Chi l'ha detto?/Parte prima/32

§ 32. Fortuna, fato

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§ 32.



Fortuna, fato





512.                                      ..... Nel mondo
Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce.

(Petrarca, Sonetto in morte di M. Laura, num. XXXV secondo il Marsand, comincia: Amor che meco al buon tempo ti stavi; ed. Mestica, son. CCLXII.).
perciò inutile è di lottare contro il destino:

513.   Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.1

(L. Ann. Seneca, Epistolæ, ep. 107, 9).
(che talora si cita compendiosamente: Fata trahunt) e pur troppo sempre:

514.                  Fata viam invenient.2

Seneca, aveva convinto Nerone della inutilità di opporsi al fato, con queste parole, riportate da Dione Cassio nelle Istorie, (lib. LXI, cap. 18): Licet, quamplurimos occidas, tamen [p. 156 modifica]

515.   Non potes successorem tuum occidere.3

Benissimo perciò l’Alighieri:

516.   Che giova nelle fata dar di cozzo?

La fortuna ci avvolge e ci mena a suo capriccio, e benchè talora sia vero l’antico dettato:

517.   Fabrum esse quemque fortunæ.4

che è attribuito ad Appio Claudio Cieco sulla fede di Sallustio, De republica ordinanda (epist. II ad C. Caesarem, § 1), molte volte il cieco caso soltanto regge i destini dell’uomo. Perciò niuno può prevedere quel che gli serbì la fortuna, poi

518.        Che ’nanzi al dì de l’ultima partita
          Uom beato chiamar non si convene.

(Petrarca, Sonetto in vita di M. Laura, num. XXXVI secondo il Marsand. com.: Se col cieco desir, che ’l cor distrugge, ed. Mestica, son. XLIII).
che è reminiscenza del biblico:

519.   Ante mortem ne laudes hominem quemquam.5

(Ecclesiastico, cap. IX, v. 30).
o dei versi di Ovidio:

                                             ....Dicique beatus
Ante obitum nemo supremaque funera debet.

Si ricordi l’ammonizione di Solone a Creso: "Ορα τἐλος μακςοῠ βιου (Schol. Juv. XIV, 328; Diogen. VIII, 51; Apost. XVI, 30; [p. 157 modifica]Juven. X, 274), che altri attribuiscono a Ausonio (Ausonio, Septem sap., 20. Sch. 56).

Anche Sofocle così dà termine all’Edipo Re (versione di Felice Bellotti):

                              .... Al giorno estremo
Però guati il mortale; e mai felice
Non tenga l’uom, pria che d’affanni scevro
Tocco non abbia della vita il fine.

Alle quali sentenze degli antichi avvicineremo il verso del Petrarca:

520.   La vita el fin e ’l dì loda la sera.

(Canzone in vita di M. Laura, I, 4, secondo il
Marsand: nell’ed. Mestica, pag. 25: com.:
Nel dolce tempo de la prima etade).
di cui nonostante l’anfibologia del costrutto, è chiaro il senso dopo quanto abbiamo detto avanti.

Corollario di questo sentimento che il giorno della lode non possa essere che l’ultimo della vita, è l’altro detto antico:

521.   Dio ti guardi dal giorno della lode.

che si trova registrato come proverbio a pag. 203 della Raccolta di proverbi toscani del Giusti, ed. del 1853; ma che sia proverbio stenterei a crederlo e l’autorità della disgraziatissima raccolta del Giusti non ha nessun peso in materia. In ogni modo può esser divenuto proverbio, ma non è nato tale, chè il pensiero vi è troppo letterariamente involuto. Giovanni Prati ne fece il primo verso del Canto In morte di Alessandro Manzoni (Firenze, Barbèra, 1873), stemperandone il concetto in queste due quartine:

Dio ti guardi dal dì della lode,
   Che ogni labro, ogni cor ti rammenti!
   Anco fossi il più giusto, il più prode,
   Su te vivo non sorge quel dì;
Converrà che tu polve diventi,
   Che tu lasci ogni cosa più cara,
   Perchè tutti t’assiepin la bara,
   Idolatri del dio che fuggì.

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Pure ai greci poeti dobbiamo la bella immagine:

522.                                      .... L’evento
          Su le ginocchia degli Dei s’asside.

(Omero, Iliade, trad. di Vinc. Monti, lib. XVII, v. 646-647).

Il testo greco (ivi, v. 514) veramente dice meno sentenziosamente:

Άλλ᾿ ἤτοι μὲν ταῦτα θεὼν ἐν γούνασι κεῖται.

il quale verso trovasi ripetuto testualmente anche nel libro XX dell’Iliade, v. 435; e nell’Odissea, lib. I, v. 267 (e con lieve differenza anche nel v. 400), e lib. XVI, v. 129.

Incerto è dunque il futuro, e con somma prudenza volle il Cielo tenerlo nascosto agli uomini, che troppo si angustierebbero nell’antivedere i molti mali che ad ognuno appresta la sorte:

523.   Prudens futuri temporis exitum
     Caliginosa nocte premit Deus.6

(Orazio, Odi, lib. III, od. 29, v. 29-30).

Scherzi della fortuna sono pure i cambiamenti repentini di condizione: che cosa c’è di più capriccioso di lei e dei suoi doni?

524.   Fortuna multis dat nimis, satis nulli.7

(Marziale, Epigrammi, lib. XII, epigr. 10, v. 2).

Fu per un capriccio di lei che

525.             Una volta un ciabattino
               Gran signore diventò.

come dice la canzone di Crespino nell’opera giocosa Crespino e la comare, parole di F. M. Piave, musica dei fratelli Ricci (atto I, sc. 2); che altri raggiunge

526.                  .....Un premio
     Ch’era follia sperar.

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e che

527.   À aucuns les biens viennent en dormant.8

Racconta Du Verdier che Luigi XI una mattina per tempo entrando in Nôtre-Dame de Cléry fu trattenuto da un postulante, che lo importunava per la concessione di un beneficio di patronato regio: il re tace, poi girando gli occhi attorno scorge un povero pretucolo addormentato in un angolo del coro: lo fa svegliare, lo chiama e ordina che siano sull’istante spedite le regie patenti per rivestir lui del beneficio stesso chiesto poco avanti dall’indiscreto sollecitatore «disant qu’il vouloit en cet endroit faire trouver véritable le proverbe qui dit qu’à aucuns les biens viennent en dormantTallemant des Réaux riporta lo stesso aneddoto, attribuendolo invece a Enrico III e fa anche il nome del fortunato dormiente.

Ma «il mondo è fatto a scale, chi le scende e chi le sale»: ossia per dirla con la quartina del Giusti:

528.        Ma il libro di natura
          Ha l’entrata e l’uscita:
          Tocca a loro la vita,
          E a noi la sepoltura.

(La terra dei morti, str. 12).
perciò come facile è il salire, facilissimo è pur troppo anche lo scendere, ed

529.   .... A’ voli troppo alti e repentini
Sogliono i precipizj esser vicini.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. II, ott. 70).
ed anche suol dirsi:

530.   Du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas.9

frase attribuita a Napoleone I, il quale l’avrebbe ripetuta più volte, e più precisamente dopo il ritorno dalla Russia, a Varsavia, il 10 dicembre 1812, in un colloquio con l’ab. de Pradt. Ma [p. 160 modifica]Marmontel (Oeuvres, vol. V, pag. 188), Wieland, Thomas Paine avevano già detto che le sublime touche au ridicule ed è in questa stessa forma che il conte Potocki che assistè alla conversazione di Varsavia riferisce le parole di Napoleone.

Napoleone che testè citavo, è meraviglioso esempio dell’incostanza della fortuna, egli che fu

531.        Due volte nella polvere,
   Due volte sugli altar.

Altro esempio, non meno degno di memoria, sarebbe quello di Belisario, di cui narra la leggenda che negli ultimi anni di sua vita, fatto bersaglio alle calunnie degli invidiosi, fosse accecato per ordine dell’imperatore Giustiniano, e ridotto a mendicare in Costantinopoli ripetendo le parole:

532.   Date un obolo a Belisario.

Ma tutto questo è leggenda: è bensì vero che Belisario cadde in disgrazia dell’imperatore, ma dopo soli sette mesi fu reintegrato negli antichi onori, e morì poco dopo (marzo 565). La tradizione fu raccolta e forse diffusa dal monaco bizantino Giovanni Tzetza il quale nella III Chiliade delle Variæ Historiæ (cap. LXXXVIII. versi 339-348) così scrive, secondo la versione letterale del Lacisio: «Iste Belisarius imperator magnus, Justinianeis existens in temporibus imperator, ad omnem quadrantem terræ cum explicuisset victorias, postea invidia obcæcatus (o fortunam instabilem) poculum ligneum detinens, clamabat in stadio: Belisario obulum date imperatori, quem fortuna quidem clarum fecit excæcat autem invidia. Alii dicunt chronici, non excæcatum fuisse hunc, ex honoratis autem infamem postremo factum esse, et iterum ad revocationem extimationis venisse prioris.» È probabile che lo Tzetza abbia confuso Belisario con Giovanni di Cappadocia, il quale infatti cadde in disgrazia dell’imperatore, e si ridusse a chiedere la carità per vivere.

Si ricordi pure la miseranda fine di Troia di cui

533.      ....Etiam periere ruinæ.10

(Lucano, Farsalia, lib. IX, v. 969).
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Anche nelle guerre come nelle private tenzoni, la vittoria è spesso decisa dalla fortuna: nondimeno

534.   Fu il vincer sempre mai laudabil cosa,
    Vincasi o per fortuna o per ingegno.

ovvero, come osserva il Machiavelli (o per essere più esatti, com’egli fa dire a uno dei popolani fiorentini che eccita i suoi compagni a ribellarsi alla Signoria):

535.   Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna.

Gode, e giustamente, il vincitore: si consola il vinto come può, sia che sopporti l’avverso destino con lo stoicismo dell’Uticense, di cui fu detto:

536.   Victrix causa Dei placuit, sed victa Catoni.11

o con l’altezza di animo di Enea, cui il poeta nella Didone abbandonata del Metastasio (a. I, sc. 6) pone in bocca queste parole:

537.   .... Il mio core è maggior di mia fortuna.

o pensi con Seneca che:

538.   Fortuna opes auferre, non animum, potest.12

(Medea, a. II, sc 1, v. 176).
o abbia la disinvoltura di quel poeta che scrisse:

539.   Un’altra volta vincerete voi.

È questo un celebre verso dell’ab. Ubaldo Mari, pisano, di un poema stranissimo intitolato la Giasoneide o sia la [p. 162 modifica]Conquista del Vello d’Oro (Livorno, 1780), dove Giasone dopo aver perduto una battaglia:

           Grazioso il re dice agli afflitti eroi:
           Un’altra volta vincerete voi.

(Canto II, ott. 50; ediz. cit., pag. 47).

Il Mari fu immortalato dal novelliere toscano Domenico Batacchi, le cui poesie sono piene di allusioni ridicole al povero canonico. Un esempio della sintassi del canonico Mari è questo: ad un suo poemetto stampato nel 1791 prepose, come d’uso, la seguente protesta: «Le parole Giove, Fato, Divinità ecc. esprimono dei Gentili la falsa religione, non dell’autore la vera credenza che si pregia di non sentire!».

Abbiamo udito dalla bocca del povero Mari come il re Giasone confortasse i suoi fidi dopo la sconfitta. Una consolazione come un’altra! Non era gran cosa di meglio quella di chi si rallegrava che eravamo rimasti

540.   Padroni delle acque.

Pur troppo sono parole più da piangere che da ridere, ma sono parole storiche, sono parole dell’ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano nel telegramma ufficiale spedito al governo, subito dopo l’infelice battaglia di Lissa del 20 luglio 1866. L’inetto comandante cercava di confortarsi del lutto della giornata con la circostanza che le sue navi, decimate e malconcie, erano rimaste padrone delle acque. Egli stesso vi insisteva nell’opuscolo apologetico I fatti di Lissa (Torino, 1866) pubblicato prima di comparire dinanzi all’Alta Corte di Giustizia: «Esse (le navi italiane) ebbero l’orgoglio di dar caccia al nemico quando volse verso le sue terre, e non avendolo potuto raggiungere prima che ne fosse al riparo, di rimanere padrone delle acque della battaglia» (pag. 26).

Anche il telegramma comunicato ai giornali dal Ministero dell’Interno il giorno dopo della battaglia ripeteva che «La flotta italiana rimase padrona delle acque del combattimento».

Tornando ai vincitori e ai vinti, qui soprattutto si vede che:

541.   Le profit de l’un est dommage de l’autre.13

[p. 163 modifica]titolo del cap. XXII, lib. I, degli Essais di Montaigne; e questo in ispecial modo avviene quando ci sia chi sappia rivolgere a profitto proprio l’industria e le fatiche altrui. In tal caso si ama ripetere il virgiliano:

542.   Sic vos non vobis.14

di cui nota è la storia, conservataci in quella Vita di Virgilio, che va, a torto, sotto il nome di Tib. Claudio Donato (il giovane), cap. XVII. Virgilio scrive una notte sulla porta del palazzo dell’Imperatore Augusto il seguente distico senza apporvi il suo nome:

      Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane:
      Divisum imperium cum Jove Cæsar habet.

Batillo, meschino poetucolo, se ne fa credere l’autore, e ne riceve in contraccambio da Augusto lodi e danari. Allora Virgilio torna a scrivere sulla porta per quattro volte di seguito le parole Sic vos non vobis. Augusto vuol sapere che cosa significhi ciò: niuno sa spiegare l’enigma, e finalmente quando la curiosità di tutti è eccitata, Virgilio stesso dà la chiave dell’indovinello ripetendo dapprima il distico rubatogli, seguito dal verso:

      Hos ego versiculos feci, tulit alter honores,

quindi completa i quattro emistichi in questa forma:

      Sic vos non vobis nidificatis aves.
      Sic vos non vobis vellera fertis oves.
      Sic vos non vobis mellificatis apes.
      Sic vos non vobis fertis aratra boves.

Note

  1. 513.   Guidano i fati chi li segue di buona voglia, trascinano gli altri.
  2. 514.   I fati troveranno la via (perchè si compia quel che deve accadere).
  3. 515.   Per quanto tu ne uccida molti, nondimeno non puoi uccidere il tuo successore.
  4. 517.   Ciascuno è artefice della propria fortuna.
  5. 519.   Non lodare nessun uomo prima della morte.
  6. 523.   Prudentemente Iddio nascose fra tenebre caliginose gli eventi del tempo futuro.
  7. 524.   La fortuna a molti dà troppo, a nessuno abbastanza.
  8. 527.   A certuni la fortuna viene mentre dormono.
  9. 530.   Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo.
  10. 533.   Ne sparirono perfino le rovine.
  11. 536.   La causa del vincitore piacque agli Dei, quella del vinto a Catone.
  12. 538.   La fortuna può togliere le ricchezze, non l’animo
  13. 541.   Il profitto dell’uno è il danno dell’altro.
  14. 542.   Così voi non per voi.