È tutto bene quel che a ben riesce/Atto primo

Atto primo

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Interlocutori Atto secondo
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È TUTTO BENE

QUEL CHE A BEN RIESCE



ATTO PRIMO


SCENA I.

Rossiglione. — Una stanza nel palazzo della Contessa.

Entrano Beltramo, la Contessa, Elena e Lafeu in gramaglie.

Cont. Lasciando partire mio figlio parmi di perdere un secondo marito.

Bel. Ed io allontanandomi da voi, signora, piango di nuovo sulla morte di mio padre: ma forz’è ch’io attenda ai cenni di Sua Maestà ora che fo parte della sua guardia.

Laf. Voi troverete uno sposo, signora, nella bontà del re; e voi messere, un secondo padre. Un re che è sempre così buono verso tutti serberà necessariamente con Voi la sua bontà; con voi, i di cui pregi la farebbero germogliare anche in un cuore cui fosse straniera, non che isterilirla dore si alimenta tanto copiosa.

Cont. Che vì è a sperare intorno alla guarigione di Sua Maestà?

Laf. Egli ha congedati i suoi medici dopo avere con essi sperduto invano il tempo, senza trovare alla fine altro refrigerio che quello di dover rinunciare ad ogni speranza.

Cont. Questa donzella areva un padre (oh come triste è il dire aveva!), in cui la scienza uguagliava quasi la probità. S’egli avesse fatto salire la scienza fin dove giungeva la sua virtù, [p. 278 modifica]avrebbe resa la natura etema; e la morte, non trovando più vittime da mietere, sarebbe stata costretta a deporre l’oziosa sua falce. Piacesse a Dio, che per consolazione del re egli vivesse ancora. Ciò recherebbe morte alla di lui malattia.

Laf. Come si chiamava l’uomo di cui parlate, signora?

Cant. Era celebre nella sua professione, e a buon diritto: chiamavasi Gerardo di Narbona.

Laf. Era infatti un grand’uomo. Il re parlò di lui non ha molto, lodandolo assai. Se la scienza valesse a vincere la morte, egli vivrebbe ancora.

Bel. Di qual male, mio buon signore, è infermo Sua Maestà?

Laf. Di una fistola.

Bel. Non intesi mai parlare di tal malattia.

Laf. Vorrei bene che fosse anche ignota. — Questa fanciulla è dunque figlia di Gerardo di Narbona?

Cont. Sua unica figlia, signore; affidata alla mia tutela. Nutro per lei tutte le più belle speranze, conoscendone l’educazione. Ella è dotata di una tempera felice che abbellisce i più bei doni della natura; e tali doni collega ad un’anima semplice e senz’artificii. Questa donzella ha un cuore eccellente, ed ha sempre inteso da se stessa a perfezionarsi.

El. Le vostre lodi, signora, m’inteneriscono.

Cont. È una tenerezza così fatta che le fanciulle dovrebbero sempre risvegliare. La memoria di suo padre non le torna mai senza che la violenza del suo dolore non dipinga tosto la morte sulle sue gote. Bandiamo quest’idea, Elena; non più pianti, che non si credesse che mostrate maggior mestizia che non sentite.

El. Sono trista invero, trista troppo.

Laf. I dolori moderati son tributi che si devono agli estinti; ma gli eccessivi divengono nemici dell’uomo.

Cont. Se l’uomo ha per nemico il dolore, tal dolore cessa tosto pel suo eccesso medesimo.

Bel. Signora, vi chieggo la vostra benedizione.

Cont. Abbila, Beltramo, e somiglia al padre tuo nelle sue azioni come nei suoi lineamenti. La nobiltà e la virtù contendano in te per la preminenza, e la bontà del tuo cuore agguagli lo splendore della tua nascita! Ama tutti gli uomini, e confida in pochi. Non offendere alcuno, e fa temere piuttostochè sentire la tua potenza al tuo nemico. Gli amici tuoi serba sotto la chiave della tua stessa vita: ti sia rimproverata la cautela, non mai la indiscrezione. Tutte le grazie che il Cielo vorrà accordarti, e che le mie importune preghiere potranno ottenere piovano sulla tua [p. 279 modifica]testa! (a Lafeu) Addio, signore; questo giovine è un cortigiano molto novizio; aiutatelo, mio caro Lafeu, coi vostrì consigli.

Laf. Ei non mancherà de’ migliori, se la sua amicizia vuole ascoltarli.

Cont. Il Cielo lo benedica! Addio, Beltramo. (esce)

Bel. Possano aver compimento tutti i voti che formerà il vostro cuore. (a El.) Siate la consolazione di mia madre, vostra signora, e fate tutto per lei.

Laf. Addio, vaga donzella: sostenete la riputazione di vostro paddre. (esce con Bel.)

El. Oh fosse tale la mia unica cura! — Io non penso più a mio padre, e le lagrime illustri di questi principi onorano più la sua memoria, che quelle ch’io spargo per lui. A chi somigliava egli dunque? Io ho obbliati i suoi lineamenti. Dinanzi a’ miei occhi non sta alcuna imagine, tranne quella di Beltramo: ma ei sarebbe come s’io mi fossi innamorata del più bell’astro del firmamento e pensassi a sposarlo; tanto Beltramo è al disopra di me! Bisogna ch’io mi stia paga, ricevendo gli obliqui raggi del suo lume lontano. Io non posso innalzarmi fino alla sua sfera, e l’ambizione del mio amore fa il mio tormento. La damma che accoppiar si vorrebbe col leone è condannata a morire dell’amor suo. Dolce bene mi era, sebben penoso, il vederlo ad ogni istante, l’assidermi accanto a lui ritraendo nel mio cuore il bell’arco delle sue sopracciglia, lo splendido suo occhio, le ciocche de’ suoi capelli, nel mio cuore che era abbastanza grande per racchiudere la sua imagine e ammirare a parte a parte tutte le sue perfezioni. Ma ora egli è lungi da me, e costretta io sono ad adorare i suoi sacri vestigi. — Chi viene? (entra Parolles) Un uomo del suo seguito. Costui mi piace perchè sta con Beltramo, e nondimeno so che è un gran mentitore. Stolto e vile egli è, eppure tutte queste cattive qualità si congiungono in lui a tante doti che trovan grazia, mentre la virtù di tempra inflessibile giace esposta alle ingiurie dall’aria. Quindi è che noi vediam spesso la saggezza priva d’ogni bene, mentre la follia ne ha in copia.

Par. Il Ciel vi salvi, bella regina.

El. E voi anche, monarca.

Par. No.

El. E no.

Par. Meditavate forse sulla verginità?

El. Sì, e poichè avete l’aspetto di soldato, lasciate che vi faccia una domanda: l’uomo è nemico della verginità; come possiamo noi difenderla contro di lui? [p. 280 modifica]

Par. Tenendolo lontano.

El. Ma ei ne aggredisce; e la nostra verginità, quantunque siamo valenti nelle difese, è però debole: insegnatene qualche mezzo per respingere con sicurezza gli attacchi.

Par. Non ve n’è alcuno; l’uomo che vi assedia vi minerà e vi farà saltare per aria.

El. Il Cielo ci guardi dai minatori e dai bombardieri! Non ti è alcuna astuzia militare per cui le vergini possano contaminare gli uomini?

Par. La verginità una volta abbattuta, l’uomo non ne sarà che più alacre, e atterrandolo non gli dareste che maggior campo a più grandi sconfitte. Nella repubblica della natura la politica non istà nel mantenere la verginità: la perdita di essa è di un profitto razionale; nè mai vergine alcuna sarebbe nata se prima una verginità non fosse stata distrutta. L’argilla di cui siete composta è quella di cui son fatte le vergini. La verginità perduta una volta può essere dieci volte trovata; col mantenerla sempre, per sempre si perde, ed è troppo fredda compagna, per cui giova disfarsene.

El. Aspetterò anche un poco, quando pure dovessi incorrer il pericolo di morire con essa.

Par. Vi è poco da dire in suo favore; ell’è contro l’ordine della natura. Difenderla è un accusare la propria madre; ciò che implica disobbedienza manifesta. Appiccarsi o morir vergine è la medesima cosa, perocchè la verginità si uccide da sè, e dovrebbe esser sepellita fuor della terra benedetta, nelle pubbliche vie, come un suicida disperato che ha offeso la natura. La verginità ingenera vermi come il cacio, si rode da sè interamente;, avvizzisce e muore struggendo la propria sostanza. Di più, la verginità è arcigna, vana, arrogante, piena d’amor proprio; peccata rigorosissimamente condannato dai canoni. Non la conservate dunque, perocchè ella non vi sarà che di nocumento. Disfatevene, e tra dieci anni l’avrete dieci volte riprodotta, ciò che chiamasi ottenere un onestissimo frutto, senza che per ciò decresca il capitale. Seguite il mio consiglio.

El. Ma che s’ha a fare per disfarsene?

Par. Che fare? Mal fare: amar quegli che non l’ama. La verginità è cosa che smarrisce il natìo lustro nell’abbandono; più è serbata e meno vale; ponetela tosto in commercio finchè è in onore e profittate della dimanda. La verginità somiglia a un vecchio cortigiano che porta un abito all’antica, ricco ma fuor di moda; alla cattiva pera, che non ha più sapore; un frutto appassito che fu altra volta buono, ma di cui non sapreste ora che fare. [p. 281 modifica]

El. Io non sono ancora a tali estremi. Il vostro signore troverebbe in me mille amori, di madre, d’amica, di sposa; avrebbe in me una guida, una Dea, una sovrana, una consigliatrice pietosa, una fenice di bontà. La mano di Dio lo guidi, Beltramo è uno di coloro...

Par. Di coloro?...

El. A cui io auguro ogni bene. — Disgrazia è bene che...

Par. Che cosa?

El. Che i nostri voti non abbiano un corpo che si possa rendere sensibile affine che noi, che siamo nati poveri e non abbiamo che vani desiderii, potessimo trasmetterne i loro effetti fino ai nostri amici assenti, e mostrare visibile a’ loro occhi quel che è pensiero occulto in noi, e di cui non ci possono mai ringraziare. (entra un paggio)

Pag. Messer Parolles, il mio signore vi dimanda. (esce)

Par. Addio, mia piccola Elena; se ricordar mi posso di te, a te penserò quando sarò alla Corte.

El. Messer Parolles, voi foste generato sotto una stella pietosa.

Par. Nacqui sotto Marte.

El. Sì, è sotto Marte che vi credo nato.

Par. Perchè?

El. Siete andato a tante guerre, che bisogna dire assolutamente che siate nato sotto Marte.

Par. Allorchè egli predominava.

El. Quand’era in decadenza, io penso piuttosto.

Par. Perchè pensate così?

El. Voi sapete così bene arretrarvi quando combattete...

Par. È per ottenere maggior vantaggio.

El. É anche per ciò che si fugge allorchè il timore lo consiglia. Ma la mescolanza di coraggio e di paura che è in voi, è una virtù la cui ala è ben rapida, e il di cui volo mi piace molto.

Par. Son così pieno d’uffici che non posso risponderti come dovrei: ritornerò perfetto cortigiano, e la mia istruzione servirà a mansuefarti, se in istato sei di ricevere i consigli di un uomo di Corte, e di comprendere i suggerimenti che egli ti darà; altrimenti morrai nella tua ingratitudine, e l’ignoranza tua ti sarà stata funesta. Allorchè ne avrai agio recita le tue preghiere; e quando non l’avrai ricordati dei tuoi amici: procacciati un buono sposo, e trattalo com’egli ti tratterà: addio. (esce)

El. Spesso quelle forze che attribuiamo al Cielo stanno in noi stessi. Il destino ci lascia liberi nelle nostre azioni e non si [p. 282 modifica]oppone ai nostri disegni altro che quando noi pare siamo incerti. Qual è la potenza che fa salir tant’alto il mio amore e mi mostri unoggetto di cui i miei occhi non possono restar sazii? Di sovente due esseri, fra i quali la fortuna ha posto uno spazio immenso, riuniti sono dalla natura come due metà di un medesimo tutto, come se generati fossero stati entrambi nella medesima culla. Le imprese straordinarie sono impossibili a coloro che ne misurano la difficoltà valendosi dei loro sensi, e che imaginano che tutto quel che non hanno ancora veduto non accadrà. Qual amante fece mai uno sforzo per rivelare il merito suo, che venisse meno ne’ suoi amori? La malattia del re... il mio divisamento può deludermi... ma la mia risoluzione è stabile, e non mi abbandonerà. (esce)

SCENA II.

Parigi. — Una stanza del palazzo del Re.

Squillo di corni. Entra il re di Francia con alcune lettere in mano, molti Signori lo seguono.

Re. I Fiorentini e i Senesi son venuti alle mani: hanno combattuto con egual vantaggio, e continuano con ardore la guerra.

Signore. Così si dice, sire.

Re. Nulla di più credibile. La confermazione di tal notizia mi vien data dal mio cugino d’Austria, che ci assicura che i fiorentini ne chiederanno un pronto soccorso. Egli che ci ama assù ci consiglierebbe però a rifiutarlo.

Signore. L’amor suo e la sua saviezza, di cui diede tante prove a Vostra Maestà, meritano la più gran fiducia.

Re. Suggeritene la risposta, e Firenze non otterrà quello che dimanda. Ma in quanto ai nostri gentiluomini che desiderano servire in quella guerra, li lascio liberi di porsi da una parte o dall’altra.

Signore. Sarà una scuola militare pei nobili Francesi che desiderano ardentemente di far palese il loro valore.

Re. Chi viene? (entrano Beltramo, Lafeu e Parolles)

Signore. È il conte di Rossiglione, Sire, il giovine Beltramo.

Re. Giovine, tu hai la fisonomia di tuo padre: la generosa natura non ti ha abbozzato in fretta, ma con piacere si è intrattenuta di te. Possa tu aver del pari ereditato la virtù del tuo genitore! Sii il benvenuto a Parigi.

Bel. Vostra Maestà si degni di ricevere i miei ringramenti e le assicurazioni del mio omaggio. [p. 283 modifica]

Re. Oh se avessi ancora quella lena che sentivo allorchè col padre tuo, uniti d’amicizia, facemmo insieme le nostre prime armi! Egli era esperto in tutti gli esercizi guerreschi di quei tempi, e si era formato sotto i più prodi capitani. Lungamente egli resistè alle fatiche della guerra, ma alfine la turpe vecchiaia ne afferrò entrambi, e ne cacciò lungi dai campi. Sento che le forze ritornano allorchè parlo del tuo buon padre.

Bel. La memoria delle sue virtù, sire, è scolpita in caratteri più gloriosi nel vostro cuore, che nol sia sulla sua tomba, e il suo epitafio è meno onorevole che gli elogi del mio re.

Re. Oh se fossi ancora con lui! — Egli soleva dir sempre..... (parmi intenderlo ancora: le sue care parole non si sperdevano nel mio orecchio, ma radicavansi nel mio cuore per portarvi utili frutti) ei soleva dire: «ch’io più non viva...» così dava a divedere la sua amabile e dolce malinconia, allorchè terminato aveva le innocenti celie di cui si piaceva.... «ch’io più non viva, tosto che il fanale dei miei dì comincierà ad oscurarsi, onde il resto del suo splendore non divenga un oggetto di scherno per chi mi sta intorno!» Questo desiderio io pure spartivo con lui; e un simil voto faccio dopo di esso. Poichè non posso più recare all’alveare nè cera nè miele, vorrei cedere il posto a un’ape migliore, che sapesse meglio adoperarsi.

Signore. Voi siete amato, sire; e quelli anche che meno vi diligono vi ricorderanno per primi con gran dolore.

Re. Occupo un posto lo so. — Quant’è, conte, che il medico di vostro padre è morto? Egli era assai famoso.

Bel. Circa sei mesi, signore.

Re. Se vivesse ancora vorrei provarlo. — Datemi il vostro braccio. — Tutti gli altri medici mi hanno stancato coi troppi rimedii: la natura ed il male contendono adesso a loro agio. Siate il benvenuto, conte; mio figlio non mi è più caro di voi.

Bel. Ringrazio Vostra Maestà. (escono; squillo di trombe)

SCENA III.

Una stanza nel palazzo della Contessa.

Entrano la Contessa, il Maggiordomo e un Villico.


Cont. Ora vi ascolterò: che dite di quella donzella?

Mag. Signora, desidererei che si potesse trovare nel calendario de’ miei passati servigi la nota di tutti gli sforzi che ho fatti per contentarvi; perchè noi offendiamo la nostra modestia, e oscuriamo lo splendore dei nostri meriti pubblicandoli da noi stessi. [p. 284 modifica]

Cont. Che fa colui là in fondo? Itevene, amico: io non credo per verità, le querele che ho udite intorno a voi, ma è questo un mio difetto; perocchè so che voi non mancate di follia onde commettere errori, e che siete abbastanza destro per compierli astutamente.

Vil. Voi non ignorate, signora, che io sono un pover uomo.

Cont. Bene sta.

Vil. No, signora, non istà bene ch’io sia povero, sebbene molti ricchi vadano dannati: ma se posso ottenere da voi l’assentimento per sposare Isabella, faremo come potremo.

Cont. Vuoi tu dunque esser costretto a mendicare?

Vil. Mendico le vostre buone grazie in questo caso.

Cont. In qual caso?

Vil. Nel caso d’Isabella e mio: io credo che non otterrò mai le benedizioni del Signore senza avere un rampollo del mio corpo perocchè come suol dirsi, i figli sono una benedizione di Dio.

Cont. Dimmi per qual ragione ti vuoi ammogliare.

Vil. Il mio povero corpo, signora, lo richiede; incitato sono dallo stimolo della carne, e forza è bene che vada quegli che il diavolo sospinge.

Cont. Son queste tutte le vostre ragioni?

Vil. Per vero dire ne ho ancora altre, e più sante.

Cont. Si possono conoscere?

Vil. Sono stato, signora, una cattiva creatura, come siete voi e tutti quelli che son composti di carne e sangue: io quindi mi ammoglio per far penitenza.

Cont. Del tuo matrimonio più presto che delle tue malvagità.

Vil. Sono sfornito d’amici, signora, e spero di trovarne col ministero di mia moglie.

Cont. Tali amici, mariuolo, ti saranno nemici.

Vil. Errate, signora; son cotesti i più caldi amici, e mi aiuteranno nei miei bisogni. Quegli che lavora le mie terre risparmia i miei attrezzi, e mi lascia raccor le messi; quegli che lavora mia moglie è il banefattore della mia carne e del mio sangue; e quegli che fa bene alla mia carne e al mio sangue, ama la mia carne e il mio sangue; quegli che ama la mia carne e il mio sangue, è mio amico: ergo, quegli che lavora mia moglie è mio amico. Se gli uomini sapessero appagarsi di quel che sono, non vi sarebbe mai nulla a temere nei connubii.

Cont. Sarai tu sempre così sconcio e così calunniatore?

Vil. Io sono profeta, signora; e parlo il vero ricisamente: «perocchè ripeterò sempre la sentenza che gli uomini troveran [p. 285 modifica]esatta; il matrimonio è fermato dal destino, e il cucu canta e per natura».

Cont. Andatevene, non vuo’ più parlare con voi.

Mag. Vorreste dirgli, signora, ch’ei chiamasse Elena? dovrei discorrervi di lei.

Cont. Mariuolo, di’ alla mia donzella ch’io vuo’ parlarle; di Elena intendo.

Vil. (cantando) «Fa per qnel vago volto, chiese ella, che i Greci depredarono Troja? Pazzo amore, pazzo amore era quello di Priamo. Fermandosi ella sospirò, sospirò fermandosi, e proferì questa sentenza: se fra nove cattive ve n’è una buona, se fra nove cattive ve n’è una buona, una buona ve n’è in mezzo a dieci».

Cont. Una donna buona sopra dieci! Voi alterate la canzone, malandrino.

Vil. Una donna buona sopra dieci, signora; sarebbe un purificare il canto. Se Iddio volesse provvedere così il mondo tutto l’anno, non mi lagnerei della decima delle donne, se anche fossi curato. Una sopra dieci! in verità, se ne nascesse una buona solamente, all’apparizione d’ogni cometa, ad ogni tremuoto, la fortuna degli uomini sarebbe assai migliore; ma adesso ogni uomo potrebbe divellersi prima il cuore colle mani che trovare una buona femmina.

Cont. Vuoi tu escire, furfante, e fare quel ch’io comando?

Vil. Dio voglia che un uomo possa obbedire ai comandi di una donna senza produrre disgrazie! Quantunque l’onestà non sia la virtù d’un puritano, com’io sono, nondimeno io non farò nulla di male. Vado, signora, e dirò ad Elena di venir qui. (esce)

Cont. In buon’ora.

Mag. So, signora, che voi amate molto la vostra donzella.

Cont. È vero; suo padre l’affidò alle mie cure, ed ella stessa senza alcun’altra considerazione ha diritti legittimi all’amicizia che le porto. Le debbo più che non le ho dato, e le pagherò più che non chiederà.

Mag. Signora, io fai, non ha molto, assai più vicino a lei che ella forse non l’avesse desiderato. Ella era sola, e parlava fra di sè confidando i suoi segreti alle sue orecchie. Era convinta, lo giurerei, che non vi fosse alcuno che potesse intenderla. L’argomento del suo discorso era l’amore che porta a vostro figlio. «La fortuna, diceva, non è una dea, poichè ha posta sì gran distanza fra il suo grado e il mio: l’amore non è un Dio, poichè non vuole addimostrare il suo potere, altro che quando la nascita [p. 286 modifica]e le ricchezze sono eguali: Diana non è la regina delle vergini, poichè ha potuto permettere che la sua sfortunata seguace sia sorpresa e vinta al primo assalto, e non le resti più alcuna speranza di redenzione». Ella diceva ciò coll’accento più triste che abbia mai adoperato lagnandosi una fanciulla, ed ho creduto, signora, che fosse mio dovere istruirvene tosto, onde preveniste le sventure che da ciò possono derivare.

Cont. Avete adempito agli obblighi di un uomo onesto; ma serbate per voi solo questo segreto. Molti sentori io avevo già di ciò, ma eran tutti sì vaghi che non sapevo a qual sentenza appormi. Lasciatemi, ve ne prego, e siate cauto: ve ne dirò di più un’altra volta: per ora vi ringrazio. (il Mag. esce, ed Elena entra) Così io pure era quando la giovinezza mi sorrideva. Se badiamo alla natura, tali debolezze ne appartengono; sì fatte spine sono inseparabilmente collegate colla rosa dei nostri primi anni: il nostro sangue è proprio solo di noi, e tutto ciò sta nel nostro sangue. Quando la forte passione dell’amore si imprime in un cuor giovane, essa divien suggello della verità della natura. La memoria di quei bei giorni, che son passati per me, mi ricorda quei medesimi falli. Ah! non li riputavo allora falli: ma era li trovo ben tali. — Ella mi sembra inferma.

El. Che volete da me, signora?

Cont. Tu sai, Elena, ch’io sono una madre per te.

El. Voi siete la mia onorevole signora.

Cont. No; madre ti sono. Perchè non mi chiameresti madre? Allorchè ho proferito il nome di madre parvemi che tu vedessi un serpe. Che vi è dunque in tal nome da scuoterti? Sì, te lo dico, madre ti sono, e ti pongo nel novero dei miei figli. Un’adozione è stata spesso più forte della natura; e la scelta nostra può svegliare un’affezione pari a quella. Tu non mi hai fatto trovare i dolori che straziano il seno di una madre, e nondimeno io sento per te tutta la tenerezza materna. In nome di Dio! fanciulla, ti agghiaccia forse il sangue il sentir dire ch’io sono tua madre? Perchè quel pianto, iride dai mille colori, sgorga dai tuoi occhi? Perchè? perchè sei mia figlia?

El. Perchè non lo sono.

Cont. Ti dico, che sono tua madre.

El. Perdonatemi, signora, il conte di Rossiglione non può essere mio fratello; io sono di nascita oscura, ed egli appartiene ad una famiglia illustre: i miei parenti sono ignoti, e i suoi son nobilissimi; egli è mio signore, ed io vivo per servirlo e per morire son umile vassalla. Egli non può essere mio fratello. [p. 287 modifica]

Cont. Nè io tua madre, certo!

El. Voi, mia madre, signora! Oh! piacesse a Dio, (purchè Toetro figlio fratello non mi fosse) piacesse a Dio che voi foste in verità mia madre, che madre di tutti due foste: neppure il Cielo desidererei più di ciò. Potrei io esser dunque vostra figlia, senza essere sorella di lui?

Cont. Sì, Elena, tu puoi essere mia nuora. Dio non voglia che ciò abbi in mira! I nomi di figlia e di madre fan sì viva impressione su di te, che tu impallidisci di nuovo..... I miei sospetti hanno sorpreso alfine il segreto del tuo amore. Indovino ora il mistero delle tue inclinazioni per la solitudine, e scopro la sorgente delle tue amare lagrime. Ora è più chiaro del dì che tu ami mio figlio. Sarebbe vergognoso il voler dissimulare un segreto che la tua passione tradisce, e il voler dirmi che non l’ami: dimmelo dunque, confessa che ciò è vero: perocchè, vedi, le tue gote col loro rossore lo dichiarano l’una all’altra, e i tuoi occhi col loro linguaggio lo confermano. Non vi è che una vergogna colpevole, e un’ostinazione disonesta, che possano impedire la manifestazione della verità. Parla: esponi il vero. Se bene mi sono apposta, bellissima fu la tua scelta: se no, giura che m’ingannai, ma giuralo in nome del Cielo.

El. Buona signora, perdonatemi.

Cont. Ami mio figlio?

El. Perdonatemi, generosa signora.

Cont. Non ami tu mio figlio?

El. Non l’amate anche voi, signora?

Cont. Non uscir di strada. Il mio amore per lui è fondato sopra un vincolo che nessuno ignora. Or via, palesami lo stato del tuo cuore, che la tua passione ha già in parte rivelato.

El. Ebbene, alle vostre ginocchia, dinanzi al Cielo, e dinanzi a voi, signora, confesso ch’io amo vostro figlio più anche di voi, e che dopo il Cielo egli è l’oggetto che maggiormente adoro. I miei parenti erano poveri, ma onesti; il mio amore è onesto del pari. Non ne siate offesa, perocchè esso non reca alcun disdoro a quegli verso cui è rivolto. Io non l’infesto con dichiarazioni presuntuose, nè vorrei ottenerlo prima di meritarlo, sebbene non sappia come mai meritare lo potessi. Conosco che amo invano; contendo contro la speranza, ma inutile è ogni mia lotta. Così simile all’Indiano religioso, nel mio errore, vagheggio il sole che vede il suo adoratore, ma non sa nulla di lui. Mia cara signora, non mi odiate perchè amo quello che voi pure amate e se voi, la cui onorata vecchiezza annunzia una vita virtuosa, [p. 288 modifica]se mai voi pure avete provata un’onesta fiamma, se sentito avete sì casti desiderii e amore sì tenero, oh! accordate la vostra pietà a un’infelice che non si affanna per ritrovar quegli dietro a cui vanno i suoi voti; e che simile all’enigma si compiace di vivere in ciò che asconde la sua morte.

Cont. Non volevate voi, non ha molto, andare a Parigi? Dite il vero.

El. Sì, signora, così pensavo di fare.

Cont. E perchè? non mentite.

El. Non mentirò, lo giuro per la grazia del Cielo stesso. Voi sapete che mio padre mi ha lasciate alcune ricette di un effetto maraviglioso, prodotti della sua vasta scienza, e che raccomandato mi avea di serbarle con cura, e di non darle che con riserva, siccome quelle che in sè racchiudevano grandi virtù. Fra tali ricette v’è un rimedio, la cui bontà è riconosciuta per guarire le malattie di un languore disperato, come quella per cui il re dovrà morire.

Cont. Era questo il vostro motivo per andare a Parigi? rispondete.

El. È il vostro nobile figlio, signora, che ha suscitato in me tale idea; altrimenti Parigi, la ricetta e il re, non mi sarebbero forse mai venuti in mente.

Cont. Ma credi tu, Elena, che se tu offrissi al re i tuoi pretesi soccorsi, egli gli accetterebbe? Il re e i suoi medici consentono in ciò: egli è persuaso ch’essi noi possano guarire; essi, che inutile riesca ogni rimedio. Qual fiducia adunque vuoi che riponessero in una povera fanciulla senza studii, allorchè dopo avere usato tutti i precetti della scienza hanno abbandonato l’inferrmo a se stesso?

El. Un segreto presagio mi rassicura più ancora che la scienza di mio padre, che era nondimeno abilissimo nella sua professione. Se voi, signora, permettete ch’io m’arrischi, guarentirò colla mia vita, che son pronta a dare senza dolore, il risanamento del re in un tal giorno, e in una data ora.

Cont. Lo credi tu?

El. Ne sono convinta.

Cont. Ebbene, avrai il mio consenso, la mia amicizia e il mio denaro; avrai domestici, e le più calde raccomandazioni per tutti i miei amici della Corte. Io resterò qui, e pregherò Iddio di benedire la tua opera. Parti dimani, e sii sicura che tutti i soccorsi che posso darti non ti mancheranno. (escono)