Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/X. La «Morale cattolica» e i «Promessi Sposi»

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X. La «Morale cattolica» e i «Promessi Sposi»

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X. La «Morale cattolica» e i «Promessi Sposi»
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Lezione X

[«LA MORALE CATTOLICA» E I «PROMESSI SPOSI»]

Abbiam notato nel Manzoni due forze: il sentimento vivo d’un mondo ideale o poetico, e il senso del positivo, dello storico; — forze rimaste finora inconciliate, l’una divisa dall’altra, l’una fuori dell’altra. Come critico, Manzoni cerca conciliarle facendo dell’una l’istrumento dell’altra, facendo del mondo ideale un mezzo per illustrare il mondo storico e positivo.

Ma l’artista s’è ribellato al critico, l’ideale è stato più potente di lui, non ha voluto penetrare in quel mondo positivo, non ha voluto diventar dramma, azione, acquistare un processo, e uno sviluppo. L’ideale ha fatto stacco, è rimasto lirico, quando il poeta volea renderlo drammatico: è rimasto inno, coro, è rimasto il canto della morte.

Ebbene, Manzoni ora lascia il dramma, prende il romanzo e studia la storia del secolo XVII. Quali sono le sue idee? Le stesse di quelle con le quali ha fatto gl’Inni e la tragedia storica. Che cosa vuole egli fare? Vuol rendere drammatico il suo mondo ideale e poetico e, inoltre, vuol raggiungere un altro scopo: servirsi di questo ideale per illustrare il secolo XVII.

Noi, dunque, per vedere ora come Manzoni studia e congegna il suo romanzo, dobbiamo esaminare anzitutto quel mondo ideale, poetico, che vuol rendere drammatico nel romanzo, e poi vedere come l’ha calato nel mondo positivo del secolo XVII. Qual è il mondo ideale o poetico che vuol rappresentare ne’ Promessi Sposi? Abbiamo un dato positivo per vederlo. È [p. 230 modifica]lo stesso mondo che Manzoni, qualche anno più tardi, di artista divenuto critico, ha esposto nel suo libro della Morale Cattolica. Sono tutte le idee che informano le concezioni, le azioni, le situazioni del romanzo: lì come ragionamenti troverete quello che nel romanzo è rappresentato come passioni ed azioni.

Vediamo un po’ che cosa è questa Morale Cattolica, questo mondo ideale de’ Promessi Sposi.

Sapete in che occasione fu scritto quel libro? Dopo il ’21, quando il partito liberale in Italia fu interamente sconfitto e il despotismo, appoggiandosi alle baionette austriache, rimase padrone, quel bel partito romantico, che scriveva il Conciliatore a Milano, si sciolse: alcuni furono esiliati, altri mandati in prigione. Tra quelli che lasciarono Milano fu il Sismondi, che si ritirò nella sua patria, Ginevra. Romantico come Manzoni, anch’egli scriveva nel Conciliatore e sosteneva le stesse dottrine. A Ginevra portò l’amore dell’Italia, la quale gli deve essere sempre grata. Colà scrisse la Storia delle repubbliche italiane, di cui vi dirò brevemente lo scopo. Egli volle dimostrare due cose. Anzitutto, che le istituzioni politiche non sono indifferenti nel formare il carattere d’una nazione, come i romantici allora pretendevano; e che se l’Italia ebbe tanta gloria e prosperità nel Medio Evo, ciò si deve alle istituzioni politiche che allora essa aveva, alla libertà; e che, se vi furono paesi che non godettero di eguale prosperità e grandezza, per esempio il regno di Napoli, ciò fu pel difetto di quelle istituzioni politiche.

Inoltre, quando Sismondi finisce la sua storia, quando ha già ritratto un popolo così grande per prove di guerra e di pace, per commerci e industrie, per artisti e pensatori, e guardando intorno a sé, vede questo stesso popolo così diverso, servile, ipocrita, abbassato, si domanda: — Come dunque gl’italiani in due o tre secoli han mutato così profondamente il loro carattere? Perché sono caduti sì basso? — . A questa questione consacrò l’ultimo capitolo, che fece allora la più profonda impressione nel popolo italiano.

Le istituzioni politiche entrano in gran parte a spiegare la decadenza; ma la cagione più diretta è per lui il cattolicismo [p. 231 modifica]come è interpretato dai «casisti». I casisti sono, quando si parla della religione cattolica, quello che in filosofia i «sofisti».

La morale cattolica, secondo il Sismondi, ha due momenti della sua esistenza, in cui si presenta come corruttrice: il momento in cui nasce, e quello in cui è depravata dai casisti. La virtù, fra gli ascetici e i mistici, è depravata, oltrepassata: invece del concetto della virtù conforme alla natura umana, sorge un altro che pare eroico, ma non è altro che la depravazione del concetto ragionevole, umano.

Mi spiego. Pigliamo, per esempio, la sobrietà. Qual è il principio di questa virtù? È il mens sana in corpore sano. Il sentire che per la natura umana l’eccesso dei cibi nuoce al corpo e all’anima, costituisce la base di questa virtù. Che fanno gli ascetici e i mistici? Oltrepassano la virtù come da noi è concepita, predicano astinenze, digiuni, macerazione della carne, cilicii, vigilie. La virtù è esagerata, perché il suo principio non nasce più dalla natura umana, ma da un concetto ascetico della religione cattolica, quello cioè che la materia è maledetta, che più si macera il corpo in questo mondo, più si diventa degni dell’altra vita. Così un concetto esagerato della religione vi porta all’esagerazione nella vita pratica, e la virtù è oltrepassata e guastata.

Prendiamo un altro esempio, la continenza. Anche di una donna maritata possiamo dire: — È continente, è casta — . Per essere tale non è necessario astenersi interamente dalle funzioni naturali; quello che importa è da una parte la sobrietà in quei piaceri, dall’altra la purezza dell’immaginazione, dell’animo. Ricorderete le belle parole da Livio attribuite a Lucrezia: «Corpus est tantum violatum, animus insons». Questa purezza di animo costituisce la castità. Ebbene, il cattolicismo, pel principio della mortificazione della carne, ha esagerato questa virtù. L’amor libero s’è condannato, c’è lo stato di continenza e di castità, ed è lo stato matrimoniale; ma questo non è lo stato di perfezione. Il cattolicismo mette come ideale il celibato, la verginità; perciò il monaco, la monaca, il ministro di Dio hanno l’obbligo di sciogliersi da ogni legame di famiglia, e non solo [p. 232 modifica]essere continenti, ma astinenti. Ciò è qualche cosa d’innaturale che finisce col condurre l’uomo a più gravi eccessi, depravando dapprima l’immaginazione.

Andiamo innanzi. La modestia è la più amabile delle virtù. E che cosa è la modestia? È la stima di se stesso moderata, sicché noi non usurpiamo il posto altrui, non ostentiamo il nostro merito. Meno un uomo è grande, più fa ostentazione di grandezza; la fisonomia del grand’uomo è la modestia. L’uomo modesto è l’uomo vero e semplice, senza abbassamento e senza ostentazione di sorta. Che cosa ha fatto di questa virtù la morale ascetica? Ne ha fatto l’umiltà: ha fatto dell’umiliazione un ideale di perfezione, come dell’astinenza un ideale poetico religioso. L’umiltà è la nessuna stima, il disprezzo di sé, il sentirsi al disotto degli altri, perché tutto quello che per avventura può essere merito nell’uomo, non è merito suo, egli deve riferirlo a Dio, deve abbassarsi quanto più si può innanzi agli altri. La modestia esagerata diviene dunque umiltà; ma è proprio dell’uomo l’avere la testa in alto, mirare il cielo. Con quella dottrina l’uomo è contraffatto, porta la testa china, la spina dorsale s’incurva. Il mettersi in ginocchio, il raccogliere la polvere della terra per penitenza, tutto ciò che uccide in noi la coscienza della dignità, è merito innanzi a quella morale ascetica.

Prendiamo inoltre la coscienza. È una virtù consultare la propria coscienza, seguirne i dettami. Che cosa fa la morale ascetica? Non ammette più la coscienza mia o tua, ma la coscienza collettiva, che diviene autorità esteriore, autorità del parroco, del confessore o del papa, di ciò che chiamasi il direttore spirituale. Alla coscienza sostituisce l’obbedienza passiva a qualche cosa di esteriore, che non è in noi: ciò che costituisce il fondamento di ogni dispotismo.

Così comprendete il primo concetto del Sismondi: l’esagerazione ascetica e la depravazione di quelle virtù. Quando domandate all’uomo che contraddica alla sua natura, che avviene? Egli dice: — Non potendo realizzare un ideale così oltre-umano, a poco a poco la morale si materializza, e si contenta di certi atti esterni che non domandano una annuenza interna — . [p. 233 modifica]perciò quell’ideale fu presto materializzato, presto nei conventi fu corrotto in modo da eccitare la collera non solo di Dante, ma dei Santi stessi e degli uomini mistici dei secoli passati. Dall’esagerazione nasce questo materializzarsi della dottrina; la morale è posta in un fatto esteriore nel quale non interviene la nostra coscienza.

In che sta, a mo’ d’esempio, il divino della confessione? Nel pentimento, nella risoluzione di mutar vita. Qual’è la confessione, non secondo i libri, ma nel fatto? Consiste nel prender l’assoluzione, e dire: — Non più peccare — ; e poi tornare da capo. È la confessione ridotta al fatto materiale, è sempre la morale materializzata per l’esagerazione. Secondo tale dottrina, quello che importa al cristiano non è il come ha vivuto, ma come è morto; se è stato malvagio in tutta la vita, non monta, morendo da buon cristiano va in Paradiso. V’è un proverbio italiano che esprime bene codesto: «La gioventù al diavolo, a Dio il vecchio carcame!».

Vedete anche come si è materializzata la carità. Essa è un sentimento di compassione che avete verso il vostro simile che soffre, nascente non dal desiderio di guadagnare la salute eterna, ciò che sarebbe egoismo, ma dall’amore del prossimo, considerato come vostro fratello. Cos’è questo concetto materializzato? È ridotto alle indulgenze, alle dispense, all’andare a caccia di testamenti. — Ecco il mondo come è nella depravazione presente — , dice il Sismondi. A che è ridotto il culto? Che cosa è l’andare a messa, il recitare rosarii e avemarie, il portar amuleti? Niente; ma in quella morale materiale diviene tutto, e vedesi un brigante portare l’immagine della Madonna e raccomandarsele, un ladro che commette un furto e il giorno appresso va a messa. — Per cui, dice il Sismondi, oggi in Italia esser devoto non è garanzia di probitá, au contraire: la troppa devozione fa temere l’ipocrisia — .

Egli finisce con una magnifica descrizione dello stato della gioventù italiana ne’ seminarii, con osservazioni che anche oggi sono applicabili, perché oggi abbiamo formato l’Italia materiale, ma gl’italiani sono ancora ben lungi dall’esser fatti. Leggete [p. 234 modifica]ciò che ei descrive, e vedrete che in molte parti l’istruzione e l’educazione rimane la stessa. Quella è la morale degli eunuchi, atta ad abbassare il carattere d’un popolo, ad avvezzarlo all’ipocrisia, a separare il pensiero dal fatto, a contentarsi dell’apparenza, negligendo la sostanza. Noi diciamo che un popolo ha carattere quando porta in sé impresso il marchio della sincerità, della probità; che non ha carattere quando ha ipocrisia, si contenta delle apparenze.

Questo libro produsse immensa impressione. I Promessi Sposi erano già usciti alla luce, pareva a molti che essi rappresentassero appunto quella morale. Noi, coll’imparzialità dei posteri, perché rispetto a quel tempo noi siamo già i posteri, dobbiamo dire che mai è uscito in Italia libro più utile della Storia delle repubbliche italiane, che dovrebbe essere il nostro codice, il nostro vangelo, finché non avremo rifatto il nostro carattere.

Manzoni sentì che fare un atto di accusa, una requisitoria come quella contro la morale cattolica senza temperamento di sorta, era un gran pericolo per l’Italia: perché gl’italiani a quel tempo, e credo anche un po’ ai nostri, gl’italiani appunto per le oppressioni patite e per le corruzioni del cattolicismo erano scettici; e Manzoni sforzasi di dimostrare che religione e libertà possono andar di conserva. Quel libro attraversava il suo indirizzo letterario, morale, religioso; credendo fosse un veleno per la gioventù italiana il leggere un libro che confonde la morale depravata con la vera, volle metterci un antidoto e scrisse il suo discorso sulla Morale Cattolica, in risposta a Sismondi.

Ora ho una brevissima osservazione a fare.

Manzoni e Sismondi sono perfettamente di accordo.

Come Sismondi concepisce la virtù, così la concepisce Manzoni; come quegli rappresenta gli abusi della morale cattolica, cosí li rappresenta Manzoni. Dov’è la differenza tra i due libri? Sismondi, essendo storico, dice: — Io non devo occuparmi della morale cattolica da filosofo e da teologo, non voglio indagare che cosa è in se stessa. La prendo in flagrante, qual’è in fatto, la prendo nello stato della sua depravazione — . Manzoni risponde: — Ebbene, sia! avete esposti gli abusi che ci sono e [p. 235 modifica]non ho da entrarci; ma come filosofo, mettendomi da un punto di vista più alto, dico che la morale cattolica veduta non dal punto di vista degli scettici o dei casisti, ma da quello della ragione, dico che essa è conforme alla morale naturale — . Quindi la sobrietà, la continenza, la modestia e le altre virtù da Manzoni sono mantenute, non in nome della religione cattolica, ma, tal quale come da Sismondi, in nome della ragione.

Uno dice: — Prendiamo il mondo qual è — ; l’altro dice: — Prendiamolo quale dovrebbe essere secondo la religione nella sua origine, non ancora profanata, depravata — . Raggiungono due scopi diversi ed entrambi utili. Manzoni rigetta l’ascetismo e il misticismo, le esagerazioni di cui ha parlato il Sismondi: per lui lo stato matrimoniale è stato di perfezione; vuol dimostrare che le astinenze e i digiuni concepiti senza l’esagerazione mistica sono la sobrietà; vuol mettere di accordo la morale religiosa, concepita nella sua origine e purezza, colla morale quale la dà la filosofia, il diritto naturale. Quanto al materializzare la morale, è d’accordo col Sismondi. Si sforza però di dimostrare che quantunque esso sia vero, si deve attribuire ai casisti, al tempo, ecc.; ma che nel senso cattolico il vero principio morale è dentro dell’uomo. È colpa forse di Cristo che gli uomini credano esser santi col solo andare in chiesa? Il credere che uno è assoluto se il confessore alza la mano per benedirlo, che l’entrare in paradiso è questione di aver di che pagare le indulgenze, è colpa di Cristo?

Credo avervi dato un concetto chiaro del mondo morale e religioso come è rappresentato da Sismondi e difeso da Manzoni. Questi cerca nobilitarlo strappandolo dagli abusi presenti, riconducendolo alla sua origine. Ciò fa in quel discorso, ciò ha fatto negl’Inni, nel Carmagnola, nell’Adelchi, ciò ha fatto anche nei Promessi Sposi.

Che cosa pensa egli, dunque, quando studia il secolo XVII e vuol farvi un romanzo? Pensa trovare il modo di mettere in azione quella morale cattolica, rappresentarla non più liricamente come nei Cori e negl’Inni, ma rendendola veramente drammatica in un’azione che abbia il suo processo interno: e [p. 236 modifica]questo senz’alterare la verità positiva, anzi in modo che essa ne sia illustrata.

Or vi pare possibile inquadrare nel secolo XVII una morale così pura, come la concepisce Manzoni, libera dall’esagerazione del suo principio, da quel materialismo della sua fine? Come trovare elementi perché quell’ideale stia in quel secolo senza dissonanza, senza che paia parto della fantasia, senza che paia messo a forza in un mondo sì differente? Che cosa è infatti il secolo XVII? Queste domande se le faceva egli stesso. — Che cosa è quel secolo?

Ve lo dirò in poche parole. Politicamente è la dominazione spagnuola in Italia, dura soprattutto in Lombardia, senza che gl’italiani avessero, non dico il concetto dello Stato, ma il concetto stesso dell’indipendenza locale; senza che sentissero l’umiliazione dell’essere soggetti allo straniero, perché il concetto di nazionalità non era ancor sorto. Come società, è il regime feudale in tutto il suo fiore: in ogni paesello è il barone, coi suoi bravi, le sue oppressioni, in modo da togliere ogni libertà alla borghesia e al popolo.

E che è quella borghesia? Essa è mezzanamente istruita, riposa più sugli studi classici che sul mondo contemporaneo e vivente, troppo debole verso quel regime feudale, servile, corrotta, ipocrita. Essa è la mente che serve di strumento al barone e ai suoi bravi. Che è il popolo, la plebe nel secolo XVII? Ve lo diranno le parole con le quali Sallustio caratterizza il tipo immortale della plebe, con quella sua penna che è scalpello: «prona et ventri oboediens»; prona e ubbidiente al ventre. Se le manca il pane, tumultua; se saziate la sua fame, s’ammansa!

Sono questi elementi in cui può entrare l’ideale di Manzoni? Pure, egli ve lo pone, e in modo da mantenere non solo la purezza della sua poesia, ma essere ancora d’accordo con questi elementi corrotti.

In tutt’i secoli corrotti sonovi certe parti di uno Stato, poste a mo’ d’esempio tra i monti, presso i laghi, nel contado, dove la corruzione e la depravazione morale giungono all’ultimo. Perciò [p. 237 modifica]quando uno stato sociale è guasto in modo che non vi si può più trovare un ideale poetico, viene l’idillio, si va in mezzo ai campi, esce Titiro, l’Aminta, il Pastor fido, ultimi ideali dell’Italia corrotta!

C’è lì il contadino, la contadina, rimasti fuori il lezzo delle grandi città, serbando la purezza tradizionale. E l’autore de’ Promessi Sposi è andato là, nei campi, a trovare l’ispirazione, i tipi per rappresentare il suo ideale. Manzoni aveva una villa presso Lecco; abitava colà e studiava il secolo XVII: stando in mezzo a quei contadini e a quelle «forosette», come dicono in Lombardia, ha potuto vedere quella natura incorrotta di cui si perde la memoria nelle città. Così le più belle ispirazioni a Raffaello Sanzio sono venute dal suo contado: di quelle facce pure delle sue contadine si trovano le orme anche nelle piú belle sue Vergini.

Là Manzoni trova un ideale puro. Già voi avete nominato i primi personaggi, il primo involucro di quella storia. Lucia, Renzo, Agnese, sono gente ignorante ma buona: credono in Dio ed eseguono con ingenuità i suoi precetti, un po’ modificati dal parroco del villaggio, ma con l’animo schietto. Soprattutto prende Manzoni il suo ideale nella donna: Lucia è divenuta centro della sua storia.

È una contadina che ha la fede senza che abbia mai domandato che c’è di vero e di falso nella religione; l’ha presa come l’è venuta dalla tradizione, per cui il suo ideale religioso è tutto morale pratica, perché la sua educazione viene da que’ precetti che ella sin dalla prima età è accostumata a seguire. Avete dunque una giovine ingenua, credente senza sapere che sia merito il credere, pudica, schietta, modesta, semplice ne’ suoi modi. Né è un ideale esagerato: anche oggi si trovano fuori delle città contadine fatte a questo modo. Manzoni volendo farne l’ideale di una storia poetica, s’innamora un po’ anche lui di Lucia, l’abbellisce un po’ di soverchio, esagera alquanto il colorito, poco a poco quello diventa un essere innanzi al quale, egli dice, io e i miei lettori sentiamo riverenza.

Come fare accostare questo carattere, Lucia, al mondo [p. 238 modifica]positivo? Se fosse sola, apparirebbe in tutta la sua dissonanza col mondo infetto nel quale si trova. Manzoni le mette accanto due esseri, educati allo stesso modo, ma più vicini al mondo positivo, perciò più reali, capaci di alcune imperfezioni. Tutto ciò che è esagerato in Lucia diviene naturale in Renzo ed Agnese.

Renzo ha gli stessi sentimenti di Lucia in quanto a morale, ma è un uomo: un uomo che ha fegato, bile, passioni, impeto; e siccome la dura esperienza non gli ha ancora insegnato che volere non è sempre potere, egli crede con la forza vendicarsi, respingere gli ostacoli. Si vede in lui l’uomo inesperto della vita reale, e da ciò i suoi guai. Quando un personaggio si trova in mezzo alla realtà e non la comprende, e cerca oltrepassarla, nasce il comico. Renzo ha una parte comica: appunto quella parte ideale che risplende in Lucia, è in lui negativa.

Agnese è una donna fatta, ha esperienza, ha gli stessi sentimenti di Lucia e di Renzo, anzi ella li ha inspirati a Lucia. È donna, non ha la forza dell’uomo, e nasce in lei un’altra specie di comico. Renzo cerca superare colla forza, prendere d’assalto l’ostacolo; Agnese vuol girare la posizione, trovare mezzi indiretti per riuscire allo scopo. È un po’ comare, chiacchierona, pettegola, si consulta con la serva, crede, ignorante com’è, tutto ciò che le si dice. L altra donna con l’essenza stessa del carattere di Lucia; e negli attriti colla vita reale manifesta una parte comica.

Notate, dunque, con che bel garbo ha Manzoni immaginato questi tre caratteri. Avete un ideale puro in Lucia, ai cui fianchi due ideali simili, ma modificati dalla vita reale e divenuti comici.

Ma, si potrebbe dire, tutto questo è arbitrario. Perché anche in Lucia non deve penetrare una parte comica, reale?... È chiaro il perché. I personaggi che operano sono Renzo e Agnese; Lucia è una povera canna, senza iniziativa, troppo timida per avere l’idea di resistere agli ostacoli, premuta dai malvagi ricorre a Dio, prega, con quella sua voce soave cerca intenerire. Que’ due sono personaggi reali, si trovano nella vita pratica; ella rimane fuori della lotta, elle se laisse fair e, dicono i Francesi, va dove la conducono, tranne qualche volta, quando ricalcitra in nome [p. 239 modifica]dei suoi principii religiosi. Ella conserva la sua parte ideale; negli altri al cozzo della vita reale quell’ideale è modificato.

Ora bisogna muovere questi personaggi, ci vuol la leva, Dov’è la leva? Se non ci fosse, Lucia, Renzo e Agnese non avrebbero avuto storia, sarebbero vivuti e morti a Lecco senza diventare protagonisti d’un racconto. Che li muove? Il mondo tristo in cui si trovano; gli elementi fracidi contrarii all’ideale morale e religioso di Manzoni, diventano la leva che fa muovere quei caratteri.

Siamo in un piccolo paese. Lo scrittore prende quel secolo come poteva essere in un paesello. Avete il barone — don Rodrigo, il conte Attilio — co’ suoi bravi, un barone che per un caso qualunque s’impuntiglia a voler Lucia, poi questo puntiglio lo rende ostinato. Lucia che pareva un accessorio nella sua vita, diviene la principale sua occupazione, egli non ha più che il pensiero di Lucia. Avete da una parte il mondo ideale-reale, Renzo, Lucia, Agnese; dirimpetto il mondo positivo: il barone, i bravi con la borghesia, la parte istruita dipendente da lui e dai suoi scherani, che in luogo di soccorrere due contadini, trema del signore e volge l’istruzione contro i deboli in favore dell’oppressore.

I rappresentanti di questa borghesia già voi li avete nominati: c’è tra gli altri un personaggio che pare messo lì a caso, ma è pieno di senso, l’Azzeccagarbugli, il dottore, l’avvocato che, credendo si trattasse d’un altro, offre la sua opera a Renzo, e sentendo che si tratta di don Rodrigo, lo caccia.

Questo mondo baronale-borghese — permettetemi questa associazione — , baronale come oppressione, borghese come istrumento dell’oppressione, non rimane a Lecco. Naturalmente i baroni avevano molte relazioni e aderenze: era una catena che da un paesello, da Lecco per esempio, si estendeva e andava fino alla capitale, a Milano; una catena che Renzo col suo linguaggio espressivo battezza «lega dei birboni», lega cioè di dottori, notai, procuratori, uniti coi baroni, cogli oppressori. E quelli non facevano valere le gride, cioè la legge, e le adoperavano contro i villani, in favore di questi. Manzoni ha trovato le due [p. 240 modifica]forze l’una dirimpetto all’altra, di cui l’una è la leva dell’altra: baroni e borghesia collegati contro tre contadini. Chi è il naturale mediatore? Qui si comincia a colorire il suo mondo cristiano. È il prete, il ministro di Dio che, secondo il principio apostolico, deve mettersi contro gli oppressori, essere scudo ai poveri, agli infelici, agli oppressi. Ferve nella mente dell’autore l’ideale del prete da servirgli pel suo scopo, e vuol trovarlo in quel mondo del secolo XVII.

Ora in quel tempo gli ordini monastici erano tutti corrotti, il clero era ignorante e timido. C’era però un ordine monastico rimasto ancora popolare, non vivente nel convento, ma ne’ più umili paeselli, nelle campagne, in rapporto con tutti, con la sporta e i racconti: capite la popolarità di cui anche oggi gode il nome dei Cappuccini. Erano i frati del popolo, quelli che avevano intima relazione con esso. Fare del cappuccino un tipo, un ideale del prete, sarebbe forte. Il poeta (perché tutto questo è poesia) sceglie tra i Cappuccini un individuo, il tale individuo, che s’è trovato in condizioni eccezionali: lui pure è stato nel mondo, dotato di grande energia, di forte volontà. S’è trovato aver commesso un delitto senza volerlo, s’è pentito e per espiarlo si è dedicato alla carità, al sacrifizio di se stesso. Non è il tipo de’ Cappuccini di quel tempo; ma è l’individuo speciale che ritrovasi consacrato dalla sua missione. Il poeta rappresenta i Cappuccini in vari compagni del padre Cristoforo; ma la sua creazione capolavoro è il padre Cristoforo. Questo cappuccino che, conoscendo Lucia, sente i malanni cui ella si trova esposta, e come i cavalieri erranti dei tempi antichi, diviene cavaliere errante di Cristo, consacra la sua volontà, le sue forze, la sua vita a difendere Lucia contro don Rodrigo, è un bello ideale.

Questo padre Cristoforo un po’ troppo accarezzato, come Lucia, esce anche un po’ troppo dalla vita reale. È la religione cristiana spinta alla più alta cima della sua poesia. Come temperare quell’ideale per farci sentire il mondo positivo del secolo XVII? Dirimpetto al magnanimo frate, comparisce l’ombra piccina e timida del curato che giá conoscete, l’ombra di don Abbondio. [p. 241 modifica]
Don Abbondio ha gli stessi principii religiosi e morali del padre Cristoforo, è credente. Che cosa l’ha renduto una figura così comica? È il contrasto col mondo positivo, la sua inettitudine a sostenere le lotte. Come Renzo ha un lato comico perché crede colla forza spezzare gli ostacoli, e non comprende la vita, don Abbondio è il suo contro-ideale comico, perché è un parroco che conosce la vita: per lui don Rodrigo è potente come un Iddio, egli è avvezzo a tremare dei bravi. Credendosi uomo di grande prudenza, un gran politico, avvezzo a misurare fino a qual punto deve arrischiare la pelle, è disposto ad insegnare a Renzo e ad Agnese il modo di vivere. Ciò che di troppo elevato e sublime è nel cappuccino, viene modificato al contatto del positivo in don Abbondio: così vedete da una parte il clero nella sua idealità, dall’altra il clero qual era in quei tempi.

Guardate con quanta semplicità procede l’azione. Da una parte Renzo, Lucia, Agnese; dall’altra don Rodrigo, i bravi, la borghesia; mediatori tra essi don Abbondio e padre Cristoforo. Ma l’azione non rimane in Lecco. L’orizzonte s’ingrandisce, ritenendo però gli stessi elementi. A Monza, a Bergamo, a Milano, trovate l’istesso ambiente, con più larghi lineamenti, in un modo più elevato, come conviene a grandi città. Mediante quella catena di cui v’ho parlato, avete da una parte don Rodrigo, il conte Attilio, il Conte zio, Egidio; dall’altra, padre Cristoforo, che combatte il barone, ricorre anch’egli alle sue aderenze, trova modo di ricoverare Lucia a Monza.

Questa bella creazione va in ultimo a metter capo nella stessa opposizione, in due grandi personaggi, grandi per istruzione, volontà, efficacia, uno rappresentante il prete, l’altro rappresentante il barone: Federigo Borromeo e l’Innominato, il difensore e l’oppressore. La lotta finisce come deve finire nel senso cattolico. L’Innominato non è vinto materialmente, anzi è più forte materialmente: è vinto dall’amore del cardinale Federigo, è vinto dalla voce soave di Lucia, vinto da quell’elevata posizione morale che innanzi a lui mostra Federigo. Non è il peccatore ucciso, è il peccatore convertito. L’ultimo risultato di questa storia è dunque la conversione d’un mondo reo in uno [p. 242 modifica]migliore, per le parole del sacerdote; ed è desiderabile che avvenga così.

Questa è l’ossatura dei Promessi Sposi. Come vedete, è tutto l’ideale cattolico messo in azione in mezzo a un mondo positivo, in mezzo al secolo XVII. Che cosa è questa concezione? Quando comparve il romanzo, i più veementi patrioti deploravano l’influenza che esso avrebbe avuto sugl’italiani. Io invece me ne rallegro, poiché è, come influenza, sano; poiché se vogliamo uscire dalle passioni estreme dei partiti e metterci nella regione della verità, di quella verità che può veramente rigenerare il popolo, che cosa è questa concezione, che pare sia la glorificazione della morale cattolica? È una concezione eminentemente patriottica, eminentemente democratica, eminentemente religiosa.

È eminentemente patriottica, non perché l’autore, come fece dopo il Guerrazzi, vi parlasse di patria e di nazionalità, sentimenti che non esistevano nel secolo XVII; ma perché, ora che Manzoni non fa più il dramma dove deve nascondere se stesso, ora che espone quella dominazione, quei costumi, quei mali — lo fa con sì profonda analisi e sentimento di ciò che è opprimente in quello stato, che la conchiusione non può non esser chiara per gl’italiani. Egli dava il quadro senza parola; ma quando vennero il Guerrazzi e gli altri con la parola, il quadro era fatto.

Eminentemente democratica, perché è il primo esempio di un romanzo di cui sieno protagonisti dei contadini, in cui entri il piccolo popolo come elemento essenziale, che in noi desti interesse non per la regina, o per la nobile, o per le grandezze umane, ma per una donna la quale altro non ha che un cuore schietto e puro. È questo lo spiritualizzare le cose, spogliandole del manto bugiardo di cui le ricopre la società, è il vederle in se stesse, come sono. Anche oggi nelle strade vedendo de’ contadini, li consideriamo come se noi fossimo avanzi di semidei. Ma Manzoni vi costringe ad interessarvi delle avventure d’uno di essi, a farvi piangere su quanto accade a Renzo, a farvi tremare come l’Innominato quando sentite la voce di [p. 243 modifica]Lucia. Che cosa è questo? È lo spirito democratico, è l’eguaglianza rappresentata non in modo generale, ma sentita. Dopo la lettura di quel libro si rafforza in voi quella dottrina dell’uguaglianza che un giorno sarà realtà.

È una concezione eminentemente religiosa. Notate, non dico cattolica. Consultate le vostre impressioni: non è il sentimento strettamente cattolico che opera.su voi; perché se si parla di abusi, voi trovate nel romanzo Gertrude, e il poeta s’incollerisce contro il cattolicismo depravato a quel modo. C’è qualche cosa al disopra del cattolicismo preso in quel senso, ed è lo spirito religioso, che non è di questa o di quella religione, ma qualche cosa che si confonde col sentimento della virtù, della moralità umana, e che noi non possiamo cacciar via senza sentire affievolito quel sentimento naturale.

C’è la confessione, sì, ma non è secondo le forme materiali a cui l’ha ridotta la religione cattolica: è elevata in una regione pura, quella dell’indefinito sentimento religioso. Il peccatore sente nascere nel suo cuore la conversione, afforzata e compiuta dalla efficace parola di un altro, che lo guarisce interamente. Questo sentimento fa dell’incontro di Federigo Borromeo e dell’Innominato un capolavoro. C’è la carità, ma il cappuccino che chiede e ripone nella sua sporta i due pani del perdono, che ha di comune colle indulgenze e con le dispense? Lucia ha fatto voto di non sposare nessun uomo e darsi a Cristo. Ma quando si tratta di sciogliemela, credete che ci sarà bolla pagata a un tanto fisso? Tutta questa parte plebea e volgare è annullata; il padre Cristoforo, divenuto padre ideale de’ due fidanzati, divenuto apostolo, scioglie Lucia dal voto. C’è la predica (perché tutto il mondo cattolico è ne’ Promessi Sposi, ma in modo che si collega colla poesia); ma è qui il predicatore che fa citazioni, esordi e perorazioni, e che non innalzando il popolo a sé, ma abbassandosi a livello del popolo, ne fomenta i pregiudizi e lo rende più superstizioso, lo materializza anche di più? Ma guardate al lazzaretto: lá è il padre Felice, l’ideale del predicatore come lo concepisce Manzoni, che in luogo di compatire i pregiudizii della moltitudine ignorante che lo ascolta, si [p. 244 modifica]serve dello spettacolo della peste per sollevarla dalla superstizione.

Ecco quello che ho chiamato spirito religioso del romanzo, e posso dire dunque che questa concezione è patriottica, democratica, religiosa. Né ciò solo; ma è la più semplice che si possa immaginare per un romanzo. È una di quelle che, alla fine del libro, vi rimangono impresse, si che potete abbracciarla tutta d’un solo sguardo.

Ma tutto questo è arte? basta per farvi dire: — Ecco un bel romanzo — ? Certo il grande artista si scorge nelle grandi concezioni, ma qui non avete ancora altro che una concezione puramente intellettuale. Uno scrittore che non sia artista può ancora fame una, semplice, patriottica, democratica. E che avrà fatto? Nulla. Non siamo entrati ancora nel regno della vita. E per entrarvi che bisogna fare? Realizzarla. Invece Manzoni dice: — Prendiamo questa concezione e serviamocene per colorire un’epoca storica, illustrare un secolo, facendo sì che essa acquisti verisimiglianza — .

La sua risposta, dunque, è diversa dalla nostra. Rimane a vedere che cosa ha voluto fare; che cosa, senza saperlo, egli ha fatto.

        [Nel Pungolo, 21-26 aprile 1872].