Virginia (Alfieri, 1946)/Atto terzo

Atto terzo

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Virginio

Ecco al fin giungo. — Oh, come ratto io venni!

Parea che al piede m’impennasser ali
timore, speme, amor, pietá di padre. —
Ma, piú mi appresso a mia magion, piú tremo!
Giá quasi annotta: ad abbracciar si vada,
se tolta ancor non m’è, l’unica figlia,
solo conforto di mia stanca etade.


SCENA SECONDA

Icilio, Virginio.

Icilio Oh!... che vegg’io?... Virginio? Il Dio di Roma

a noi ti mena. Il tuo venir sí tosto,
mi è fausto augurio.
Virg.o   Icilio! oh ciel! Dal campo
volai,... deh, dimmi, in tempo giungo? Appena
chiederlo ardisco; son io padre ancora?
Icilio Finor tua figlia è libera, ed illesa.
Virg.o Oh inaspettata gioja! oh figlia!... al fine...
respiro.
Icilio   Hai figlia; ma vive nel pianto
con la squallida madre. In dubbio orrendo

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di lor vicina sorte, palpitanti

stanno: del venir tuo nell’ansio petto
bramano il punto, e il temono a vicenda.
Virg.o Dunque i miei caldi preghi udiste, o Numi;
voi, che al mio fianco antico inusitata
forza prestaste, ond’io giungessi in tempo,
o di salvar l’unica figlia mia,
o di morir per essa.
Icilio   Odi; o salvarla,
o morir voglio anch’io. Ma tu sei padre;
un’arme hai tu, che non m’è data, e molto
nel popol può; le lagrime.
Virg.o   Ma dimmi:
a che siam noi?
Icilio   Lo stesso suol che or premi,
d’iniquitade era stamane il campo:
quí prima pugna diessi. Un Marco parla,
e d’Appio asconde la libidin cruda
con mille fole. Ad ingannar la plebe
quanto è mestier, tutto si adopra; e leggi,
e chieditore, e testimonj, e prove.
Giá all’iniquo giudizio Appio dar fine
senza ostacol credea; ma l’empia frode
io palesare osai primiero, e osai
chieder del padre. — Oh qual terribil grido
al ciel mandava la fremente plebe,
tuo nome udendo! Componeasi un volto
impavido, ma in core, entro ogni vena,
lo scellerato giudice tremava.
Al fin si arrese, e d’aspettarti ei disse. —
Or io temea, che l’empio al venir tuo
tendesse aguati: e che alla figlia, e a Roma,
e a me tolto tu fossi... Al fin pur giungi;
e non invan ti voller salvo i Numi.
Del dí novello ei l’ora sesta assegna
alla sentenza ria: giá il sol nascente

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ti vegga dunque infra la plebe andarne

tremante padre, e chieder lagrimoso
tua vera prole. Né pietade altronde
cercar, che in cor di plebe: ella può sola
render la figlia al padre, a me la sposa,
a se l’onor, la libertade a Roma.
Virg.o Icilio, il sai, quant’io grande t’estimi...
Lo averti eletto genero n’è prova.
Entro il mio cor non guasto ardon tre sole
di puro amor forti faville: Roma
amo, e il mio sangue, e la virtude tua.
Ogni alta impresa, ogni periglio teco
ad affrontar, s’egli è mestier, son presto...
Ma, il tuo bollente ardir, l’alma che troppo
magnanima rinserri...
Icilio   E quando troppa
si reputò virtude?
Virg.o   Allor ch’è vana;
allor che danno a chi la segue arreca,
e a chi non l’ha non giova. — Icilio, io t’odo
mosso da nobil ira in un raccorre
la patria oppressa, e l’oltraggiata figlia:
cause...
Icilio   Disgiunger densi? Una è la causa:
tu sei padre, e nol senti? O Roma è Roma,
tu allor v’hai figlia, io vi ho consorte, e vita;
o è serva, e allor nulla v’abbiam, che il brando.
Virg.o Roma per or serva è pur troppo: io tremo
di te per lei; che sue profonde piaghe
inacerbisce ogni presente moto:
tremo, che tu non scelga infra i partiti
per piú certo il piú fero. Ah! se ad un tempo
salvar la figlia, e non turbar la pace
della patria si può...
Icilio   Taci: qual nome
profferir osi tu? V’ha patria, dove

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sol uno vuole, e l’obbediscon tutti?

Patria, onor, libertá, Penati, figli,
giá dolci nomi, or di noi schiavi in bocca,
mal si confan, finché quell’un respira,
che ne rapisce tutto. — Omai le stragi,
le violenze, le rapine, l’onte,
son lieve male; il pessimo è dei mali
l’alto tremor, che i cuori tutti ingombra.
Non che parlar, neppure osan mirarsi
l’un l’altro in volto i cittadini incerti:
tanto è il sospetto e il diffidar, che trema
del fratello il fratel, del figlio il padre:
corrotti i vili, intimoriti i buoni,
negletti i dubbj, trucidati i prodi,
ed avviliti tutti: ecco quai sono
quei giá superbi cittadin di Roma,
terror finora, oggi d’Italia scherno.
Virg.o Vero è il tuo dire, e a piangere mi sforza,
non men che di dolor, lagrime d’ira...
Ma, e che potrian due sole alme romane
a tanti vili in mezzo?
Icilio   Aspra vendetta
fare, e morir.
Virg.o   La tirannia novella
matura ancor non è: tentar vendetta,
ma non compierla puossi. Or, che non osa
la crudeltá decemvirale in campo?
E che pur fa di que’ gagliardi il fiore,
ch’ivi sta in armi? fremono, e si stanno.
Smentir le false prove, e dagli artigli
d’Appio sottrar spero la figlia: dove
ne sia forza morire, io ’l deggio; io ’i voglio
non tu cosí; se muori, a vendicarne
chi resta allor? chi salva Roma?
Icilio   Noi:
vivi, col brando; o con l’esempio, estinti. —

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Soffrir piú omai non puossi: avrem seguaci;

tutti non son, benché avviliti, vili:
manca, all’ardir dei piú, chi ardisca primo;
e son quell’io. — Per ora il campo è questo,
in cui dobbiam militar noi; cercarvi
onore, o morte. In piú seguir le insegne
degli oppressori nostri, infamia sola
tu mercheresti: in mezzo a Roma è l’oste;
dunque in Roma si pugni: e siane incerto
l’evento pur, certa è la gloria: or deggio
piú dirti?
Virg.o   No: presto a morir son sempre;
e duolmi or sol l’aver vissuto io troppo.
Freno all’iniquo giudice porranno
mie grida, spero; e la evidente mia
ragion: Roma vedrammi intorno intorno
andar mostrando ai cittadini ignudo
pien d’onorate cicatrici il petto:
e attestar Roma, e i Numi nostri, e il sangue
nemico, e il mio, che per essa io sparsi.
Squallido padre, canuto, tremante,
ad ogni padre io narrerò la trista
storia del sangue mio: per me, quai sieno
delle lunghe fatiche i premj in Roma,
ogni guerrier saprá. — Ciò far ti giuro...
Ma, di sangue civil tinger mio brando,
avviluppar nella mia fera sorte
tanti innocenti, e invano...
Icilio   E forza pure
ti fia ciò far: la libertade, i figli
ben mertan, parmi, che si spanda il sangue
di piú d’un cittadino. O muojon prodi,
degni non eran di servire; o vili,
non degni eran di vivere tra noi. —
Ma ad abbracciar le sconsolate donne,
deh! vanne ormai: certo son io, che pari,

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e piú furor che il mio non è, trarrai

dal pianto loro; e ch’io t’avrò compagno
a qualsivoglia impresa.


SCENA TERZA

Numitoria, Virginia, Icilio, Virginio.

Numit.   Oh!... s’io ben veggio..

No, non m’inganno; è desso, è desso; oh gioja!
Virginio!
Virg.a   Padre!
Virg.o   Oh ciel!... Figlia,... e fia vero?...
Consorte!... al sen vi stringo? Oimè... mi sento
mancar...
Virg.a   Ti abbraccio sí, finché nomarti
padre a me lice.
Numit.   Ansie di te, dubbiose
del tuo venir, n’era ogni stanza morte.
Quindi t’uscimmo impazienti incontro...
Virg.a Sollecite, tremanti. Almen lontana
or non morrò da te. Piú non sperava
di rivederti mai.
Icilio   Misero padre!
Non che parlar, può respirare appena.
Numit. Questo è ben altro, che tornar dal campo,
qual ne tornasti tante volte e tante,
vincitor dei nemici. A terra china
veggio pur troppo la onorata fronte,
d’allori un dí, carca or di doglie, e d’atri
pensier funesti: or sei ridotto a tale,
che né moglie, né figlia (amati pegni,
per cui cara la gloria e il viver t’era)
or non vorresti aver tu avute mai.
Virg.o ... Donne; non duolmi esser marito, e padre;
grande è dolcezza, ancor che amaro molto

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a scontar l’abbia. Se a misfatto in Roma

ai cittadini l’aver figlie è ascritto,
reo ne voglio esser primo; esserne primo
emendatore io vo’. Libera Roma
era in quel dí, ch’io diveniati sposo;
libera il dí, ch’unico pegno e certo
di casto amor Virginia mia mi davi;
mia, sí; pur troppo! Delle patrie leggi
nata e cresciuta all’ombra sacra, o figlia,
eri mia sola speme: eran custodi
dell’aver, delle vite, ed onor nostro,
i magistrati allora: or ne son fatti
i rapitori?... Ah! figlia,... il pianto frena;...
Deh! non sforzarmi a lagrimar. — Non ch’io
indegno estimi di roman soldato
il lagrimar, quando il macchiato onore,
le leggi infrante, la rapita figlia,
strappan dal suo non molle core il pianto;...
ma, col pianger non s’opra.
Virg.a   Ed io, se nata
del miglior sesso fossi, io figlia tua,
a chi nomarmi ardisse schiava, oh! pensi
ch’io risposta farei con pianto imbelle?
Ma, donna, e inerme sono; e padre, e sposo,
e tutto io perdo...
Icilio   Nulla ancor perdesti.
Speme non è morta del tutto ancora:
in tua difesa avrai la plebe, il cielo,
e noi: se invan; se non ti resta scampo,
che di perir con noi,... tremando io il dico,...
E i genitori tel dicon tacendo,...
Tu con noi perirai. Tua nobil destra
io t’armerò del mio pugnal, grondante,
caldo ancor del mio sangue: udrai l’estreme
libere voci mie membrarti, ch’eri
figlia di prode, libera, Romana,

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e sposa mia. — Pensier, che il cor mi agghiaccia,

intempestivo egli è finora.
Virg.a   È il solo
pensier, che in vita tienimi. — Oh! se mi vedi
pianger, non piango il mio destin, ma il tuo.
Nato ad ogni alta impresa, esser di Roma
dovresti lo splendor: piango in vederti
ridotto, e invano, a disputar l’oscura
mia libertá privata; ed in vederti
chiuso ogni campo di verace fama;
e in veder l’alma in te romana tanto,
or che piú non è Roma.
Virg.o   E tu non sei
mia figlia, tu? l’oda chi ’l niega.
Numit.   Ah! sola
ella è sostegno alla nostra cadente
vita. O figlia, morir ben mille volte,
pria che perderti, voglio.
Icilio   Amata sposa,
forte è l’amor, che fortemente esprimi;
degno di noi; simile, e pari, al mio.
Ogni tenero affetto, ogni dolcezza,
duri tempi ne vietano. Fra noi
d’amor paterno e conjugal sol pegno
fia la promessa di scambievol morte.
Virg.o Oh miei figli!... E fia vero?... or perir debbe
virtú cotanta?... O donna, e quei che forti
nascer potrian da lor, veri di Roma
figliuoli, e nostri, non terrem noi mai
fra le tremule braccia?... Oh, di quai prodi
perisce il seme, col perir di queste
libere, altere, generose piante!
Icilio Pianger dovremmo di ben altro pianto,
se avessimo noi figli: a fero passo
tratti or saremmo; o di lasciarli schiavi...
schiavo il mio sangue!... Ah! trucidarli pria. —

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Padre io non son; se il fossi...

Virg.o   Orribil lampo
tralucer fammi il parlar tuo: deh! taci...
Deh! ten prego.
Numit.   Son madre, e tutto io sento
ciò che tu accenni. Al pianto sol ridotte,
che non abbiam, misere madri, uguale
al dolore la forza!
Icilio   I padri, e’ sposi,
pari al vostro hanno il duol, maggior l’ardire.
Speranza ancora di salvarla io serbo.
Virginio ed io siam soli in Roma forse;
ma noi bastiam soli a dar vita e sdegno
ad un popolo intero.
Virg.o   Ah! che pur troppo
non ponno i detti (e sien pur caldi e forti)
scuoter davver popol, che in lacci geme;
né ad opre maschie risentíte trarlo:
le ingiurie estreme, e il sangue solo, il ponno.
Roma, a sottrarti dai Tarquinj infami,
forza era pur, ch’una innocente donna
contaminata, cadesse trafitta
di propria mano al suol nel sangue immersa!
Virg.a E se a svegliar dal suo letargo Roma,
oggi è pur forza che innocente sangue,
ma non ancor contaminato, scorra,
padre, sposo, ferite: eccovi il petto. —
Cara vi son io troppo? in me l’acciaro
tremereste vibrare? Io giá non tremo;
date a me il ferro, a me. Sia il popol tutto
testimon di mia morte: al furor prisco
lo raccenda tal vista; io di vendetta
sarò il vessillo: entro il mio sangue i prodi
tingan lor brando a gara, e infino all’elsa
lo immergan tutti a’ rei tiranni in petto.
Virg.o Deh, figlia,... or, qual mi fai provar novello

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terrore!... oimè!...

Icilio   Piú non si squarci a brano
il cor di un padre omai romano troppo.
A noi che giova or l’esortarci a morte?
Traligniam noi dagli avi? — Infra poch’ore,
se morir dessi, il saprem noi. Ma intanto
torna, Virginio, a riveder tuoi Lari,
con la sposa, e la figlia. È questa forse
la notte estrema, in cui sí gran dolcezza
ti si concede. Oh sventurato padre!
Brevi hai momenti a cosí immenso affetto.
Virg.o Oh fera notte!... Andiam: doman col sole,
Icilio, quí mi rivedrai.
Icilio   Giá pria
io sarovvi a dispor pochi, ma forti,
ad alto effetto. Or va: tu pur convinto
sarai domani appien, ch’altro partito
non v’ha che il mio; di sangue. — O estinti, o vivi
felici appien sarem domani, o sposa.
Virg.a O viva, o estinta, ognor felice io teco.