È tutto bene quel che a ben riesce/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO


SCENA I.

Firenze. — Una stanza nel palazzo del duca.

Squillo di trombe. Entra il Duca di Firenze con seguito; due signori Francesi ed altri.

Duc. Così voi siete istruiti delle ragioni di questa guerra per cui si è già sparso tanto sangue, e per la quale tanto ancora se ne spargerà.

Signore. La contesa par sacra per Vostra Altezza; ma dalla parte de’ vostri nemici sembra iniqua e odiosa.

Duc. Ciò che mi stupisce è che il nostre cugino, il re di Francia possa in causa sì giusta chiudere il suo cuore alle nostre preghiere.

Signore. Mio nobile principe, io non potrei illuminarvi sui motivi del nostro governo, nè parlarne se non come uomo volgare, che, ignaro dei segreti dei re, vuole indovinarli, co’ suoi imperfetti criterii: non vi dirò dunque quel che ne penso; tanto più che ho errato nelle mie incerte congetture, tutte le volte che ho voluto farne.

Duc. Si comporti la Francia come vuole.

Signore. Sono però almeno sicuro, che la nostra gioventù francese, che è stanca di riposo, verrà qui in folla.

Duc. Sarà la bene accolta; e tutti gli onori che posso concedere io li verserò sopra di essa. Voi conoscete i vostri posti. Allorchè i primi dell’esercito cadono, è per vostro pro; la lor caduta innalza voi. — Dimani verrete sul campo. (squillo di trombe; escono)

SCENA II.

Rossiglione. Una stanza nel palazzo della Contessa.

Entrano la Contessa e il Villico.

Cont. Tutto è accaduto com’io avevo detto, tranne che egli non ritorna con lei.

Vil. In verità il mio giovine signore è un uomo molto malinconico. [p. 307 modifica]

Cont. Come dici ciò?

Vil. Perchè guardava i suoi stivali, e poi cantava, interrogava e cantava: si forbiva i denti, e cantava. Ho conosciuto un’uomo che faceva come lui, e che vendè una bella terra per una canzone.

Cont. Vediamo quel ch’ei mi scrive, e quando ritornerà. (aprendo una lettera)

Vil. Non amo più Isabella, dacchè sono stato alla Corte. Le nostre Isabelle non rassomigliano alle Isabelle di colà. Il cervello del mio Cupido è svaporato, e comincio ad amar le donne, come un vecchio ama il denaro.

Cont. Che sta qui scritto?

Vil. Quello che vi sta. (esce)

Cont. (legge) «Vi mando una nuora che ha guarito il re, ed ha ucciso vostro figlio. Io l’ho sposata, ma non mi sono unito a lei, e la mia separazione sarà eterna. Udrete ch’io son fuggito; sappiatelo prima che alcuno ve lo narri. Se il mondo è abbastanza grande, porrò sempre una gran distanza fra la mia sposa e me. Addio, il vostro sfortunato figlio

Beltramo».

Questo non è bene, giovine temerario; rifiutar così i favori di un buon sovrano, attirarsene sul capo lo sdegno, e tutto ciò per disprezzare una fanciulla troppo virtuosa, perchè spregiata potesse essere neppur da un monarca. (rientra il Villico)

Vil. Oh signora! sonovi triste novelle, la mia giovine signora sta sta due uffiziali.

Cont. Che è ciò?

Vil. E però vi è in esse anche qualche conforto, perchè vostro figlio non sarà ucciso cosà presto come io pensava.

Cont. Perchè sarebb’egli ucciso?

Vil. Così pur dico io, signora, sopratutto se corre via come odo che fa: il pericolo era nello stare accanto a sua moglie; codesto perde gli uomini, sebbene faccia ottener figli spesso. Eccoli che vengono; essi ve ne diranno di più. Per me so solo che vostro figlio è fuggito. (esce; entra Elenà con due Gentiluomini)

Gent. Salute, buona signora.

El. Signora, il mio sposo è partito per sempre.

Gent. Non dite così

Cont. Abbiate pazienza: e ve ne prego, signori, parlate. Ho provato tante volte la gioia e il dolore che l’uno o l’altro non possono più vincermi. Dov’è mio figlio, ve ne prego? [p. 308 modifica]

Gent. È andato a servire il duca di Firenze. L’abbiamo incontrato colà, e colà ritorneremo riempiti che abbiamo alcuni ufficii.

El. Goardate a questa lettera, signora; quest’è il mio passaporto, (legge) «Allorchè tu avrai ottenuto l’anello che porto nel mio dito, e che mai non ne uscirà, è allorchè mi mostrerai uno de’ tuoi figli di cui sarò stato il padre, allora solo chiamami sposo: ma questo allora non verrà mai». — Terrìbile sentenza!

Cont. Recaste voi questa lettera, gentiluomini?

Gent. Sì, madonna; e da quel che contiene duolci d’esserne stati i portatori.

Cont. Pregoti, Elena, abbi coraggio: se per te sola conservi tanti dolori, me ne furi una metà. Egli era mio figlio, ma io ne cancello il nome dal mio cuore, e tu sola sarai la figlia mia. — Quel giovine è dunque a Firenze?

Gent. Sì, signora.

Cont. Per farsi soldato?

Gent. Tale è il suo nobile divisamento: e credete che il duca gli concederà tutti quegli onori che merita.

Cont. Tornate voi colà?

Gent. Sì, signora, e colla massima sollecitudine.

El. (legge) «Finch’io non abbia più moglie, nulla avrò in Francia». Amaro detto!

Cont. V’è anche ciò nella lettera?

El. Sì, signora.

Gent. Fu forse scrìtto dalla mano senza che il cuore vi acconsentisse.

Cont. Nulla avrà in Francia finchè vi avrà una sposa? Non vi è null’altro qui ch’ella sola che sia troppo buona per lui; ed ella meritava un principe, cui venti giovani storditi suoi pari seguissero con rispetto, e di cui riconoscessero ad ogni istante la donna per sovrana. — Chi andò seco?

Gent. Un solo domestico, e un gentiluomo che conobbi un tempo.

Cont. Parolles, forse?

Gent. Appunto.

Cont. È un’anima corrotta e piena di scelleratezze. Mio figlio, sedotto da lui, pervertì un carattere nato onesto e buono.

Gent. Infatti, signora, quell’uomo ha molta malvagità da cui sa trarre buon partito.

Cont. Siate i benvenuti, gentiluomini, e quando rivedrete mie [p. 309 modifica]figlio, vi prego in nome mio di dirgli che la sua spada non potrà mai acquistar tanto onore, qnant’oggi ne perde. Di più, anche io gli scriverò, se vorrete rimettergli il mio foglio.

Gent. Vi serviremo, signora, in questo ed in ogni altro comando.

Cont. A patto che voi pure accetterete le mie cortesie. Volete accompagnarmi? (esce coi gent.)

El. «Finch’io non abbia più moglie, nulla avrò in Francia». Nulla in Francia, finchè ei non v’abbia più moglie! Tu non ne avrai più nessuna, Rossiglione; nessuna in Francia, e riprendivi quanto vi possedevi. Povero sposo, sono dunque io che ti esilio dalla tua patria, e che assoggetto le delicate tue membra ai furori della guerra, che non ha pietà di alcuno! Sono io che ti bandisco da una Corte piacevole, dove i più begli occhi erano sopra te rivolti, per esporti ai colpi d’inesorabili guerrieri! Oh tu, messaggero della morte, piombo omicida che voli rapidamente sopra ali di fuoco, devia e non attingere al tuo bersaglio! Trapassa l’aere invulnerabile che risana le proprie ferite sibilando, nè toccare al mio diletto Beltramo! Chiunque vuol rapirgli la vita, è come da me incitato a farlo; chiunque alza contro di lui il ferro, è come esortato da me a trafiggerlo. Sebbene non sia io che l’uccida, sono però la cagione della sua morte. Meglio sarebbe stato per me che avessi incontrato il leone feroce, allorchè ruggisce straziato dalla fame. Meglio sarebbe stato che tutte le calamità della natura fossero cadute sulla mia testa. No, ritorna nella tua patria, Rossiglione; abbandona quei luoghi funesti, dove l’onore non raccoglie dai pericoli altro che ferite, e dove spesso perde tutto. Vuo’ allontanarmi: il mio soggiorno in questo castello fa te ramingo, e come vi resterei io per impedirti dì ritornare? No, no, quand’anche si respirasse nel tuo paese l’aria del paradiso, e che servita io vi fossi dagli angioli, lo lascierei. Possa la fama, tocca di pietà, annunziarti la mia fuga, e consolare il tuo cuore con questa novella! Oh notte, vieni; e tu giorno affretta il termine tuo, perocchè col favor delle tenebre io fuggirò da questi luoghi come una colpevole, povera fanciulla ch’io sono! (esce) [p. 310 modifica]

SCENA III.

Firenze. — Dinanzi al palazzo del Duca.

Squillo di trombe. Entrano il Duca di Firenze, Beltramo, signori, uffiziali, soldati ed altri.

Duc. Voi sarete il comandante della nostra cavalleria, e pieni delle più alte speranze nel successo che promettono le vostre armi, avrete uno dei primi posti nella nostra stima e nel nostro amore.

Bel. Principe, è un peso troppo grave per la mia debolezza, cui nondimeno, per provarvi la mia affezione, mi sforzerò di sostenere fino all’ultima estremità.

Duc. Partite dunque, e la fortuna vi secondi.

Bel. In questo giorno. Marte, io corro sotto le tue bandiere! Rendimi eguale soltanto ai voti miei, e avrai in me un amante della guerra, e un nemico dell’amore.

(escono)


SCENA IV.

Rossiglione. — Una stanza nel palazzo della Contessa.

Entrano la Contessa e il Maggiordomo.

Cont. Oimè! e perchè prendeste voi quella lettera? Non dovevate imaginarvi ch’ella voleva fare quello che ha fatto, dappoichè mi scriveva! Tornatela a leggere.

Magg. «Vado in pellegrinaggio fino a san Giacomo. Un amore ambizioso mi ha resa rea. Per espiare i miei falli con un santo voto camminerò a piedi ignudi sulla fredda terra. Affrettatevi, affrettatevi a scrivere, perchè il mio diletto signore, il figlio vostro, possa ritirarsi dalla sanguinosa via dei combattimenti. Benedite al suo ritorno, e goda egli presso di voi le dolcezze e della pace; intantochè io lontana, benedirò il suo nome fra le più ardenti preghiere. Ditegli di perdonarmi tutte le pene che gli ho causate. Son io che l’ho fatto partire da una Corte e in cui era amato, per esporre i giorni suoi in mezzo a un e campo nemico, dove il pericolo e la morte seguono l’orme degli eroi. Egli è troppo buono e troppo bello per essere mia vittima, vìttima della morte, ch’io piuttosto affronterò per lasciarlo libero»».

Cont. Oh Dio! quale amarezza esprimono anche le sue più [p. 311 modifica]dolci parole! Rinaldo, voi non foste mai sì incauto come quando la lasciaste partire così. Se io le avessi parlato, l’avrei distolta dai suoi divisamenti.

Mag. Perdonate, signora; se vi avessi data la lettera questa notte, si sarebbe potuto correr dietro a lei, sebbene ella scrive che ogni inseguimento riescirebbe vano.

Cont. Qual angelo tutelerà quello sposo crudele? Egli non può riuscir a bene, a meno che le preghiere di questa virtuosa fanciulla, che il Cielo ama d’intendere e di esaudire, non lo salvino dalle vendette della giustizia suprema. Scrivi, Rinaldo, scrivi a quello sposo indegno di tal consorte, ed ogni tua parola sia piena del merito di lei, ch’egli troppo leggermente pesa. Fagli sentire al vivo il mio estremo dolore, quantunque ei sia a ciò poco sensibile. Inviagli il messaggere più sollecito, e forse quando saprà ch’ella è partita, vorrà ritornare, e la povera infelice, udendolo venuto, si affretterà pure a qui riedere guidata dal suo celeste affetto. Ah! non potrei dire ora quale di questi due figli mi da fatto più caro. Fa partir tosto il messaggere. La mia anima è oppressa di dolore, e troppo debole è la mia età: i miei mali dimanderebbero lagrime, ma il loro eccesso mi costrìnge a parlare. (escono)

SCENA V.

Fuori delle mura di Firenze.

Si odono lontani suoni di guerra. Entrano una vecchia Vedova Fiorentina, Diana, Violante, Marianna, ed altri cittadini.

Ved. Affrettatevi dunque, venite; perchè se si avvicinano di più alla città li perderemo intieramente di vista.

Dian. Si dice che il conte francese ne abbia renduto i maggiori servigii.

Ved. E si narra ancora ch’egli abbia preso il più valente capitano dei nemici, e che colla sua mano medesima abbia ucciso il fratello del duca. — Abbiamo gettate le nostre fatiche; essi hanno preso un cammino opposto.

Mar. Ritorniamocene, e contentiamoci del racconto che verrà fatto. Voi, Diana, guardatevi bene da quel Francese. L’onore di una fanciulla è la sua gloria, nè vi è eredità di maggior prezzo di quella dell’innocenza.

Ved. Ho raccontato alla mia vicina quanto siate stata pregata da un gentiluomo della sua compagnia. [p. 312 modifica]

Mar. Conosco quel malvagio, e possa essere appeso. È un certo Parolles, un vile agente degli intrighi del gìovine conte. Non ti fidar di loro, Diana; le loro promesse, le loro seduzioni, i loro giuramenti e i loro doni non sono quel ch’essi vonno far credere. Più di una fanciulla è stata sedotta da quegli artifizii, e sventura è bene che l’esempio di tanti naufragii non valga a render cauti i naviganti futuri. Ma io spero che non avrò bisogno di dirvi altro, e son convinta che vi manterreste nel buon sentiero in cui siete, quand’anche non vi fosse altro a temere che la perdita dell’onore.

Dian. Non avete da paventar nulla per me.

Ved. Così io pure spero. — Mirate! si avanza una pellegrinar e son sicura che verrà ad albergare in mia casa. Ei sogliono qui mandarsi gli uni cogli altri. Vuo’ interrogarla. — (entra Elena vestita da pellegrina) Dio vi salvi, pellegrina, dove andate?

El. A san Giacomo il Grande. Insegnatemi, ve ne prego, devo alloggiano i pellegrini?

Ved. A san Francesco, qui vicino alla porta.

El. È questa la via?

Ved. Sì: ma udite? (si ode una lontana marcia) Essi vengono di là. Se volete aspettare, santa pellegrina, che l’esercito sia passato, vi condurrò al vostro albergo, tanto più che credo conoscere al par di mela vostra ostessa.

El. Siete forse voi?

Ved. Così vi piaccia.

El. Ne vo lieta, e aspetterò qui i vostri agi.

Ved. Voi venite, credo, di Francia?

El. Sì.

Ved. Vedrete qui un vostro compatriota che ha operato grandi cose.

El. Il suo nome, ve ne prego?

Dian. Il conte di Rossiglione. Lo conoscete?

El. Di nome, perchè è molto chiaro; ma di persona no.

Dian. Qual ch’ei si sia, si è comportato generosamente fra di noi. Fuggi di Francia, dicesi, perchè il re lo ammogliò suo malgrado. Credete che ciò sia vero?

El. Sì certamente, ciò è vero: conosco sua moglie.

Dian. Vi è qui un gentiluomo del suo seguito che dice molto male di lei.

El. Come si chiama?

Dian. Monsieur Parolles.

El. Ohi io pure credo seco che, in fatto di merito e di fama. [p. 313 modifica]il nome di lei non può essere citato accanto a quello del conte: una virtù modesta è l’unica sua dote, e contro di essa non ho mai sentito parlare alcuno.

Dian. Oh povera signora! dev’essere una schiavitù ben dura divenire sposa di un uomo che la detesta.

Ved. Oh sì, povera infelice! Dovunque ella sia, il suo cuore deve soffrire assai, ed anche questa fanciulla, se volesse, le potrebbe cagionare un dolore ben crudele.

El. Che volete dire? Forse che il conte, innamoratosi di lei; vorrebbe indurla ad una passione illegittima?

Ved. Egli fa ogni sforzo, e adopera ogni mezzo corruttore per sedurla, ma ella sa opporre ai suoi assalti la resistenza più virtuosa. (entrano Beltramo e Parolles con tamburi e bandiere, e una parte dell’esercito fiorentino)

Mar. Gli Dei la salvino da tanta sventura!

Ved. Eccoli; ei vengono. Questi è Antonio, il figlio primogenito del duca, e quegli è Escalo.

El. Qual è dunque il Francese?

Dian. Quello del pennacchio bianco: è un bellissimo giovine, e vorrei che amasse sua moglie. Se fosse più onesto, sarebbe più amabile molto. Non è vero che è bello?

El. Mi piace assai.

Dian. E quel pazzo adorno di nastri, perchè è sì mesto?

El. Sarà forse stato ferito nella battaglia.

Par. Perdere il tamburo! Oimè!

Mar. Ha qualche cosa che lo crucia. Guardate che ci ha riconosciute.

Ved. Poss’egli essere appiccato!

Mar. Possa morire sulla forca! (escono Bel., Par., uff. e soldati)

Ved. L’esercito è passato; venite, bella pellegrina, io vi condurrò al vostro albergo. Abbiam già in casa quattro o cinque penitenti che han fatto voto di andare a san Giacomo.

El. Vi ringrazio di cuore. Desidererei molto che voi, signora, è la vostra amabile figlia, voleste cenare con me questa sera. Io penserei alle spese, e per mostrarvi vieppiù la mia riconoscenza, darei a questa giovinetta alcuni consigli degni della sua attenzione.

Tutti e due. Accettiamo volentieri le vostre offerte,

(escono)

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SCENA VI.

Campo dinanzi a Firenze.

Entra Beltramo e i due signori Francesi.

Signore. Ve ne scongiuro, mio caro conte, ponetelo a questa prova; lasciatelo andare alla spedizione che ha in testa.

Signore. Se non si mostrerà un vile, non mi accordate più la vostra stima.

Signore. Soll’onor mio, ei non è che un pallone gonfio di vento.

Bel. Credete voi dunque ch’io m’inganni a tal punto sul di lui conto?

Signore. Abbiate fede in me, signore, che ti parlo per esperienza, e senza alcun motivo d’invidia o di malizia, come se si trattasse d’un fratel mio. È un insigne codardo, uno sfrontato mentitore che manca tante volte alla sua parola, quante son le ore del dì; e, per dirla in breve, un miserabile che non ha una sola qualità buona per meritare i vostri benefizii.

Signore. E sarebbe opportuno che lo conosceste per tema che, fidandovi troppo in un valore ch’egli non ha, non dovesse venirvi meno in qualche grave pericolo.

Bel. Vorrei aver qualche mezzo per esperimentarlo.

Signore. Non ve n’ha di migliore che di lasciargli tentare di riprendere il suo tamburo. Voi sapete con qual presunzione dichiara che sarà espertissimo a far ciò.

Signore. Ed io con una banda di Fiorentini lo sorprenderò, vestirò i miei soldati sì ch’ei non li distingua dai nemici. Noi lo legheremo e gli benderemo gli occhi, onde crederà di esser condotto nel campo nemico, mentre nol condurremo che nella vostra tenda. Vogliate allora esser presente al suo interrogatorio, e se per la speranza di salvarsi la vita, e pel sentimento della più vile paura non si chiarirà pronto a tradirvi e a rivelare quanto sa intorno a voi, non abbiate mai più in me alcuna fiducia.

Signore. Oh! non fosse altro che per ridere, lasciatelo andare a tale spedizione. Ei si vanta di un grande stratagemma. Allorchè avrete veduto il fondo del suo cuore, e di qual vil metallo è composto, se nol punirete allora come merita, durerà eterna la prevenzione che avete di lui. Ma, eccolo.

Signore. Oh! pel piacere di ridere non lo impedite di [p. 315 modifica]compiere il suo disegno. Concedetegli di andare alla ricerca del suo tamburo in quel modo che vorrà. (entra Parolles)

Bel. Ebbene, signore? Quel tamburo vi sta dunque assai a cuore?

Signore. Al diavolo chi ci pensa: non è infine che un tamburo.

Par. Non è che un tamburo, non è che un tamburo, è vero, ma perderlo così?... Fu in verità un bel comando di caricare coi cavalli le nostre medesime ale, e squarciare i nostri battaglioni.

Signore. Quel comando era indispensabile: Cesare stesso l’avrebbe profferito se fosse stato nostro generale.

Bel. Non abbiam però molto a lagnarci dei nostri successi: un po’ di disonore è vero ci tocca per la perdita del tamburo, ma quel male è irreparabile.

Par. Riparabile sarebbe stato.

Bel. Sarebbe stato, ma ora non è.

Par. Si potrebbe ripararvi: e se fossi sicuro che il merito di tal’opera ricadesse in me, vorrei riaverlo, o troverei la morte.

Bel. Se ne avete brama, signore, e se credete con qualche astuzia di poter riprendere quel pegno d’onore, siate abbastanza generoso per ciò intraprendere. Coraggio; ricompenserò tal tentativo come un fatto de’ più gloriosi. Se riescite nel vostro intento, il duca ne parlerà, e vi pagherà il servigio in modo conforme alla sua grandezza.

Par. Giuro per questa mano che compirò l’opera.

Bel. Ma non dovete frapporre alcuna dimora.

Par. Andrò questa sera stessa, e ordinerò intanto il mio assalto per vincere o morire: sulla mezzanotte udiate parlare di me.

Bel. Posso istruire il duca che partirete per tale impresa?

Par. Non so quale ne sarà il successo, ma giuro di tentarla.

Bel. So che siete prode, e risponderò del vostro valore. Addio.

Par. A me non piacciono molte parole. (esce)

Signore. No, non più che al pesce piaccia l’acqua. Non è strano quell’uomo che simula d’intraprendere con tanta fiducia una cosa, in cui ben sente che non può riescire? Ei giura che la farà, e vorrebbe nondimeno esser dannato piuttosto che farla.

Signore. Voi non lo conoscete ancora, caro conte, come noi lo conosciamo. È ben vero ch’ei saprà insinuarsi nel favore di un potente, e per qualche tempo deluderlo, ma veduto a nudo una volta, ei si rivela per sempre.

Bel. Come! Credete che non farà nulla di quello che ha promesso d’intraprendere? [p. 316 modifica]1° Signore. Nulla; e di pih se ne ritornerà con qualche Inreozione, a cui unirà due o tre menzogne molto verosimili: il cerrc ò però stanco, e cadrà questa notte. Dayyero, nobile signore, è non merita la vostra bontà.

2° Signore. Era già stato conosciuto da monsieur Lafen. Strappatagli una volta la maschera, mi direte qual malandrino è colai, e ciò accadrà non più tardi di questa notte.

1° Signore. Bisogna chMo vada a tender le mie reti a coi resterà preso.

Bel. Vostro fratello verrà con me.

Signore. Come piaccia a Vossignoria: io vi lascio. (esce)

Bel. Ora vuo condurvi a vedere quella fanciulla di cui vi parlai.

Signore. Ma mi diceste ch’essa era onesta.

Bel. È il solo suo fallo. Non le ho parlato che una volta, e mi è sembrata molto fredda: le ho inviati, valendomi del mariuolo che perseguitiamo, doni e lettere ch’ella non ha voluto accettare: quest’è quant’ho fatto fin qui: ma è una celeste creatura. Volete venire a vederla?

Signore. Molto volentieri; andiamo. (escono)

SCENA VII.

Firenze. — Una stanza nella casa della Vedova.

Entrano Elena e la Vedova.

El. Se dubitate ancora ch’io sia sua moglie, non so quali altre prove possa darvi a meno che non ve lo faccia dichiarare da lui stesso.

Ved. Quantunque io abbia perduto ogni ricchezza, sono di nascita onesta, e nulla so di tali intrighi: non vorrei oggi dunque macchiare la mia riputazione con un ufficio vergognoso.

El. Nè io vorrei che lo faceste. Credetemi, il conte è mio sposo, e quanto vi ho confidato sotto il suggello del segreto è vero. Dopo ciò vi accorgerete che non fate opera rea aiutandomi, com’io vi chieggo.

Ved. Debbo credervi, perchè mi avete dato prove convincenti che voi siete molto ricca.

El. Accettate questa borsa piena d’oro, e fate che a tal prezzo acquisti il soccorso colla vostra amicizia, che ricompenserò vieppiù se col vostro mezzo posso riuscire nel mio intento. Il conte corteggia vostra figlia, bramoso di farne il conquisto. Fate ch’ella acconsenta a tutto quello che le diremo sul modo di [p. 317 modifica]comportarsi con lui. Il giovine voluttuoso, il di cui sangue bolle, non le rifiuterà nulla di quello ch’essa domanderà. Ora voi sapete che il conte possiede un anello trasmesso di padre in figlio nella sua casa, da quattro generazioni. Quell’anello è d’un gran prezzo a’ suoi occhi; ma nel suo ardore per ottenere l’oggetto de’ suoi desiderii, non gli sembrerà troppo gran sacrifizio il privarsene, sebbene sia sicuro che dopo se ne pentirà.

Ved. Veggo ora il vostro disegno.

El. E quindi scorgerete quant’è legittimo e onesto. Bramo che vostra figlia gli chiegga quell’anello prima di far mostra d’arrendersi alle sue istanze; bramo ch’essa gli dia un ritrovo, e che mi lasci in sua vece con lui: e per prezzo di tal compiacenza aggiungerò alla sua dote, a quello ch’ò già stato convenuto fra di noi, altri mille scudi d’oro.

Ved. Acconsento. Insegnate ora a mia figlia com’ella deve condursi perchè tutto riesca a buon fine. Ogni notte egli viene con strumenti e canzoni che ha composte per lei, e che sono bene al disopra del suo merito; ma invano facciamo opera di allontanarlo, che egli persiste a rimanere, come se non potesse vivere lontano da lei.

El. Ebbene, questa sera stessa tenteremo il nostro stratagemma. Se riesce, sarà una cattiva intenzione in un’opera legittima, e un’intenzione virtuosa in un’opera lecita, niuno peccherà, sebbene si commetta un delitto. Ma andiamo a disporre le varie parti del nostro disegno.

(escono)