Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Saggi/IV. I «Promessi Sposi»

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IV. I «Promessi Sposi»

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IV

I «PROMESSI SPOSI»

La prima cosa che dové colpire i sagaci lettori di questo Romanzo, fu la sua originalità, come affatto nuovo e nel suo spirito e nella sua materia. Il suo spirito è un concetto morale e religioso, vivente ancora in mezzo agli strati sociali, ancoraché pervertito, e ricondotto nella sua purità primitiva, e insieme informato del pensiero e del sentire moderno. La sua materia è tutta particolare, legata nelle più minute circostanze con una data epoca, e appoggiata ad un intrigo uscito dalle viscere stesse della cronaca e perciò novissimo. Né è meno originale la forma, dove trovi scolpita la ricca personalità dell’Autore e insieme i caratteri più spiccati del genio moderno. Sicché questo Romanzo è uno di quei lavori capitali, che nella storia dell’arte inaugurano un’era nuova, l’era del reale.

Non è già che l’ideale qui faccia difetto, anzi l’ideale è qui tutto un mondo morale e religioso che si sviluppa in mezzo al movimento del secolo decimosettimo, e diviene la tendenza, se non vogliamo dir proprio lo scopo del racconto. Come ne’ drammi e ne’ romanzi del passato secolo, qui è chiara la tendenza dell’Autore a inculcare negli animi il suo mondo morale, il mondo della rassegnazione, della carità e della preghiera, che emerge vittorioso e lucente tra le passioni e i pervertimenti della realtà storica. E non solo è qui un mondo ideale che tende a separarsi dal contenuto e a porsi solo esso nella immaginazione de’ lettori, ma non si può neppur dire a prima vista che esso emerga [p. 62 modifica]naturalmente dal seno del contenuto. Anzi è chiaro che esso è un mondo perfetto e divino che preesiste nella mente dello scrittore, a quel modo che dicono l’anima non solo distinta dal corpo, ma preesistente a quello. Mantenere l’ideale nella sua purezza e nella sua perfezione, considerare la vita come un semplice velo, di sotto a cui esso trasparisca nella sua integrità, questo era il domma dell’arte antica, l’assioma di tutte le critiche. Quelli che avevano più vivo il sentimento del reale, vi aggiungevano un cotal processo di formazione, sicché l’ideale fosse pienamente calato nella vita e vi simulasse tutta l’apparenza di quella. Ma, volta e gira, l’ideale rimaneva pur sempre quello, puro e astratto, e il reale non era altro che un velo o involucro più o meno denso, più o meno vicino alla vita.

Questa concezione a priori di un mondo ideale assoluto, voglio dire in tutta la sua perfezione morale, determinava anche il congegno del racconto. Perché, essendo quell’ideale una vera forza o anima di tutto il materiale, vi stava al di sotto come un vero Deus ex machina, e lo componeva e disponeva secondo una sua propria logica. I fatti vi erano ordinati come momenti esteriori del suo organismo, vi s’immaginava una opposizione fittizia alzata a quel livello e perciò anch’essa maggiore del vero, nasceva un intrigo che si avvolgeva e si svolgeva secondo l’impulso e l’indirizzo che gli veniva da quello. L’ideale adunque non era solo un mondo perfetto in opposizione alla natura e alla storia, ma era pure una trattazione conforme, una specie di etica e di logica in azione e in tutta la simulazione della vita. Da Dante ad Alfieri questo era il mondo poetico, di cui ultimo esempio fu l’Ortis di Foscolo.

Sono visibili le orme di questo mondo antico dell’arte, divenuto convenzione, in questo Romanzo, guardando al modo com’è stato concepito e condotto. Lucia, padre Cristoforo e Federico Borromeo, sono esemplari perfetti di un mondo ideale, il cui modello astratto e scientifico è la Morale Cattolica dello stesso Autore. Gli altri personaggi sono visti da questo stesso punto, sono gradazioni e degradazioni di questo stesso ideale. A quegli esemplari perfetti rispondono esemplari di opposizione, [p. 63 modifica]come sono don Rodrigo e l’Innominato, e in mezzo errano personaggi più o meno vicini all’uno o all’altro esemplare. Il congegno poi è tale, che nel conflitto rimanga sempre vittorioso quel mondo ideale, insino a che in ultimo con persuasione irresistibile s’impadronisce dell’animo.

Il contenuto è nuovo, è un mondo ringiovanito e rimodernato; ma la forma è vecchia, è il solito ideale che si pone e s’impone, soprapponendosi alla natura e alla storia.

Da questo lato il Romanzo è un mondo poetico a tendenza e a propaganda, in servigio d’idee morali e religiose, secondo l’impulso impresso alla coltura nel secolo XVIII, e continuato sino a’ nostri giorni. Lamennais e Sue rispondono a Voltaire e Alfieri. Ci è sempre ne’ loro lavori un Marchese di Posa, personale o impersonale, che imprime in una società dissimile un marchio subbiettivo e contemporaneo, cioè il poeta e il suo tempo penetrato tra altri uomini e in altri tempi, e rimastovi come materia estranea, incapace di assimilazione.

Si può dire che ciascun mondo poetico contiene in sé elementi ideali, cioè un complesso d’idee religiose, morali, politiche ed economiche, che sono la sua sostanza spirituale, la sua anima. E questo è vero. I poemi indiani e greci, la Divina Commedia, la Gerusalemme, il Paradiso perduto, i Lusiadi, il Messia, tutt’i poemi nella loro serietà e nella loro parodia, hanno per base un certo stato sociale, informato di queste o quelle idee. Ma ecco la differenza. In questi poemi le idee non ci stanno come fini o aspirazioni personali del poeta e de’ suoi tempi; ma sono elementi vivi di quella società, parti sostanziali di quell’organismo, gl’ideali sono vere realtà storiche, membri effettivi della natura e della storia. Al contrario in questa letteratura gl’ideali sono mondi etici e filosofici e politici ed economici, staccati ed isolati, còlti nella loro astrattezza e perfezione scientifica, fuori dell’esistenza, e viventi come tali nello spirito del poeta. Essi entrano nella natura e nella storia, talora soprapponendosi ad esse e falsificandole, mescolandosi senza intima fusione con elementi positivi, talora ponendovisi dirimpetto, come opposizione inconciliata, come un di là a cui bisogna mirare, e più il poeta vi si [p. 64 modifica]studia e vi s’incalora, più l’ideale fa stacco, e rimane fuori della tela, rimane un altro nell’uno. Di che segue una composizione disordinata e concitata, che nell’armonica esistenza della storia introduce elementi satirici, polemici e rettorici, e crea un dualismo tra il dovere e l’essere, tra il mondo come lo concepisce il poeta e il mondo come la natura lo ha fatto.

Questi fenomeni non sono già accidentali e capricciosi; sono diverse forme letterarie sviluppatesi tra le diverse forme sociali, le une riflesso delle altre. I posteri innanzi a questo dualismo oratorio, scettico, umoristico, lirico, indovineranno una società in trasformazione, dove il vecchio non è ancora sciolto, e il nuovo non è ancora formato. Lotta nella cosa, è scissura nella parola, né l’arte vi si potea sottrarre, né vi si potea sottrarre Manzoni.

Ma l’ideale manzoniano ha un gran vantaggio. Esso non è già un mondo puramente spirituale vivente nella immaginazione di uomini colti, non ancora realtà, ma semplice aspirazione, perciò lirico, polemico, satirico, com’è l’idea in opposizione col fatto, ma è un vero organismo storico, ove l’ideale vive ne’ più, alterato, pervertito, invecchiato, pure diversamente graduato, dal più basso al sommo della scala, da don Abbondio sino a Federico Borromeo. L’idea è dunque lo stesso fatto sociale, così come si mostra ne’ suoi diversi aspetti, e i giudizi, le tendenze, le simpatie dell’Autore non sono elementi postumi e personali e soprapposti, ma sono parti anch’esse di quell’organismo storico, entro il quale se molti facevano altrimenti, tutti giudicavano nella loro coscienza allo stesso modo. Abbiamo così la base di un vero Romanzo storico, dove l’idea non fa stacco, perché nelle sue varie gradazioni, nella sua purità eroica, nella sua mezzanità, ne’ suoi pervertimenti trova riscontro nelle simili gradazioni dello stesso fatto sociale, o che gli avvenimenti sieno inventati, o che sieno positivi. E la grande originalità del Romanzo è appunto questa, che la sua base non è una storia mentale preesistente a’ fatti e impostasi a quelli, ma è una storia reale e positiva, nella quale si sviluppa naturalmente tutta quella serie d’idee che costituiscono il mondo morale del poeta. Quello [p. 65 modifica]che a Manzoni pareva un genere ibrido, è appunto la grande novità che caratterizza questo secolo, e dov’egli è sommo, l’aver sostituito agl’ideali assoluti e astratti storie concrete e positive, in cui quelli acquistano un limite e diventano veri organismi storici. E il secolo in questa via ha talmente camminato, che oggi siamo giunti proprio all’opposto, all’assorbimento dell’ideale nel «realismo»: dico assorbimento, e non eliminazione o negazione; che sarebbe non un progresso, ma un’assurda caricatura.

L’originalità del Romanzo è dunque in questo, che l’ideale non è una idea del poeta, un suo proprio mondo morale foggiato dal suo spirito e che faccia stacco nel racconto, ma è membro effettivo ed organico d’una storia reale e concreta. Non è un ideale realizzato dall’immaginazione con processi artificiali, ma è un ideale divenuto già una vera realtà storica, e còlto così come si trova in una data epoca e in un dato luogo; onde nasce la perfetta obbiettività del racconto, e la concordia e l’armonia della composizione nella maggior semplicità dell’intrigo, sicché tu leggi tutto di un fiato sino all’ultimo, e il disegno ti rimane innanzi e non lo dimentichi più. L’Autore non vi si mescola, se non come un tuo ajuto, una specie di cicerone, che ti dà la spiegazione e l’impressione di quello che vedi, non senza qualche malizia a tue spese; ma chi ben nota, il suo spirito erra per entro al racconto come un alito armonico e sereno, che regola e contiene i movimenti, serbando nell’alterno corso delle cose e degli uomini l’equilibrio e la misura. Ciò che Manzoni andava cercando, e che gli parve non raggiunto e non possibile a raggiungere, cioè l’unità della composizione e l’omogeneità de’ suoi elementi, ancorché alcuni storici e alcuni inventati, è perfettamente conseguito, anzi è qui la sua originalità, qui il grande posto che tiene nella storia della nostra letteratura. Il suo Romanzo storico non è solo un bel lavoro artistico, ma è un vero monumento, che occupa nella storia dell’arte quel medesimo luogo che la Divina Commedia e l’Orlando Furioso.

Questa nuova posizione presa dall’arte sotto la forma di Romanzo storico, e penetrata ora in tutt’i rami, ha questo effetto, che non hai più un ideale che si appropria natura e storia come [p. 66 modifica]una sua manifestazione, ma un vero mondo storico nel tal tempo e nel tal luogo, che dà non ad una idea estranea e mentale, ma al «suo ideale», il limite e la misura, cioè a dire vita piena e concreta. Dico suo ideale, perché l’ideale non è un mondo a parte, segregato dalle cose, nella sua perfezione logica e morale, e non è neppure il genere e la specie delle cose, non il loro tipo o esemplare rappresentato sotto forma individuale; ma è un proprio e vero individuo, dove si spoglia la sua perfezione e prende un carattere e una fisonomia, cioè un complesso di parti buone e cattive, di elementi sostanziali e accidentali, che gli tolgono la sua generalità e lo fanno esser questo e non quello. Sicché l’ideale non è l’uno e lo stesso nella infinita varietà della natura e della storia, ciò che fu detto l’uno nel vario, ma è il proprio e l’incomunicabile, l’individuo o il vivente, di là dal quale non sono che astrazioni. Ciascuna cosa che vive, ha un ideale suo, il «caratteristico», che la fa esser sé e non altro; ciò che si dice individuo. Non si vive che come individuo. E meno la vita è sviluppata: minore è la forza caratteristica o individuale, più rassomiglia a genere o tipo; e più la vita è ricca e varia: più vi è scolpita la sua individualità, più il suo ideale vi s’incorpora e vi si distingue. Ma se ciascun individuo ha un ideale suo, segue che ci ha di ogni sorta ideali, belli e brutti, buoni e cattivi, e che don Abbondio e don Rodrigo, e fin Tonio e Griso sono personaggi non meno ideali e non meno poetici che Lucia e Borromeo. Anzi chi va a fil di logica, è sforzato a conchiudere che base così dell’arte come della vita è non il perfetto, ma l’imperfetto, se è vero che l’ideale, perché viva, dev’essere un individuo, avere le sue miserie, le sue passioni e le sue imperfezioni. Cosa dunque farà l’artista? Cercherà non l’ideale, ma l’individuo, così com’è; avrà innanzi un modello non mentale, ma vivente; terrà dietro non alle idee, ma alle forze che mettono in moto natura e storia, e producono l’individualità, cioè a dire la vita. E chi guarda alla storia dell’ideale nel mondo moderno, vedrà che dalle cime del più astratto ascetismo essa è uno scendere lento, ma assiduo verso la terra, incorporandosi sempre più ed entrando in tutte le differenze e le sinuosità della vita. In [p. 67 modifica]questo cammino noi ci siamo lasciati oltrepassare, rimasti stazionarii e vuoti e oziosi arcadi, più sognando che vivendo; ora ci siamo risvegliati, e cominciamo una nuova storia, e la pietra miliare della nostra nuova storia è questo Romanzo, dove risuscita con tanta potenza il senso del reale e della vita.

In effetti la straordinaria importanza di questo lavoro non è solo che un mondo mentale sia calato in modo nella storia, che vi acquisti tutte le apparenze della realtà, ciò che sarebbe lo stesso processo antico e consueto recato a maggior perfezione; ma che quel mondo sia modificato nella stessa sua sostanza, e sia non apparenza di realtà, ma realtà positiva, parte organica di un’epoca storica. Non è l’ideale artificiosamente realizzato con processi artistici, sì che la realtà divenuta la sua faccia o la sua apparenza vi sia abbellita e perfezionata; ma è l’ideale limitato nella sua natura, partecipe di tutte le imperfezioni dell’esistenza, non più un ente logico o un tipo, ma divenuto una vera forza vivente, non più una individuazione, cioè a dire un’apparenza d’individuo, ma una vera individualità: ciò che dicesi il limite e la misura dell’ideale. Ora Manzoni ha pochi pari nella finezza e profondità di questo senso del limite o del reale, che è il segno caratteristico di un mondo adulto e virile. Tutto ciò che esce dalla sua immaginazione, ha il carattere severo di una realtà positiva, esce cioè limitato, misurato, così minutamente condizionato al luogo, al tempo, a’ caratteri, alle passioni, a’ costumi, alle opinioni, che ti balza innanzi una individualità concreta e piena, un vero essere vivente. I più studiano ad abbellire, a produrre effetti maggiori del vero; il suo studio è a limitare disegni, proporzioni, colori, secondo natura e storia, sì che tu dica: — È vero — . Il maraviglioso e l’eroico, il perfetto, ciò che dicesi l’ideale, non lo alletta, anzi lo insospettisce, e mette ogni cura a ridurlo nelle proporzioni del credibile e del naturale. Dove i più si affannano ad ingrandire, lui si affanna a ridurre in giusta misura. Onde quel suo mondo religioso e morale, preconcetto nella mente con tanta perfezione, entrando nella storia tra avvenimenti veri e finti, vi s’innatura e vi s’incorpora, imperfetto appunto perché vivo. O per dir meglio, se quel mondo [p. 68 modifica]si può chiamare imperfetto di rincontro alla sua esistenza logica e mentale, è perfettissimo come mondo vivente, e perciò mondo dell’arte. Certo, niente vi è di più maraviglioso, che la conversione dell’Innominato. Il pianto di Lucia, che ispira nel Nibbio un sentimento nuovo, la compassione, produce in lui una trasformazione così profonda, che lo converte, lo fa un altro essere. Si vegga con quanta industria il poeta, un fatto così straordinario che il volgo attribuisce a miracolo della Madonna, riconduce nelle proporzioni di un fenomeno psicologico. E se Borromeo compie il miracolo con la sua ardente parola, si dee non solo a quella fiamma di carità che lo divora, a quella sua eroica esaltazione religiosa, ma a qualità più mondane che pare diminuiscano il Santo, eppure lo compiono e lo perfezionano. Perché il poeta allato al Santo fa apparire il gentiluomo, l’uomo di mondo e di esperienza, dotato di cultura, di un tatto squisito, di una grande conoscenza de’ caratteri e delle debolezze umane, che indovina i pensieri e le esitazioni più occulte de’ suoi interlocutori, e sa tutte le vie che menano al loro cuore, sì che vince le ultime resistenze dell’Innominato e di don Abbondio, e più si accosta e si abbassa a quelli, più il Santo ci si fa accessibile, più lo sentiamo a noi vicino. Veggasi pure, che se le parole di padre Felice fanno un così grande effetto, si dee a quel complesso di fatti e di circostanze, che lo ispirano e lo mettono in comunione con gli uditori, e lo rendono eloquente più che non sono tutt’i nostri oratori sacri presi insieme.

Nondimeno l’Innominato e Borromeo sono qui i personaggi più ideali, nel significato ordinario di questa parola, cioè a dire, più perfetti, più vicini al loro tipo, l’esemplare più puro del mondo religioso e morale del poeta, l’uno come affermazione, l’altro come negazione. E se dovessero avere nel Romanzo una parte fissa e durevole, verrebbe stanchezza ed uniformità da quella santità e da quella malvagità in permanenza. Questo sarebbe il caso, se la conversione dell’Innominato fosse base del racconto, e non piuttosto, com’è, una sua parte accessoria. Ond’è ch’essi sono apparizioni straordinarie e fuggitive, meteore che illuminano e passano, lasciando dietro di sé stupore e [p. 69 modifica]ammirazione. È una specie di epopea che fa la sua ultima apparizione nel nostro mondo borghese, messa al séguito di Renzo e Lucia.

Lucia è un personaggio anch’esso ideale, cioè vicinissimo al suo tipo, ma di altra natura e forse tra’ più originali della poesia italiana. Nuova alla vita, d’indole soave e pudica, purissima, tutta al di fuori, semplice di fede e di cuore, il poeta che vagheggiava un tipo femminile del suo ideale, ha trovato nel contado un modello, che verso quel tipo si può dire imperfetto, e perciò appunto è perfetto nel giro della sua vita propria. Essa non ha immaginazione e non ha iniziativa, non ha ricchezza sufficiente per rappresentare degnamente l’ideale del poeta. È un ideale, se posso dir così, iniziale e passivo, rimasto così com’è stato stampato e fazionato dalla madre e dal confessore, senz’alcuna discussione e opposizione interna, senz’alcuna deviazione o transazione venutale dall’esperienza della vita, senz’alcuna capacità di malizia e di riflessione. La vita, appena schiusa, rimane lì, ignorante e incosciente, e senz’alcuna forza di resistenza e di difesa. Fanciulle simili vennero poi in moda, Ildegonde e Lide e Ide e Marie ed Eugenie, nuove Arcadie e nuove pastorellerie. Sono degenerazioni di quella giovinetta così semplice e così terribile nella sua debolezza. Perché ella è in fondo il sentimento religioso e morale comune a tutti, alterato e diminuito nell’esercizio della vita, e in quel cuore adolescente intero, tranquillo, sicuro, naturale come in sua propria sede, che tocco appena manda suoni tanto più terribili, quanto meno consapevoli. Che sa Lucia, quale terribile effetto debbano produrre sull’animo dell’Innominato queste parole così semplici: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia»? Il nome di Dio pronunziato con energia di predicatore da padre Cristoforo, irrita e provoca don Rodrigo; uscito con semplicità, senza alcuna intenzione di effetto, da quelle labbra innocenti e supplichevoli, vince e trasforma l’Innominato. «Perdona tante cose!». Frase vaga, come un suono musicale, ma terribilmente concreta per quell’uomo, che si vede sbucare avanti tutta la serie de’ suoi delitti. Quell’ideale rifuggitosi nell’ingenuo e inconscio petto di una fanciulla è una immagine assai più poetica e più [p. 70 modifica]persuasiva, che non le parole più ardenti e più calcolate di padri e di cardinali. Certo è in lei non so che troppo elevato, troppo tipico, che ce la tiene a distanza, come fosse una Madonna, è in lei troppo della santa, ed assai poco di quel femminile, che ci rende così amabili le Giuliette e le Margherite; soverchia idealità, corretta dalla vicinanza di due personaggi stupendamente concepiti e umanizzati, Renzo e Agnese, la cui bontà nativa profondamente modificata e variata dalla esperienza della vita, dall’azione della società, dalla qualità degli avvenimenti, comunica loro una compiuta e interessante individualità. Agnese è una Lucia in reminiscenza, così buona e credente, così educata e fazionata, ma divenuta nel corso degli anni, tra gli accidenti della vita e in quell’atmosfera paesana, un po’ come tutte le altre; larga di maniche, con non troppi scrupoli, con la sua malizia, col suo saper fare, massaia, ciarlona, semplice e vera nella sua volgarità, con tutti gli abiti buoni e cattivi contratti nella bassa sfera in cui è nata, la è una brava donna di villaggio. La stessa bontà è in Renzo, con gli stessi abiti contratti nella sua sfera, ha l’aria del paese; ce lo rende amabile quella sua forza ed inesperienza giovanile, accompagnata con un ingegno ineducato, ma pronto, vivo, perspicace, pieno di spontaneità e di originalità ne’ suoi giudizii e nelle sue mosse improvvise, spesso spiritoso senza cercar lo spirito, col suo latinorum, e con la sua «lega de’ birboni»: sempre vero. In tutti e due c’è una certa vena di comico, che nasce appunto da quelle imperfezioni e abitudini e inesperienze penetrate in quel fondo di bontà e di sincerità.

Protagonisti del mondo ideale sono padre Cristoforo, che è il suo cavaliere errante, il suo tipo; don Rodrigo, che è il suo lato negativo; e don Abbondio, che è il suo lato comico. Lo studio dell’Autore non è di accentuare quei tipi, anzi è di raddolcirli e individuarli, introducendovi un complesso di circostanze e di condizioni particolari e locali.

Padre Cristoforo è una buona natura guasta dall’educazione, insino a che, percossa la mente da un fatto di sangue, si spoglia la ruggine e ricomparisce di sotto il buon metallo. La sua vita è una lunga espiazione, una reazione contro l’uomo antico. Le [p. 71 modifica]stesse sue cattive abitudini si trasformano. Quel suo umore battagliero e avventuroso diviene energia e iniziativa nel bene. Quel suo falso orgoglio, quel «fare stare» i prepotenti, prendono forma di ardente carità, di olocausto della sua persona al bene de' prossimi. Sotto altro nome è sempre lo stesso Ludovico, mutato scopo e indirizzo e teatro. Ma le macerazioni, le penitenze, le volontarie umiliazioni non valgono a spendere in tutto l'antico Adamo, che pur talora risorge e si ribella, ciò che rende più drammatica la vittoria del convertito. Il suo ideale è l'umiltà evangelica, il perdono delle offese, che brilla ancora più in animo naturalmente violento. L'opposizione non è così importante, che costituisca un serio interesse drammatico, ma basta a gittare una varietà di accento e di colore in un ideale troppo assoluto di santo.

Don Rodrigo è lo stesso ideale preso a rovescio: natura violenta e inculta, guasta ancora più dalla falsa educazione e dalle male abitudini della sua posizione sociale. Non è già un tipo di malvagio, un vero contro-ideale. Questo è certo il posto assegnatogli nel Romanzo, questo il suo significato, ma solo come genere. La sua individualità è prodotta da un complesso di motivi storici. Egli è il nobilotto degenere di villaggio, l'antico feudatario che reputa tutto intorno, uomini e cose, come roba sua, e cerca far valere il suo dritto con la forza, circondato di bravi. Il mondo non è più lo stesso: ci è lo Stato e la legge; ci è un'ombra di borghesia incontro a lui, il podestà, il console, il notaio, l'avvocato; questo lo rende anche più cattivo, costringendolo a congiungere con la violenza l'intrigo e la corruzione. La sua vita non ha scopo; l'ozio rode in lui tutto ciò che di elevato vi avea posto natura e lo volge al male. Pesa su di lui l'atmosfera della sua classe. Ciò che lo spinge o lo frena, è questa interrogazione: - Cosa diranno di me i miei pari? - Onde nasce il puntiglio, il falso punto d'onore, che lo rende ostinato in un primo passo, e cangia la velleità in volontà, e lo tira di grado in grado sino al delitto. Le beffe del cugino e i ritratti de' suoi antenati operano più in lui che la stessa sua libidine. Una scommessa è il piccolo principio, da cui nascono [p. 72 modifica]avvenimenti molto serii, dov’egli si trova imbarcato e inchiodato al di là di ogni sua intenzione. Casi simili hanno per lo più a movente la libidine o la passione; il motivo è qui un puntiglio, un voler «spuntare l’impegno», motivo comico, pure altamente tragico per l’importanza che ha nella coscienza di tutta una classe. Chi guarda ben addentro vedrà che don Rodrigo non è il peggiore de’ suoi pari. Ci è nel fondo del suo cuore un avanzo di buoni sentimenti, che lo rende pensoso innanzi alle parole di padre Cristoforo, e benché spesso tra banchetti e stravizzi, pur non vi si mostra così cinico, come i suoi compagni di orgie. Egli è come tutti gli altri, pure il men tristo di tutti gli altri. Il suo peccato è di esser nato tra quei pregiudizii, e in quell’atmosfera viziata: ciò che falsifica nella sua coscienza la nozione dei bene e del male, e gli dà un torto concetto dell’onore. Pure la fatalità della sua posizione morale non lo giustifica e non lo assolve. C’è un mondo superiore, le cui leggi non si violano impunemente. L’espiazione di don Rodrigo, così piena di terrore e di compassione, è la reintegrazione nella coscienza di quel mondo superiore offeso. Il sentimento umano che se ne sviluppa, è quel medesimo che provano padre Cristoforo e Renzo innanzi alla sua agonia. Così don Rodrigo, lo scelto antagonista dell’ideale manzoniano, rimane un individuo storico e reale. Se per la sua lotta con padre Cristoforo e per la sua espiazione riflette in sé negativamente quel mondo religioso e morale, ciò è conseguenza e corona di una idealità ancora più profonda, il tipo del nobile degenere nel tal secolo e nel tal luogo.

Con la stessa chiarezza e decisione è concepito il don Abbondio. Esso è l’ideale alterato e indebolito nell’esercizio della vita e spesso sacrificato per quella specie di codardia morale che accompagna i popoli nella loro decadenza. Come in don Rodrigo, così in don Abbondio il senso del bene e del male è oscurato, e il mondo è guardato e giudicato a traverso di un’atmosfera viziata. Il demonio del potente don Rodrigo è l’orgoglio; il demonio del debole don Abbondio è la paura. La contraddizione fra il suo dovere e la sua paura genera una situazione di un comico tanto più vivace, quanto più egli cerca dissimularla. E la [p. 73 modifica]dissimulazione non è già ipocrisia o doppiezza, che lo renderebbe odioso e spregevole, ma è un fenomeno ella medesima della paura. La quale gli fabbrica un mondo sofistico fondato sulla prudenza, o l’arte del vivere, col suo codice e con le sue leggi, un vangelo a cui crede e vuol far credere, e che gli forma i suoi giudizii e gli detta le sue azioni. E perché tutti indovinano, fuorché lui, il vero motivo de’ suoi giudizii e delle sue azioni, scoppia il riso. Natura buona e pacifica, sincera e passiva, subitanea nelle sue impressioni, originale ne’ suoi giudizii, con scarsa coscienza di sé e con nessuna coscienza degli altri, egli è l’inconscia macchina da cui escono tanti avvenimenti. Il puntiglio di don Rodrigo e la paura di don Abbondio sono le forze ignobili che con sì piccola sapienza generano questo mondo poetico. Il quale si restaura con l’espiazione dell’uno, e si purifica e si afferma con la correzione dell’altro. La saviezza mondana di don Abbondio invano ricalcitra e si dibatte contro il mondo ideale evangelico di Federico Borromeo, oscurato, ma non cancellato nella sua coscienza. Così un mondo nato dall’orgoglio e dalla paura è alzato nel mondo superiore della carità e dell’amore. Se don Abbondio nel suo significato generale si rannoda a quel mondo superiore e forma il suo lato comico, pure rimane un individuo compiutamente libero, con una idealità sua propria, col suo carattere, con la sua fisonomia, co’ suoi fini e co’ suoi mezzi.

Questi personaggi principali hanno intorno a sé una moltitudine di personaggi secondarii che pel loro significato si rannodano a padre Cristoforo, o a don Rodrigo, o a don Abbondio: la quale relazione rimane così in astratto, e non impedisce il loro libero e individuale movimento nella storia, con grande varietà di classi, di costumi, di opinioni e di caratteri. Vi domina soprattutto il comico, come Perpetua, l’oste e Tonio nella loro bassa sfera, e in una sfera più ampia donna Prassede e don Ferrante.

Come i personaggi, così son condotti gli avvenimenti. I quali, se hanno una relazione manifesta col mondo ideale ov’è l’obbiettivo del Romanzo, pure l’oltrepassano, e si sviluppano liberamente e largamente ciascuno nel giro della sua esistenza particolare. La monacazione di Gertrude, la carestia e la peste di [p. 74 modifica]Milano possono sembrare avvenimenti troppo sviluppati a quelli che concepiscano un romanzo come una logica artificiale con equilibrio di proporzioni. Questi ed altri avvenimenti, rimanendo nel loro senso generale uniti col tutto, vi stanno come parti organiche, dotate di attività propria, vere e compiute persone poetiche, che in quell’armonia universale hanno fini e interessi proprii.

Così l’ideale religioso e morale che è la finalità del Romanzo, l’ultimo suo risultato, va a profondarsi nella infinita varietà dell’esistenza particolare, attingendo in recessi inesplorati del mondo reale novità e originalità di forme e di movenze, di cui non era esempio nella nostra letteratura, ed esce di colà misurato e limitato in modo che vi perde la sua purità logica e la sua perfezione mentale, internatosi e mescolatosi nel gran mare dell’essere con tutte le imperfezioni e gli accidenti della storia.

L’istrumento di questa misura dell’ideale è l’analisi. L’ideale nella sua purità è sintesi, esistenza abbreviata e condensata, che ti ruba i limiti, e ti dà una immagine dell’infinito. Come lo spirito si fa più adulto, più decompone, limita e analizza, più l’esistenza si squaderna. L’analisi è il genio del mondo moderno, la porta del reale. E quanto la nostra letteratura fosse rimasta estranea al mondo moderno, si può argomentare dalla sua grande povertà d’analisi. Ciò che ivi trovi sono vuote generalità, succedute alle sintesi pregne e vigorose di Dante, a quel suo veder da alto e da lungi, vedere in blocco. E come la sintesi di Dante vi è degenerata, così vi è degenerata l’analisi di Machiavelli, succeduta l’acutezza, che è la sua caricatura. Manzoni apre il nuovo secolo, cercando nuova base nel suo reale storico o positivo, e spiegandovi una potentissima forza di analisi. L’analisi è il suo antidoto contro quell’onda di vecchi e nuovi ideali, che invadeva le letterature europee. È lei che lo premunisce contro le sue proprie tendenze idealiste, e lo tiene sempre nella giusta misura, nel vero. Quando sviluppa con tanta facondia e con tanto vigore i principii fondamentali del suo ideale evangelico, sentimenti di carità, di amore, di umiltà, di sacrifizio, di perdono, per bocca di padre Cristoforo o di Borromeo o [p. 75 modifica]di padre Felice; puoi trovarvi a ridire, senti qua e là non so che di enfatico e di polemico, non so che di preconcetto e di mentale introdotto artificialmente, e puoi giudicare il poeta di eloquenza e di unzione secondo a parecchi scrittori moderni; ma quando analizza, riesce sempre ammirabile, e a paro co’ più grandi, primo, anzi unico in Italia.

La coscienza della sua straordinaria potenza di analisi genera nel poeta la tendenza o l’inclinazione a guardare le cose anche più delicate e fuggevoli non nella loro idealità astratta, ma nelle condizioni e ne’ limiti della loro esistenza: ciò che dicesi il senso o il genio del reale. Le sue analisi non sono mentali e dottrinali, decomposizioni d’idee secondo una certa logica e una certa dottrina in veste poetica, come è spesso in Dante. Sono analisi naturali e psicologiche, che ti danno la cosa vivente, come l’ha fatta la natura e la storia, introducendoti ne’ più delicati misteri della vita. Ciascun personaggio ha un suo proprio modo di guardare il mondo, una sua propria posizione morale e intellettiva formata dal temperamento, dal carattere, dall’educazione, da un complesso di corcostanze naturali, psicologiche e storiche, che costituisce la sua personalità, cioè a dire il suo ideale. Sicché il vero interesse non è nella posizione che occupa ciascun personaggio dirimpetto al mondo religioso e morale preesistente nell’immaginazione del poeta, ma nella ricca originalità della sua esistenza individuale. Il lettore può ignorare che relazione tenga don Abbondio o don Rodrigo con quel mondo ideale, senza che scemi il suo interesse per queste creature immortali, anzi tanto gusterà più realtà così vivaci, così finamente analizzate, quanto meno si ricorderà di quelle relazioni astratte. Gli è come di quei peccatori di Dante, il cui interesse non è nella loro posizione di rincontro alla giustizia eterna, ma nella loro posizione storica e psicologica.

E perché il poeta, gittando nello stesso fornello mondo ideale e mondo storico, sottoponendo tutto allo stesso processo di analisi, ha tutto unificato, dato a tutto gli stessi colori e le stesse forme, l’impressione generale che ti viene dal racconto è una, ed è quale ti viene dalla vita, scrutata ne’ suoi più occulti strati [p. 76 modifica]di formazione e poi còlta sul fatto, variata e mobile, nel suo libero gioco, nelle sue apparenze anche più accidentali e capricciose. L’Autore suole, quando ha a mano un personaggio, un oggetto, un avvenimento, studiare la sua successiva formazione, le fonti della sua individualità, la sua natura, la sua educazione, le sue forze e i suoi mezzi, il suo carattere, la sua fisonomia, il suo ambiente, e quando te lo ha bene spiegato, sicché tu l’abbi innanzi nel suo ideale, in ciò che gli è proprio e caratteristico, ecco, te lo mette in situazione, nell’atto della vita, e comincia la rappresentazione. Talora precede la rappresentazione, talora è mescolata abilmente l’una e l’altra cosa. Il risultato è che tu hai innanzi una visione chiara e vivace, ben definita e limitata. I più sogliono farti balzare avanti una figura nella sua concitazione, fidano nell’improvviso, mirano al maraviglioso. Scrutare, analizzare, spiegare, sono per costoro procedimenti distruttivi dell’arte, che ti raffreddano, ti gittano in uno stato prosaico, ti strappano tutte le tue illusioni, ti traggono da quella sfera del vago e del misterioso, dove regna la poesia. Sono i critici del dritto divino, che pongono a base dell’arte un ideale immobile e intrasformabile, e rimangono fuori della storia, fuori della società moderna. Il nostro Poeta fa proprio a rovescio, quasi faccia a dispetto; l’improvviso e il maraviglioso, il miracolo è affatto estraneo al suo spirito, dove tutto è positivo, tutto è buon senso e misura; i più stanno a bocca aperta innanzi alla piramide; lui non l’ammira se non dopo di averla studiata e compresa; e ciò che ammira lui, non è quello che ammirano i più. E non sono solo le piramidi che attirano la sua attenzione; non ci è cosa sí piccola che non l’interessi; tutto ciò che si presenta al suo spirito, ha lo stesso dritto alla vita, ed è studiato e analizzato con la stessa cura; anzi la sua inclinazione è di entrare nel più minuto della vita, d’intrattenersi nelle più basse sfere, sdegnate dalla poesia nobile e solenne. Là, in quelle sfere inesplorate, trova i suoi ritratti più originali; là vivono i suoi osti e le sue spie, i suoi bravi e i suoi monatti, i suoi cappuccini, le sue Agnesi e le sue Perpetue, la sua Lucia e la madre di Cecilia; là incontra Renzo e là don Abbondio; di là esce animata [p. 77 modifica]e parlante la plebe, messa in iscena, o che suoni la campana a stormo, o la incalzi la fame, o la spaventi peste o guerra. Veggasi con quanta finezza è descritta e con quanta verità è messa in azione l’insorta plebe di Milano, quando assale il Vicario, e quando si fa giocare da Ferrer. Quel Capitano di giustizia, quel Vicario, quel Ferrer, chi li potrà dimenticare più? Come ti potrà uscire di vista quella moltitudine a onda, mobile, volubile, contraddittoria, terribile, grottesca, nella varietà inconsapevole e subitanea de’ suoi istinti e delle sue impressioni? Sotto a così vivaci rappresentazioni indovini lo spirito osservatore di un Machiavelli. Potenza di stile, prodotta da potenza di analisi.

Gli è che con una così straordinaria forza d’analisi l’Autore congiunge un talento descrittivo e drammatico non meno straordinario. Mentre l’occhio sagace penetra in tutte le cavità e le pieghe e i ravvolgimenti d’un carattere, sta innanzi alla immaginazione la fisonomia, l’intera apparenza, e analisi e descrizione si alternano, si mescolano, si lumeggiano, si completano, insino a che fra osservazioni e descrizioni ti trovi nel bel mezzo di una situazione drammatica. Si alza il sipario, l’osservatore scompare; quel mondo con tanto acume studiato, con tanta evidenza descritto, eccolo in iscena, nell’atto della vita, e messo in tale situazione, che quelle qualità astratte, quelle forze in antagonismo, quell’ambiente, quel vario concorso e urto di cause naturali e psicologiche, paion fuori e vengono alla luce, divenute passioni, sentimenti, giudizii, parole e azioni, cioè a dire divenute attori. Nessuno sa con più abilità trovarti una situazione, e metterla a posto nella variata trama del racconto, e cavarne tutt’i motivi e tutti gli effetti in un dialogo così rapido e così vivace, e talora in brevi discorsi, capolavori d’eloquenza popolare, come sono le parole di Griso a’ suoi bravi, o l’arringa del Capitano di giustizia. Una situazione delle più interessanti è quando Ludovico, divenuto padre Cristoforo, chiede perdono al gentiluomo, fratello di colui che ha ucciso.

È il primo incontro e il primo trionfo dell’uomo ideale, cioè rispondente al mondo religioso e morale del poeta, sopra l’uomo mondano, quale lo ha fatto la storia. I caratteri astratti di questi [p. 78 modifica]due mondi in urto sono di qua l’orgoglio, l’amor proprio, di là l’umiltà e la sincera compunzione; di qua il gentiluomo, di là il povero frate; di qua l’uomo del secolo, di là l’uomo del Vangelo, e per dirla con l’energia del poeta, di qua la superba altezza, di là il disonore del Golgota. Queste idee non rimangono nella loro astrattezza, e non compariscono tali, se non nella fine, come la morale del racconto. Ma sono vere forze sotterranee che operano senza coscienza de’ personaggi, e determinano l’avvenimento nel suo sviluppo e nella sua crisi. Stando all’apparenza, è il gentiluomo che trionfa. Eccolo lì, in mezzo alla sala, ritto, come un ritratto de’ suoi antenati. Gli fa cerchio tutto il casato, gli fa corteggio tutta la nobiltà parata a festa, nelle sue divise storiche. Attendono una soddisfazione dovuta non alla giustizia, ma all’orgoglio di famiglia e di classe. Nel cortile e per le scale servidorame e plebe, con animo e aria di vassalli, pronti a batter le mani, a gridar viva al padrone. Giunge il frate, segno a cento sguardi curiosi. Ciascuno vuol vederlo, come si fa il condannato a morte. Non è il re della festa, è la vittima che va al supplizio. Questo è il mondo volgare, il mondo della folla, sia di plebe, sia di signori. Il quadro è stupendamente disegnato e colorito, e vi abbondano circostanze locali, che gli danno l’aria del tempo e del luogo. Ma ecco si muta la scena. E al mutamento è preludio uno di quegli sguardi profondi che il poeta gitta nel cuore umano. Tutta quella folla giudica come folla, e nel suo giudizio è sincera. Essi conoscono Ludovico, ignorano il nuovo uomo formatosi in lui, ignorano padre Cristoforo. E se si è fatto frate, gli è per salvare la pelle. E se viene a chieder perdono, gli è per riguardo umano, gli è perché così ha voluto il padre guardiano. Aspettano di vederlo turbarsi sotto i loro sguardi ironici, di sentirlo balbettare. Vedrà che signfica essersela presa con pezzi grossi. Questi sono i sentimenti della folla, de’ quali non hanno coscienza chiara, ma che trapelano da tutt’i loro atti. Ma la faccia sinceramente compunta del frate, e la sua aria sicura e tranquilla dee rovesciare tutte queste prevenzioni volgari, e produrre sulla folla nuove impressioni tanto più irresistibili, quanto ella è più sincera e più trasmutabile ne’ suoi giudizii. [p. 79 modifica]Dunque, quest’uomo non ha paura. E si è fatto frate per davvero. E viene qui a fare una buon’azione. Le disposizioni sono altre; un mutamento è già avvenuto negli animi prima che si mostri al di fuori. Con queste descrizioni, con queste analisi è preparata una incomparabile scena drammatica. Padre Cristoforo non fa le cose a mezzo; beve il calice sino alla feccia. Nessun segno di ripugnanza, di esitazione; nessun tentativo di un compromesso tra la sua naturale alterezza e la sua sottomissione. I suoi atti di contrizione e di umiliazione sono quali li vorrebbe l’offeso; la riparazione è intera, come intero fu lo scandalo. Mentre piega le ginocchia a terra, nel suo animo c’è questo pensiero così netto: quello fu scandalo, questa è riparazione. Nelle sue parole non perifrasi, non esordii, nessuna titubanza. Non cerca scuse; non va mendicando raddolcimenti e palliativi; va diritto e rapido; la sua parola rassomiglia al suo pentimento; è sicura e sincera. Le mutate disposizioni della folla ora prorompono; a quella impertinenza degli sguardi succede un mormorio di pietà e di rispetto. E il gentiluomo cosa era? e cosa è divenuto? Era lì, come il protagonista del quadro, con la mano sul pomo della spada, in atto di degnazione forzata e d’ira compressa. Tutto è mutato intorno a lui; egli è ancora lo stesso. Ciò che lo move non è tanto l’uccisione del fratello, quanto l’offesa recata alla famiglia. E il fratello è innanzi a lui soprattutto un cavaliere. L’orgoglio di classe era al di sotto di quella degnazione forzata e di quell’ira compressa. E si può indovinare quali idee doveano entrare nel suo discorso. Avrebbe fatto sentire a quell’uomo tutta l’indignazione dell’offesa fattagli. Avrebbe respinte le sue scuse; nessuna scusa può rendere scusabile l’audacia di essersela pigliata con tal cavaliere, con tale famiglia. E se non avesse quell’abito... ma in contemplazione dell’abito si degnava di perdonargli. Questo era il sugo del discorso; ma gli atti e le parole del frate e il mormorio della folla gli rovesciano tutto il discorso. E còlto lì all’improvviso tra le idee apparecchiate e le idee sopravvenute, toltogli spazio di raccogliersi, di calmarsi, l’alterazione interna gli altera la voce, e balbetta tronconi di frasi, dove entrano le antiche impressioni corrette dalle nuove. [p. 80 modifica]Voleva dire: — L’offesa veramente è stata tale che non ammette scusa — . Ma «offesa» non è più la parola della nuova situazione, e si corregge, e dice «fatto», parola generica e senza colore, suggeritagli da un sentimento nuovo di delicatezza, da cui si sente dominato senza sapere perché. — «L’offesa... il fatto veramente...» — . E si arresta, e non osa compiere la frase, per tema di dir cosa dispiacevole, e perché quel fatto che voleva dimostrare inescusabile, è già in cuor suo e di tutti non solo scusato, ma perdonato. Egli parla sotto l’impressione della folla, e ne sente il controcolpo e si fa la sua eco. Colui è già perdonato, e la frase cominciata resta in aria, e spunta la nuova da una idea già preparata e subito corretta, perché la sua nuova situazione gliene fa sentire la sconvenienza. — «Ma l’abito che portate... non solo questo, ma anche per voi...» — . E oh maraviglia! L’uomo preparato a ricevere scuse è lui che le fa, è lui che prende aria di accusato, trascinato da quel nuovo sentimento che si è impadronito di lui, balbettando, correggendosi, smozzicando frasi, quasi toccasse a lui mettersi in ginocchio, mentre prende per le braccia e solleva l’inginocchiato. E in verità l’inginocchiato è lui, è lui che sente innanzi a quello la sua inferiorità morale, con una coscienza confusa che gli trae per primo grido di bocca un: — «Alzatevi!» — . Si può ora indovinare come finisce questa scena. La vittima ha la sua trasfigurazione; innanzi alla folla diviene un santo, e gli baciano il lembo dell’abito. Trasmutazioni così estreme negli animi non passano senza un tinta ironica che ci fa un po’ sorridere a spese della folla, de’ signori e del gentiluomo. Il poeta è così poco disposto a rimanere nell’ideale, che compie la scena con un tratto comico, il quale ci cava da quell’atmosfera momentanea e ci riconduce nello stato normale dell’esistenza. — «Diavolo di un frate!» — , borbotta tra’ denti il gentiluomo, rimasto solo. — «Se rimaneva ancor lì per qualche momento in ginocchio, quasi quasi gli domandava io scusa ch’egli mi abbia ammazzato il fratello» — . Rotto il fascino, ripiglia suo uso e suo linguaggio. E a quella esaltazione succede in noi il sentimento abituale della vita. Gli è come avessimo sognato, o come, lasciando una pomposa [p. 81 modifica]festa, fossimo tornati nella nostra modesta stanza. Il poeta mostra qui tutte le sue forze, di rado unite in uno stesso uomo, quella sua vivace apprensione della natura esteriore, quel suo acume d’analisi, quel vigore drammatico, quella sua misura in situazioni tanto esaltate.

E perché il poeta è così disposto, che quando un personaggio gli si presenta, lo arresta subito e gli domanda: — Chi sei? — ; perché sottopone tutto, uomini e cose, a processo di analisi, anche gli avvenimenti più prodigiosi, come la conversione dell’Innominato, anche gli uomini più straordinarii, come Federico Borromeo, perché non c’è maraviglia e non c’è grandezza che sfugga alla sua curiosità, perché non c’è emozione e non solennità che lo turbi e lo esalti, perché egli tutto decompone, tutto si spiega e tutto spiega, perché infine è lui che evoca quelle ombre e quegl’ideali e dà loro un’esistenza naturale e psicologica, della quale egli possiede e mostra la chiave; si comprende la sua tranquillità dirimpetto all’opera sua, come di uno spirito superiore che non vi si lascia assorbire e trascinare, anzi vi rimane al disopra, e guarda con occhio critico anche nel maggior caldo della produzione. E si comprende pure come per entro al racconto si senta aleggiare non so che ironico, che è appunto una reazione del reale e del positivo contro ogni esaltazione ed ogni esagerazione. Quando un mondo se ne va, si dichiara l’ironia. Questo dà un alto significato all’ironia di Socrate o di Luciano, all’ironia di Ariosto o di Parini, all’ironia di Voltaire o di Goethe, questo dà un’importanza storica all’ironia di Manzoni. Essa è la faccia che prende venendo alla luce il senso del limite e della misura, in lui così caratteristico; è il senso del reale che si risveglia e si afferma. Di qui la sua disposizione a cogliere nelle cose umane quel di più e quel di meno, che ti fa dire subito: — Non è vero — , e che provoca quel cotal suo risolino. Lo stesso padre Cristoforo non può sottrarsi a quel suo sguardo ironico. Accomiatandosi da Lucia con queste parole: — «Il cuore mi dice che ci rivedremo presto», — che sa egli il cuore? — nota l’inesorabile critico. L’ironia lo accompagna in tutte le sue analisi, anzi l’analisi è ella stessa un’ironia, dandoci la chiave di [p. 82 modifica]tutte le esagerazioni, a cui si abbandonano i personaggi. Noi che siamo stati messi a parte del secreto, e abbiamo veduto il dietroscena, e sappiamo tutt’i concerti e gli apparecchi degli attori, quando appariscono sulla scena, li accompagniamo con lo stesso risolino del poeta, o vi sieno moti e paure e credulità di plebe, o furberie di Conti e di Provinciali, o furfanterie di Azzecca-garbugli, o malizie di osti e di bravi. Anche nella rappresentazione degl’ideali più cari e più nobili della vita, in mezzo alla naturale esaltazione de’ sentimenti comparisce a un tratto quel tal risolino, che impedisce l’esagerazione, e ti ridona il senso della misura. Esaltazione spiegata è già esaltazione raffreddata. Questo che, secondo le regole comuni, sarebbe un errore, è appunto la genialità del poeta, la sua originalità, o per dirla con parola più modesta, il suo carattere. Il cappuccino che fa le sue osservazioni a padre Cristoforo e si acqueta ad un suo motto in latino, il maggiordomo che fa le sue rimostranze al Cardinale quando sta per ricevere l’Innominato, il Nibbio che parla di compassione, la vecchierella che cerca di consolare Lucia a modo suo, i monatti che fanno il chiasso in mezzo alla peste, sono la presenza della vita comune, una specie di contro-ideale, che regola e tempera ciò che vi è di troppo esaltato in situazioni così drammatiche. Diresti che come Alfieri pare che aguzzi sempre il suo pugnale, Manzoni pare stia sempre lì a spuntarlo. Originalissimo è sotto questo aspetto l’incontro di Federico e di don Abbondio. Se Federico parlasse solo, sarebbe una predica insopportabile. Quelle idee, quei sentimenti così fuori della vita comune e nella loro generalità così illimitati, dàlli e dàlli, provocherebbero una reazione ironica nella sfera temperata, in cui sono i lettori. Ma la reazione è trattenuta e sviata dalle risposte e soprattutto dalle impressioni di don Abbondio, posto in una sfera morale bassissima anche dirimpetto al concetto ordinario della vita, incontro singolare e collisione vivacissima di ciò che vi è di più eroico nella vita morale e di ciò che vi è di più abbietto. E il risultato di quest’audace concezione è una situazione tragicomica, i cui effetti contraddittorii si rintuzzano e si temperano a vicenda, sicché la reazione che produrrebbe ciò che vi è [p. 83 modifica]di troppo assoluto nelle idee dell’uno, è sviata da ciò che vi è di troppo volgare nel carattere dell’altro. E il vantaggio è tutto di don Abbondio: che produce effetti comici irresistibili con la naturalezza, la sincerità e la subitaneità delle sue impressioni, nelle quali apparisce tutto lui, nelle più varie determinazioni del suo carattere, paura, stizza, volgarità, ottusità, tutto impressione e immaginazione; dove il Cardinale è talmente immedesimato con le sue idee, che ti pare un ente di ragione, anzi che un uomo vivo: qui hai idee, là senti un uomo. Appunto perché nel Cardinale non ci è che una corda sola e ne’ suoi toni più acuti; quando ella vibra di soverchio e troppo a lungo, sì che il discorso prende aria di sermone, la reazione, malgrado il correttivo di don Abbondio, sta lì lì per formarsi nell’animo del lettore, ed eccoti in buon punto il poeta che interrompe il sermone e dice lui la sua parola. Gli è che il poeta non è assorbito nell’azione, e non si fa imporre neppure dal Cardinale, ed anche dirimpetto a lui sta lì col suo risolino, disposto a burlarsi un po’ insieme col pubblico di questo metter fuori con così poca fatica tanti bei precetti di fortezza e di carità, se non che riflette che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, e si riconcilia con l’oratore. Così rimasto fuori della scena tranquillo e intelligente spettatore, in comunione con l’uditorio e attento alle sue impressioni, egli vi partecipa, le spiega e le modera.

C’è nel teatro del mondo due temperature: l’una è degli spettatori, l’altra degli attori. Questi si trovano in una situazione ben determinata dirimpetto al pubblico indifferente, che non ne ha alcuna; ond’è che se troppo vi si scaldano, e alzano troppo il tono, e si mettono in una temperatura troppo elevata, scoppia la dissonanza. Il pubblico può al più ammirare certi effetti di arte, ma non vi parteciperà mai tutto e intero. Ti dà un bravo, ma c’è nella sua temperatura usuale qualcosa che ti resiste, e se troppo insisti, e se vuoi fargli violenza, eccolo lì che protesta e si ribella. Il che avviene, se tu stai troppo in sulle idee e ti formi un mondo artificiale, e non vuoi tener conto di quella mezzana temperatura in cui vivono gli uomini. Il buon senso si vendica e ti risponde con l’ironia. Ora la singolarità del nostro [p. 84 modifica]Poeta è questa, che mentre vive tra’ più. cari e nobili ideali della vita e te li pone innanzi e vuole trascinarti appresso a quelli, egli s’immedesima col pubblico, e riflette le sue impressioni e il suo buon senso, e facendo lui un po’ d’ironia, previene la tua, riconducendoti sempre dalle situazioni più straordinarie in quella mezzana temperatura.

Il che spiega la grande popolarità di questo libro. L’ideale è sempre un po’ pedante e un po’ eccessivo. E quando tu stai per dire: — È troppo — , ecco lì l’Autore che ti previene e riconduce l’equilibrio. La sua natura è talmente armonica e completa, così disposta a tener conto in ogni affermazione della sua negazione e in ogni verità della sua diversità, così serena nella maggior perturbazione degli avvenimenti, e nel cozzo delle passioni e delle opinioni così benevola e indulgente, soprattutto così buona e sincera, che ispira simpatia e rispetto anche né più avversi. Nessuna passione è troppo urtata, nessuna opinione si sente offesa, a tutto ci è un «ma», che attenua, restringe, limita e misura, e non iscontenta gli uni, dopo di aver contentato gli altri, equilibrando le impressioni, e pacificando le contrarie opinioni nella sfera amica del giusto e del vero. Questo non è eclettismo, perché sta pur sempre nel suo splendore quel suo mondo religioso e morale, ma è naturale misura, che apre a quello più facilmente la via de’ cuori, sì che, se non sempre convince, sempre si fa rispettare. Il che conferisce pure agl’intenti dell’arte, conservandosi la simmetria, la proporzione, la bellezza al di fuori così intera, come intera è la serenità della mente creatrice. Da questa disposizione armonica è uscita la Cecilia, e quella sua Lucia mansueta e bella anche nell’estremo dell’angoscia. Tragica è la morte di don Rodrigo e tra’ segni della più viva disperazione, pure su quell’immagine alita come iride di pace la preghiera di padre Cristoforo e il perdono di Renzo. Questa temperanza di sentimenti e di colori fra i maggiori strazii ci rende amabile e simpatica la predica di padre Felice.

Ond’è che questo libro, quando uscì, ebbe appassionati fautori, e nessuno deciso avversario, fra tanto bollore di passioni e di opinioni. E presto fu nelle mani di tutti, e penetrò, cosa rara [p. 85 modifica]in Italia, ne’ più bassi strati sociali: al che contribuì non poco quella sua familiarità e facilità di espressione. La popolarità dello stile è l’araba fenice, appresso alla quale oggi corrono i nostri scrittori. E credono sia un meccanismo così facile ad acquistare come fu il meccanismo classico. La letteratura scolastica abbonda specialmente di cotali meccanismi. Vogliono contraffare il fanciullo, vogliono scimmieggiare il nostro popolino, pigliando ad imprestito il loro linguaggio, e sto per dire il loro cervello. E chiamano loro precursore Alessandro Manzoni, e si dicono manzoniani, come le scimmie di Petrarca si dissero petrarchisti. Credono che quel linguaggio di Manzoni stia da sé, faccia modello, come faceva modello quel linguaggio solenne e nobile che fu detto classico.

Ne’ Promessi Sposi linguaggio e stile non è costruito a priori, secondo modelli o concetti. L’è conseguenza di un dato modo di concepire, di sentire e d’immaginare. Lo stile è la combinazione delle due forze che aveva lo scrittore in così alto grado, la virtù analitica e la virtù immaginativa. Uso a decomporre, a distinguere, ad allogare secondo una certa misura o limite interno, che non è altro se non il senso del vero, l’espressione è sempre precisa e giusta, cioè vera, ed è insieme semplice, perché l’interna misura esclude ogni esagerazione ed ogni complicazione. Tutto è a posto, e tutto è nel suo limite; niente v’è di sì complesso, che non sia distinto e semplicizzato; perciò tutto è vero e tutto è semplice. Queste virtù intellettuali sono in lui anche forze morali, perché tutto è armonia in quella mente. Il suo senso del vero è fortificato dalla sua sincerità, il suo vigore analitico è ajutato dalla sua serenità e imparzialità, e quel suo gusto del semplice è anche semplicità morale, che lo tien lungi da ogni affettazione e ostentazione, da ogni ricerca di effetti artistici che non sieno inclusi naturalmente e immediatamente nel suo argomento. Questa è la base solida e direi organica del suo stile, non fabbricato per meccanismi o processi esterni, ma nato e formato nel suo spirito. Dico la base, perché se questo basta allo scienziato, non basta all’artista. Ci è il disegno, non ci è il colorito. Ma come il poeta s’interna nelle [p. 86 modifica]più minute latebre del suo argomento, scopre sempre lati nuovi, che stuzzicano più la sua curiosità e rinfrescano le sue impressioni. Scartando tutt’i luoghi comuni poetici e tutte le reminiscenze, esplorando tutto con osservazione diretta, gli brilla innanzi un mondo psicologico tutto nuovo, a cui il suo spirito non rimane indifferente, a cui anzi ha la più viva partecipazione. Perciò mentre tutto esprime con precisione ed esattezza di scienziato, in quell’espressione, non sai come, si mescolano e si fondono le sue impressioni, che la rendono animata e spiritosa. Dall’alto del suo osservatorio, sempre presente a sé, e non dominato, ma dominando, ciò che lo colpisce più è il contrasto tra quello che le cose sono e quello che paiono, velati gli occhi da ignoranza e da passione: ciò che dà alla sua espressione una leggiera tinta ironica, una forma, nella quale il reale vero si afferma di contro all’apparenza. Ma perché il mondo va così, e non può andare altrimenti, quell’ironia non è senza una cert’aria di benevolenza, essendoci nella più parte de’ casi debolezze da compatire, perché debolezze della stessa natura umana. «Così va il mondo», nota il poeta, «o piuttosto così andava nel secolo decimosettimo»; correzione ironica piena di garbo, che fa ammettere ridendo il rimprovero e gli toglie ogni asprezza. Riserbando la sua indignazione per le singolarità vituperevoli di questo o quell’individuo, quando s’incontra in casi comuni e generalmente tollerati, l’universale tolleranza si rivela in quel carattere benevolo della sua ironia, come quando dice de’ soldati in guarnigione che insegnavano la modestia alle fanciulle, e alleggerivano i contadini delle fatiche della vendemmia. Così la sua analisi è mescolata di malizie, d’ironie, di motti arguti, di riflessioni piccanti, e la sua espressione è così colorita, che spesso nelle cose si sente l’impressione, e nell’impresione traspariscono le cose: onde il suo stile, mentre è sempre semplice e preciso, è insieme sempre spiritoso. Ed è ancora altamente pittoresco, perché il poeta, oltre ad una eminente facoltà di analisi, possiede una potente immaginazione. Appunto perché le cose fanno sul suo spirito una così viva impressione, le qualità più astratte, le nozioni più astruse, i fenomeni più spirituali [p. 87 modifica]prendono faccia e gli si movono innanzi come esseri animati. E come tutto nasce da osservazione diretta delle cose nella loro individualità, quei colori non hanno niente di comune, e nascono con esse le cose. Non vi sorprendi mai ripetizione o reminiscenza di colorito; tutto è nuovo, perché tutto è proprio e non si rassomiglia che a se stesso, a quel modo che nessun individuo si rassomiglia con altro. Onde avviene che tanti personaggi, tanti fenomeni, tante malizie, tante apparizioni lasciano nel tuo spirito sempre una immagine, che te ne conserva la memoria. Fino il Griso e il Nibbio, fino Gervasio e Tonio, chi può dimenticarli? attaccati i loro nomi a certi tratti plastici e caratteristici, che ti s’improntano nell’immaginazione. Nessuna malizia ti sfugge, nessuna ironia ti lascia indifferente; non ci è apparizione sì piccola e insignificante che non abbia una sua faccia propria, se non altro, per dirti che la è piccola e insignificante. Vedi la forma sprezzante, con la quale è indicata la morte di Griso, come d’un animale senza pensiero, senza parola e senza rimorso, senza alcun vestigio di senso umano. E non perché non pensi e non parli, ma perché il poeta con l’aria di chi guarda e passa, non degna raccogliere pensieri e parole di un essere così insignificante e volgare nella sua malvagità. Questa potenza e proprietà di colorito tu non l’incontri solo nell’analisi, ma ancora più nella rappresentazione, quando alla descrizione e al discorso succede il dramma, cioè a dire quando tale personaggio, tale avvenimento ben descritto, bene analizzato, entra in una data situazione. Mentre si opera e si parla, il poeta è là che dà il rilievo, scolpendo le figure, animando gesti, movenze, positure, dipingendo al di fuori tutta la vita interiore cosí bene esplorata, e cogliendo a volo le sinuosità più fuggevoli e più delicate della rappresentazione. E tutto questo mondo è cosí sempre tutto intero innanzi al poeta, che analisi e rappresentazione s’illuminano a vicenda, entrando l’una nell’altra e l’una all’altra specchio e rilievo, di guisa che spesso un tratto analitico ti rischiara tutta l’azione, e un gesto, una parola ti richiama tutta l’analisi. Don Abbondio è il personaggio meglio analizzato e più compiuto. Lo incontriamo nelle più varie [p. 88 modifica]situazioni, sempre diverso e pur sempre quello. La sua nota fondamentale è la pusillanimità, che nelle situazioni più accentuate prende la forma acuta della paura; e la sua diversità è apparente, è nelle varie gradazioni di quella nota, come sono le sue stizze, le sue impazienze, la sua poltroneria, e fino il suo coraggio, quel tale coraggio della paura. Veggasi come così varie situazioni di animo sono illuminate da tratti analitici, e come talora un suo gesto, una sua parola ti richiama l’analisi, e gli caccia d’improvviso e a sua insaputa il gran segreto della sua natura a tutti manifesto, fuorché a lui, qual è il motto famoso: «il coraggio uno non se lo può dare». Spesso l’analisi è il frontespizio della rappresentazione, ed hai un vero processo logico, una specie di premesse e di conseguenze; talora è in antagonismo e ne vengono grandi effetti estetici, come quel don Abbondio in quello stato di perfetta quietitudine, quasi di uomo contento che faccia il chilo, col suo famoso; «chi è Cameade?» rimasto proverbiale, còlto a volo e fissato in caricatura, con quella zimarra, con quel camauro, in quella figura grottesca, e da quel sicuro lido lanciato subito in pieno mare tempestoso. Queste intime commessure delle cose scrutate e connesse con tanta virtù intellettuale, e allogate, rilevate, armonizzate con l’occhio sicuro di un artista consumato, producono nell’unità dell’insieme anche l’unità del colorito, espressione immediata delle cose e delle loro impressioni sul poeta, e così preciso e giusto e semplice, perché la visione è chiara e l’impressione è vera.

Tale esce qui lo stile nelle sue forme intellettuali e fantastiche dalla sorprendente combinazione di due forze amicamente operose, un grande vigor logico e una immaginazione potente. Il suo carattere è la precisione congiunta con l’evidenza nella massima semplicità. O per dirla con una parola, è la naturalezza, quell’immergersi e obbliarsi della mente nella natura e parer una con quella. Il che se desideri nelle parti serie e ideali, dove senti alcuna volta una certa ineguaglianza, un certo sfoggio come d’idee e di colori uscenti piú da previsione mentale che da visione immediata, trovi sempre e in grado eccellente nelle parti mezzane e comiche della vita e nelle sue analisi. Chi disse [p. 89 modifica]che lo stile è l’uomo, disse una mezza verità. La verità intera è questa, che lo stile è la cosa nel suo riflesso e nel suo effetto sulla mente. Da questo lavorìo esce la cosa impressionata, sì che tu ti accorgi che la è passata per la mente e ne ha ricevute le impressioni. La storia dell’arte è la storia di questa unione. Talora la mente accoglie in sé la cosa con poca serietà, e resta lei, e vuol comparir lei, e per volerla troppo abbellire, troppo assimilarla a sé, la snatura. Questo chiamano eleganza, che nella sua esagerazione conduce sino a’ processi artificiali e convenzionali. A questa eleganza oppone Manzoni la sua naturalezza, sì che la cosa esce dalla sua mente nella integrità e nella verità della sua natura e delle sue impressioni. In questo senso Manzoni è il vero padre della nuova letteratura, il cui carattere a’ nostri giorni è la naturalezza. Pur voi vedete da quello che si è discorso finora, come si richiedono maggiori mezzi e maggior potenza di mente a produrre questa naturalezza, che a produrre quella eleganza. Perché se è facile copiare artificialmente e riprodurre l’eleganza, difficilissimo è ottenere la naturalezza, la quale presuppone lo studio e l’intelligenza e l’amore delle cose, quali te le dà la natura e la storia, e una grande virtù nella mente di assimilazione e di produzione. Onde avviene che i più, come sono molti che si dicono scrittori popolari e realisti, correndo appresso alla naturalezza, trovano l’insipidezza, che è la cosa uscita dalla mente senza sapore e senza colore, senza quell’impronta spirituale, che le viene dalla sua dimora e dalla sua trasformazione nella mente.

Tale lo stile, e tale la lingua. Il grosso materiale è qui la lingua parlata e intesa dall’un capo all’altro d’Italia, intramezzata di lombardismi e di toscanismi, che le comunicano la vivacità del dialetto. Scopo della lingua non è l’eleganza, che la impoverisce, la cristallizza in classificazioni arbitrarie e convenzionali, con un’aria di solennità artefatta; ma scopo è qui la perfetta similitudine sua con le cose, una espressione di quelle la più precisa e la più immediata, nella quale conformità consiste la sua bontà. Ond’ella ti riesce ricca, variata, mescolata di forme e di accenti, sempre propria e plastica, tale che assicuri [p. 90 modifica]la più rapida e la più evidente trasmissione delle cose ne’ lettori. E perché il popolo concepisce appunto così, e vede per immagini e in modo vivo e pronto, scegliendo le vie più brevi, tutto ellissi e scorciatoie e troncamenti e abbreviazioni, come si vede ne’ suoi dialetti, si comprende la grande popolarità di una lingua simile, e come di tutte le prose italiane questa sia che si legga tutta e volentieri da tutte le classi.

Chi mi ha seguito, vedrà non essere poi maraviglia che quell’uomo, sopravvissuto per molti anni a se stesso, morto in un tempo men favorevole alle sue opinioni religiose e al suo quietismo politico, ebbe pure tale testimonianza di onore, che per la sua unanimità si può chiamare nazionale. L’Italia, finite le lotte e calmate le passioni, giusta perché contenta, mirava in lui l’uomo che meglio seppe comprenderla non nella diversità de’ suoi partiti che passano, ma in quella universalità di tradizioni e di aspirazioni, che sono il fondo della vita nazionale, e che nel momento dell’azione tutti ci uni, a quel modo che tutti fummo uniti appresso al suo feretro.


[Nella Nuova Antologia del dicembre 1873, vol. XXIV, pp.742-65].