L'arte falsa

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Lev Tolstoj - Che cosa è l'arte? (1897)
Traduzione dal russo di Anonimo (1904)
L'arte falsa
V VII

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Capitolo VI.


L’arte falsa.


Dacchè le classi più elevate della società europea ebbero smarrita ogni fede nel Cristianesimo papale, la bellezza, ovverosia il godimento artistico, diventò per essa il criterio dell’arte buona o cattiva. E, secondo tale nozione, nacque tra di loro una nuova dottrina estetica per giustificarla; quella cioè che assegna all’arte l’unico fine di produrre la bellezza. I seguaci di questa teoria per renderla più accettabile sostennero che non era già stata inventata da loro, ma che sgorgava senz’altro dalla natura delle cose, e che anzi l’avevano già formulata i Greci antichi. La quale affermazione è assolutamente arbitraria e inesatta; poichè, se i Greci in realtà non distinguevano nettamente il buono dal bello, ciò dipendeva dal loro concetto [p. 74 modifica]morale della vita. Non avevano alcuna idea chiara di quella somma perfezione morale distinta dalla bellezza artistica, spesso in opposizione con essa, che, già presentita da certi profeti ebrei, fu poi pienamente tratteggiata nella dottrina di Cristo. Essi imaginavano che il bello dovesse necessariamente anche essere il buono. Soltanto i loro più grandi pensatori, come Socrate, Platone, Aristotele, sentirono che la bontà non coincide sempre colla bellezza. Socrate subordinava di proposito la bellezza alla bontà; Platone, per unire i due concetti, discorreva d’una bellezza spirituale; Aristotele esigeva che l’arte esercitasse colla catharsis (purificazione) un’influenza morale. Ma all’infuori di codesti savii, gli altri ammettevano la concordanza intiera del bello e del buono, e così si spiega che nella lingua dei Greci antichi un composto, kalokagathon (cioè bello e buono), abbia servito a designare quella concordanza.

Ciò non era che il risultato d’una cultura incompiuta, la semplice confusione di due concetti ben distinti. Ora gli estetici del Rinascimento vollero elevare codesta confusione a dignità di legge. Pretesero dimostrare che il sovrapporsi della bellezza e della bontà dipende dalla natura delle cose [p. 75 modifica]ed è necessario, e che il senso della voce kalokagathon (che, se valeva per i Greci, non poteva valere per i cristiani) rappresenta l’ideale più alto del genere umano. Tutta la nuova estetica s’aggira sopra questo equivoco; e la sua pretensione di rifarsi all’estetica dei Greci è tutt’altro che giustificata. “A guardar bene — dice il Bénard nel suo libro intorno all’estetica d’Aristotele — si trova che in Aristotele, come anche in Platone e ne’ suoi successori le dottrine del bello e dell’arte sono affatte disgiunte.„ I Greci come gli altri popoli, ritenevano buona l’arte quando era al servizio della bontà, vale a dire di ciò che credevano buono. Ma in loro il senso morale era così poco svolto, che bontà e bellezza pareva loro che coincidessero. Del resto non ebbero mai neppure l’ombra d’una dottrina estetica sul fare di quella che si attribuisce loro. L’estetica è un’invenzione dei tempi moderni, e non prese forma scientifica se non dal Baumgarten in poi, come appare dalla storia di codesta disciplina filosofica, che tralasciamo per amore di brevità. Da buon tedesco il Baumgarten, con una cura assai pedantesca della simmetria e dall’esattezza esteriore, e un disdegno assoluto d’ogni osservazione di fatto, [p. 76 modifica]fabbricò ed espose la sua teoria singolare. Ed essa, a dispetto della sua assurdità, si divulgò nella cerchia della gente colta, ed è ripetuta tuttora da dotti e ignoranti come se fosse un vero incrollabile e d’assoluta evidenza.


Habent sua fata libelli pro capite lectoris; e ancor più giustamente si può dire che habent sua fata, le teorie, secondo il grado di errore in cui si trova immersa la società nella quale queste teorie sono inventate. Se qualche teoria serve a giustificare la falsa posizione in cui vive una classe della società, per quanto si mostri infondata e apertamente falsa, è accolta da quella tal classe della società come articolo di fede. Questa sorte ebbe, per esempio, la celebre e assurda dottrina del Malthus, colla quale sì sosteneva che la popolazione della terra s’accresce in proporzione geometrica, e i mezzi di sussistenza crescono solo in proporzione aritmetica; quindi essere inevitabile un affollamento eccessivo della terra. Lo stesso è avvenuto della teoria (derivata dalla Malthusiana), che scorge il fondamento del progresso nella selezione e nella lotta per la vita; ed è ciò che succede ancora della dottrina del Marx che ci rappresenta come [p. 77 modifica]legge fatale e inevitabile la distruzione graduale della piccola industria privata per opera della grande industria capitalista. Queste dottrine possono ben mancare d’ogni fondamento, opporsi a tutte le certezze, a tutte le speranze del genere umano, essere scioccamente e bruttamente immorali; tuttavia s’accolgono senza sforzo, s’insegnano senza discussione, talvolta per parecchi secoli, finchè non siano scomparse le condizioni sociali che esse valevano in certo modo a giustificare. Del medesimo stampo è la singolare dottrina del Baumgarten che ravvisa nel buono, nel bello, nel vero tre manifestazioni d’un essere unico e perfetto.

Invano si cercano degli argomenti per puntellare siffatta teoria. La bontà è realmente il concetto fondamentale su cui riposa la nostra coscienza nella sua essenza: è un concetto che la ragione non sa definire, che nulla può definire, ma che serve esso stesso a definire tutto il resto; è il fine supremo, eterno della nostra vita. La bontà è tutt’uno con quello che chiamiamo Dio. In questo ebbe ragione il Baumgarten. Ma la bellezza, se non vogliamo contentarci di parole, non è se non quello che ci fa piacere, e quindi il suo concetto non s’agguaglia con quello della bontà, [p. 78 modifica]anzi più presto vi si oppone, stantechè la bontà coincide spesso con una vittoria sulle passioni, mentre la bellezza è quasi radice di tutte le nostre passioni. So che si parla sempre d’una bellezza morale o spirituale, ma con questo giochetto di parole non si fa poi altro che designare la bontà stessa.

Quanto a ciò che chiamiamo il vero, esso consiste semplicemente in questo che la definizione o spiegazione d’un oggetto s’accordi colla realtà, o con una nozione di quell’oggetto comune a tutte le menti; in conseguenza possiamo dire che la verità è uno dei mezzi per produrre la bontà, ma è ben lontana dal confondersi con essa. Per esempio, Socrate e il Pascal, e altri savii, pensavano che non s’accordasse colla bontà la conoscenza del vero intorno a soggetti inutili, e che ci fossero delle verità malefiche, cioè cattive. D’altra parte la verità non è in nessun rapporto colla bellezza, e spesso le si oppone, poichè la verità in generale ci disinganna distruggendo l’illusione, cioè una delle condizioni principali della bellezza. Non è egli un fatto stupefacente che l’accozzamento arbitrario di tre nozioni così estranee l’una all’altra abbia potuto offrire un appiglio ad una teoria, nel cui nome una delle più basse [p. 79 modifica]manifestazioni dell’arte fu battezzata per arte elevatissima, quella estrinsecazione d’arte che ha il piacere per unico oggetto, quella contro di cui tutti gli educatori del genere umano hanno sollevato obbiezioni? E nessuno protesta contro assurdità simili! I dotti scrivono delle opere voluminose e incomprensibili, nelle quali la bellezza è insediata come uno dei termini d’una trinità estetica. Queste parole, il Bello, il Vero, il Bene, colle iniziali maiuscole, sono ripetute dai filosofi e dagli artisti, dai poeti e dai critici che pronunziandole pensano tutti di dire alcunchè di concreto e di determinato, su cui possano riposare le loro opinioni! Ora la verità è questa, che non solo siffatte parole non hanno alcun senso determinato, ma c’impediscono pure di intendere un’arte qualunque in qualche senso plausibile, come quelle che furono foggiate solo per giustificare la falsa importanza attribuita alla forma più bassa dell’arte; a quella che non ha altro fine che di procurarci un godimento.