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Cesare Gonzaga si era ritirato a casa molto inquieto per la fuga del nipote, fuga che non sapeva a qual cagione attribuire. Giunto lassù, in via Nazionale, rimase a chiacchiera col servitore enciclopedico, sempre aspettando la venuta di Arrigo. Finalmente, verso la mezzanotte, un fattorino dello Sport venne e lasciò per il marchese Gonzaga una lettera. Arrigo Valenti si scusava in essa con lo zio, per essere escito così in fretta da casa Manfredi, senza dargliene avviso, poichè si era ricordato di avere fissato un ritrovo allo Sport con un banchiere parigino, suo corrispondente ed amico. “Si farà tardi, cenando (soggiungeva Arrigo), ed è molto probabile, anzi certo, che passerò la notte fuori di casa, da vero [p. 272 modifica]ed autentico figlio di famiglia. A rivederci dunque domani, e non esser più tanto severo, te ne prego, col tuo povero nipote.„ Seguiva la firma.

Il pretesto era buono, e Pico della Mirandola ricordò all’illustrissimo signor marchese che altre volte il signor cavaliere aveva disertato, come quella notte, dal domicilio legale. Ma l’ultima frase del biglietto, che Cesare Gonzaga aveva letto e riletto una dozzina di volte, non era tale da lasciar molto tranquillo un animo naturalmente sospettoso, e per allora singolarmente eccitato. “Non esser più tanto severo„ scriveva Arrigo allo zio. Perchè quel “più„ che aveva l’aria di stabilire una data, un’êra nuova, come la nascita di Gesù Cristo, o come la fuga di Maometto? “Povero nipote„ scriveva ancora il Valenti. Perchè povero, mentre andava a cena e si disponeva a passare allegramente a notte?

Cesare Gonzaga meditò lungamente su quegli enimmi, e andò a letto senza averli sciolti; ma dormì poco, e quel poco, poi, facendo certi [p. 273 modifica]sognacci che il ciel ne scampi e liberi ogni anima ben nata. La mattina si svegliò per tempo, secondo il suo solito, e appena il servitore entrò in camera per portargli il caffè, gli chiese notizie di Arrigo. Il signor cavaliere non era ritornato. Per altro, non bisognava maravigliarsene, soggiungeva Pico della Mirandola; quando il padrone saltava una notte, la saltava intiera.

— Sono un gran matto, io, a pesar le parole di un biglietto vergato in fretta al circolo, come se si trattasse d’una terzina di Dante! — disse il Gonzaga tra sè. — Arrigo ha affogato nello sciampagna il dolore del rifiuto di Gabriella, e a quest’ora dorme saporitamente in qualche letto d’albergo. —

La mattina è stata data al giorno, come la primavera all’anno, per destare i più lieti pensieri nella mente dell’uomo. Cesare Gonzaga si rasserenò alla vista del bel cielo di Roma, e andò a farsi radere, secondo l’uso quotidiano, poscia a fare una passeggiata al Macào; nè ritornò a casa che verso le dieci del mattino. [p. 274 modifica]

— È rientrato? — chiese egli al servitore, anche prima di metter piede sulla soglia di casa.

— Sì, illustrissimo; — rispose Happy con un accento dimesso e con una cera da funerale.

— Che c’è? — gridò il Gonzaga, profondamente scosso.

— Ferito; — replicò il servitore.

— Che hai detto?

— Il signor cavaliere ha avuto un duello.

— Ah, il mio sogno! — esclamò Cesare Gonzaga. — E con chi?

— Col conte Guidi, che è in fin di vita, con una palla nel petto, e perciò penetrante in cavità. —

Il Gonzaga non istette a sentir altro, e corse nella camera del nipote.

Arrigo Valenti era coricato sul letto, ancora mezzo vestito, e voltato sul fianco. La camicia si vedeva aperta sulla spalla destra a colpi di forbice. Il dottore stava a capo chino presso di lui, in atto di medicar la ferita; e vicino al seguace d’Esculapio era un signore, [p. 275 modifica]sconosciuto anch’egli al Gonzaga, ma certamente uno dei padrini di Arrigo.

Il ferito riconobbe lo zio al passo frettoloso, e gli diede il buon giorno, senza voltarsi.

— Non è niente, sai! — aggiunse tosto, per calmare la sua inquietudine.

— Ti presento il dottor Mori e il barone di Santagata. Signori, mio zio, il marchese Gonzaga. —

Il dottore e il barone fecero un inchino. Cesare Gonzaga corse dall’altra sponda del letto, per vedere in volto il nipote.

— Zio, mi perdoni? — disse Arrigo.

— Che perdonare? Ti adoro; — rispose il Gonzaga, baciandolo sulla fronte. — Ma non ti affaticare coi discorsi, te ne prego.

— Che! Non soffro punto; — replicò il ferito. — Dottore, ditelo voi a mio zio, che posso parlare senza pericolo.

— Sì, può parlare, per ora, ma moderatamente; — rispose il dottore. — Non c’è febbre ancora, e forse non verrà prima di sera. Bisognerà dargli piuttosto qualche cosa che lo rinvigorisca; un po’ di cognac, un bicchierino di Marsala.... [p. 276 modifica]

— C’è del vino di Porto, che piace tanto al signor cavaliere; — disse Happy.

— Anche il Porto è buono; — sentenziò il dottore. — Lo assaggerò anch’io, quantunque non abbia fatto colazione. —

Il dottore apparteneva alla scuola moderna dei corroboranti; una scuola che ha i suoi pregi, come li hanno i corroboranti medesimi, e in particolar modo i noetici. Non so se mi spiego.

— Veda, signor marchese; — disse il savio chirurgo; — non c’è nulla di grave. La palla ha colpito l’omero, tra il deltoide e il bracciale anteriore. È entrata di qua, è escita di là, forse rasentando la scapula. Il braccio era alzato; i muscoli tesi hanno fatto resistenza; la palla, seguendo l’indole di tutti i corpi sferici, ha dovuto deviare, davanti all’ostacolo. Il ferito è sano, di buona complessione; vasi sanguigni importanti offesi non ce ne sono; sarà un affare di poco. Non è vero, cavaliere? Tra dieci giorni andiamo a fare una scarrozzata insieme.

— Magari fra cinque; — rispose Arrigo, sorridendo. [p. 277 modifica]

— Son troppo pochi; si contenti di dieci. —

Il dottore e il barone di Santagata si erano allontanati dal letto, per rivoltare le bende e distendere un po’ d’unguento sulla pezza. Arrigo approfittò della loro lontananza, per accennare sottovoce allo zio quel che gli era avvenuto in casa Manfredi, e quindi a voce più alta per raccontargli brevemente il duello. Si erano battuti alle otto, nei pressi del ponte Nomentano; avevano sparato a quindici passi di distanza, e simultaneamente, al comando; il primo colpo era andato a vuoto; al secondo, Arrigo si era sentito tocco alla spalla, ma in pari tempo aveva veduto cader l’avversario; egli giurava, per altro, di aver lasciato andare il colpo senza toglier la mira.

— Ti credo, ti credo; — disse il Gonzaga. — È sempre così, con quell’arme sciocca. Se toglievate la mira, c’era da scommetter dieci contro uno che colpivate i padrini.

— Vedi, intanto, — riprese Arrigo, — che il conte Guidi non mi vogherà sul remo. —

Cesare Gonzaga si chinò un’altra volta a baciare il nipote. [p. 278 modifica]

— Auguriamogli del bene; — diss’egli poscia — noi non vogliamo la morte del peccatore, ma che si converta e viva. —

Happy, che era andato per il vino di Porto, rientrò nella camera per dire al signor Cesare:

— Illustrissimo, c’è di là il senatore Manfredi.

— Ah! — esclamò il Gonzaga.

— Ed è con lui la signorina sua figlia.

— Diavolo! Cioè, diciamo invece angioli santi! — riprese il Gonzaga, volgendo un’occhiata ad Arrigo. — E gli hai detto che c’è un ferito?

— Non gli ho detto nulla. Han chiesto di lei; ho risposto che venivo a chiamarla.

— Tu sei saggio, Happy, e un giorno o l’altro, se il tuo padrone permette, verrai a stare con me.

— Verrò a buona scuola, illustrissimo. —

Cesare Gonzaga fece un cenno affettuoso con la mano al nipote, e uscì dalla camera, per andare nel salotto. Il senatore Manfredi, che stava là, sempre in sull’ali, si gettò nelle braccia dell’amico. Gabriella era lì lì per imitare il babbo; ma Cesare Gonzaga, da buon [p. 279 modifica]cavaliere, prese la mano della fanciulla e la recò divotamente alle labbra.

Dopo un istante di pausa, il Manfredi incominciò:

— Ma che è stato, Dio buono? Abbiamo passata una notte terribile. Iersera il conte di Castelbianco è venuto a darci la notizia che tu avevi un duello stamane. Sono escito per tempo, sperando d’imbattermi in qualcheduno che potesse darmi notizie, e non ho trovato che il duchino di Roccastillosa, il quale usciva dal circolo dello Sport... per andarsene a letto. Egli non sapeva nulla di preciso; soltanto aveva veduto nella notte il conte Guidi, che pareva inquieto e si era chiuso a colloquio con due amici. Allora ho creduto che davvero fosse avvenuta una quistione fra voi due. Ma ti vedo sano e sorridente; sia ringraziato il cielo! Non c’è stato dunque nulla?

— Nulla per me, come vedi; — rispose il Gonzaga. — Il duchino ti avrà anche detto che una quistione occorsa tra me e il conte Guidi era stata composta onorevolmente fin [p. 280 modifica]dalle prime ore pomeridiane di ieri. Egli era per l’appunto uno dei padrini del Guidi.

— Sì, mi ha raccontato anche questo. Ma le notizie del Castelbianco....

— Notizie in ritardo, caro mio!

— E l’affaccendarsi del conte Guidi, questa notte, al circolo... — riprese il Manfredi.

— S’è affaccendato per altro, sicuramente: — replicò Cesare Gonzaga. — Ma non parliamo di cose tristi; la nostra Gabriella è molto abbattuta.

— Per timore di lei, signor Cesare; — disse la fanciulla. — Ma ora incomincio a respirare, e se ella mi assicura che non ha più duelli, starò meglio senz’altro.

— Cara! Ne avrò uno, se babbo permette, e con lei. La sollecitudine loro per me, ha condotta qua la figliuola insieme col padre. Il padre mi consentirà di cogliere l’occasione per fare alla figliuola un certo discorso, che doveva venire senza fallo qualche ora più tardi, in casa sua. Meglio adesso, e qui, dove il destino ha voluto. Credete a me; se c’era momento buono per farlo, quel tale discorso, questo a dirittura è l’ottimo. [p. 281 modifica]

— Sai che ti ho dato ampia facoltà; — disse il Manfredi. — E se tu riesci a persuaderla....

— Oh, la persuaderò senza dubbio. Ma siccome annoierei te, che conosci già gli argomenti....

— Ho capito; me ne vado, — disse Andrea.

— Di là, — soggiunse Cesare, — dove c’è qualcheduno che vedrai volentieri. —

E premeva frattanto il bottone del campanello.

Happy non tardò a presentarsi all’uscio.

— Accompagna il signor senatore dal cavaliere Valenti; — gli disse il Gonzaga.

— Andiamo dal nostro cavaliere, — conchiuse il Manfredi. — Egli sarà molto maravigliato di vedermi in sua casa, a quest’ora. —

E andò, l’onorevole uomo, assai lontano dall’immaginarsi lo spettacolo che lo attendeva nella camera di Arrigo.