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Di nuovo

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Libro secondo - L'imitazione e Giacomo Leopardi Libro secondo - Gli ultimi anni di Giacomo Leopardi

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DI NUOVO


Se il povero Leopardi riaprisse gli occhi!

Già, prima di tutto, se riaprisse gli occhi, quella adorazione meritata che nessuno gli contende nel tempio dell’arte, scemerebbe ingiustamente della metà, poichè egli stesso ha detto Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta; verità sacrosanta. E poi se aprisse gli occhi così all’impensata, e se cogli occhi potesse muover la mano, ne scriverebbe delle belle intorno a noi, al nostro tempo, alla nostra curiosità e forse anche intorno a quel progresso che gli suggerì la epistola al Pepoli. E davvero il povero poeta, disgraziato in vita, fu disgraziatissimo dopo morto e gliene hanno fatte di quelle col pelo.

Fu lamentato già il lungo silenzio serbato da Antonio Ranieri; silenzio che indusse i biografi in tanti errori: e si disse che se il generoso napoletano fosse depositario di qualche scritto del Leopardi, [p. 432 modifica]dovrebbe oramai vincere gli scrupoli di una delicatissima coscienza e metter fuori tutto. Non mi pento di averlo detto, ma la pubblicazione del signor Zanino Volta, l’Appressamento, mi fa morder la lingua1.

Il signor Zanino Volta, nipote dell’illustre inventore della pila, come ci dice parecchie volte nella introduzione, e vice-bibliotecario reggente nell’Università di Pavia (che diavolo è un vice-bibliotecario reggente?) il signor Zanino Volta capitò in certe camere del palazzo avito dei Volta dove erano per le terre molte cartacce, molta umidità e molti sorci. Trovò, frugando, un quaderno intitolato: Appressamento della morte, e se lo ficcò in tasca. Ora si trova che è un autografo del Leopardi, e lo stampa con cento pagine di prefazione.

È proprio del Leopardi? A questi lumi di luna siamo tanto avvezzi alle gherminelle letterarie e paleografiche, che questa è la prima domanda da fare. Chi è oramai quel letterato il quale non abbia commesso qualche marachella di questo genere? Io, per conto mio, oltre quel che è noto al pubblico, ho parecchi altri peccatacci sulla coscienza e, se volessi dirlo, c’è qualche poesia del 1300 a questo mondo che io ho visto nascere, crescere, trovar spasimanti ed amanti e peggio.

La calligrafia del Leopardi può essere esatta[p. 433 modifica]mente imitata dal primo che capita: la carta del tempo si trova dappertutto; l’inchiostro sbiadito o rossastro si fa in cucina, e la cantica è un lavoro tanto giovanile che, quasi quasi, potrebbe averlo fatto davvero il signor Volta; ma questo non vuol dire, poichè qualunque maestro di retorica può far di meglio.

Il nipote di Alessandro Volta ha preveduto il sospetto di falsificazione e mette le mani avanti. Egli prova che il testo e la sua età probabile vanno d’accordo con quanto ci dicono di questa cantica il Leopardi nell’epistolario, il Giordani ed altri; e che la calligrafia è quella stessa di altri lavori autentici del poeta ch’egli possiede; quindi la cantica è del Leopardi. Le premesse non fanno una piega, ma uno scettico potrebbe sorridere della conclusione. Dato il caso di un falsario, è egli supponibile che costui avesse steso la cantica senza studiare prima tutto quel che è stato detto da molti e senza imitare o far imitare il carattere grafico? Bisognerebbe supporre che il falsificatore fosse Calandrino. Se la cantica va quindi d’accordo ne’ caratteri, diremo storici ed esterni, questo non escludo che altri la possa aver fatta o fatta fare: ed anche questo ragionamento non fa una piega.

La storia del manoscritto, la storia provata, darebbe la vera sicurezza: ma appunto qui non si sa nulla di certo. Il come, il quando ed il perchè il manoscritto sia andato a nascondersi nella topaia dove il nipote del Volta lo trovò, non può sapersi. Il nipote del Volta si permette soltanto qualche ipo[p. 434 modifica]tesi, anzi parecchie ipotesi, che possono esser accettate come tali e non altro.

Non voglio già sostenere con questo che la cantica ora stampata sia una falsificazione. Non c’è nulla che lo dica, come a negarlo non c’è che l’opinione del nipote dell’inventore della pila. Non c’è nulla di strano che il Leopardi, da ragazzo, scrivesse a modo d’esercizio scolastico questi poveri canti, queste misere terzine.

Ma il rispetto, la venerazione che tutti abbiamo grande ed io ho grandissima per l’infelice poeta, non ci debbono impedire di confessare che questa cantica, imitazione d’imitazione, non è altro che un lavoruccio scolastico, retorico, poverissimo sia nel riguardo del concetto che della lingua.

La lingua infatti denota uno studio assiduo dei classici, o anzi meglio de’ trecentisti, non corretto ancora da quello squisito gusto che fece poi grande il Leopardi. C’è sino l’affettazione dell’arcaismo, c’è sino l’esagerazione ortografica.

Non c’è mai un io, ma sono tutti i’; non c’è parola mozzabile in principio che non sia mozzata e ci troviamo lo 'ngegno; ’ncontra; ’ntorno; ’ntelletto e mille anticaglie, roggia per rossa, lutta per lotta, frati per fratelli, dirampa, approcciare, dischiavacciare, credulitate, rinomo, e il pomo d’Eva è il piagnevol pomo; proprio un glossario, un zibaldone di modi affettati o rancidi. Sarà del Leopardi, ma la lingua potrebbe essere non che del padre Cesari o del Puoti, ma di Fidenzio Glottocrisio ludimagistro. [p. 435 modifica]

Quanto al concetto, è una imitazione d’imitazione. Lo stile è un calco, è un mosaico dove si trovano interi versi di Dante o di altri appena cambiati in una parola. L’episodio di Ugo è una imitazione un po’ della Francesca, un po’ dell’Ugolino, e la chiusa dell’episodio che piace tanto al nipote dell’inventore della pila, confina col comico; dice.

     E svolazzò lo spirto sospirando!


Sarà del Leopardi insomma, ma questo non deve influire sulla verità. Sarà del Leopardi, ma è una povera, poverissima cosa. Il Leopardi stesso del resto ha giudicato, accettando poche terzine dopo molte correzioni: dato sempre che il Leopardi abbia corretto e non dato che altri abbia scorretto il Leopardi. Se il povero poeta vivesse ancora e il signor Giovannino Volta gli avesse voluto fare un tiro da galera, non poteva forse fargliene uno peggiore che pubblicando questo imparaticcio che fa a pugni con tutte le convinzioni filosofiche e con tutta l’arte squisita del recanatese.

Per questa sconciatura e per la prefazione, della quale non dico nulla temendo che si possa sospettare qualche impossibile antipatia in me contro l’egregio nipote dell’inventore della pila, fu incomodata una illustre accademia milanese, si fecero suonare le trombe tutte dei giornali ed il monte ha partorito. Dico, e torno a dire sconciatura, l’avesse fatta anche il Padre eterno; poichè in fin dei conti se la critica deve usare delle ipocrisie, può andare al Gesù, ma non caverà un ragno da un buco. So [p. 436 modifica]bene che si troveranno anche i giornali di manica larga che loderanno senza aver letto, ma so bene che la coscienza ripugna a lodare quel che appare brutto e sbagliato.

Giacomo Leopardi è troppo grande poeta e troppo in alto perchè questa bambinata possa mai scemargli una dramma della nostra ammirazione. Non guastano il grand’uomo gli schizzi di meconio che la balia gli trovò nelle fasce; noi lo rispettiamo e lo amiamo lo stesso. Altrettanto però non possiamo certo fare pei nipoti dei grandi che fanno tanto fracasso per tali piccinerie. Il nonno può avere inventato la pila, lo riconosciamo; ma non riconosceremmo così che il nipote possa aver inventato la polvere.

Io mi doleva già che il Ranieri, se ha delle cose inedite del Leopardi, non le pubblicasse, ma dopo questa profanazione, direi quasi che fa bene.

Ma no. È impossibile che il Leopardi abbia lasciato al Ranieri di questa povera roba. Ah, l’amico incomparabile del povero Giacomo dovrebbe parare questo colpo tirato alla fama dell’amico dandoci qualche cosa di meglio!

Egli dovrebbe davvero riparare alla profanazione volgare e piccina mostrandoci tutto il Leopardi della maturità, il Leopardi che conosciamo ed ammiriamo. Dica egli almeno, che può dirlo se il povero infelice non avrebbe protestato altamente contro questa improntitudine scempiata che lo mette alla berlina come scolaretto plagiario.

Rispetto il giudizio degli altri, ma quanto a me lo dico chiaro e tondo: è una vergogna!

  1. Qui e altrove si allude alle carte leopardiane serbate dal Ranieri. Dopo la morte di lui furono rese pubbliche, ma lascio le parole come le scrissi allora, perchè indice del come se ne pensava allora e non soltanto da me.