Chi l'ha detto?/Parte prima/20

§ 20. Cose fisiche

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§ 20.



Cose fisiche





Riunisco in questo paragrafo un mazzetto di citazioni spettanti al mondo fisico. Comincio dal cielo per poi scendere in terra: e metto per primo il Sole, che Dante chiamò

291.   Lo ministro maggior della natura,
  Che del valor del cielo il mondo imprenta,
  E col suo lume il tempo ne misura

poi l’astro delle notti, la Luna, così poco amata dal Carducci che la chiamava:

292.                   Celeste paölotta

nell’ultimo verso di Classicismo e Romanticismo (in Rime nuove, LXIX) e che invece un poeta del nostro Risorgimento nazionale pateticamente invocava:

293.        Luna, romita aerea,
        Tranquillo astro d’argento!
        Come una vela candida
        Navighi il firmamento:
        Come una dolce amica
        Per sua carriera antica
        Segui la terra in ciel.

Così comincia l’ode Il Prigioniero di Giunio Bazzoni, scritta nel 1825 per la creduta morte di Silvio Pellico. La lezione testè data è la vera, quale è consacrata nell’autentica stampa rarissima che l’autore fece, in soli 125 esemplari fuori di commercio, dei suoi versi in un opuscolo in-8º che non ha altro titolo che la dedica: Nelle fauste e salutate nozze del benemerito cittadino medico [p. 81 modifica]Giovanni Polli con Rosa Bazzoni, l’autore agli sposi D. (Milano, tip. Molina, 1848). Errata è la lezione comune (Luna romito aereo ecc.), diffusa con la prima pubblicazione che di questa ode fece, senza nominarne l’autore, il Maroncelli nelle Addizioni alle Mie Prigioni e accolta anche nella stampa delle Poesie del Bazzoni, edite a cura dei nipoti (Milano, 1897); e sulla fede di questa ripetuta pure nelle ediz. 3ª-6ª della presente opera. Ma la vera lezione fu ristabilita da Isidoro Del Lungo nello scritto Un cimelio patriottico del 1825 (nella Rivista d’Italia, anno X, vol. II, settembre 1907, pag. 353-373), ove egli osserva, fra altro, nessuno essersi accorto che «in quel grappolo di epiteti, penzolanti dall’astro, almeno uno non aveva senso possibile, cioè l’aereo»; e della persistenza dei più nell’errore si dolse egli stesso in un articoletto: La «romita aerea» nel Marzocco, di Firenze, del 7 aprile 1918.

Tornando ancora a Dante, troviamo che Venere v’è chiamata

294.   Lo bel pianeta che ad amar conforta

(ma Giuseppe Bassi nel Fanfulla della Domenica del 12 novembre 1893, sostiene con argomenti di qualche peso che Dante qui allude non a Venere, ma al Sole); e il colore del firmamento, l’azzurro, indicato con la gentile perifrasi:

295.         Dolce color d’orïental zaffiro.

Caliamo in terra. Se davanti a te vedi levarsi dei folti e annosi alberi, puoi chiamarli col Tasso

296.                        ....Ombrose piante
     D’antica selva.

fra le quali sorgerà certamente con altre mille l’

297.          Arbor vittoriosa, triunfale,
     Onor d’imperadori e di poeti

[p. 82 modifica]ossia il lauro. Se poi innanzi ai tuoi occhi si stende ampia distesa di campi verdeggianti, di prati, ricordati che

298.       Il divino del pian silenzio verde.

è la fine del sonetto di Giosuè Carducci, Il bove (nelle Nuove poesie):

E del grave occhio glauco entro l’austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quïeto
Il divino del pian silenzio verde.

Le prime stampe (come Il Mare, periodico letterario di Livorno, dir. dal Chiarini, anno I, vol. I, fasc. 3º, dicembre 1872, dove il sonetto è pubblicato forse per la prima volta, la prima ediz. delle Nuove poesie del 1873 ecc.) hanno dei pian: nella ediz. Zanichelliana delle Poesie il Poeta cambiò in del pian.

È pure in questo sonetto che il Carducci chiama pio il bove (T’amo o pio bove ecc.) che paziente e laborioso apre i solchi della feconda terra, e dà vita ai campi, dove non mancherà occasione di osservare con Dante:

299.   Guarda il calor del sol che si fa vino
Giunto all’umor che della vite cola.

o di ricordare, vedendo al mattino le fronde umide della benefica rugiada, i versi del Manzoni:

300.         Come rugiada al cespite
          Dell’erba inaridita,
          Fresca negli arsi calami
          Fa rifluir la vita.

Certo li ricordava Ernani nella sua romanza del dramma lirico omonimo, parole di F. M. Piave, musica di G. Verdi (atto I, sc. 2), la quale comincia:

301.       Come rugiada al cespite
       D’un appassito fiore.

[p. 83 modifica]Non è qui però che troverai, a meno di essere sotto i Tropici,

302.       All the perfumes of Arabia.1

contentati di trovarli nel Macbeth di Shakespeare (atto V, sc. 1). Intanto fra gli alberi del vicino boschetto canterà l’usignuolo,

303.   Quel rosignuol, che sì soave piagne
   Forse suoi figli o sua cara consorte.

o volerà instancabile la

304.       Rondinella pellegrina.

come suolsi chiamare dal principio di una notissima canzone di Tommaso Grossi, che sta nel cap. XXVI del suo romanzo Marco Visconti, ed è viva tutta nella memoria e nel canto del popolo; ma più vivi degli altri e adattabili a circostanze varie sono i versi della seconda strofa:

305.       Solitaria nell’oblio,
       Dal tuo sposo abbandonata.

e della terza:

306.       Scorri il lago e la pendice,
       Empi l’aria dei tuoi gridi,

e tutta la strofa quinta:

307.       Il settembre innanzi viene,
       E a lasciarmi ti prepari:
       Tu vedrai lontane arene;
       Nuovi monti, nuovi mari
       Salutando in tua favella.
       Pellegrina rondinella.

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È stato rilevato che la Rondinella del Grossi è ispirata senza dubbio a una canzone del seicentista lodigiano Francesco De Lemene, La Vedovetta (nelle Poesie diverse del Signor Francesco De Lemene, Parte Prima, In Milano et in Parma, Per gli Heredi di Paolo Monti, 1726, a pag. 353) dalla quale trasse, migliorandoli, la movenza, spunti di pensiero e anche frasi. La canzone è di tre strofe, nelle quali la Vedova si rivolge successivamente alla Vite priva dell’Olmo, alla vedova Colomba, alla scompagnata Tortorella, le cui sorti trova simili alla propria. La imitazione è specialmente evidente nella 3ª strofa:

Scompagnata Tortorella,
Che del Fato
Dispietato
Ti lamenti in tua favella,
Scompagnata sono anch’io;
Su piangiamo,
Confondiamo,
Il tuo pianto e il pianto mio.

Molti richiamarono l’attenzione su questa imitazione, ultimo Guido Bustico (Incontri e reminiscenze nella letteratura italiana, ne L’Ateneo Veneto, a. XL, 1917, vol. II, fasc. 3º, pag. 127).

Ho nella mia bolgetta altre due bestie, un cane, o per dir meglio una cagna, la

308.      Vergine Cuccia de le Grazie alunna.

(Parini, Il Meriggio, v. 666 e 668).

cioè la cagnetta della dama del giovin signore, la quale per cagione di lei licenzia e fa morire nella miseria il servitore che audace col sacrilego piè lanciolla; ed un cavallo, quello invocato così disperatamente da Riccardo III alla battaglia di Bosworth Field (23 agosto 1485) gridando:

309.   A horse! a horse! my kingdom for a horse!2

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Il celebre attore inglese Barry Sullivan rappresentava il Riccardo III in un teatro secondario di Shrewsbury. Giunto alla famosa invocazione: «Un cavallo! un cavallo! il mio regno per un cavallo!», uno spettatore della platea gli grida: «Non le basterebbe un asino, signor Sullivan?» «Sì! — grida alla sua volta l’attore — passate dalla porta del palcoscenico».

Poveri asini, così pazienti, così umili, così utili, e così maltrattati! E con loro tante altre bestie avrebbero diritto di dolersi della cattiva reputazione che ingiustamente è fatta loro; eppure

310.   Les bêtes ne sont pas si bêtes que l’on pense.3

(Molière, Amphytrion, v. 108, prologue).

Ma lasciamo le cose animate e veniamo alle inanimate. Ogni volta che hai fra i piedi un sasso, non si dovrebbe dimenticare di chiederne il nome, se è vero che

311.      Nullum est sine nomine saxum.4

come disse Lucano (Pharsalia, IX, 973), il quale per altro intendeva parlare dei campi della Troade dove non c’era collina, nè rupe, nè promontorio che non fosse famoso per qualche classica memoria.

Se ti trovi dinanzi a una limpida e fresca sorgente, non dimenticarti delle

312.         Chiare, fresche e dolci acque.

ch’erano le acque della Sorga, affluente del Rodano, la quale insieme alla Durenza non lungi da Avignone chiude i colli sui quali nacque e visse Laura.

Dopo l’acqua il fuoco. Sul quale soggetto non mi sovviene che il verso di un noto melodramma:

313.                   Stride la vampa!...

[p. 86 modifica]Ma questo è fuoco terreno; per il fuoco celeste ho in serbo un esametro celebre:

314.   Eripuit cælo fulmen, sceptrumque tyrannis.5

composto da Turgot perchè fosse scolpito sotto un busto di Franklin, liberatore dell’America e inventore del parafulmine (cfr. Condorcet, Oeuvres complètes, Paris, 1804, V, p. 230); ma vi è evidente la reminiscenza di Manilio (Astronomicon, lib. I, v. 104)

Eripuitque Jovi fulmen viresque tonandi;
e anche il movimento del verso è tolto dall’Antilucrezio del Cardinale De Polignac (1745, I, 96).

Eripuitque Jovi fulmen Phœboque sagittas.

Il verso — che i Maltesi attribuiscono invece, senza fondate ragioni, ad un loro oscuro umanista, vissuto verso la fine del 700, certo Rigold — ma che è indubbiamente del Turgot, piacque a tutti tranne forse a Franklin che modestamente scriveva a Felice Nogaret: «Malgré mes expériences sur l’électricité, la foudre tombe toujours à notre nez et à notre barbe, et quant au tyran, nous avons été plus d’un million d’hommes occupés à lui arracher son sceptre.»

Piacque forse anche al nostro Monti che pochi anni dopo cantava:

315.   Rapisti al ciel le folgori
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero
E ti lambîr le piante.

Dal fulmine alle nuvole è breve il passo; e per le nuvole facile soccorre l’ardita metafora del Carducci che le chiamò

316.   Vacche del cielo.

La frase carducciana è nel Canto di marzo, una delle Odi barbare:

O salïenti da’ marini pascoli
vacche del cielo, grige e bianche nuvole,
versate il latte da le mamme tumide
al piano e al colle che sorride e verzica
a la selva che mette i primi palpiti.

[p. 87 modifica]Una conquista importante della genialità umana, cioè la scoperta delle leggi meccaniche della leva, era stata magnificata molti secoli prima con una famosa frase:

317.   Da ubi consistam, et terram cœlumque movebo.6

che è attribuita ad Archimede sull’autorità del geometra alessandrino Pappo. Questi nel frammentario libro VIII dei Collettanei matematici scrive: «Ad eandem demonstrandi rationem pertinet problema ut datum pondus a data potentia moveatur; hoc enim Archimedis est inventum mechanicum, quo exsultans dixisse fertur, da mihi, ubi consistam, et terram moveboPappi Alex. Collectionis liber VIII, Propos. 10, § XI, ed. Hultsch, Berolini, 1878, vol. III, pag. 1060-1061). Ho citato la traduzione latina dell’Hultsch; il testo greco della frase attribuita ad Archimede è:

Δός μοι ποῦ στῶ καὶ κινῶ τὴν γῆν.
Chi poi abbia portato al testo originale le varianti del dettato comune, non saprei. Cfr. in Buchmann, pag. 457, due lezioni doriche della stessa frase, sull’autorità di Simplicius in Phys., pag. 424 a, ed. Brandis e di Tzetzes, ed. Kiessling, pag. 46.

È stato fatto il calcolo della leva che occorrerebbe per sollevare davvero la terra con un contrappeso di 200 libbre inglesi, il peso normale di un uomo; e si è trovato che, dato un punto d’appoggio a 3000 leghe dal centro della terra, l’altro braccio della leva dovrebbe essere lungo 12 quadriglioni di miglia, e la sua estremità muoversi con la velocità di una palla da cannone per potere smuovere la terra di un solo pollice in 29 bilioni d’anni (Fergusson, Astronomy explained). Per cui si è detto che Archimede era troppo buon matematico per aver espresso una eresia tale; ma non si vuole concedere nulla ai primi entusiasmi di un inventore?

Ecco altre due sentenze di filosofia naturale, che non è possibile scompagnare l’una dall’altra, benchè la prima sia uno strano e antico errore, l’altra una legge profonda di verità:

318.   Natura abhorret vacuum.7

[p. 88 modifica]La si attribuisce a Cartesio (René Descartes) ma veramente erano Aristotile e i Peripatetici i quali pensavano tutto esser pieno in natura e con il principio dell’horror vacui cercavano spiegare, fra altri fenomeni, anche il salire dell’acqua nelle pompe. Sono famose nella storia delle scienze fisiche le esperienze di Pascal che demolirono questa singolare teoria e le polemiche ch’egli ebbe su tal proposito con Descartes (ved. Adam, Pascal et Descartes: les expériences du vide, 1646-1651, nella Revue Philosophique, vol. XXIV-XXV, 1887-1888). Peraltro Descartes faceva la questione metafisica che il vuoto in natura non esiste e che lo spazio che si dice vuoto, quando nulla contiene che sia sensibile alla vista, al tatto ecc., contiene nondimeno qualche cosa, cioè una materia creata, una sostanza estesa, contiene sè medesimo: però egli ammetteva il peso dell’aria e riconosceva essere esso la causa per cui l’acqua saliva nelle pompe e il mercurio in certi tubi (esperienza di Torricelli). Pascal così riassumeva le conseguenze alle quali egli giungeva con i suoi esperimenti e con i suoi ragionamenti di carattere puramente fisico, nella conclusione dei due trattati De l’équilibre des liqueurs e De la pesanteur de la masse de l’air: «Que tous les disciples d’Aristote assemblent tout ce qu’il y a de fort dans les écrits de leur maître et de ses commentateurs, pour rendre raison de ces choses par l’horreur du vuide, s’ils le peuvent: sinon qu’ils reconnoissent que les expériences sont les véritables maîtres qu’il faut suivre dans la physique; que celle qui a été faite sur les montagnes [al Puy de Dôme, nel 1648], a renversé cette croyance universelle du monde, que la Nature abhorre le vuide; & ouvert certe connoissance qui ne sauroit plus jamais périr, que la Nature n’a aucune horreur pour le vuide, qu’elle ne fait aucune chose pour l’éviter; et que la pesanteur de la masse de l’air, est la véritable cause de tous les effects qu’on avait jusqu’ici attribués à cette cause imaginaire.»

319.   Natura non facit saltus.8

È impropriamente attribuito da alcuni a Linneo, il quale così disse nella Philosophia botanica (cap. XXVII), da altri a [p. 89 modifica]Liebnitz, che nei Nouveaux essais, IV, 16, scrisse: Tout va par degrés dans la nature et rien par saut, ma non è invenzione nè dell’uno nè dell’altro. Il Fournier (Esprit des autres, ch. VI) racconta infatti di averlo già trovato come citazione in un raro scrittarello: Discours véritable de la vie et mort du géant Theutobocus (ristampato dal Fournier medesimo nelle Variétés historiques et littéraires, to. IX), a pag. 247-248 e sotto la forma: Natura in operationibus suis non facit saltum: e il Nehry cita la sentenza di Meister Eckhart che si trova in Pfeiffer, Deutsche Mystiker des 14. Jahrh., II, 124: Diu nature übertritet niht.

Questa sentenza è veramente sorella dell’altra:

320.   (Gigni) De nihilo nihilum, in nihilum nil posse reverti.9

che è di Persio (Satira III, v. 83-84), il quale in essa intuì con gli epicurei il principio fondamentale della scienza moderna, la indistruttibilità della materia, la conservazione e trasformazione della energia. Anche Lucrezio (I, 206) aveva detto:

Nil igitur fieri de nihilo posse putandum est
Semine quando opus est rebus.
e il concetto medesimo, applicato alla generazione delle cose viventi, si trasforma nell’altro canone:

321.   Omne vivum ex ovo.10

ch’era il principio fondamentale delle teorie sulla generazione del naturalista inglese Guglielmo Harvey, svolte da lui nelle Exercitationes de generatione animalium. Veramente in questa forma precisa la frase non vi si trova; ma il concetto ne traspare da tutto il libro. Vedasi per esempio, questo periodo della Exercit. I: «Nos autem asserimus omnia omnino animalia, etiam vivipara, atque hominem adeo ipsum ex ovo progigni, primosque eorum conceptus, e quibus fœtus fiant, ova quædam esse; ut et semina plantarum omnium; ideoque non inepte ab Empedocle dicitur, Oviparum genus arboreum». [p. 90 modifica]

Ho detto delle cose reali: ora dirò dei sogni. Alcuno li chiamò:

322.   Immagini del dì guaste e corrotte.

Parla infatti Titiro:

Son veramente i sogni,
Delle nostre speranze,
Più che dell’avvenir vane sembianze,
Immagini del dì guaste e corrotte
Dall’ombre della notte.

Che cosa si sogni poi più spesso, ce lo insegna il Metastasio:

323.   Sogna il guerrier le schiere,
Le selve il cacciator;
E sogna il pescator
Le reti e l’amo

Se si presta fede agli antichi (e anche a qualcuno fra i moderni) alcune di queste visioni sarebbero profetiche, poiché:

324.   Ὄναρ ἐκ Διός ἐστιν.11

e per lo meno sono divini i sogni della mattina:

325.   Post mediam noctem visus quum somnia vera.12

Anche il Passavanti nello Specchio di penitenza (Firenze, 1843), a pag. 407 dice: «Questi sogni che si fanno intorno all’alba del dì, secondo ch’e’ dicono, sono i più veri sogni che si facciano, e che meglio si possano interpretare le loro significazioni.» E Dante nella Divina Commedia: [p. 91 modifica]

326.   ....il sonno che sovente,
Anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.

  1. 302.   Tutti i profumi dell’Arabia.
  2. 309.   Un cavallo! un cavallo! il mio regno per un cavallo!
  3. 310.   Le bestie non sono così bestie come si pensa.
  4. 311.   Non vi è sasso che non abbia il suo nome.
  5. 314.   Strappò al cielo il fulmine, lo scettro ai tiranni.
  6. 317.   Dammi un punto d’appoggio e moverò la terra e il cielo.
  7. 318.   La natura ha orrore del vuoto.
  8. 319.   La natura non procede per salti.
  9. 320.   Nulla nasce dal nulla, nulla può tornare in nulla.
  10. 321.   Qualunque essere vivente proviene da un uovo.
  11. 324.   Il sogno viene da Giove.
  12. 325.   Una visione avuta dopo la mezzanotte quando i sogni sono veri.