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Tempo di vendemmia

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TEMPO DI VENDEMMIA


Dolce cosa sarebbe il ricordare se non supponesse un passato e quanto più il passato si fa lontano, altrettanto purtroppo al dolce si mescono larghe stille di amaro. Tuttavia diceva bene quel personaggio del Dickens: “mio Dio, conservatemi la memoria!” E lasciatemi ricordare.

Ero un bambino e mi mandavano a portare la colazione all’uccellatore appiattato nel casotto del paretaio. Ci si andava sotto un lunghissimo pergolato e l’uva era matura, la bella albana gialla come l’oro; ma più mi attirava un certo melo che produceva frutti piccoli, acidi e selvatici che mangiavo con tanto piacere, perchè me l’avevano proibito; e la valle era piena del canto delle vendemmiatrici, un canto che ho ancora negli orecchi.

Tornando, m’indugiavo pei campi, lungo i filari delle viti, dove già qualche foglia, rossa come il sangue, pareva una ferita aperta, una piaga di ma[p. 308 modifica]laugurio. Finita la vendemmia, cadon le foglie; finita la gioventù, cade l’amore. Rimane il vino, ricordo dei grappoli; rimangono le opere, ricordo della vita; ma se i tralci rimettono le foglie a primavera, l’uomo di primavera ne ha una sola e non rimette mai più le prime illusioni e le speranze! Tristi pensieri che allora non avevamo nè io, nè le vendemmiatrici.

Le quali cantavano i loro stornelli recando in capo i canestri pieni di grappoli dorati e reggendoli colle braccia nude, come canefore greche; nè io sapeva allora come la stretta di due braccia di donna può anche uccidere. Nella oscurità dell’anima del bambino non hanno luogo nè l’idillio, nè la tragedia; ma tornato a casa, sentivo da per tutto il caldo odore del mosto e, quando lo risento, ricordo sempre il pergolato del paretaio e il canto delle vendemmiatrici.

Dopo molti anni sono ritornato, ma il pergolato ed il paretaio non c’erano più. Nessuno si ricordava di me. Molti, troppi, erano morti. Superstite solo era il melo delle frutta acide e selvatiche che mi piacevano tanto perchè me l’avevano vietato, come il Creatore vietò ad Eva il suo, con quel risultato che sapete. Era diventato grosso, rugoso, aggrondato. Volli addentare un pomo, ma lo sputai come veleno. Eppure egli, poveretto, non aveva cambiato i suoi miseri frutti; ero cambiato io!

Le vendemmiatrici dove erano? Morte forse anche loro? Pensai alle tristi parole del Rabelais “addio panieri, la vendemmia è finita!” Addio. [p. 309 modifica]

Una decina d’anni sono mi misi in capo di attraversare tutta l’alta Italia da Genova a Trieste in bicicletta e ci riuscii, senza infamia. Da Voltri per la galleria del Turchino, scesi ad Ovada, dove tutte le strade si chiamano o Saracco senatore Giuseppe o Saracco cavalier Giuseppe ed era tempo di vendemmia. In quei pressi, sino verso la Capriata d’Orba, trovai che quello doveva essere un paese di gran galantuomini. Noi chiudiamo le vigne con folte siepi di pruni e in Toscana le chiudono a dirittura con muricciuoli; qui invece, pochi fascetti di ginestre secche, stesi sul margine della strada, erano l’unico segno di confine, e, ad un palmo di là dal fosso, cominciava la vigna pari pari e ricca di grappoli maturi. Pensai che, tra le viti, qualche contadino facesse buona guardia, ma non ci vidi anima viva. Possibile che lassù non vi sia qualche ladruncolo cui piaccia l’uva degli altri come a me le mele acide che mi erano vietate? E me ne rallegrai coi concittadini di Saracco comm. Giuseppe, il quale, vivendo, fu un ottimo galantuomo ed ha forse lasciato ai suoi vicini l’esempio e il ricordo della sua specchiata onestà.

Forse perchè ero assorto in questi generosi pensieri o forse perchè lessi male la Guida del T. C. I., verso Basaluzzo sbagliai la strada. Il caldo era grande, il sole bruciava la strada ed io, in questa [p. 310 modifica]oppressione di solitudine, mi sentivo maturo per un po’ di requie. Trovata l’ombra di una casa, appoggiai la bicicletta al muro e ripresi a studiare la Guida. Nel silenzio meridiano non passava un soffio, non che una creatura viva, e sentivo una gran voglia di chiudere un occhio, tanto più in paese di galantuomini come si vede dal modo di guardare le vigne, quando ad un tratto dalla casa uscì un suono di pianoforte.

Chi era quella buona, santa e bella ragazza (perchè doveva essere una ragazza bella, santa e buona) che mi suonava la sesta Rapsodia del Liszt, proprio quella che mia figlia suonò la sera prima della mia partenza? Mi sentii dentro un rimescolìo di riconoscenza e di amore, ma l’aspettavo all’allegro che ha le ossa dure. “Ora ti voglio” dicevo io! Ebbene; la ragazza santa, buona e bella, eseguì l’allegro con disinvoltura brillante, come se nulla fosse! Benedetta sia!

Me ne andai, lo confesso, con una tendenza alla tenerezza che, se gli amici mi avessero visto, riderebbero ancora. Me ne andai e giunsi ad Alessandria, ripetendo per la incognita i versi del Leopardi:

Di qua dove son gli anni incerti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.


Sarà per ciò che quando risento la sesta Rapsodia del Liszt, chiudo gli occhi e mi vedo presso a Basaluzzo, all’ombra di un muro e con una gran voglia di piangere. [p. 311 modifica]

E poichè sto raccontando i fatti miei anche a chi non li vuol sapere (difetto solito e forse importuno di chi invecchia senza aver nulla da nascondere) lasciatemi contare anche questa.

Proseguendo il mio lieto viaggetto, giunsi a Vicenza dove passai la notte.

La bicicletta è il cavallo della libertà; con lei si va dove si vuole, ci fermiamo dove ci pare, forte, piano, a destra, a sinistra, come detta la volontà o il capriccio. Così la sera, cenando, mi venne in mente di andare a Bassano, deviando dal mio itinerario, per un pensiero capitatomi in testa lì per lì.

Dovete sapere che a Bassano opera il migliore fabbricatore di pipe di terra cotta che sia in Italia. Modesto, nemico della réclame, ingegnoso e attivo, la sua terra cotta non è creta volgare esposta alla fortuna instabile della fornace, ma una composizione che ricorda la terra cotta di Signa. Le famose, le vere pipe di Schemnitz inseparabili dalle labbra di ogni buon ungherese, le fabbrica lui, in una officina modesta che egli chiama bizzarramente Pipificio Cavazzon; ed io decisi di andare a rifornirmi del mio modello (N. 112) proprio dove si fabbrica.

Così in una mattina fresca per Sandrigo e Marostica (non vidi i pellegrini) giunsi a Bassano, passai lo strano ponte coperto, ordinai le pipe, mangiai un boccone al Cardellino e per la via di Cittadella, mi misi verso Padova. [p. 312 modifica]

Tutto questo a voi non importa, ma importa molto a me, perchè quei sessanta chilometri pedalati solo per comprare alcune pipe di coccio, furono tra i più lieti e fortunati chilometri che abbiano posto nei miei ricordi.

Da Bassano a Padova la via eccellente è in lenta discesa e un venticello benigno mi aiutava. Io mi trovavo in quella felice disposizione d’animo che i fisiologi chiamano euforìa e che fa parere tutto bello, tutto lieto e beato, di un ottimismo da vincere il dottor Pangloss, buon’anima sua, e le vendemmiatrici cantavano nei campi, quasi per ricordarmi le vendemmiatrici della mia infanzia. Ahimè, dove saranno?

E rivivevo con delizia quei giorni lontani, cercando con occhio memore il melo dalle frutta acide, quando a Limena mi accorsi che la brisiola del Cardellino non era più che una santa memoria anche lei. Avevo appetito e (beata libertà della bicicletta!) mi fermai alla prima osteria.

Sotto ad un gran portico, dove erano molti barrocci, mi accolse una magnifica ragazza che mi condusse ad un pergolato, mi servì uno spuntino sopra una tavola rustica e mi interrogò, curiosa de’ fatti miei, per abitudine professionale. Ritta davanti a me, puntava sulla tavola un braccio nudo fino quasi all’ascella, un braccio un po’ morso dal sole, ma degno di animare i moncherini della Venere di Milo. Il pergolato, l’odore caldo del mosto, i canti, mi ricordavano il passato; e quel braccio nudo, con una fossetta insolente al gomito, mi pareva uno di quelli [p. 313 modifica]delle vendemmiatrici, delle canefore di una volta, quando non sapevo che la stretta di due braccia di donna può uccidere.

La ragazza s’ingannò evidentemente sui motivi della mia contemplazione, si allontanò e quando venne a farmi pagare il conto, notai che non aveva più le maniche rimboccate, il che mi indusse in meditazioni maliziose che prima non avevo avuto. Conseguenze logiche del pudore, il quale, più che velare, stuzzica. Me ne andai, ma da Limena a Padova ebbi davanti agli occhi quel braccio che, nudo, mi aveva destato tanti ricordi e, coperto tanti mali pensieri. Il peccato è figlio della proibizione. Ricordatevi le mele acide! Ma ecco, anche i tenui ricordi di quell’ora entrano nel passato di dove li evocherò lieti fino al giorno in cui dovrò dire: Addio panieri, la vendemmia è finita.

Ci vorrà pazienza.... ma che magnifico braccio!