Colombi e sparvieri/Parte I/VIII

Parte I - Capitolo VIII

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VIII.


L’indomani all’alba partii senza averla riveduta e per settimane e mesi vissi in una specie di ebbrezza, in una illusione dolce e profonda come un vero sogno.

In estate ritornai e continuammo ad amarci in segreto.

Dopo il suo matrimonio Banna abitava l’ala destra della casa completamente separata dal centro e dall’ala sinistra, e spesso la serva andava da lei per lavorare. Se il vecchio era assente, Columba sola in casa non esitava a ricevermi.

Abbiamo passato intere notti assieme, quando il nonno era all’ovile e la serva di Banna a fare il pane.

Anche all’interno la casa è misteriosa: coi suoi anditi, gli stretti passaggi, i ballatoi, i ripostigli, sembra una costruzione medioevale. [p. 77 modifica]

Una notte Columba mi fece vedere uno stanzino segreto.

— Qui il mio nonno stette una volta nascosto sette giorni, mentre la casa era piena di soldati che lo cercavano e lo aspettavano credendo che egli dovesse tornare dalla foresta. Non vedendolo tornare se ne andarono. Durante tutto il tempo che stette bandito egli avrebbe potuto benissimo viver qui nascosto, ma egli amava la campagna. Anche adesso se sta qualche giorno in casa dice che gli sembra di soffocare.

Io amavo aggirarmi con Columba nelle camere basse e nude, affacciarmi con lei al ballatoio ove la prima volta l’avevo baciata. Se qualcuno batteva alla porta trasalivamo tutti e due e ci stringevamo come se un pericolo terribile ci sovrastasse. Il nostro amore aveva un sapore di leggenda.

Ma una sera purtroppo i colpi alla porta si fecero insistenti e furiosi; Columba aprì la finestra ed io sentii la voce di Banna che imponeva di aprire. Allora tentai di saltare dal muro del cortile, ma affacciandomi vidi il marito di Banna coll’archibugio in mano come in attesa d’un ladro.

Rientrai e aprimmo: Banna si precipitò dentro tentando di afferrar la sorella per i capelli. Io difesi Columba che si ritraeva smarrita e Banna a bassa voce per non destare l’attenzione dei vicini di casa pronunziò contro di noi i più sanguinosi vituperii. Columba taceva. Natura chiusa e debole ella non ama la lotta, ma ha la forza straordinaria di dominare la sua collera e di non rivelare mai il suo pensiero segreto. Alle domande e alle ingiurie di Banna rispondevo io solo; la scena era comica e tragica perchè anche il marito era venuto dentro con l’archibugio e a momenti mi guardava torvo pronto a vendicare [p. 78 modifica]l’onore della famiglia, a momenti sorrideva e faceva cenni scherzosi di minaccia alla povera Columba. Infine fu lui a proporre un accomodamento.

— Moglie mia, non senti che egli è pronto a chiederla in matrimonio? perchè ti arrabbi come un verro? Quando egli prenderà la laurea si sposeranno e così avremo un cognato notaio.

Ma Banna sghignazzava accennando con disprezzo la sorella.

— Essa è fatta per esser moglie di un pastore. E il nonno non può vedere i borghesi affamati e non ti vorrà, Jorgj Nieddu; prenditi una borghese puzzolente, e va via di qui, e ringrazia il Signore che non abbiamo avvertito il nonno, perchè se vi sorprendeva lui vi schiacciava le teste l’una contro l’altra. Vattene.

Dopo quest’avventura io decisi di chiedere al vecchio la mano di Columba, e siccome egli teneva molto alle usanze del paese, una domenica mattina mio padre andò in casa dei nostri vicini e sedette davanti al focolare domandando:

— Remundu Corbu, io ho perduta un’agnella che formava l’onore del mio gregge. Era bianca, coi peli arricciati, morbida come la prima neve. Tu che giri per le campagne l’hai vista, per caso? per caso non s’è mischiata al tuo gregge?

— Remundu Nieddu, nel mio gregge ci son tante agnelle, una più bella dell’altra: può darsi che la tua ci sia; bisognerebbe andare a vedere.

E così di seguito finchè entrò Columba. Allora mio padre balzò in piedi e battè le mani.

— E proprio questa l’agnella che cercavo.

Ma prima di dare una risposta decisiva il vecchio domandò sette giorni di tempo; durante questa settimana Columba fu tenuta chiusa a chiave e solo qualche volta io la vedevo attra[p. 79 modifica]verso l’inferriata d’una finestra, come una prigioniera. La mia matrigna origliava alla porta dei nostri vicini, dicendomi che fra Banna e il vecchio si discuteva continuamente: la donna voleva che la domanda di matrimonio venisse respinta con sdegno, mentre il vecchio faceva le mie lodi, ma con ironia, chiamandomi già il «notaio» oppure «su cusino mizadu» (il borghese con le calze).

La vecchia serva confabulava con la mia matrigna.

— Jorgeddu verrà accettato, — diceva con la sua voce ambigua. — Non dubitate, verrà accettato; all’avvenire il Signore penserà.

Ed io fui accolto ufficialmente in casa Corbu come promesso sposo di Columba. Ricominciarono i regali: ma adesso la vecchia veniva a nome del nonno, ed ogni volta io le davo una moneta d’argento, cosa che provocava i suoi ringraziamenti e le sue lodi enfatiche ma non valeva a rendermela veramente amica.

Essa vigilava sempre e non mi riusciva più di trovarmi solo con Columba. Ogni sera andavo a farle visita, ma mi trovavo sempre davanti al nonno la cui presenza mi dava un senso di soggezione e di freddo.

Fra me e lui qualcosa di fatale sorgeva; qualcosa che ci impediva scambievolmente di capirci e di amarci. Egli era intelligente e non si confondeva davanti a nessuno; fin da bambino io avevo ammirato la sua figura, il suo modo di parlare, la forza e l’astuzia che trasparivano dai suoi sguardi e dai suoi gesti, la sua volontà incrollabile di vivere a modo suo; volontà che egli non cercava di nascondere: adesso la mia ammirazione diminuiva di giorno in giorno, lasciando luogo a un vago senso di soggezione, a un senso di avversione e di antipatia. Sul principio [p. 80 modifica]credetti che si trattasse dell’eterno conflitto fra generazione e generazione: egli era vecchio, aveva trascorsa una vita selvaggia; io ero quasi ancora un fanciullo e coglievo ogni occasione per inveire contro gli usi primitivi del paesetto e predicare l’amore verso il prossimo, la giustizia, la pace fra gli uomini.

Il vecchio mi trattava con ironia; pareva mi considerasse come un ragazzo debole corrotto e si divertiva talvolta a beffarsi di me in presenza di Columba.

Spesso mi diceva:

— Finchè non ti levi l’abitudine di portar calze non sarai uomo: chè forse tuo nonno e tuo padre le portavano?

Se Columba interveniva egli si beffava anche di lei.

Seduto davanti alla porta appoggiato al suo bastone d’oleastro grosso e lucido come una piccola colonna, raccontava le sue storie e coglieva ogni occasione per rivolgere a me od a Columba frasi ironiche.

— Uccellino calzato, tu non avresti fatto questo; tu attraversi più facilmente il tuo letto che quello di un torrente straripato.

— Le donne di quel tempo non avevan paura: non erano come la nostra agnellina che cade svenuta se un sorcio attraversa il portico.

Le donne ridevano, e specialmente la mia matrigna: ella mi aveva suggerito l’idea di sposar Columba; adesso che ero stato accettato pareva ne provasse dispetto, e fra lei e Banna e le altre donne del vicinato eran continui pettegolezzi a proposito di noi due fidanzati.

In ottobre ripartii: ma dopo qualche giorno dovetti ritornare perchè una terribile malattia, il carbonchio, uccideva mio padre.

Invece di chiamare subito il dottore la mia [p. 81 modifica]matrigna era ricorsa a zia Martina Appeddu. Quando arrivai mio padre era morto.

Giaceva disteso per terra su stuoie e sacchi, col viso violetto rivolto alla porta; e la matrigna coi capelli sciolti coperti di cenere, in mezzo a un cerchio nero di donne fra cui Banna, Columba e tutto le vicine di casa pallide e macabre come streghe, ululava intorno al cadavere, si batteva la testa alle pareti, si buttava per terra e urlava come un’ossessa. Non dimenticherò mai la triste scena. Rimasi ore ed ore impietrito in un angolo guardando mio padre morto e le donne ululanti. Avrei voluto cacciarle fuori ma non osavo perchè la presenza del cadavere con quel viso violetto che pareva sogghignasse di dolore e di beffe mi imponeva rispetto. D’altronde quei gridi funebri scomposti, d’un dolore folle, mi sembravano talvolta i gridi stessi del mio cuore. Tacevo, ma tutto gridava entro di me.

Portato via il cadavere mi scossi dal mio dolore.

Alcune donne continuavano ad ululare mentre le prefiche di mestiere ricevevano già il compenso: una misura di frumento e una libbra di formaggio. La vedova batteva la testa contro il giaciglio dal quale era stato portato via il cadavere.

Io mi alzai e dissi:

— Adesso basta: tutto è finito.

Ma la scena doveva continuare fino a notte inoltrata: di tanto in tanto la matrigna s’alzava, s’affacciava alla porta dicendo di sentire i passi del marito che tornava dall’ovile; poi urlava chiamandolo. Sembrava pazza ed anch’io sentivo un brivido di follia. Mi alzai una seconda volta e dissi con forza:

— Donne, adesso basta. Andatevene, se no vi caccio via per forza. [p. 82 modifica]La prima a tacere fu Colomba: a poco a poco anche le altre tacquero; alcune si alzarono e la nera ghirlanda fu scomposta.

Solo la mia matrigna continuò ad urlare; e nel suo grido echeggiava non più il dolore per il morto ma l’odio per il vivo.



Zio Remundu mi mandò a chiamare. Sedeva accanto al focolare, in mezzo ad una nuvola di fumo, col suo bastone lucente come una colonna, e non era più nè calmo nè ironico. Sembrava un Dio corrucciato: i suoi occhi verdognoli scintillavano feroci. Banna sedeva sulla pietra del focolare, accovacciata implacabile come l’angelo che accusa i peccati umani alla giustizia divina.

— E dunque, Jorgj Nieddu, perchè hai fatto così?

— Che ho fatto, zio Remù?

— E anche me lo domandi? Hai cacciato via dal tuo focolare le donne che piangevano tuo padre. Puoi vivere così solo tu, come il cinghiale nel salto, per cacciar via così i tuoi simili?

Cercai di scusarmi facendogli capire la mia avversione per certi usi barbari; era come battere la mano contro un macigno con la speranza di romperlo. Egli ridiventò ironico.

— Ah, tu vuoi metter le calze a tutti? Lascia, lascia correr l’acqua per la sua china, e se non vuoi vivere in mezzo a noi vattene nelle città: là troverai gente come te.

— Zio Remù! Ma le donne che ho cacciato via erano prezzolate, ricevevano un tanto per ogni loro strido. [p. 83 modifica]— E tu, quando farai l’avvocato, tu non ti farai pagare per gridare? E ti cacceranno via allora, dal Tribunale o dalla Corte?

Una sorda irritazione mi prese. Gli domandai se si burlava di me, ed egli s’alzò e sollevò il bastone; io balzai davanti a lui gridando:

— Percuotetemi pure, ma cercate almeno di capire quello che dite e che fate.

Columba che fino a quel momento era stata in un angolo a guardarci con occhi spauriti si precipitò in mezzo a noi piangendo; il vecchio abbassò il bastone e ci guardò entrambi con disprezzo.

— Non ho mai detto una parola senza pensarci su sette volte, — gridò rimettendosi a sedere. — così fosse di voi, scemi!

Per non continuare le questioni ripartii subito e lasciai che la mia matrigna disponesse lei dell’eredità di mio padre. Ella si ritirò in una sua casupola, ma si tenne le proprietà del piano superiore di questa stamberga. Quando ritornai la casa era desolata e vuota: io l’animavo con la mia giovinezza ed i miei sogni.

Continuai ad essere il fidanzato di Columba ma col vecchio le relazioni erano sempre tese. Eravamo due mondi che si urtavano a vicenda; egli era il passato, io mi credevo l’avvenire, e Columba andava dall’uno all’altro sballottata come un pianeta fra due astri la cui potenza di attrazione era parimenti grande e terribile.

Ma col passare del tempo mi accorgevo che l’avversione del nonno per me non era l’odio del passato contro il presente: era ancora l’«inimicizia», l’odio di famiglia. Per il vecchio io ero sempre il parente degli Arras, e bastava che nominassi zio Innassiu (del resto io non lo avevo più veduto dopo il famoso giorno delle paci) perchè il nonno diventasse ironico e cattivo. [p. 84 modifica]Ma io continuavo ad amar Columba per pietà; volevo trarla dal mondo ove viveva, mi sembrava che liberando lei dalle superstizioni e dalle miserie che la circondavano avrei cominciato a liberare tutto il mio popolo.

Intanto per continuare gli studi vendevo la mia poca roba: questo mi diminuiva agli occhi dei miei compaesani e si diceva che spendevo i denari per divertirmi. Ogni volta che tornavo in paese mi si guardava con maggiore curiosità e diffidenza.

Columba mi lasciava capire che fra lei e Banna era una lotta continua a proposito del progettato matrimonio.

— Quando tu sei nella città mia sorella mi dice, ogni sera: «a quest’ora egli sarà con le donne indemoniate di quei posti ove si mangia denaro» oppure: «egli ti mangerà anche la cuffia e ti lascerà sola e andrà a divertirsi con altre donne». Ed io allora mi metto sul limitare della porta, guardo la stella della sera come la guardano i prigionieri e piango e piango.

— Dunque tu dài retta alle malignità di tua sorella?

— No, no, cuoricino mio; ma penso giusto che tu sarai un avvocato, un signore, ed io sarò sempre una paesana. Tu ti vergognerai di me.

Invano cercavo di liberarla dalle suggestioni maligne della sorella e del nonno; ella era sempre triste e diffidente. Io soffrivo e quando andavo in quella casa provavo un senso di oppressione come se nei ripostigli e negli angoli bui si nascondesse un nemico pronto a farmi del male.

Ma quando ero nella città sentivo la nostalgia della mia campagna selvaggia e ventosa e ritornavo con gioia alla mia stamberga.

L’anno scorso tornai per Pasqua: da Nuoro [p. 85 modifica]presi a nolo un cavallo e rifeci la strada percorsa la prima volta con mio padre.

Era un pomeriggio d’aprile. In fondo alla valle già coperta d’erbe e di fiori una striscia violacea di puleggio fiorito accompagnava la striscia argentea del ruscello; sullo roccie cresceva il musco novello e da ogni cespuglio, da ogni pietra pareva salisse un soffio profumato. Il canto degli uccellini mi sembrava un grido di gioia affievolito nel silenzio del paesaggio, e mi sentivo così felice che mi pareva di formare una cosa stessa con la natura. Anche il mio cuore fioriva e la mia fronte era luminosa come il cielo.

A metà strada non potei resistere al desiderio di smontare e di sdraiarmi sull’erba.

Anche il cavallino al quale tolsi il freno perchè brucasse un po’ d’erba si scosse tutto, guardò il sole calante e nitrì come per annunziare ai puledri che pascolavano in lontananza che anch’esso almeno per un momento era libero.

Libero! Anch’io, almeno per un momento, ero libero! Mi tolsi le scarpe, mi sdraiai sull’erba: il sole cadeva già senza raggi sul cielo argenteo; il vento soffiò da occidente, dapprima lieve, poi sempre più forte, e l’erba ondulò argentea quasi volesse sfuggire spaurita mentre i cespugli si curvavano con un lieve fruscìo che sembrava un gemito di piacere.

Io guardavo il sole, mi volgevo, guardavo il mare lontano e mi sentivo felice.

— Ecco, — pensavo, — adesso cominciano le funzioni religiose in chiesa, Columba si veste per andarci, e anche il nonno prende il suo bastone e va.

A un tratto mi parve di veder la chiesa semibuia, di sentire l’odore dell’incenso, la voce del prete. Il sole era tramontato; cadeva già la notte. Come ero giunto al paese? Mi scossi e mi [p. 86 modifica]trovai ancora sull’erba ove mi ero addormentato fantasticando. Balzai in piedi un po’ intirizzito e cercai con gli occhi il mio cavallo, ma non lo vidi; tutto era silenzio intorno; solo si udiva il rumore lontano del torrente e la stella della sera brillava già sull’orizzonte come una scintilla dimenticata dal sole.

Corsi di qua e di là, balzai sulle roccie, m’inerpicai su per un sentieruolo. Si faceva buio. Finalmente scorsi il cavallo in una piccola radura chiusa da un gruppo di macigni simile ad un castello diroccato; mentre attraversavo quel labirinto di pietre vidi un vecchio seduto davanti a un fuoco acceso in una specie di focolare scavato nella roccia.

Il quadro era bello ed io mi fermai ad ammirarlo. La fiammata rossa e tremula pareva volesse volare intera, e non potendolo mandasse via frammenti che si perdevano nell’aria come piume d’oro.

E il vecchio vestito di nero e col cappuccio in testa, con una lunga barba grigia divisa in due punte, un rosario in mano, sembrava un eremita. Mi parve di riconoscerlo e lo salutai.

— Ziu Innassiu Arras! Siete voi?

Egli mi guardò con diffidenza e mi domandò se ero uno della polizia: quando sentì il mio nome scosse sdegnosamente il capo.

— Ah, tu sei Jorgj, il figlio di Remundu Nieddu? Siamo parenti, sebbene tu ti vergogni a dirlo.

— Perchè mi vergogno a dirlo?

— Perchè ascolti volentieri Remundu Corbu, quando egli dice che io sono un poltrone. Ah, tu vuoi sposare la sua nipotina? Fai bene, molto bene, perchè egli ha un «malune»1 pieno di monete, che il diavolo si porti via lui e il suo [p. 87 modifica]denaro. Sta’ attento però, ragazzino, tu non conosci ancora bene quell’uomo.

Io fui per esclamare: «oh, sì, lo conosco!» ma giudicai prudente tacere; però quando il vecchio mi disse:

— Ebbene, non indugi? Non è ieri che ci siamo veduti, — io sedetti su una pietra accanto a lui e sebbene l’ora fosse tarda lo pregai di raccontarmi qualche cosa della sua vita.

— Ebbene, che devo dirti? Il torrente mormora quando è pieno; quando non ha più acqua tace.

Ma alle mie insistenze mi raccontò un’avventura che aveva rinfocolato l’odio fra lui e zio Remundu.

— Io non ho mai commesso un delitto; quelli che ne han commesso stanno a casa loro tranquilli; io ho vissuto come una fiera, solo perchè domandavo giustizia. Ero io il perseguitato; perchè dovevo farmi chiudere in gabbia quando ero innocente come il sole? Ed ecco un giorno il vescovo salì su una giumenta e andò al paese come Cristo a Gerusalemme; bastarono tre o quattro sue parole perchè tutti piangessero come donnicciuole e come queste facessero pace. Tutti quelli che battevano la campagna si arresero, andarono in carcere, mentirono, pur di tornar liberi. Furono vili, figlio caro, perchè l’uomo, se è vero uomo, muore prima di travisare la verità. Remundu Corbu fu tra quelli che baciarono la mano al vescovo e ritornò a casa sua. Un giorno io lo incontrai qui, in questi dintorni, e gli rinfacciai la sua viltà. L’ingiuria trae l’ingiuria, figlio caro, come la pietra che rotola sulla china trae la pietra che trova più sotto. Io percossi Remundu e gli sputai sul viso, egli minacciò di uccidermi, ma quell’uomo è vile, sai; ha paura del sangue e dei ferri e non mi uccise, ma senti cosa fece. Finse di dimenticare, e gli [p. 88 modifica]anni passarono ed io non pensavo a fargli del male. Egli mi mandava a dire: «Presentati, io ti servirò da buon testimonio e ti assolveranno: abbiamo giurato tutti di vivere in pace». Ma io avevo giurato di morire nel bosco piuttosto che provare i ferri. Bene, fra pochi mesi saran trentanni ch’io batto il bosco e sarò libero, allora avrò diritto a tornare in paese. Ma il cuore è cuore, ed io spesso pensavo alle mie figlie, e quatto quatto come la donnola che si allunga sotto le pietre tornavo qualche volta in paese. I carabinieri non mi conoscevano e nessuno dei miei compaesani poteva tradirmi. Ebbene, una volta Remundu Corbu venne a cercarmi in campagna, e mi fece camminare con lui, mi fece passare dove voleva lui e arrivati su un’altura mi strinse la mano e mi lasciò. Aveva fatto la parte di Giuda: due carabinieri, di quelli che ancora non mi conoscevano, sbucarono da una macchia e mi rincorsero. Ma le mie gambe erano agili, figlio caro, ed io corsi come il cane, corsi tanto che quando arrivai al punto ove nessuno più poteva vedermi mi tolsi dalle spalle la «tasca» e vidi il mio pane di nuovo ridotto in farina.2 Tanto avevo corso, figlio caro!... Allora decisi di uccidere Remundu, di ucciderlo in piazza o in chiesa, in un luogo pubblico infine, per sua vergogna. Era di questi tempi, il Venerdì Santo. Tornai in paese verso sera e andai in chiesa sicuro di trovare il mio nemico. Si celebravano i sacri Misteri, la morte e passione di Nostro Signore, e la folla era tale che io dovetti stare alcun tempo nell’ingresso tra la gente che si accalcava per entrare. Alcuni uomini mi riconobbero, ma sorridevano e mi si stringevano attorno come per nascondermi e [p. 89 modifica]difendermi, tanto ero rispettato, figlio caro. Sentivo la voce di Gesù che diceva: «Cuddu chi mi traichet est chin mecus» (colui che mi tradisce trovasi con me) e la voce di Giuda che rispondeva: «Cheries narrar pro me, amadu Deus?» (Volete dire per me, amato Dio?). Poi sentivo Gesù che diceva: «Dio mio, allontanate da me questo amaro calice, però sia fatta la vostra volontà» e stretto tra la folla sentivo anch’io un freddo sudore bagnarmi le spalle. Cercavo con gli occhi il mio nemico, ma non vedevo che teste nere e bianche illuminate dal chiarore dei ceri, e stringevo entro la saccoccia il mio coltello. A un tratto la folla si diradò: Gesù era stato portato via dai soldati e nell’intermezzo tra una scena e l’altra del Mistero il prete salito sul pulpito predicava. Allora io potei avanzarmi e inginocchiarmi in un angolo dietro una panca fra due vecchie donne. Il prete abbracciava un Cristo nero e sanguinante che stava sul pulpito, e piangeva e gridava: «Dio mio, Signore mio, perdonate a quelli che non sanno quel che si fanno. Qui sotto i vostri occhi, mentre il sangue vostro cade per la salvezza dei peccatori, qui, qui c’è chi pensa ad uccidere, chi tiene il suo coltello in pugno per uccidere il suo fratello».... Te lo dico francamente, figlio caro, ho avuto paura; credevo che il prete mi vedesse. A un tratto un uomo andò a sedersi sulla panca davanti a me: era lui, il mio nemico. Mi bastava tirar fuori la mano di saccoccia per vendicarmi; ma mi pareva che la mia mano fosse diventata di ferro e non potesse più venir fuori dalla tasca. Non ho vergogna a dirlo, figlio caro: io vedevo Cristo lassù in croce e sentivo le donne piangere come se fossi io il morto: e quando il prete disse: «Cristo sarà deposto nel sepolcro, ma risorgerà, e così voi, peccatori, deponete i vostri [p. 90 modifica]rancori se volete che l’anima vostra risorga» ebbene, figlio caro, io mi misi a piangere con le donne. Remundu Corbu si volse e mi riconobbe. Egli aveva paura di me e rimase sbalordito; poi si alzò e si allontanò rapidamente. Ecco perchè dice che io sono un poltrone, un buono a niente: perchè quella volta non l’ho ucciso, e perchè non lo odio e non gli faccio del male.

Mentre raccontava, il vecchio sgranava il rosario e non cessava di volgere la testa di qua e di là mosso dall’istintiva abitudine di ascoltare i minimi rumori del luogo.

Io mi sentivo triste: la figura di zio Remundu mi appariva fosca ed equivoca.

Tentai di difenderlo, ma il vecchio bandito non parlò più: quando credeva di aver detto una verità non discuteva oltre.

Solo prima di lasciarci mi disse:

— Se tu non mi credi, meglio, o peggio per te. Cristo è morto ed è risorto e non tutti ci credono.

Io rimontai a cavallo e ripresi il viaggio al chiaror della luna che saliva dal mare. A poco a poco la calma e la gioia ritornavano nel mio cuore.

Ricorderò la storia del vecchio finchè vedrò la terra rifiorire dopo l’inverno grigio e ogni volta che vedrò un uomo tendere verso la sua vera risurrezione che non è dopo la morte ma in questa vita stessa ed è il bene dopo il male, l’amore dopo l’odio.

Ma l’incontro col vecchio Arras mi portò sventura.

Columba era malinconica e taciturna più del solito; il giorno di Pasqua non volle neanche andare a messa, e a me che le chiedevo ragione del suo cattivo umore diceva di preoccuparsi perchè la serva era malata. A tavola quel [p. 91 modifica]giorno sedemmo io, il vecchio, il marito di Banna e un ospite di Tibi. Era un ricco pastore di quarant’anni, bello, colorito di viso, con una barba nera lucida e gli occhi castanei e dolci: ma aveva le gambe corte e il corpo grosso e se seduto a tavola aveva un aspetto imponente, alzandosi diventava ridicolo.

Il pranzo non fu allegro. Columba serviva a tavola, e l’ospite, vedovo da pochi mesi, parlava della moglie morta e sembrava afflitto anche per la mancanza di lei come massaia.

— Adesso la mia casa è come una capanna aperta a tutti i venti; ogni soffio porta via qualche cosa.

— Riprendi moglie, Zuampredu Cannas! — disse il vecchio. — Sei ricco, non hai figli. Qualunque donna, se tu la cerchi, si bacerà il gomito per l’allegria.

L’ospite guardò il vecchio sorridendo, ma non replicò.

Nel pomeriggio il marito di Banni venne a cercarmi e m’invitò ad andare con lui in giro per il paese. Aveva bevuto bene ed era allegro più del solito; con le saccoccie piene di pere secche e di mandorle fermava qualche bambino per offrirgliene e ridere con lui, ma di tanto in tanto si raccoglieva come immerso in un profondo pensiero e faceva segni e cenni parlando fra sè ad alta voce.

— Senti, fratello caro.... — cominciò due o tre volte, ma non proseguì.

Finalmente arrivati che fummo sulla piazza mi disse:

— Egli non ha figli, come me; solo che io posso sperare ancora di averne perchè mia moglie è lì, bella e scalpitante come una puledra, mentre lui moglie non ne ha. Di chi parlo, dici? Di Zuampredu Cannas, parlo! È ricco, che [p. 92 modifica]una palla gli trapassi il garetto; ha un sughereto che gli rende come una parrocchia: è ricco, sì, ma non ha figli. A che serve la sua roba? Un patrimonio senza eredi è come un alveare senza api!

E così proseguì per un bel pezzo sebbene io l’ascoltassi con indifferenza.

— Egli è partito: hai veduto che cavallo aveva? Quello è un cavallo! Come, tu non lo hai veduto?

Eravamo fermi davanti al parapetto; nuvole bianche correvano sul ciclo turchino, il vento soffiava: io ricordavo il cavallo di zio Conzu e la mia terribile avventura infantile.

Vedendosi poco ascoltato, il marito di Banna tossì, raschiò, disse:

— Hai veduto come guardava Columba, che una palla gli sfiori l’occhio!

Allora mi volsi a guardarlo ed egli si curvò sul parapetto per sfuggire al mio sguardo. Ma io avevo già indovinato il suo pensiero e ciò che si tramava contro di me.

Tuttavia non dissi nulla. Studiavo Columba e speravo che ella parlasse spontaneamente, ma ella taceva e se io faceva qualche allusione fingeva di non capire, o non capiva davvero. Un giorno, prima di ripartire le dissi:

— Ascoltami, Colomba; io credo che i tuoi parenti abbiano piacere che tu ti dimentichi di me. Essi hanno messo gli occhi su un altro partito, certo più conveniente di me. Tu devi sapere qualche cosa, dimmi la verità: non ti domando che di essere sincera; e se tu vuoi io ti rendo la tua parola.

Ella mi guardò offesa e meravigliata.

— Nessuno può disporre di me contro la mia volontà. I miei parenti non mi hanno parlato di nessuno, e nessuno mi ha guardato. Se sei [p. 93 modifica]tu che vuoi riprenderti la tua parola riprenditela pure, ma sii sincero!

Contento della sua fierezza io ripartii tranquillo. Ma al mio ritorno, in luglio, appena arrivato in paese vidi Columba e Banna davanti alla loro porta, e mi parve che mentre Banna mi dimostrava un’insolita affabilità, la mia fidanzata fosse più che mai fredda.

Appena aprii la porta della mia stamberga vidi una lettera che era stata introdotta per la fessura e che pareva mi aspettasse sul limitare. Doveva esser lì da qualche tempo perchè era ingiallita e coperta di polvere. La raccolsi e l’aprii con ripugnanza. Era senza firma, scritta con calligrafia alterata.

«Tutti sanno che tu ti diverti, lontano di qui, coi peggiori compagni, ridendoti della religione e di Dio. Quando vieni qui fai come il leone, che si metteva la pelle dell’agnello; ma Dio ti castigherà. Columba fa bene a lasciarti ed a pensare ad un altro. Quello che ti resta da fare è di andartene via dal paese».

Per nascondere o frenare la mia collera mi chiusi nella mia stamberga. Chi aveva scritto la lettera? Pensai a Banna: era un modo di licenziarmi come un altro.

Solo verso sera uscii: la luna nuova tramontava sulla linea violetta dell’altipiano e dalla vallata salivano i tintinnii delle greggie e il zirlio dei grilli; le voci umane tacevano, tutto era pace e dolcezza. La via lattea apparve come una fiumana chiara attraverso un’immensa pianura fiorita, ed io appoggiato al parapetto della piazza ascoltavo le voci della sera ripensando alla storia di zio Arras ed ai progetti di pace e di amore che avevano accompagnato allora il mio viaggio.

Perchè abbandonarmi all’ira? Se Columba mi [p. 94 modifica]amava davvero avrebbe vinto le male arti dei suoi; se non mi amava era inutile combattere.

Ritornai verso casa, andai a trovarla. Mi invitarono a cena, poi il vecchio sedette sugli scalini della porta e le donne e i ragazzi gli si riunirono attorno. Columba era pensierosa, ma mi disse che si preoccupava per la vecchia serva sempre malata; infatti questa morì qualche giorno dopo e Columba non volle sostituirla.

Quando il vecchio andava in campagna ella rimaneva sola nella grande casa silenziosa; ma se io andavo a trovarla, Banna ci raggiungeva subito, e d’altronde io sentivo che anche rimanendo soli mai più fra me e Columba si sarebbero rinnovate le scene idilliache dei bei tempi passati. Un’ombra era intorno a noi. Per orgoglio io non parlavo della lettera anonima; ma adesso era lei ad alludere a cose che io non riuscivo a capire.

Un giorno qualche mio compaesano cominciò a domandarmi come passavo il tempo in città, e le donnicciuole mi guardarono con diffidenza. Io pensavo sempre alla lettera anonima; qualcuno doveva aver sparso voci calunniose sul mio conto, ed io mi domandavo che cosa avevo fatto per giustificare la mia cattiva fama. La mia vita di studente povero era incolore e monotona: io vivevo di sogni e non ricordavo di aver commesso mai una cattiva azione.

I miei compagni si burlavano di me per le mie fantasticherie, per la mia vita casta e ritirata: eppure una mia vicina di casa mi domandò se era vero che avevo bastonato un prete e un’altra mi diede buoni consigli:

— Hai venduto la tua terra: adesso non vendere anche la casa, chè i denari portano sempre al vizio!

Io mi irritavo contro questa piccola gente, poi [p. 95 modifica]mi irritavo contro me stesso per il mio inutile sdegno; e come da ragazzetto dopo la caduta da cavallo, me ne andavo nei dintorni del paese fino all’altipiano o scendevo giù nella valle spinto da un profondo bisogno di solitudine. Partivo alla mattina presto e se incontravo il dottore che andava a caccia facevamo assieme un tratto di strada, ma poi uno tirava a dritta, l’altro a manca, desiderosi entrambi di star soli.

Sebbene d’estate, il tempo qualche volta era fresco; soffiava il vento, il cielo sembrava il mare, sparso di nuvole immobili simili ad isole e a scogli argentei.

Io percorrevo i sentieri più scoscesi, fra macchie d’arbusto e di ginestra, e il vento che mi batteva sul viso e sul petto mi dava l’impressione di una mano che cercasse di spingermi indietro, ma scherzosamente. Veniva il lieto soffio, si ritirava, ritornava all’improvviso, pareva stesse in agguato allo svolto del sentiero e mi assalisse tutto ad un tratto con la speranza di abbattermi sulle roccie e di sballottarmi meglio dopo avermi vinto; a volte mi pareva che il vento fosse animato e avesse voglia di lottare con me per divertirci assieme come fanno i ragazzi e sentivo anch’io una smania di saltellare, di combattere con gli elementi, di unificarmi con la natura che mi circondava. Quando mi trovavo in quello stato d’animo dimenticavo tutto e tutti: Columba, i suoi parenti, il paese intero, persino i miei studi.

Come il bimbo in grembo alla madre io mi sentivo cullato e sicuro quando sedevo sulle roccie o posavo la testa sull’erba. Il vento era mio fratello; le nuvole i sogni che non potevan tradirmi; l’eco la sola voce che non potesse ingannarmi. Un giorno rifeci la strada fino alle roccie simili a un castello, e andai in cerca di [p. 96 modifica]zio Innassiu Arras; le pietre che avevan forma d’un camino naturale conservavano un po’ di cenere e di tizzi spenti, ma il vecchio non c’era.

Gira e rigira a un tratto mi sentii chiamare da una voce sonora, alla quale seguì tosto un nitrito di cavallo e poi un raglio lamentoso e il canto d’un gallo che stonò bizzarramente nella pace armoniosa del luogo.

Erano due studenti di Nuoro miei antichi compagni; andavano a fare una scampagnata in un ovile lì vicino e m’invitarono. Li seguii e passammo anche la notte lassù, cantando e ridendo. Quello che imitava la voce degli animali e il canto degli uccelli aveva un flauto e cominciò a suonare: a un tratto nel silenzio della sera tranquilla s’udì un lamento d’assiuolo, melanconico e cadenzato, or vicino or lontano come il grido di uno spirito errante nella notte. Lo studente suonava il flauto, l’assiuolo rispondeva col suo lamento; e il paesaggio notturno parve animarsi di folletti e di fate, di ninfe e di fauni, di cervi che si rincorrevano nel bosco e di lepri che danzavano alla luna. Il dolore e la menzogna erano scomparsi dalla terra e solo una melanconia piacevole velava la dolcezza di quel mondo fantastico.

Anche dopo che i miei compagni si furono addormentati sotto le loro bisaccie io rimasi a fantasticare fra le roccie. Ricordavo la sera in cui avevo ballato con Columba e mi ritrovavo nel mondo sognato allora; ma ella, ella non c’era, nè io desideravo più che ci fosse. Provavo l’ebbrezza della solitudine e ascoltavo le voci delle cose: il cielo davanti a me sopra il mare mi sembrava un orizzonte boreale; sentivo le pecore a brucare il fieno e distinguevo il rumore degli steli spezzati; le roccie sotto la luna mi parevano torri; tutto era bello e fantastico. [p. 97 modifica]Quando vidi una forma strana avanzarsi sul sentiero con una grossa gobba sulle spalle, un corno sul capo e accanto al corno una scintilla, non mi meravigliai. Lo credetti un fauno. Ma egli si fermò, mi fissò bene e mi salutò.

— Che fai tu da queste parti!

— Ziu Innassiu! Ed io oggi v’ho cercato!

Egli sedette accanto a me: la sua gobba era la «tasca», il corno il cappuccio e la scintilla il fucile.

Gli offrii un sigaro, ma egli non fumava e non beveva.

— Gli uomini che vogliono correre come me non devono aver vizi. Il vino fa inciampare, il tabacco fa odore.

— E le donne, zio Arras?

— Il bandito non deve aver che la madre; tutte le altre donne sono sue nemiche.

— Raccontatemi qualche storia!

— Cosa vuoi che ti conti? Le storie si raccontano intorno al focolare o seduti sulla soglia della propria casa: allora, quando si è contenti, si può anche inventare e fare come il cucitore di cinture che ricama i fiori sul cuoio puzzolente.

Egli alludeva al nonno.

— Voi amate la verità, ziu Innassiu, e forse perciò non sapete inventare!

— Tu ti burli di me, ma non importa! Io posso fare a meno di te! Sappi soltanto, se lo vuoi sapere, che il mondo della verità è lontano da noi; noi lo ritroveremo solo se cercheremo la verità anche in questo mondo!

— Ma che cosa è la verità?

— Bè, — egli disse sdegnoso, — lasciami in pace. La verità è la verità. E va a coricarti, che fai bene.

— Quando tornerete in paese? [p. 98 modifica]— Dio volendolo fra nove mesi: il giorno di San Francesco uscii in campagna, il giorno di San Francesco ritornerò all’ovile; ed egli mi ha sempre accompagnato in questi trent’anni, egli è stato il mio amico e il mio fratello, e mi ha sempre aiutato perchè, ohè, intendiamoci, io gli ho chiesto sempre cose lecite; io vado tutti i mesi alla sua chiesa, eccola lì, la vedi? in mezzo al monte come un’agnella bianca, m’inginocchio davanti al recinto e domando quello che ho da domandare. Ma, ohè, intendiamoci, non gli chiedo che faccia morir di peste il mio nemico; non gli porto una moneta rubata, come fanno altri. Eppoi con lui non si scherza. Una volta un magnano girovago rubò un archibugio che un pellegrino aveva deposto con la sua bisaccia accanto al muro della chiesa. Ebbene, leprotto mio, sai che cosa accadde? E accadde che l’archibugio esplose e il ladro rimase gravemente ferito! Il male del resto viene sempre punito. Uno crede di farla franca, e va e va dritto di corsa come un puledro: ed ecco a un tratto una mano che non si vede lo ferma e una voce grida: « hai fatto questo, hai fatto quest’altro!» Chi è che grida così? Un santo, un diavolo? Va e cercalo; ma la cosa succede.

Quella notte ziu Innassiu era di buon umore: chiacchierammo a lungo, ma per quanto lo interrogassi non volle parlare del nonno.

In paese seppero tosto della mia gita, e che l’Arras aveva passato la notte con noi; tutti me ne parlarono fuorchè il nonno e Columba.

Ella era sempre taciturna: la vedevo ancora sulla veranda seduta a cucire accanto al vaso di basilico, ma adesso mi pareva che qualche cosa ci dividesse ogni giorno di più, e la vecchia casa mi sembrava una fortezza inespugnabile piena d’insidie. Mi sentivo oppresso dal caldo e come [p. 99 modifica]da un senso di attesa angosciosa. Doveva succedere qualche cosa: era impossibile andare avanti così. Io passavo quasi tutta la giornata buttato sul lettuccio a leggere o a dormire: Pretu il servetto mi portava l’acqua, le provviste e i pettegolezzi del paese, dicendomi che tutti parlavano male di me: e come il ronzìo della conchiglia fa pensare al rombo del mare, le ciarle ingenue del ragazzo mi davano una vaga idea dell’onda di odio e di sospetto che mi circondava.

Ai primi di agosto fui per qualche giorno malato di febbri reumatiche: speravo che Columba venisse a trovarmi, ma ella si contentava di mandarmi frutta e vivande e di chiedere notizie al servetto. Mi rodevo di tristezza ma non mandavo a chiamarla. «Se ella mi amasse, verrebbe» pensavo aspettandola; ma ogni ora che passava ci divideva come anni ed anni di lontananza.

Com’ero triste e solo! Io che mi sentivo buono e felice nella solitudine vera, in mezzo agli uomini mi sembrava di essere come un condannato carico di catene: ogni movimento per liberarmi mi inceppava di più.

Appena mi sentii meglio me ne andai a Nuoro. C’erano le feste, ed io volevo rivivere almeno col ricordo nei giorni sereni della mia adolescenza. Invano! La noia e l’inquietudine mi seguivano.

Per aumentare la mia tristezza, in mezzo alla folla mi apparve il viso bonario di Zuampredu Cannas. Egli camminava in mezzo a un gruppo di compaesani suoi e parlava animatamente. Perchè quando mi vide tacque e finse di non riconoscermi? Fu una mia illusione? Mi sembrò che anch’egli diventasse pensieroso come se la mia presenza destasse in lui le preoccupazioni che la sua destava in me.

Per due giorni lo seguii attraverso la folla, spinto verso di lui da un misterioso senso di [p. 100 modifica]simpatia e quasi di pietà. Volevo avvicinarmi e dirgli: «tu ed io siamo due vittime, poichè essi ci ingannano entrambi: uno di noi due sarà più infelice dell’altro: quale?» ma poi sorridevo di me, sebbene sentissi che la vera vittima ero io. Il terzo giorno il rivale scomparve; io sedetti davanti a un caffè e cominciai a bere.... Ogni tanto mi domandavo: «che fare?» e mi pareva che avessi a risolvere un gran problema.

Donne e fanciulle passavano davanti a me, sotto gli archi fantastici delle fiammelle gialle e verdi che illuminavano la strada: paesane rosse e nere come papaveri, borghesi strette nei loro vestiti bianchi a guaina, col viso nascosto da canestri di fiori....

Che fare? Bere un quarto, un quinto bicchierino di «villacidru»3 e guardare un mento delicato, bianco come l’alabastro al riflesso della luna, due grandi occhi scuri e lucenti come il mare di notte, una fronte fasciata dall’ombra fosforescente di un velo....

Mentre l’onda della folla andava su e giù come seguendo il ritmo della musica, io mi dondolavo sulla mia sedia aspettando che la fanciulla velata passasse accanto a me, e provavo un’ansia infantile.

Ella passava: era vestita di seta argentea, era piccola ed agile, e l’abito molle un po’ largo alla vita disegnava le sue forme perfette. Le sue scarpine scintillavano; aveva le calze di seta color carne e pareva che il malleolo fosse nudo. Quando mi passava accanto io distinguevo tra i rumori della folla e della musica un fruscìo come di foglie agitate dal vento; rivedevo la vallata, una notte di luna, il mare che splendeva lontano. Tutte le fantasie e i ricordi romantici [p. 101 modifica]della mia adolescenza risalivano dal profondo dell’anima. «Perchè non viene a sedersi qui?» mi domandavo, ed ella sedette davanti a me e la signora che l’accompagnava lasciò che il bel viso velato della sua giovine compagna rimanesse in piena luce.

Quando ella sorrideva tutto il suo velo scintillava, ma il suo sorriso era breve, come se ella di tanto in tanto ricordasse qualcosa di triste e s’oscurasse in viso. Accorgendosi che la fissavo mi guardò minacciosa.

Non osai più guardarla, ma il suo ricordo mi seguì; pensavo: ecco una donna che potrebbe amarmi meglio di Columba!

Mi accorgevo però che pensavo a lei come bevevo l’acquavite: per stordirmi.

Al ritorno non vidi Columba sulla porta ad aspettarmi, e fino verso sera non andai a cercarla.

Ricorderò sempre; ella stava in cucina curva sul focolare volgendo le spalle alla porta. Quando sentì il rumore dei miei passi trasalì; senza alzarsi si volse e mi fissò coi grandi occhi spalancati.

— Jorgj, anima mia, mi hai fatto paura, — disse, prendendo con l indice un po’ di saliva e bagnandosene la gola per scacciare lo spavento.

— Oh Dio, perchè? Un tempo non eri così paurosa!

Ella si alzò offesa dal mio accento ironico.

— Non sai che avantieri sono entrati qui i ladri? — disse sottovoce, — e hanno rubato i denari del nonno; ti ricordi, quella cassettina che era nel ripostiglio della camera di sopra.... Io te l’avevo fatta vedere.... una volta.... ricordi?

— Ma ne siete certi? — domandai sorpreso.

— Sentimi. Il nonno era in campagna, era andato all’ovile. Io stavo in casa e pensavo: forse [p. 102 modifica]Jorgeddu torna oggi; — e ti aspettavo, ma mi sentivo di malumore. Sul tardi Banna mi disse: vogliamo andare da comare Margherita Sanna a vedere il suo bambino nuovo? Io dissi: no, ho il cuore grosso, sono di cattivo umore. Mia sorella si mise a ridere e disse: e perché? Su, il tuo Jorgeddu a quest’ora si diverte, o tu vuoi star lì a piagnucolare? Andiamo. — Io chiusi tutti gli usci, o almeno mi pare.... no... anzi sono certa di averli chiusi. Sì, ne son certa: potrei giurarlo in coscienza mia; sì, ho chiuso tutto. Al ritorno era già sera; apro e vedo la porticina del cortiletto socchiusa.... Lì per lì non ne feci caso: tu hai ragione, non ero paurosa. Chiudo tutto di nuovo, preparo la cena, vado a dormire. Ma ero agitata; non dormii tutta la notte. L’indomani, ieri mattina, tornò il nonno, che era andato all’ovile per vendere due giovenche a un negoziante di bestiame e portava a casa i denari. Andò su per rimetterli e a un tratto sentii che mi chiamava come se gli venisse un male. Corsi su spaventata e lo trovai rosso in viso, congestionato, con la bava sulle labbra.... egli sempre così calmo! Non sapevo cosa fosse. Egli mi domandò se avevo toccato io i denari. Anima mia, credevo di morire! Frugammo in tutta la casa: nulla, nulla, anima mia; il denaro era sparito. Eppure non c’era niente in disordine; solo io ricordavo la porta trovata aperta.... E adesso....

S’interruppe; ansava asciugandosi gli occhi con la manica della camicia. Pareva invecchiata come dopo una lunga malattia.

Io non sapevo che dire e provavo un capogiro come se qualcuno mi avesse percosso alla nuca: un terribile pensiero mi passava e ripassava nella mente ottenebrata.

— E adesso? — gridai. [p. 103 modifica]Ella piangeva.

— Dov’è adesso tuo nonno?

— È fuori in giro per il paese.

— Ha denunziato il fatto?

— No.

— Perchè?

— Perchè dice che prima vuole assicurarsi bene....

— Bene di che.... se il denaro è sparito?

— Io non so.... io non so.... — ella riprese singhiozzando e contraddicendosi. — Può darsi che sia in qualche posto.... e che non lo troviamo.... può darsi che lo ritroviamo ancora... Oh, se questo accadesse, anima mia, come sarei sollevata!

Il terribile pensiero continuava a percuotermi il cranio: vedevo rosso, avevo desiderio di urlare.

— Oggi.... nel pomeriggio è venuto qui il brigadiere. Ha voluto veder lui; ha guardato dappertutto, anche nel cortile.... anche nel pozzo.... Ha scavato anche. Nulla!

— Il brigadiere? Ma se non avete denunziato il furto?

— Lo sanno lo stesso.... tutti lo sanno!

— Ma.... e al brigadiere che cosa avete detto?

— Abbiamo negato; abbiamo detto che non era vero; ma lui ha voluto guardare lo stesso; ha litigato con nonno.... mi ha interrogato a lungo: pareva quasi volesse dire che avevo rubato io....

— Lo stesso crede tuo nonno!

Ella mi guardò di nuovo con spavento e con diffidenza.

— Come sai che egli lo crede?

— Me lo hai detto tu!

— No, no! Egli mi ha proibito di parlarne con anima viva: ha minacciato di cacciarmi via di casa, se ne parlo! [p. 104 modifica]— E tu ne parli, intanto; ne parli con me. Perchè?

— Con te.... con te.... perchè è necessario.... Mi cacci pur via; ma con te bisogna parlarne....

— E perchè con me, Columba, perchè? Che posso farci, io?

La presi per le braccia e la guardai negli occhi. Ella diventò livida e il suo volto parve gonfiarsi e poi contrarsi per uno spasimo fisico. Infine scoppiò in un pianto rabbioso e disperato, gemendo e scuotendosi come per il bisogno spasmodico di liberarsi da un incubo. La lasciai ed ella cadde a sedere sulla pietra del focolare. Si strappò il fazzoletto, si sciolse le treccie, si diede graffi e pugni sempre gemendo a denti stretti come lottando contro il desiderio di gridare, di rivelare un segreto.

Io la guardavo e mi pareva che ella recitasse una scena drammatica; ma in pari tempo mi sentivo anch’io assalito da un impeto di disperazione.

Quando si fu un po’ calmata le dissi:

— Senti, perchè fai così? Finiamola una buona volta. Dimmi tutta la verità: è vero che i denari mancano?

— È vero.

— Dimmi tutto, Columba, non aver paura. Dimmi che tuo nonno sospetta di me. È così? Non ricominciare; gli strilli sono inutili! Columba, se tuo nonno arriva fino a quest’infamia, io l’uccido!

Ella mi si gettò addosso e mi mise una mano sulla bocca.

— Columba, — dissi respingendola, — io adesso me ne andrò e non rimetterò più piede in questa casa. Ma ti aspetterò a casa mia; ti aspetterò uno, dieci, mille giorni. Se tu veramente mi ami devi lasciare questa casa. Io ti aspetterò. [p. 105 modifica]hai capito? Se tu non verrai significa che non mi ami.

Mi mossi per uscire; ma poichè Columba non mi correva dietro le tornai daccanto; dovevo esser terribile in quel momento perchè ella mi guardò con paura.

— Dimmi tutta la verità! Columba, te lo impongo!

Allora mi raccontò che il nonno aveva apertamente dichiarato che era stata lei a rubare i denari per fuggire con me.

— Ma perchè? perchè hai bisogno di fuggire con me?

Ella chinò la testa.

— Perchè vogliono che io ti lasci e sposi un altro.

— Zuampredu Cannas? Ebbene, sposalo, ma lasciatemi in pace! Io sono povero, non sono adatto per te! Tu hai bisogno di manipolare il formaggio e la lana. Prenditelo. Io e tuo nonno, poi, ci odiamo.... o almeno egli mi odia perchè l’odio è nel suo sangue. Vedendomi nella sua casa, egli vivrebbe di rabbia e diventerebbe più perverso di quello che è. Diglielo pure: digli che per scacciarmi non occorre che simuli un reato: me ne vado!... Sono stanco anch’io, capisci, stanco di lui, stanco di te che non sai nè amare nè odiare, nè prendere una decisione. Il momento però è giunto: deciditi; o loro o me. Addio.

Ella comprese che questa volta me ne andavo davvero e cominciò a tremare; ma non mi richiamò, non mi seguì. Ed io mi ritirai di nuovo nella mia tana, come una bestia ferita. Che giorni, che notti terribili! Invidiavo il mendicante che di tanto in tanto sporgeva il viso selvaggio nel vano della mia porta e vedendomi coricato non osava avanzarsi; invidiavo il [p. 106 modifica]servetto che trovava motivo di riso nella mia stessa disgrazia e ricostruiva il fatto senza meravigliarsene:

— Voi siete tornato di nascosto, siete entrato dalla parte del cortile e avete fatto il colpo. Voi sapevate dov’erano i soldi: ah, siete stato furbo, voi!

Tutti sapevano il fatto; nessuno lo aveva sentito raccontare dal vecchio o dalle sue figliuole, ma tutti lo sapevano. Molti eran certi che io avevo preso i denari d’intesa con Columba per fuggire poi assieme con lei: il nonno aveva sventato a tempo il nostro piano e impedito la fuga ma non riavuto i quattrini.

Io aspettavo Columba, ma ella non veniva; in vece sua venne il marito di Banna e mi disse che tutto si riduceva ad un pettegolezzo; che era la mia matrigna a diffamarmi, e infine che io esageravo e cercavo tutti i mezzi per abbandonare Columba.

Io gli dissi:

— Venga lei qui e c’intenderemo.

Ma essa non venne.

Intanto osservavo una cosa: nei primi giorni tutti venivano a cercarmi, a commentare il fatto e a consigliarmi di querelare il vecchio o di rappacificarmi con lui; poi le visite diradarono, nessuno più si ricordò di me. Ma un giorno uscii: passando davanti alla fontana vidi le donne guardarmi con curiosità e mormorare, e in piazza mi parve che gli sfaccendati e i pregiudicati mi salutassero ammiccandomi come ad un nuovo compagno.

Era certo una mia suggestione, ed io mi sforzavo a crederla tale; ma la mia fantasia lavorava spaventosamente e il dolore mi divorava. La cosa più triste era che mi sembrava d’aver preveduto tutto questo e di non averlo saputo evitare. [p. 107 modifica]Ma una sera decisi di partire, di cominciare una vita nuova. Prima di andarmene salutai l’unica amica fedele che mi rimaneva, la natura. Vidi cader la sera sulla valle. Era una notte interlunare, ma io distinguevo i profili neri del paesaggio, vedevo qua e là qualche luce lontana e sentivo il profumo che saliva dalle macchie; un profumo così intenso che quasi mi dava un senso di ebbrezza.

Rimasi a lungo seduto sull’orlo del sentiero sabbioso, abituandomi talmente all’oscurità che distinguevo le foglioline sull’estremità dei cespugli.

Così mi sembrava di veder chiaro nelle tenebre della mia esistenza, e mi giudicavo spietatamente, ma mi credevo grande appunto perchè vedevo i miei difetti ed i miei errori.

Ho errato, pensavo. Ho offeso quasi la natura, amando una donna che non mi rassomiglia, mettendomi a lottare con un uomo la cui forza è diversa dalla mia. E adesso la natura si vendica, e mi fa capire che è pericoloso combattere contro le sue leggi e contro le sue insidie. E a poco a poco le mie considerazioni mi parevano susurrate dal lieve fruscio delle macchie intorno a me. La natura parlava coi suoi profumi e coi suoi susurri; la terra selvaggia mi dava come una madre sincera avvertimenti e consigli.

— Vattene, se no guai a te! Diventerai più feroce di loro, ritornerai l’uomo del tuo paese, colui che si fa giustizia da sè.

Rientrai a casa tranquillo e dopo tante notti d’insonnia dormii profondamente.

Ma non volevo che la mia partenza sembrasse una fuga, e l’indomani dopo qualche visita di congedo mandai il servetto da Columba per farle sapere che partivo. [p. 108 modifica]— Ella ha risposto «buon viaggio» e si tirò il fazzoletto sugli occhi, — mi riferì il ragazzo.

Preparai dunque la valigia e mi disponevo ad uscire quando qualcuno battè lievemente alla porta del cortiletto. «È Columba, — pensai — era impossibile che non venisse».

Aprii e mi parve di soffocare. Era il brigadiere che veniva a perquisire la mia stamberga. Entrò, grasso e calmo, volgendo intorno gli occhi sonnolenti come ricercasse un oggetto smarrito; poi mi pregò di aprire la valigia.

Obbedii, vinto da una suggestione di terrore; ed egli frugò destramente, senza parlare, senza far rumore, sfiorando appena gli oggetti con le sue mani grasse e pelose. Il volto rosso solcato da due lunghi baffi gialli aveva un’espressione di noia. Ogni tanto gonfiava le guancie e sbuffava come sdegnato contro chi lo costringeva a quell’operazione umiliante e infruttuosa.

Dopo la valigia mi pregò di aprire la cassa. Allora il mio stupore pauroso si mutò in rabbia. Cominciai a tremare, ma per frenarmi corsi fuori nel cortile.

Le donnicciuole s’erano già accorte della visita e curiosavano nella strada; la porta di Columba era chiusa, ma il viso felino di Banna appariva ad una finestra.

Allora io ritornai in me. No, bisognava difendersi, sfuggire all’agguato.

Rientrai e la figura del brigadiere ancora curvo a frugare entro la cassa mi parve grottesca e compassionevole. Egli cercava una cosa che non c’era, ch’egli sapeva che non c’era. Così noi tutti nella vita ci affanniamo a cercare qualcosa che siamo già rassegnati a non trovare.

Terminata la perquisizione io fissai negli occhi il brigadiere dicendogli: [p. 109 modifica]— Se ha da domandarmi qualche cosa lo faccia subito perchè devo partire.

Egli soffiò, si mandò indietro sulla testa il berretto e si grattò la fronte sudata.

— Beh, — disse bonariamente, — mi racconti qualche cosa.

Sedette sullo sgabello e appoggiò il gomito al letto: sudava, sembrava stanco. Io cominciai a rimettere in ordine la mia valigia ed a raccontare la scena con Columba e come sospettavo che il furto della cassettina fosse simulato. Il brigadiere non rispondeva, non mi interrogava, ma il suo respiro diventava sempre più lento e forte e in breve si mutò in un ronfare sonoro.... Dormiva.

Non si svegliò neppure quando Pretu arrivò di corsa per dirmi che attaccavano i cavalli alla corriera. Io gli diedi la valigia accennandogli di tacere e uscimmo ridendo silenziosamente.

Durante il viaggio raccontai l’avventura e i miei compagni risero; ma qualcuno scherzava oltre misura, proponendo di aprire ancora la mia valigia o di frugarmi addosso. Io mi sentivo triste, più che irritato: mi pareva che i miei compagni di viaggio si scambiassero sorrisi e sguardi ironici.

Quest’impressione mi durò lungo tempo; mi pareva che anche gli sconosciuti, se mi guardavano, prendessero verso di me un’attitudine sospettosa.

Per giorni e giorni vissi in un’attesa sempre più angosciosa; aspettavo mi richiamassero in paese, aspettavo una lettera di Columba, ma nulla arrivava, e questa dimenticanza invece di sollevarmi accresceva la mia inquietudine. Sogni tormentosi mi agitavano.

Lo scirocco di settembre rendeva afosa l’aria della città: mi sentivo debole, sfinito; avevo un [p. 110 modifica]continuo capogiro, un senso di nausea, e trascinandomi attorno mi pareva che i miei piedi scivolassero senza mai potersi alzare dal suolo. Una sera caddi svenuto sulla panchina di un viale e da quel momento non mi sollevai più.

All’ospedale fui preso dalla nostalgia della mia stamberga, dal bisogno di ritornare a morir qui.

Eccomi dunque. Nel silenzio funebre della mia tomba di vivente mi par talvolta di sentire il palpito di un cuore tormentato dal rimorso.

Quale? Il cuore del vecchio o quello di Columba? Entrambi sanno di avermi calunniato ed ora che nulla hanno a temere da me si placheranno. Columba si sposerà e il vecchio, raggiunto il suo scopo, non vorrà mentire oltre.

La verità! Io sono malato perchè la verità è scomparsa dalla mia vita; ma la certezza di ritrovarla mi sorregge ancora. Talvolta, nei giorni invernali, quando la nebbia ci avvolge come un velo funebre, abbiamo l’impressione che tutto sia finito: il sole è morto, la luce spenta, e noi camminiamo per il mondo come attraverso un cimitero. Ma ad un tratto il sole squarcia le nuvole, le cose tornano a sorridere e noi risorgiamo come Lazzaro dal sepolcro. Per un attimo o per anni o per secoli così la verità può venire offuscata dal velo della menzogna; ma all’improvviso ritorna a splendere, luminosa ed eterna, e basta un suo raggio per dissipare le tenebre e dar vita ai morti.»

  1. Vaso di sughero.
  2. Pane biscotto che si sgretola facilmente.
  3. Acquavite all’anice.