Comedia di Iacob e Ioseph/Atto secondo

Atto secondo

../Atto primo ../Atto terzo IncludiIntestazione 26 novembre 2020 25% Da definire

Atto primo Atto terzo

[p. 168 modifica]

ATTO SECONDO

Nel quale tratta come un messo, detto Sopher, portò la vesta di Ioseph a Iacob suo padre, e del lamento ch’el fece, credendosi che Ioseph fusse morto.

SCENA I

Sopher nunzio e Iacob.

Sopher.   S’io penso bene a quel che ho promesso,

di portar a quel vecchio questa vesta,
io son di male nòve un vero messo,
     perché porto imbasciata oscura e mesta;
e se Dio non l’aiuta, a me giá pare
vederlo in man di morte manifesta.
     O invidia, che nimica del ben fare
sempre mai fusti e causa di ruina
prima nel mondo, a te mi vo’ voltare!
     Tu sola sei la madre e la regina
di tutto il mal che in terra si sostiene,
di vita, fama e d’ogni ben tapina.
     Tu sola sempre affliggi l’altrui bene:
se vedi in altri sanitá e bellezza,
di questo una ferita al cor ti viene.
     Se virtú vedi in altri ovver ricchezza,
questo t’è ancor ferita in mezzo al core;
cosí se vedi nobiltá e fortezza,

[p. 169 modifica]
     se grazia vedi, se potenza e onore,

tutti son tagli e punte nel tuo petto:
ogni altrui bene a te porta dolore.
     Tu sei com’un che in publico conspetto
ne vada nudo, e che ciascuno il batte:
cosí ’l ben di ciascuno è a te in dispetto.
     O come quel che ’l mal de li occhi abbatte,
che ogni raggio, splendor, colore o luce,
ogni bel lume il suo veder combatte:
     cosí a te avviene, e questo è che produce
l’odio e l’insidie, e l’altre tue sorelle,
fraude e prodizion, che morte adduce.
     E proprio fai come le canterelle,
che a le spiche ben piene e dilettose
t’attacchi e rodi, quanto piú son belle.
     Orsú, non piú: perché hanno avuto esose
la grazia e la virtú del giovinetto
li soi fratelli, e l’altre bone cose,
     l’hanno venduto: e mándami ad effetto
che ’l padre creda che ’l garzon sia morto,
per ricoprir con questo il lor difetto.
     Io li ho promesso farlo, e cosí porto
quest’amara novella. Ma io lo vedo,
che con soi servi qua si sta a diporto.
     Forsi aspetta il figliol, si com’io credo,
ma sua speranza muterassi in tòsco,
come con esso il mio parlar procedo. —
     Iacob, essendo l’aere oscuro e fosco
per il mal tempo, in su ’l far de la sera,
io ritrovai l’altr’ieri lá pel bosco
     questa vesta per terra, la qual’era,
si come vedi è ancora, insanguinata:
non so se l’è stracciata o se l’è intera.
     Vedi se fusse mai di tua brigata:
se l’èo non è de’ toi figliol, la guarda.
In questo modo a punto io l’ho trovata.

[p. 170 modifica]
Iacob.   O morte, che per me sei troppo tarda,

o morte pel figliol mio troppo presta,
o morte a’ danni mei troppo gagliarda!
     Questa è del dolce mio figliol la vesta,
questa è del mio figliol l’amara spoglia,
questa è del mio figliol l’insegna mesta.
     Si, che è la vesta sua, ma mia la doglia:
si, che è la vesta sua, mia la tristezza:
si, che è la vesta che ogni ben mi spoglia!
     Oh cruda fiera piena di durezza,
oh cruda fiera pessima e spietata,
oh cruda fiera ornata d’ogni asprezza!
     Del mio Ioseph la carne hai divorata,
del mio Ioseph, mio sangue e mio riposo,
del mio Ioseph la vita hai consumata!
     Figliol mio bello, dolce e grazioso,
figliol mio, a’ mei precetti obediente,
figliol mio, non altier, non disdegnoso,
     figliol mio, tutto grato e reverente,
figliol mio, albergo de la mia speranza,
figliol mio puro, semplice e innocente,
     de la dolcezza tua la ricordanza
sempre fissa l’arò nel tristo core,
per tutto il tempo ch’a mia vita avanza;
     sempre al tuo caro nome farò onore,
dolce et amara sempre la memoria
di te sera, ma sempre con dolore!
     Vo’ che ’l pianto e il dolor sia la mia gloria,
e il sempre ricordar tua leggiadria
sera la mia canzone e la mia istoria.
     Tu, vesta, c’hai coperto quella pia
persona santa del mio car figliolo,
voglio che sempre sii mia compagnia.
     Quando con te serò ristretto solo,
forsi che il rimirarti e il lacrimare
qualche conforto porgerá al mio dòlo.

[p. 171 modifica]
     Ma questa vesta mia vo’ ben squarciare,

che a la fera novella meco è stata:
non voglio questa vesta piú portare.
     Ma d’un aspro cilicio circundata
vo’ che sia la mia carne, fin che incenere
per morte, che m’è stata troppo ingrata,
     poi che m’ha tolto quelle membra tenere:
queste seran di lor l’ultime esequie,
e star dolente nel cilicio, e cenere.
Sopher.   Non vo’ che ’l spirto mio pigli piú requie,
non vo’ dare al mio fallo perdonanza,
quest’animo non voglio che piú requie;
     poi che ho commesso tanta disleanza,
che a questo pover vecchio infortunato
arò posto il dolor sempre in usanza.
     Qual cagione m’ha indutto a aver pigliato
l’impresa di portar nova si acerba,
farmi compagno de l’altrui peccato?
     Non era il meglio starmi lá tra l’erba
con le mie pecorelle, ove da colpa
l’anima alquanto libera si serba?
     La conscienza istessa ora m’incolpa
che ho dato al meschin padre tanto affanno:
il dolere o il pentirmi non mi escolpa.
     E l’ho fatto con fraude e con inganno,
per compiacere a quei miser fratelli,
che son stati cagion di tanto danno.
     O Dio immortai, ti prego non in’appelli
di questo fallo mio nel tuo iudizio,
non mandar sopra me iusti flagelli!
     ch’io sento nel mio cor tanto supplizio
del dolor di Iacob e del suo pianto
pel figliol perso, e poi del mio flagizio,
     che temo e son commosso tutto quanto
et altro che dolermi non farò.
Perdonami, Signor mio iusto e santo:
     mai piú contento al mondo viverò

[p. 172 modifica]

SCENA II

Siban solo.

     Non posso per pietá star piú lá drento

a udir di questo vecchio il lacrimare,
e sue parole e il crudo suo lamento.
     Da ieri in qua che venne a presentare
quel fiero messo del figliol la vesta,
non ha potuto mai il meschin posare.
     La cenere s’ha posta in su la testa
e sotto il vestimento in su la carne
s’ha fatto d’un cilicio sopra vesta.
     La spoglia del figliol non sa che farne,
ché dui contrari effetti par ne prenda:
par che a vederla piú il dolor s’incarne,
     par che a vederla piú conforto renda.
Or la fugge, or l’abbraccia, or stringe, or basa
il cor d’ognun che ’l vede par ch’offenda.
     Delibro star un pezzo fòr di casa!

SCENA III

Sopher Solo.

     Poi ch’èri lassai Iacob, pur un punto

mai son posato, e mai mi poserò,
per fin che a’ soi figlioli i’ non sia giunto.
     Mi sa mili’anni! e s’io li troverò,
le lacrime del padre e il gran periculo
di morte pel dolor li narrerò.
     Forsi ch’intenderanno questo articulo;
mossi a pietade, ancor s’ingegneranno
di consolarlo di qualche adminiculo.

[p. 173 modifica]
     Non so se dove li lassai seranno,

o se piú inanzi ancor serán tirati.
Ma piú ch’io non stimava appresso stanno:
     io vedo che in quel pian son ragunati.

  (Sopher vede li figlioli di Iacob e dice):

     Trista novella porto, o mei patroni:
novella di periculo e peccato.
Attenti state, prego, a’ mei sermoni.
Iuda.   Di’presto che cos’è: ci hai spaventato!
Abbrevia e la tua lingua fa’ sia presta:
di’ se le cose sono in bono stato.
Sopher.   La cosa quale io porto infine è questa:
portai, come sapete, a quel dolente
vecchio di vostro padre quella vesta.
     Cosi come la vide, incontinente
lui la conobbe e li occhi al cielo alzò,
chiamando Morte molto amaramente,
     con tanto pianto e doglia, ch’io non so
com’anco a lacrimar non mosse i sassi:
io, per pietá, con me piú il cor non ho.
     Le membra e li occhi eran del pianger lassi,
e commutato, qual d’un morto, il volto:
spesso parea che drento el se accorassi.
     Chiamava Ioseph, e ricorda vai molto,
e squarciandosi i panni, ebbe a affirmare
che infin che ’l fusse de la vita tolto,
     in cenere e in cilicio volea stare;
e credo che sua vita abbia a esser corta,
per quanto il mio iudicio pò estimare.
Ruben.   El sera ver, se alcun non lo conforta,
afflitto vecchio, solo senza i soi,
che ha perso quel figliol ch’era sua scorta!
     Su presto consultiam, deh dite voi,
cari fratelli mei, dove noi siamo
voi l’intendete: or provvediamo noi.

[p. 174 modifica]
     Dubito, per un sol, dui non perdiamo,

e però dico il mio parere, e presto,
che tutti insieme a consolarlo andiamo;
     ché assai maggior peccato ancor fia questo,
appresso a quel che abbiamo giá commesso,
lassare il padre in caso si funesto.
     Non si de’ un mal coprir con altro eccesso,
ma reparar si de’, quanto è possibile,
e farlo lieve quanto sia permesso.
     Ch’el desidri vederci, el è credibile,
e però andiamo insieme a visitarlo
in tanto caso, che per certo è orribile.
Iuda.   Quel che dice Rubén è da lodarlo,
per trarlo di sospetto e far il debito:
e se s’ha a fare, è meglio presto farlo.
Simeone.   Si come dice Iuda, il quale io seguito,
questa cosa fará ch’ogni sospetto
da noi levando, el ci dará piú credito;
     giá lui non crederá ch’altro rispetto
ci meni a lui, che dargli alcun conforto:
pure al parer de li altri i’ mi rimetto.
Zábulon. Anch’io a fare il medesimo vi esorto,
ché l’è debito nostro, e non si neghi.
Andiam pur presto, perché il tempo è corto.
Ruben.   Andiamo adunque. Udite: ognuno alleghi
ragione che lo induchi a pazienza;
e poi a confortarsi ancora il preghi
     con qualche esemplo, con qualche sentenza.
Ciascun di noi, quanto piú pò e piú vale,
metta mano, se l’ha, a la sua eloquenza.
     Giá questa cosa è ancor ben naturale
ch’un, per savio che ’l sia, se ha passione,
bisogno ha sempre mai de l’altrui sale;
     perché non basta a intender la ragione
un che da un qualche affetto ben sia oppresso,
ma aver sòl sempre falsa opinione.

[p. 175 modifica]
     Però convien che d’altri gli sia impresso

il vero ne la mente e quel che ’l dice
bisogna il dica chiaro e ben espresso.
     Ecco ch’io’l vedo lá. Padre infelice,
ché siam diece figlioli e congiuriamo
ciascuno ad ingannarlo, e pur non lice!
     Dio voglia che la pena non portiamo!

SCENA IV

Ruben con li altri nove fratelli, sono venuti per confortare Iacob suo padre.

Ruben.   A te con reverenza c’inchiniamo,

diletto padre nostro e reverendo,
e debita salute ti rendiamo.
Iacob.   Dolor, miseria, non salute intendo.
Ben volentier vi vedo, ma salute
esser piú in me non pò: questo comprendo.
Ruben.   Padre, noi ti preghiam che non rifiute
il nostro salutar: ti fia amorevole.
Cosi il nostro gran Dio ti salvi e aiute!
Iacob.   Com’esser pò piú in me cosa amorevole,
che il mio Ioseph ho perso, il mio diletto,
che m’era solo tenero e amorevole?
     Dio grande, immortale e benedetto,
laudato pur sia sempre, ma Ioseppe,
che piú non gli è, mi cava il cor del petto.
     Diletto figliol mio, che tanto seppe
temermi, amarmi e seguitar mia voglia,
che dispiacer da lui mai non receppe!
Ruben.   Avemo inteso, padre, la tua doglia,
e il lacrimar continuo che tu fai,
ch’esser non pò ch’ancor a noi non doglia:

[p. 176 modifica]
     ma se ’l nostro parlar tu ascolterai,

che figlioli ti siamo e reverenti,
forsi che ’l tuo dolor mitigherai.
Iacob.   Figlioli, se voi séte obedienti,
di consolarmi voi non parlarete:
basta che nel dolermi io mi contenti.
     Il dolersi, io non so se vo’ ’l sapete,
sòl dar conforto ai miseri e vaghezza:
lassatemi doler, se voi volete.
     Il pianto, il lacrimar è mia dolcezza:
da questo prender voglio il mio conforto,
questo fia il cibo de la mia vecchiezza.
Ruben.   Faremmo a la natura noi gran torto
di non ti consolar con la ragione,
se ben Ioseph per sua disgrazia è morto.
     Se de le cose umane hai cognizione,
come certo hai per longa esperienza,
debbi anco aver la vera opinione,
     che ai casi umani non è sapienza
che basti a provvedere: onde se avvengono,
rimedio altro non gli è che pazienza.
Iacob.   Pazienza ha ciascun se i casi vengono,
perché far altro par che non si possa:
ma non per questo dal dolor s’astengono.
     Quel mio dolce figliol, mia carne et ossa,
s’io il potessi acquistar, porria da parte
la pazienza: or no, ch’io non ho possa.
     Ognun a l’util suo sempre ha qualch’arte,
e sempre ai propri affetti ogni omo è intento,
e da sé il mal quanto piú pò diparte.
     Se a tutto quel che avvien provvedimento
potesse Pomo far, non seria il nome
di pazienza, e causa di lamento;
     ma perché Pomo ha ’l male, e non sa come
disvilupparsi, mai ’l cor suo si volta
a pazienza et a portar sue some.

[p. 177 modifica]
Ruben.   Per questo tuo parlar non è ancor sciolta

la mia ragione, o padre, io ti confesso,
che pazienza sia per forza tolta;
     e in questo caso noi siamo qui adesso,
che per necessitá forza è che pigli
la pazienza a consolar te stesso.
Iacob.   La pazienza io l’ho senza consigli,
perché patisco: ma non voluntaria,
perché morte ha ’l mio figlio ne li artigli;
     e pur, poi che a portarla è necessaria,
si stia la pazienza in compagnia
col pianto insieme, ché non gli è contraria.
Simeone.   Come dice Rubén, io laudaria
che pigliasti conforto in questo affanno,
lassando in tutto la malinconia.
     Poi che le cose umane cosí vanno,
e riparo non gli è, giá non si vòle
col continuo dolersi accrescer danno.
Iacob.   Simeon, questo è pur quel che mi dòle,
e questo è quel che è causa al mio lamento,
che riparo non c’è, se morte il tòle:
     ché ’l morir è un commune detrimento,
ma non potere aver quel che mi è tolto,
questa è la causa che mi dá tormento.
Levi.   Con reverenza, padre, sempre ascolto
le tue parole, ma dirò ben che
del tuo lamento mi stupisco molto.
     Tu hai tanti figlioli intorno a te,
quanti noi siamo, e che per un ti voglie
tanto dolerti, non par bono a me.
Iacob.   O Levi, il mio dolor giá a te non toglie,
né a li altri, grazia o debito paterno:
questo argumento dal tuo cor discioglie.
     Questa legge è ordinata giá ab eterno,
che son gradi d’amore, e il dispensarli
a quello sta che è capo nel governo.
     P. Collenuccio, Opere - n. 12

[p. 178 modifica]
Iuda.   Padre, convien che ’l vero ancor io parli.

Fiera presa nel laccio, o al visco uccello,
quanto piú tira e sforza per schivarli,
     piú si stringe et intrica e invischia anch’ello:
cosí chi piú si dòl, piú ancor s’offende,
né il mal si leva, e intricasi il cervello.
Iacob.   Questa similitudine si intende
in quello, o Iuda, che con la natura
contender véle, e il vero non comprende.
     Io non ribello a quel che ’l ciel procura:
ma, Dio laudando, l’animo nutrico
di questo pianto, che mi è dolce cura.
Isachar.   Comprendo che anch’io’ndarno m’affatico
di confortarti, o padre, pur dirò:
non prender il parlar mio per oblico.
     Se pur per te quietarti non ti vo’,
almen per noi conserva la tua vita,
che a noi bisogna: e fa’ come tu po’.
Iacob.   Isachar, Isachar, si ben fornita
è l’etá vostra d’anni e di virtute,
che far potete ormai senza mia aita.
     A quello era bisogno mia salute,
che per la etade tenera e novella
non avea ancor le forze sue compiute!
     Zábulon. Io dirò una sentenza antica e bella.
Padre mio car, non par che si convegna
cosí dolersi a un uom che in virtú eccella;
     ché non par la mestizia cosa degna
d’un magnanimo cor. Però direi
che la lassasti come cosa indegna.
Iacob.   Ti escuso, Zábulon, perché tu sei
giovine ancora e in questo poco esperto:
giá non son come i toi li pensier mei.
     Io vivo inanzi a Dio, chiaro et aperto:
in magnanimitá, laude terrena,
(s’io non offendo Dio) biasmo non merto.

[p. 179 modifica]
Dan.   La morte, o padre, ognuno a par ne mena:

questo morir si eguale doveria
levar de’ morti ogni pensiero e pena.
     Però dovresti, per sentenza mia,
di quel ch’è a tutti eguale ancor passarti,
com’un che va per la commune via.
Iacob.   O Dan, il mal commun, per dichiararti,
non tól del proprio male a alcun la doglia,
perché il mal tuo con altri non comparti.
     Che a me, se morte a molti i figliol toglia?
Chi con molti arde, men però non arde.
Il proprio mal mi dòl, dolga a chi voglia!
Neptalin.   A una cosa ti prego che risguarde,
padre onorato mio, che se’ in vecchiezza,
che sola è infírmitade, se ben guarde.
     Con reverenza, a me non par saviezza,
un mal che per natura è in sé molesto,
voler ancor cargar d’altra gravezza.
Iacob.   Tu parli, Neptalino, assai modesto
e se il dolore a me cibo non fosse,
seria ’l consiglio tuo savio et onesto.
     Ma poi che l’alma mia con sé portosse
il dolce Ioseph, piú dolor non sento,
anzi dá forza ai nervi, polpa et osse.
Gad.   In questo, o padre mio, non ti consento.
Tu sai che morte è un sonno, un passo, un varco
et è fin d’ogni pena e di tormento:
     non esser dunque al consolarti parco,
poi che felice è lui e fòr d’affanni.
Se del suo ben ti dòl, tu gli fai ’ncarco.
Iacob.   Del suo ben non mi dòl, ma de’ soi danni,
che di sua dolce compagnia sia privo
ne la sua bella etá, ne’ soi primi anni.
     Io so, Gad, che pur morto, el è ancor vivo,
e per la sua innocenza ancor felice:
però il mio pianto non pò avere a schivo.

[p. 180 modifica]
Asser.   Se parlar, padre mio, cosí mi lice,

essendo il padre Dio di tutto autore,
forsi che ’l tuo dolerti a te disdice:
     ché tolto avendo Isep’a te in sul fiore,
par che del suo iudicio ti rincresca.
Guarda che in questo tu non facci errore;
     guarda che un’altra doglia non ti accresca
e questo lamentarti sia cagione
che per altro iudicio il pianto cresca.
     Io ho piú volte udito il tuo sermone,
che quel che forno fa, quel che patisce,
tutto è voler di Dio e promissione;
     et essendo cosí, che referisce
a lui quel che ne avvien di tollerare,
per questo il tuo dolerti ormai finisce.
Iacob.   Assér, l’è iusto e santo il tuo parlare,
e parli il vero: et io cosí ringrazio
la summa provvidenza e ’l suo operare.
     Né per far contra Dio cosí mi strazio,
che ’l tutto sempre al suo bon fin riduce:
ma del mio pianto mi contento e sazio.
     La memoria di Ioseph, che riluce
nel mio intelletto sempre, altro non chiede
e questo è quel ch’a lacrimar m’induce.
     O dolce lacrimar! poi che non vede
l’occhio mio Isep’, almen con questo effetto
la mente mia con l’anima sua sède.
     Dolor, pianto e lamento a me è diletto,
e se m’amate, tòrmi non cercate
quel che sol mi conforta il triste petto.
     Le ragion che per voi sono allegate
da tempo, si, le so, ma da grandezza
del doloroso amor son superate.
     O Ioseph, figliol mio, la tua dolcezza,
o Ioseph, figliol mio, la tua beltade,
o Ioseph, figliol mio, tua giovinezza,

[p. 181 modifica]
     mertan, si come laude, ancor pietade,

mertano il loco in questa mia memoria,
poi che non ha sepulcro tua bontade.
     O Padre eterno, autor del mondo, gloria
e laude a te sol sia, tuo sia l’imperio,
tuo sia l’onor, virtude e la vittoria!
     Non piango Ioseph giá per tuo improperio,
tu il vedi e ’l sai, ma piango perché sia
de la sua assenza il pianto refrigerio.
     Io ti ringrazio con la mente pia:
tu il désti, tu l’hai tolto e sei padrone;
tuo era, tuo fu sempre e tuo ancor sia.
Ruben.   Poi che non c’è, né vai con te ragione,
noi ti preghiam che i nostri preghi ascolti,
qual ti porgiam curvati in ginocchione.
     Preghiam che ’l pianto ormai in iustizia vólti,
preghiam, ché pur figlioli ancor noi semo,
che i toi begli occhi sopra noi rivolti.
     Impetrar da te grazia pur dovemo,
non esser verso noi piú si severo,
ch’altro che la tua vita non volemo.
     Questo dolor si grave e tanto austero,
non dubitiam che a morte non ti affretti:
lévati, padre, via questo pensiero.
     Di te bisogno abbiam; però, ristretti
insieme, ti preghiam che ne rimande
da te contenti, lieti e benedetti.
Iacob.   Benedetti voi siate, e di su mande
Dio sopra voi sua grazia, ma accettare
io non intendo giá vostre dimande.
     Andate a la campagna a procurare
11 vostri armenti, e la vostra sustanza
cercate senza fraude conservare.
     Io voglio questo tempo che m’avanza
col mio Ioseph passar, rememorando
la sua dolcezza senza piú speranza,

[p. 182 modifica]
     e per lui pianger sempre: e da poi, quando

il precetto divin mi chiamerá,
allora ancor dolente e lacrimando,
     l’anima mia lá giú discenderá,
dove i nostri maggiori ancor son scesi,
e li il suo Ioseph, credo, troverá.
     Non sono, o Padre eterno, da no’ intesi
i toi santi misteri e sacramenti,
che in la tua Trinitá sono compresi;
     ma una sol grazia prego mi consenti,
che la pura alma del mio car figliolo
in loco posta sia che si contenti.
     Questo ti chiedo, Padre unico e solo,
per la santa promessa che facesti
a l’avo Abramo, che fu senza dòlo:
     per quel che al padre Isach tu promettesti,
per quella scala eccelsa, alta e mirabile,
che veder per tua grazia mi facesti.
     Eterno, magno Iddio, santo, ineffabile,
esaudí il servo tuo per tua bontate:
ti ricomando il mio Ioseph amabile.
     Voi, diletti figlioli, ormai ne andate:
io tornerò al mio solo esercizio,
nel mio secreto, in casa. A Dio voi siate!
Ruben.   Gran peccato per certo e gran flagizio
è stato il nostro, a dare in questa etade
al vecchio padre nostro tal supplizio!
     Credo che será breve in veritade
la vita sua, e noi cagion saremo
che mòra, o cada in qualche infirmitade.
     Se Dio non è clemente, anche no’ aremo
per questo gran peccato alcun flagello,
et indarno dappoi ci pentiremo.
Dan.   Ch’era da fare, in fin, caro fratello?
Tu conoscevi, e noi conoscevamo,
com’era di Ioseph il suo cervello.

[p. 183 modifica]
     La grazia, quale aver noi dovevamo,

come maggiori e piú sufficienti,
lui la toglieva e noi la perdevamo:
     per questo ancora noi non fummo lenti,
come s’offerse a noi l’occasione,
mostrar che intendevamo so’ andamenti.
     Mo che l’è fatto, non seria ragione
che noi non ci accordassimo a tacere,
ché seguiria peggior condizione.
     Basta che ’l padre nostro, giá al vedere,
noi non incolpa, e il vizio ch’è coperto
vizio non è, secondo il mio parere.
     Dura cosa ancor era pur per certo
che con quelli so’ insomni dominasse:
quest’era tradimento troppo aperto.
Ruben.   Parlar di quelli insomni vo’ che lasse,
perché non è ragion sufficiente,
che questo mal per noi si perpetrasse;
     perché, se- vói intender sanamente,
li insomni tutti giá non son da credere,
ché ne son di piú sorte intra la gente.
     Perché alcun son, che sogliono procedere
da cure e da pensieri et altri effetti,
da crapula e da vin, che i fan succedere:
     chi sopra questi fésse i soi concetti,
lui prima vano, e il somnio poi seria,
nel creder che da questi il ver s’aspetti.
     Alcun nascon d’umor, malinconia,
collera, flegma e sangue, che presentano
imagin varie ne la fantasia:
     a questi i mendicanti sol consentano,
ma per pronosticare il ver son tardi,
però che li atti uman non representano.
     Alcuni insomni son di gran riguardi,
se vengon per celeste infusione:
questi son veri e mai non son busardi.

[p. 184 modifica]
     E s’erano di tal condizione

quelli di Ioseph, creder si doveano
e il dispregiarli non era ragione.
Dan.   Se da cure o da vino o umor veneano,
o se ’l ciel li mandava, alcun di nui
non lo sapea, però non si credeano.
     Ma per dispetto nostro el dicea lui,
e come ambizioso, avea il pensiero
farsi da me adorare e ancor da vui.
Ruben.   Io non credo ch’el fusse tanto altiero,
ma ancor ti dirò questo arditamente,
che a verno errato, ancor che ’l fusse vero;
     e vogliol dimostrare apertamente,
con tal ragion si chiara et efficace,
che non potrai risponderli niente.
     Ascolta dunque un poco se ’l ti piace.
Di due cose fia l’una: o falsi o veri
sono li insomni, e qui la cosa giace.
     Se son li insomni falsi e non sinceri,
a che curarli? a che voler punire,
che son cose da vani e da leggeri?
     E se son veri, non pòi contradire
che quel che ’l ver insomnio a alcun dimostra,
prudenza umana non lo pò fuggire.
     E però iniusta è stata questa nostra
congiura inverso il pover giovinetto,
che parlò puro e non a iniuria nostra.
     Per questo dico che ogni gran difetto
vien da ignoranza, e non stimar le cose
secondo il vero lume d’intelletto.
Neptalin.   Però che queste cose son noiose
a ricordarle, poi che fatte sonno,
non sen dica altro, tengansi nascose.
     Le cose fatte ritornar non ponno,
e biasimarle mo tutta è pazzia,
poi che al principio commendate fònno.

[p. 185 modifica]
     Ché se intendesse mo nostra follia

il vecchio padre, forsi per dolore
meritamente ci malediria.
     Però il parlarne piú sarebbe errore:
Ioseph al suo cammino se n’è andato,
si ch’esser piú non pò nostro signore.
     Vadane pure in lá, servo pagato,
e vada insomniando per l’Egitto,
tra cocodrilli, e li si faccia stato!
Asser.   Si, si, vada pur lá a acquistare il vitto
con l’opere servii, tra quella gente
che al divin culto non ha il senso dritto:
     ove adoran l’uccello che ’l serpente
piglia e divora, e ancor la gatta e il cane
e l’idolo del toro imprimamente
     e la cepolla e l’aglio e cose strane
tengon per dio; lá vada insomniando
tra quelle gente pien di cose vane!
Gad.   Non averá chi ’l vada lusingando,
o chi ’l tenghi in favore et in delizia!
bisognará che ’l vada lavorando.
     Non ará d’ogni cosa la primizia,
e se dormir vorrá, mangiare o bere,
come qui non ará tanta divizia!
     E’ mi par proprio tuttavia vedere
come gli sará stranio l’aspettare
e le usate carezze non avere:
     bisognará per forza che li impare!
Stia pur da longe e faccia come el vòle,
pur che di noi non s’abbia piú a impacciare!
     Ma vedo che ’l s’abbassa molto il sole,
e l’ombre diventar voglion maggiori:
par pur che molto presto il giorno vole.
Ruben.   Andiamo ai nostri armenti oramai fòri,
ché se la notte vien, per boschi e sassi
non abbiam per l’oscuro a fare errori.

[p. 186 modifica]
     Andiam pur presto e mutiamo i passi,

che ci troviam nel piano in lochi aperti,
prima che le montagne il sol trapassi.
     Io vorria ben però fussimo certi
ove i nostri pastor si sian fermati:
pur che non siano in lochi aspri e diserti!
     Non credo si seran però allungati
di Dottain perché è bona pastura,
e li seranno ancor bene alloggiati:
     ché la campagna è erbosa e ben secura.

SCENA V

Putifaro, duca di Faraone, Fisidio trombetta,
Madianiti mercatanti, Ioseph, Sesostri.

Putifaro.   Comanda, come ho detto (e fa’ non falli),

che ognun stia in ponto, nel suo alloggiamento,
con li suoi carriaggi, armi e cavalli.
     Cosi fa’ ancor che tutto l’armamento,
machine, vittuaglia e munizione,
stian carche, in ponto, senza un mancamento;
     che, come il gran re nostro Faraone
la bocca moverá per comandare
il corno e la trombetta al levar sòne,
     ciascuno a l’ordin suo s’abbia a inviare
senza dimora alcuna, e le bandiere
nostre vittoriose seguitare.
     Niun pò piú allegar di non potere:
dinar son dati e vittuaglia in copia,
et hanno avuto tempo a provvedere.
     Se vorrá, come credo, in Etiopia
far la sua impresa, avremo la vittoria,
guadagnaremo e cacciarem l’inopia.

[p. 187 modifica]
Fisidio.   Al gran re Faraon sia laude e gloria!

Questi precetti toi seran forniti:
non dubitar, ch’io li ho ne la memoria.
Mercatanti.   Noi siam per nazione ismaeliti,
inclito duca, e semo mercatanti,
pur per patria però madianiti.
     Veniam di Galaád or tutti quanti
con nostre mercanzie, qual volem vendere
qui per l’Egitto e passarem piú inanti,
     se trovarem chi sia che voglia spendere,
a Menfi, a Tebe, Arcando et a Bubasto:
et altre terre si vorranno attendere.
     Chi vói di nostre robbe, a gusto, a tasto
e a prova damo, e tutte iustamente,
e non ci dilettiam di far contrasto.
     Portiamo rase e spezie d’oriente,
e statte, che è la mirra preziosa,
che da sé ’l segno stilla primamente
     senz’alcun taglio, e però è graziosa.
De l’altre robbe abbiam se ne vorrai,
piacer ti farem sempre d’ogni cosa.
Putifaro.   Vi vedo voluntieri, e sempre mai
a tutti i piacer vostri serò pronto,
e de le offerte vi ringrazio assai.
Mercatanti.   La tua virtú, qual noi sapemo a ponto,
signor, c’induce che una mercanzia
ti vogliam vender, se ti mette conto.
     Venendo in qua, facemmo nostra via
per Canaan, traverso la pianura
di Dottain, vicino a la Soria.
     Li comperammo un servo, oltra misura
bello, gentil, leggiadro e costumato,
quanto un altro potesse far natura.
     Pensando che Paresti forsi a grato,
condurlo qui a mostrarlo a tua Altezza,
come al piú degno, abbiam deliberato.

[p. 188 modifica]
Se lui ti piace, come i toi l’apprezza,

ché quel mercato tra noi si fará
che fia in piacere a la tua gentilezza.
Fátti in qua, cananeo. Vedi com’ha
gentil aspetto umano, e con qual cera,
da giovine ben nato, altiero sta.
Putifaro.   Bon aspetto certo ha, bona maniera,
e credo che risponda ancor l’effetto,
perché ha di nobiltá l’insegna vera.
Rispondi a noi, garzon, senza sospetto,
com’ è il tuo nome, di chi nato e donde,
e quel che saprai fare, s’io ti accetto.
Qual cagion lo ritien, che non risponde?
Non lacrimar, che se’ in loco di pace.
Perché tanta mestizia il cor confonde?
Ioseph.   (O Dio dei padri mei santo e verace,
tu intendi il mio secreto e il mio desio;
governa il mio parlar, come ti piace).
Ioseph, o duca eccelso, è il nome mio:
la patria è Canaán, mio genitore
detto è Iacob, un vecchio iusto e pio.
Se Dio vorrá ch’ io ti sia servitore,
venduto da costoro, un sol mestiero
so far, ch’è l’obedire il mio signore.
Putifaro.   Questo basta, non piú. Parlar con vero
e da prudente è questo. Ora il mercato
da mo sia fatto: non ti dar pensiero.
Sábaco, fa’ che tu abbi numerato
tutto quel prezzo che domanderanno
questi mercanti bon, ché l’han mertato.
E se bisogno d’altra cosa aranno,
non gliel negare e fa’ che sian serviti,
ché elli ancora ben servito m’hanno.
Andate, o cari mei madianiti. —
Sesostri, Ioseph vestirai di panni,
al modo che li egizi son vestiti.

[p. 189 modifica]
     Poi qui il rimena; acciò che non s’inganni,

vo’ ch’elio intenda la mia intenzione
e che se gli usi in questi soi primi anni.
     Credo, secondo la mia opinione,
che bene i mei dinari averò spesi
in questo servo, che ha discrezione:
     il suo stare, il pudore e li occhi accesi,
e le parole in lui mostrano ingegno,
e tutti i gesti soi son bene intesi.
Sesostri.   Ecco Ioseph, signor, ch’io ti consegno
al nostro modo egizio vestito:
d’esser nato fra noi certo par degno.
Putifaro.   Ioseph, io vo’ pigliar di te partito,
qual merta tua maniera e tua presenza,
perché esser da te spero ben servito.
     Però vo’ che tu intendi mia sentenza,
ché l’ammonirti non par necessario,
essendo, in quest’etá, di tal prudenza.
     Io ti deputo sol mio secretano
de’ mei concetti, e la mia grazia arai,
e vo’ che in la mia casa sii il primario.
     La robba al tuo parer dispensarai,
ministrando e servendo a mia persona:
será ben fatto quel che tu farai.
Altro non dico, perché la tua bona
natura il resto ti dimostrerá.
Ciascuno intenda quel che ’l mio dir sona,
e faccia quel che lui comanderá.