Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XI

Lettera XI

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LETTERA XI

28 ottobre.

Tre giorni ancora, e Odoardo non sará piú seco noi. Ma vedi raggiro di parole nella tua lettera di ieri, per farmi pur confessare la compiacenza secreta ch’io ne devo sentire! Questa volta ser Lorenzo ha sospettato assai male: non è giá per questo... Ma la tua congettura non è vera... non è vera.

Ieri sul far della sera siamo usciti tutti e tre a passeggiare. Teresa e Odoardo parlarono sempre fra di loro, ed io, quantunque non proferissero con voce sommessa, me ne andava fischiando or innanzi, or di fianco, or soffermandomi ad osservare una pianta, ora lanciando un sasso, facendo bersaglio di qualche tronco. Come fummo a casa, Teresa mi pregava di perdonarle l’inciviltá ch’essi aveano commesso, occupando tutta la conversazione de’ loro piccoli affari: — Voi sapete — soggiunse — che non v’ha si dolce consolazione nell’abbandono de’ nostri amici quanto la certezza che noi non ci siamo dimenticato veruna cosa a dir loro, e che tutta l’anima nostra è trasfusa e depositata nel loro seno. — Egregia creatura!

Eppure me ne dispiace; spesso rido di me, perché propriamente questo mio cuore non può sofferire un momento, un solo momento di calma. Purch’ei sia sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spirano avversi o propizi. Ove gli manchi il piacere, ricorre tosto al dolore. Questa mattina venne Odoardo a restituirmi un archibugio ch’io gli aveva prestato; io non ho potuto vederlo partire senza gettarmigli al collo, tuttoché avessi dovuto veramente imitare la sua placida indifferenza, mentre quelli non erano gli estremi congedi. Non so di qual nome voi altri saggi chiamate chi troppo presto ubbidisce al proprio cuore, perch’ei certo non è un eroe: ma è forse vile per questo? Coloro, che trattano di deboli gli uomini appassionati, somigliano quel medico che chiamava «pazzo» un malato non per altro [p. 97 modifica] sennon perch’era vinto dalla febbre. Così odo i ricchi tacciare di colpa la povertá per la sola ragione che non è ricca. A me però sembra tutto apparenza; nulla di reale..., nulla. Gli uomini, non potendo per se stessi acquistarsi la propria e l’altrui stima, cercano d’innalzarsi, paragonando que’ difetti, che per avventura non hanno, a que’ difetti che ha il loro vicino. Ma chi non si ubbriaca perché naturalmente odia il vino, merita lode di sobrio?

Per me, lascio che i saggi vantino una infeconda apatia. La loro virtú mi sembra una massa di ghiaccio, che ritira tutto in se stessa e che irrigidisce chi le si accosta. Ho letto, giá tempo fa, non so in che poeta, che la burrasca piucché la calma insegna l’arte a’ nocchieri. Che se nel mar della vita non fossimo agitati dalle passioni, a che mai servirebbe la bussola della ragione, di cui noi mortali meniam tanta iattanza? «Né Dio sta sempre nella sua mestosa tranquillitá, ma s’involge fra gli aquiloni e passeggia con le procelle»1.

  1. Quest’è un verso della Scrittura; ma non ho saputo precisamente trovare donde fu tratto. L’editore [F.].