Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)/Rassegna bibliografica/Storia della Monarchia piemontese

Domenico Carutti

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Storia della Monarchia piemontese, di Ercole Ricotti

Vol. V e VI. Firenze, Barbèra, 1869.


I due volumi mandati fuori or è l’anno dal sig. Ricotti narrano la storia della Monarchia sabauda dall’anno 1630 all’anno 1675, cioè i regni di Vittorio Amedeo I e di Carlo Emanuele II, tramezzati dalla lunga Reggenza or legale ed ora dissimulata di Madama Reale. Nei quattro volumi precedenti l’autore, esposte per sommi capi le origini e le vicende della dominazione feudale dei Conti e dei primi Duchi di Savoia, raccontò più largamente i calamitosi tempi di Carlo III detto il Buono; quindi pose la mano e adoperò l’ingegno a ritrarre con pienezza e diligente industria i fatti di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, degnissimi di storia, coi quali tanto onoratamente s’inaugura l’età moderna della dinastia. Se ai volumi in discorso abbia il pubblico dei leggitori fatte quelle accoglienze liete di cui erano per ogni verso meritevolissimi, io non saprei ben dire, vedendo l’attenzione della pluralità in altre cure distratta; ma so benissimo che gli amatori schietti e intelligenti degli studi storici li tennero in conto di una fra lo notabili opere uscite in questi anni e tale da [p. 151 modifica]crescere lustro al nome dell’autore delle Compagnie di Ventura. I libri di storia sonosi oggidì tanto moltiplicati, e i mediocri e i superbi tanto rapidamente gli uni agli altri succedono, lodati secondo gli umori e le sètte, che a farne ragione conveniente sembra doversi anzi tutto ricercare se in alcuna guisa abbiano ampliati i confini della scienza, vale a dire la notizia del vero, comune e supremo intento delle faticose indagini dell’umano ingegno. Chi rifà oggi la storia di un’età o di un personaggio, dee farci conoscere quel tempo e quell’uomo, meglio e più compiutamente di quello che per gli altri scrittori ci era noto; dove ciò non avvenga, il libro di costui non sempre sarà da chiamarsi inutile, ma non può impromettersi durevole rinomanza, né farà testimonianza autorevole. I volumi del sig. Ricotti hanno per l’appunto questa virtù: molte cose non sapute rivelano, parecchie mal sapute correggono secondo verità e giustizia; sono faci che rompono le tenebre o che, accostate a dipinture lasciate nell’ombra ne rischiarano i contorni, i colori, le arie e l’armoniosa composizione. Il che, se parve singolarmente nelle narrazioni di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, rinnovasi ora in quelle dei due lor successori.

Grandi quei primi per diverse virtù; l’uno ristoratore del principato e delle fortune della Casa, fondatore della monarchia pura e assoluta, di feudale e disgregata ch’ell’era: l’altro lodato per grandezza di concetti, ardimenti magnanimi, costanza dalle prospere cose non rammollita, dalle avverse non doma; ma il primo temperante, longanime, più al sodo che alle lustre intento; capitano dei maggiori eserciti di Europa e vincitore di grandi battaglie, quand’ebbe ricuperata l’eredità de’ suoi padri, non cercò ansioso nuove occasioni di guerra, ebbe del sangue e degli averi dei popoli sapiente e pietosa cura; volle la Casa netta, solida, sopra buoni fondamenti collocata, e piuttosto che accrescerla di quartieri, badò a render sicuri e comodi quelli che avea. Carlo Emanuele I fece il contrario; sempre sull’armi, sempre in sugli avvisi, non uno tenea, ma più strali tesi sull’arco; amico mal fido, dagli amici colla stessa moneta ripagato, ricco di spedienti, d’ingegno veloce; superlativo nelle voglie, trapassante i termini dell’effettuabile, non ponderato nel bilanciare le forze [p. 152 modifica]dell’azione e quelle della resistenza. Emanuele Filiberto comprese che il centro di gravità dello Stato dovea essere in Italia e fermò stabilmente la sede del governo in Torino; volle elle il Piemonte, postato fra’ due potenti e prepotenti livali, diventasse, come a dire, un gran campo trincerato, dove ogni suddito fosse soldato, maneggiasse colla mano stessa ora l’aratro ed ora la picca, oggi inaffiasse col sudore la patria gleba, domani la difendesse col sangue. Ridusse in sè ogni podestà, salve le comunali franchigie; non riconvocò gli Stati Generali che sotto la signoria forestiera erano stati posti in disparte, pei nuovi balzelli trattò direttamente coi Comuni; militare lo Stato, lui imperatore. Rientrò nel dominio, signore di nome, soggetto in realtà a Francia e Spagna che le migliori città e fortezze gli custodivano a guarentigia e per reciproca gelosia; tollerò la dura legge senza femminee querele e stolte vanterie d’impossibili riscosse; ma a spezzar la catena, a liberarne sè e il principato, forte, costante, circospetto intese fin dal primo momento del regno. E vide finalmente partire i Francesi, partir gli Spagnuoli, fu padrone e sovrano; tanto è vero che se una volta la temerità riesce, le dieci volte vince prudenza operosa. I deboli di animo e di mente sogliono essere o temerari o sbattuti: solo i forti sanno perseverare fruttuosamente. Un dì il prezzolato Paolo Giovio al duca profferiva lodi a suon di contanti; e non essendo accolta la profferta disse a taluno: «Io vestirò nella mia istoria gli altri da festa e lui da feria». Il che risaputo, Emanuel Filiberto rispondeva: «Nell’operare io temo più il segreto testimonio della coscienza che il pubblico dello storico più famoso». Più l’uomo studia i particolari del regno di questo principe e più ne raccomanderà lo studio e l’imitazione emulatrice a coloro che debbono riformare gli Stati usciti dalla mala scuola delle rivolture interne e delle straniere occupazioni, reggere popoli non affezionati al recente passato, non ben devoti ancora al presente, dell’avvenire spensieratamerte diffidenti.

Brevi tregue, non paci ebbe mai Carlo Emanuele I. Molte parti di regia grandezza possedette; seppe destare e tener vivo nei Piemontesi il sentimento e l’orgoglio del nome e della patria politica, e questa patria avvicinò alla rimanente Italia, onorandone i dotti uomini, i poeti, gli artisti; alta [p. 153 modifica]gratitudine gli è dovuta dell’aver tolto il marchesato di Saluzzo a Francia, colle armi dapprima, in ultimo morcè la cessione della pingue provincia della Bressa oltromonte; finalmente glorioso gli sarà in ogni tempo l’essersi con Enrico IV sollevato al nobile pensiero di levar la penisola dalla signoria spagnuola. Il pugnale di un assassino troncò i disegni dèl Bearnese, dissipò quelli del Savojardo; il quale rimasto solo, sostenne solo le armi di quel reame su cui non tramontava il sole. Coronato di quest’alloro, a cui pensando anche oggidi l’animo si esalta, avrebbe dovuto il prode ritirarsi nella sua tenda, rimarginare le cicatrici aperte, aspettare le occasioni, non ricercarle inquieto e suscitarle. Non posò, non attese, gittossi a destra, gittossi a sinistra, talvolta più capitano di ventura che vecchio principe di vecchio sangue. Fu amato e seguìto dal popolo e perciò il più degli storici l’assolvono con indulgenza soverchia. Il popolo piemontese amava e seguiva un principe valoroso e degno; ma il principe avrebbe dovuto meglio rispettarne, risparmiando dissennate prove, la provata devozione; il che facendo avrebbe dimostrato di pregiarla e saperla ricambiare; seguendo altra via, mal ne incolse a lui e al suo paese: mori lasciando Savoia in mano di Francia, Piemonte a mercede delle soldatesche spagnole, imperiali e francesi; col flagello della peste e della fame per giunta.

In tal condizione, e regnando in Francia il cardinale di Richelieu, Vittorio Amedeo I ereditava la corona. La narrazione del sig. Ricotti prende di qui le mosse, e ci fa assistere ai negoziati incontanente introdotti per conseguire una pace divenuta necessaria e di necessitcà gravosa. Infatti il trattato di Cherasco del 1631 introduceva i Francesi in Pinerolo, riapriva le porte della penisola state chiuse col sacrificio di una ricca provincia transalpina. Ottenne compensi territoriali nel Monferrato; ma quand’anche fossero stati maggiori, non poteano compensare la cessione di Pinerolo che poneva al Duca un freno in bocca, allo Stato un dardo nei fianchi. Non fu sua la colpa; scontò le colpe paterne. Allora soprammontò la primazia francese, durata per tutto il secolo, insino a che Vittorio Amedeo II nuovamente e terminativamente se ne disciolse. Nel 1635 il Duca, per volere di Richelieu, entrò in [p. 154 modifica]guerra contro gli Spagnuoli; nel 1637, dopo la vittoriosa fazione di Monbaldone, colto da violenta colica e poi da febbre maligna morì. Come il padre, comandò gli eserciti, li spronò coll’esempio, ugualmente intrepido nei pericoli e fermo nelle avversità. Salì al trono in momenti disastrosi, ricuperò le Provincie perdute, le accrebbe al prezzo detto or ora. Richelieu, parco lodatore, scrisse di lui: «Aveva la vera liberalità conveniente a buon principe, cioè quella cui possono portare le sue finanze, senza ricorrere all’uopo di angariare i sudditi per mantenere un fasto insolente. E si può dire di lui che fu buon padrone, marito e padre non meno che buon principe verso i suoi popoli, di cui amava il sollievo quanto l’antecessore suo l’avea dispregiato». Lasciava due figli maschi in piccola età e tre figlie, avute dal suo matrimonio colla duchessa Cristina di Francia, figliuola di Enrico IV, e nota col nome di Madama Reale; gli sopravvivevano due fratelli, il cardinal Maurizio e il principe Tommaso, l’uno e l’altro aderenti a Spagna, e che a quei dì stavano fuori dello Stato, Maurizio in corte di Roma, Tommaso nelle Fiandre.

La violenza e i rapidi progressi del morbo impedirono a Vittorio Amedeo I di far testamento; il confessore lo interrogò «se persisteva nella intenzione altre volte espressa di rimettere alla Duchessa le cure dei figliuoli e dello Stato. Gli astanti vollero udire che egli dicesse un sì; ma era piuttosto un sospiro che una risposta. Se ne prese motivo per compilare un testamento soscritto da nove dei principali della Corte». Così scrivea l’ambasciatore di Francia. Di qui la guerra civile. La Reggenza dello Stato e la tutela de’ principi ereditari furono a Madama Reale disputate dai due cognati, mossi non solo da bramosia di potere (che pur tuttavia non è sempre condannabile), ma da alte ragioni politiche e nazionali. Sospettavasi che la Duchessa, di sangue francese, fosse per darsi in balìa del re suo fratello, e ne andasse di mezzo la indipendenza e l’essere del Piemonte. Veramente il cardinale di Richelieu, abbandonata la politica di Francesco I, più non mirava a conquistare lo Stato di Casa Savoia; sì il voleva ligio e retto a suo talento e secondo gl’interessi di Francia; laonde pretendeva le fortezze come titolo di malleveria e non solo volea esclusi della partecipazione al governo [p. 155 modifica]Maurizio e Tommaso, perchè devoti alla nemica Spagna, ma ordinava che non fossero ricevuti in Piemonte. I principi doveano combattere questi disegni, tutelare i diritti dei nipoti, i proprii e quelli del paese, provvedere alla gravità della situazione.

Madama Reale toccava i trent’anni; occhi azzurri e vivaci, bionda chioma, bella e piacevole, sebbene con voce alquanto maschile; «di tempra galante ed amorosa» a guisa del valoroso e tenero padre suo; ambiziosa e cupida di comando, versata e assidua in raggiri di alcova e di gabinetto, gli uni egli altri mescolando con molta divozione e pratiche di chiesa. Il vecchio suocero Carlo Emanuele I che se n’intendeva, adoperatala in alcuno di que’ tortuosi avvolgimenti suoi presso la Corte di Luigi XIII, e provatala di fede incerta, tennela lontana da ogni negozio; ed ella ne impermaliva, femminilmente, e di soppiatto carteggiava col re fratello e col cardinale ministro, e pregava (1630) che le trattative allora pendenti passassero per le sue mani, «perchè altrimenti (scriveva) non debbo sperare più contentezza qua, dove tanto mi odiano, che m’impediscono qualunque parte nelle faccende». Morto il suocero, non trovarono le sue voglie ostacolo presso il marito; ed ella (giova il dirlo) si adoperò da buona piemontese, e il suo credito non fu inutile a mitigare le asprezze del cardinale verso il duca. Creata Reggente e perciò signora davvero, aborriva dal dividere coi cognati le apparenze del potere; le apparenze, perchè la sostanza cedevala a chi volgea le chiavi del suo cuore non punto di selce. E questi era allora il conte Filippo San Martino di Agliè.

Il cardinale Maurizio, non mai entrato negli ordini sacri, era uomo di buone lettere, non più giovane, vanerello, volubile nei propositi, invaghito della Duchessa sino dal tempo in cui avea in Francia conchiuse le nozze di lei col fratello. Ora offrivale il suo consiglio nell’opera del governo e di più la mano di sposo. Né l’uno né l’altra piacevano a Cristina per le ragioni dette; piacevano peggio a Richelieu, il quale dichiarò per mezzo dell’ambasciatore del re a Torino che, dove Maurizio venisse in Piemonte, farebbelo catturare e condurre in Francia. Quest’ambasciatore era un Michele Particelli [p. 156 modifica]signor d’Emery, di famiglia lucchese, nato in Lione, traricchito nei traffichi e nei fallimenti, già tesoriere delle argenterie del re, poi suo rappresentante in Piemonte. Fu detto l’uomo più corrotto del secolo; avea coscienza «che si atterriva di nulla», perspicacia diabolica, gentilezza di modi non dati da natura né imparati dalla cuna, e che perciò spesso dimenticava, e quando gli si contraddiceva ed egli incolleriva, l’antico fraudolento banchiere sopraffaceva il nuovo gentiluomo raffazzonato.

Altra natura da quella di Maurizio, altra mente, altro braccio era in Tommaso di Carignano. Uomo di guerra, soldato a tutta prova, pratico dei negozi, accurato e nei disegni riflessivo. Da parecchi anni comandava nelle Fiandre gli Spagnoli, or con buona ed or con mediocre fortuna; cocevagli vedere lo Stato del padre suo e de’ nipoti a così mal partito, premevagli porre argine al prepotere dei Francesi. Avea consigliato alla Reggente di non legarsi le mani, di valersi dell’aiuto e dell’autorità di Maurizio; ed a Maurizio raccomandava prudenza e arrendevolezza. Finché furono in vita i due figli di Vittorio Amedeo I stette osservando e ammonendo; ma quando alla morte del fanciullo, Francesco Giacinto, vennesi in timore che Carlo Emanuele II di poco più di quattro anni e malaticcio dovesse anch’egii finire di corto, procedette animoso e risoluto. Indovinò o seppe essersi gl’intendimenti di Francia dai nuovi eventi modificati. Richelieu infatti avea scritto: «Se muore Carlo Emanuele, la Duchessa Reggente ritenga l’autorità, e si faccia passare la successione al trono nelle figliuole. La principessa Margherita sarà maritata al Delfino di Francia; non guastare l’ineguaglianza dell’età; perchè i matrimoni dei re si fanno per ragione di Stato; la principessa, appena spirato il fratello, parta per Francia e sia quivi educata». Per le quali cose tutte Tommaso accordatosi a Madrid e a Milano, nel 1639 lasciò le Fiandre col seguito di tre sole persone e nome finto; il 10 marzo era in Lombardia. Lo ritraeva poc’anzi il pennello di Antonio Van-Dich, la cui maravigliosa tavola adorna la pinacoteca di Torino. Tommaso vi appare sopra focoso destriero uscente da maestoso portico. Sotto la sua mano (mi varrò in parte delle parole di Roberto d’Azeglio) il generoso animale erge [p. 157 modifica]fieramente il capo, e raccogliendosi nelle membra pompeggia e morde il freno spumoso. La figura del cavaliere e quella d’uomo educato alle armi, la risolutezza par che si accosti all’audacia; piglio franco, fronte eretta e superba; dall’occhio ardente fulmina il comando, la destra accenna al campo di battaglia: quel gesto indica quale posto egli vi occuperà. L’arrivo di Tommaso fu il segnale di guerra: i popoli odiavano Madama Reale in odio dei Francesi, ne detestavano la debolezza, le prodigalità, gli amori noti; per lei vedevano imminente il giorno in cui sarebbe perita la nazionalità loro, infranto il vecchio trono di Savoia. Plaudivano ai principi come a salvatori, unici e veri rampolli di Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I, le città insorgevano gridando: «Non vogliamo nè Francesi nè Spagnuoli».

Furono anni di dolore, di tristi vicende, di poche virtù. «In verità (scrive il Ricotti) più brutto spettacolo non si allacciò mai alla memoria di storico, amante della patria sua. La suprema potestà disputata coi titoli ugualmente validi, le armi esteriori aggiunte alle interne, i tradimenti alle ostilità aperte, i più parteggiare secondo l’utile o la passione, l’occasione o la violenza, soprapponendo al bene comune il trionfo della fazione, e mentre questi si destreggiano fra l’uno e l’altro e mutando luogo si ingannano tutti, e quelli si combattono in cieche pugne senza risultati, e ciascuna terra muta a volta a volta bandiera, padroni ed oppressori, tutto il paese distruggersi da soldatesche straniere che qua ed oggi hanno nome di amiche, colà e domani l’avranno di avverse».

Le memorie di quegli anni ci pervennero infoscate dalle passioni, testimonianze contraddicenti e contemporanee ci traggono in diverse sentenze; niuno e nulla vi è risparmiato: nè pudor di donna, nè carità di congiunti, nè lealtà d’intendimenti; le lingue e le penne dei Principisti e dei Madamisti non ebbero ritegno; rassomigliarono a certe gazzette di oggidì. Non sia maraviglia; la rivoluzione, quando è scatenata, nulla rispetta; e chi ne agita gli incendi e danza a quegli splendori infausti, inconscio mentisce, ama ingannare altrui, e travede e finisce ingannando sè stesso. Non mi propongo di dare un estratto della guerra civile piemontese, nè della Reggenza di Madama Reale dopo rappacificatasi coi [p. 158 modifica]principi, nè del governo di Carlo Emanuele II; il lettore ricorra ai due volumi del sig. Ricotti e non gli parranno lunghi, perchè, oltre alla materia accuratamente illustrata l’autore ordinò il racconto per forma che porge diletto, non genera stanchezza; pregio codesto che, se debbo dire il mio sentimento, spicca assai meglio nei due volumi datici ora che nei quattro da cui furono preceduti.

Non tutto è biasimevole nella Reggenza, non tutto illodevole nel regno di quel nostro principe, che quasi solo della sua razza non montò a cavallo allo squillar delle trombe; ma chi voglia essere schietto, riconoscerà che tutto è mediocre, e che il corrompimento dei costumi, l’oblio dei doveri nel principe, nei generali e nella nobiltà, tengono la più larga parte del quadro. Per altro la tabe rimase in alto, non penetrò, nel basso; la cittadinanza non ebbe tempo di guastarsi, i disordinati esempi non furono imitati. I venti delle Alpi dispersero le brezze voluttuose del Valentino, il mistero ravvolse nelle sue ombre i notturni convegni della Veneria descritti dal brioso cavaliere di Grammont. Ad accusare Madama Reale e Carlo Emanuele II la cronaca, che ha mandato di registrare gli scandali dei personaggi augusti, ripeterà i nomi del Pommeuse, di Filippo d’Agliè, della Trecesson, del Fleury, della Maroles e simili; ma dinanzi alla storia levansi accusatori e il favoritismo che dissanguò i popoli, l’educazione data al principe giovanetto, il carcere del P. Monod, la guerra di Genova, il disastro di Castelvecchio, il processo di Catalano Alfieri e le immanità contro i Valdesi, sulle quali imprecò la vindice musa di Giovanni Milton.

Scrittori compri levarono a cielo la Reggente viva; per essi fu un astro e un sole senza macchie. Perciò il principe Tommaso venne dipinto come un volgare ambizioso che contro la patria voltava le armi per aggiogarla al carro della Spagna e dell’Impero. Estinto il ramo primogenito di Casa Savoia, succeduto il cadetto, discendente da esso Tommaso, le cause e le ragioni della guerra civile furono divisate con maggiore veracità, ed ora il Ricotti narra la serie degli avvenimenti con imparzialità, senza silenzi e velature compiacenti, senza studio di parte; nel che sta gran parte dell’onestà storica. Così giunge per tutti il giorno della giustizia. La quale certezza [p. 159 modifica]di un tribunale di revisione dee rinfrancare i buoni che raccolgono amari frutti dalle azioni virtuose, i buoni cui tavolta tenta il riposo per fuggire non tanto il dolore quanto il tedio di sleali avversari.

Se la fama del principe Tommaso si rinfresca alla sincera esposizione dei fatti, intorno a Madama Reale la sentenza della posterità meglio informata non può non essere rigorosa. Ben dice il Ricotti: «Quantunque non abbia risparmiato danari, titoli e croci e lusinghe per preoccupare il giudizio severo della storia, tuttavia il nome di lei suonò tristamente presso i posteri». Nè io credo che si possa a lei apporre incolpazione maggiore di quella che ricavasi dai dispacci del Senatore Alvise Sagredo, ambasciatore veneziano a Torino nel 1662: «Per conservarsi non pure la reggenza ma il dominio dispotico dello Stato, ella procurò che il Duca fosse educato con poca applicazione alle faccende, senza studi di storia e scienza, ma solo a cacce e feste, con alquanto di disegno». Questa pessima istituzione dee renderci più indulgenti verso Carlo Emanuele II. Di cui lo storico nostro: «Tutti, a riserva delle poche famiglie di processati e condannati, e particolarmente il popolo, lo amavano, e attribuendo le disfatte militari a tradimento dei capi, le condanne a stretto giudizio, i beneficii della pace alla bontà del principe, ne esaltavano le belle doti. Spirò abbracciando il Crocifisso a dì 12 del giugno (1675), otto giorni prima di compiere il quarantunesimo anno di sua età, lasciando di sè memoria migliore delle opere e più proporzionata alle intenzioni che ai fatti». Le quali parole sono verissime, e l’amor del popolo verso il Duca, dimostra quanto poco debbano fare i principi vecchi per essere amati dai popoli buoni. Ma quale diversità fra il padre di Vittorio Amedeo li e l’avolo e il bisavo! quanta fra lui e il figliolo! Di principi a lui somiglianti non ebbe carestia l’Italia nei tre ultimi secoli. Per me, se dovessi significare in pochi versi la mia opinione direi che l’alunno di Madama Reale rappresentò in Piemonte il secento d’Italia. Per buona ventura durò poco.

Ma più che i tristi esempi piacemi rammemorare i virtuosi, e perciò termino col ricordo di un uomo a cui, tarda riparatrice di lunghe e crudeli ingiustizie, dee rivolgersi la [p. 160 modifica]lode riconoscente dei cittadini. Nelle difficoltà perigliose dei casi, nelle incertezze dei migliori partiti non mancò alla Reggente l’aiuto di un consigliere fidato, che vedea diritto e più lontano di tutti, le cui proposte accolte a tempo avrebbero risparmiate le calamità e le ruine lamentate. Questi era il padre Monod gesuita. Sapevalo il cardinale di Richelieu che ne giurò lo sterminio; resistette la Duchessa alle minaccie francesi, poi s’indusse ad allontanarlo dalla corte e dargli cortese confino. Non si contentò il porporato, e Cristina ebbe la colpevole debolezza di cedere una seconda volta, facendo arrestare l’infelice e sostenendolo nella fortezza di Mommeliano. E neppure questo bastò, non fu pago l’implacabiie ministro di Francia; e Cristina, vergogno a scriverlo, cedette ancora, chiuse l’innocente nell’orrido castello di Miolans. tomba di ladri, assassini, falsari. Colà moriva l’intemerato uomo, dimenticato e quasi privo di senno (1644). Il nome suo, per dottrina, coraggio e rara indipendenza d’animo onorando, presso molti giace ancora dei colpi onde l’offesero le vendette e le vigliaccherie contemporanee; colpi con troppa leggerezza rinnovati alla nostra età dai due più eccelsi scrittori del suo paese, i quali avrebbero pur dovuto avvertire che la vittima dell’oppressore straniero non potea essere un cattivo cittadino. E tale non era colui, che a Vittorio Amedeo I sconsigliò la cessione di Pinerolo e la lega offensiva colla Francia, alla Duchessa Reggente il rinnovamento di essa lega, e ciò mentre professava «dover essere massima fondamentale il conservare ad ogni costo la buona unione colla Francia, ed essere eresia preferirle l’amicizia colla Spagna». Non era tristo cittadino chi al primo rumoreggiar delle armi di Tommaso, interpellato sulle necessità presenti non si peritò di rispondere per iscritto a Madama Reale consigliandola di riconciliarsi coi cognati in guisa da conservarsi il grado di tutrice e reggente, lasciandone ad essi l’esercizio col titolo di Luogotenenti e sotto certe cautele. Era consigliere integro, animoso e degno di rispetto chi dal fondo di un ergastolo, premio della sua fede, potea scrivere a Cristina stessa: «Nulla ho chiesto né per me né per i miei congiunti, non entrai ne’ consigli se non invitato, anzi forzato dal Duca mio signore». Il sig. Ricotti conchiude la [p. 161 modifica]narrazione delle sventure del P. Monod dicendo che egli «diede; in sè nuovo esempio al mondo della poca stabilità dei sostegni di corte, dove tanto meno l’uomo dura, quanto ha tempra più schiva e indipendente». Ed io per onorare la sua travagliata memoria vorrei sapere qui aggiungere una di quelle parole che vengono dal cuore e che allo storico non si disdicono punto.

Pare che l’egregio scrittore non intenda proseguire il suo lavoro. Io ne esprimo pubblicamente il mio rincrescimento; e lo esprimo con sincerità, quantunque la continuazione sua debba far dimenticare le cose ch’altri abbia scritto intorno ai regni successivi. Chi ci guidò sino al 1675 ha contratto, starei per dire, l’obbligo morale di condurci sino al 1817, anno col quale chiudonsi le ultime pratiche derivanti dai trattati di Vienna nel 1815, e dopo il quale incomincia un’altra era che i figli nostri racconteranno meglio di noi. Carità di patria comanda di darci compiuto il corpo di storia piemontese tuttora desiderato. Ora che per altra via, per altri pericoli, per meta ugualmente nobile ma più alta si sono affaticati e si affaticano i nostri passi, saldiamo il conto col passato irrevocabile:

Fuimus Troes, fuit Ilium et ingens Gloria Teucrorum.

Domenico Carutti.