Werther (1873)/Una parola del traduttore italiano
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UNA PAROLA
DEL TRADUTTORE ITALIANO
preposta all’edizione del 1858.
A empir lacune, a spianare il senso di qualche passo non abbastanza evidente; a rilevare, dov’era necessario, la diversità d’indole che corre tra la nazione dell’autore e quella del traduttore, affinchè il lettore italiano non fosse tratto a prorompere in giudizii, falsati dalla diversità del sentire; a giustificare ed a scolpare, infine, altre cose che accennano alla parte materiale della traduzione, si sono immaginate le note, che il lettore vedrà a’ loro luoghi. Un simile esempio è raro in un romanzo; e, in un romanzo appassionato, dove la forma epistolare e i modi concitati dello stile non soffrono interruzioni di lettura, l’esempio potrà parere anche strano. Forse taluna delle note era assolutamente superflua: non me ne sono accorto se non troppo tardi.
Del resto, se, diversamente da coloro che in questa fatica mi precedettero, in Italia e fuori, io ho trattato il libro come una di quelle opere antiche, bisognose di commenti, perchè destinate ad attraversare i secoli, e non siccome una produzione nata soltanto ad effimera esistenza; se, in altre parole, io ho veduto nel Werther una pagina di fisiologia morale, anzi che un’opera d’arte, ideata a produrre sensazioni momentanee di diletto o di terrore, ben io avrò per avventura errato; ma l’errore è da ascriversi intiero alla mia ammirazione per la vasta e potente individualità del Sommo Tedesco, che nel ritrarre una parte di sè medesimo ritrasse inconsciamente gran parte della vita intima del suo secolo, delle ansie, dei dubbii, delle confuse aspirazioni a libertà, che le opere del filosofo di Ginevra avevano seminate a larga mano per entro alle giovani generazioni, cresciute intorno al suo sepolcro, ma sovra tutte, forse, in quella della severa Germania.
Goethe toccava del Werther e della singolare disposizione d’animo, in cui l’aveva dettato, nella sua autobiografia, intitolata Verità e Fantasia (Wahrheit und Dichtung). Ma il libro, che primo apparve a svelar tutta intiera la parte che egli aveva avuta in quel memorando suo romanzo, architettato sovra un fondo di dolorosa realtà, è il Goethe e Werther, venuto in luce a Stuttgart nel 1855, per cura d’uno de’ discendenti di quella Kestner, adombrata nella Carlotta del romanzo. Da pubblicazione siffatta avrebbe potuto il traduttore italiano desumere quel tanto, che fornisse materia ad una Introduzione, seguendo in ciò le vestigia del recente traduttore francese, il signor Luigi Énault. Se non che qualche asserzione del Kestner essendo in aperta contraddizione con ciò che intorno a questo delicato soggetto n’aveva scritto l’autore del Werther, l’equità avrebbe pur voluto che si fossero messe a confronto le due parti, ricorrendo alla rammentata autobiografia, e fors’anco ad altre opere uscite in questi tempi in Germania; ma più specialmente al Werther e i suoi tempi di Appell. Ma allora il volume avrebbe acquistato proporzioni assai probabilmente noiose al maggior numero de’ lettori non interessati alla contesa.
Per tutte codeste ragioni io ho riputato di dover lasciare la mia versione nella forma, in che l’offro ai miei concittadini. Chè se il loro suffragio lo consigliasse, io verrei facilmente raccozzando un secondo volume che racchiudesse la parte illustrativa e bibliografica del romanzo.
E ora mi sia consentito di deplorare, con sincero e profondo lamento, la perdita, avvenuta durante la stampa di questa traduzione, del signor Varnhagen von Ense, uno dei due incliti personaggi, a cui essa è intitolata. Prode ufficiale, e amatore caldissimo della patria indipendenza, egli pugnò e sanguinò sui campi della libertà germanica, illustrati dai canti e dall’eroica morte di Koerner. Letterato tra i più insigni d’Europa, pubblicò una numerosa serie di scritti, in cui l’intelletto e il cuore, l’uomo di lettere e il cittadino, splendono entrambi in rara e sacra concordia. Quanti erano, o sono, di magnanimi divisamenti e d’invidiata riputazione in Germania, furono amici al Varnhagen. Con un’anima riboccante de’ più gentili sentimenti, delle più generose passioni, non è a meravigliare che l’infortunio trovasse in lui sempre uno de’ più animosi difensori, uno de’ soccorritori più intelligenti e più alacri. Però il compianto de’ buoni l’accompagnava alla tomba. Possa l’amabile nipote, erede delle pie virtù dell’estinto, consolare di questo pensiero il suo cordoglio, che anche l’Italia, quest’altera regina, involta nelle angosce del parto, questa terra d’antichi dolori e di novelle infallibili promesse, tra i lugubri cipressi ha pure un lauro per le glorie non sue; e anche ne’ giorni infelicissimi, allorchè più frequente e più cupo si solleva intorno a’ suoi tumuli il gemito sui cari figli, innanzi tempo caduti, il murmure della preghiera vola dal labbro suo all’Eterno per quanti uomini e popoli hanno comuni con essa il patrimonio della sciagura e l’obbligo delle gagliarde speranze.
Torino, 24 novembre 1858.
Riccardo Ceroni.