luogo, secondo la fizione litterale. Questo serebbe meravillioso che, cavato lo giunco, subitamente rinascesse l’altro; ma non secondo l’allegoria: imperò che la virtù 32 è inconsumabile et è comunicabile ad ogni uno che la vuole; e però dice: Subitamente là ond’ei la svelse; cioè Virgilio, in quel giunco. E qui finisce lo canto primo.

Note

  1. Avale significa ora. E.
  2. Il C. M. prevede; - ed il nostro previde alla maniera latina. E.
  3. C. M. quine
  4. C. M. della materia soza
  5. C. M. significati
  6. C. M. portonno
  7. Cognove; ora meglio conobbe, ma derivato dal latino cognovit. E.
  8. Nolliene; in cambio di non liene per una certa liscezza di lingua. E.
  9. C. M. fu interrupto lo giuoco per riverenzia
  10. C.M. due liste, l’una
  11. Deno piegatura naturale, venuta dalla giunta del no alla terza singolare . In parecchi luoghi di Toscana si pronunzia tuttavia: dano, fano, stano. E.
  12. C. M. benivolenzia, acciò che sia inchinevole
  13. C. M. dov’elli
  14. Secondo il C. M. si è corretto - puone la risposta che -
  15. C. M. al presente.
  16. C. M. quelle
  17. C. M. non li è
  18. C. M. o offuscato,
  19. C. M. fondato in terra per suo nutricamento,
  20. C. M. contrastano
  21. U’; ove, dall’ubi de’ Latini, oggi concesso ai poeti. E.
  22. C. M. quando prima
  23. C. M. domandò,
  24. C. M. le cose corporali;
  25. C. M. si lassa levare,
  26. C. M. si spessa
  27. Amburo vale ambedue, dal genit. lat. amborum, come loro da illorum. E.
  28. C. M. la speranza
  29. C. M. mai non tornano,
  30. C. M. intrò nello
  31. C. M. sciolse quel grado
  32. C. M. la verità
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