Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera LVI

Lettera LVI

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LETTERA LVI

Dal monte Bertinoro, 18 giugno.

Indarno tento alcune volte di scriverti. Prendo la penna, comincio; poi, pentito, cancello, straccio e non trovo un’idea, una parola esprimente. M’arresto, torno a pensare, e, dopo mezz’ora, eccomi, non so come, col capo chino su lo scrittoio, colle mani incrocicchiate e gli occhi spalancati e fitti su la carta. E sempre all’orecchio mi rintrona un spaventevole e sordo romorio: — Non la vedrai piú! — Con un forte tremito mi riscuoto, giro i lumi incerti e paurosi, e mi par di vedere un’ombra lunga, nera e scapigliata lentamente rizzarsi dall’opposto muro, e con occhio truce, incavato, additarmi una tomba e sparire. Di quali orribili colori non si veste, o mio Lorenzo, una mortale passione! Seguo cogli occhi tremanti lo spettro... Insensato! Nulla piú scorgo; ma intanto la riscaldata fantasia s’agita, bolle, si affanna. Uomo debole! Perché te ne stai qui, timido, irresoluto come un fanciullo, che innoltri il malfermo piede nel buio della notte? Incomprensibile eternitá! non sei tu, no, tanto spaventosa ed orrenda! Ma chi senza di te potrebbe soffrir una esistenza cosí penosa, viver fra cotanti scellerati, spirar l’aure de’ vizi, trascinarsi dietro le miserie, le persecuzioni, gli affanni? Noi non viviamo giammai: sciaguratamente aspettando sempre una vita, la passiamo intanto fra le speranze e le disgrazie. — Domani — vo dicendo, — domani respirerò, sarò forse contento! — Sorge l’indomani, ed eccomi piú disperato ed infelice! ch! la sola morte è la fine de’ mali, è un dolce asilo, è un tranquillo sonno! Affrettiamoci di partire da un carcere sí tetro e fatale... — T’arresta! — mi grida dal fondo dell’anima un rimorso — t’arresta! trema al terribile tuo risvegliarsi!... — Ma qual atroce delitto è questo mai di prevenire d’alcuni giorni il gran momento che l’Essere degli esseri prepara a [p. 172 modifica] tutti i mortali?... Mi è forza dunque il bere a lunghi e lenti sorsi l’amaro calice dell’insoffribil mia vita?

Questa notte, o Lorenzo, l’ho veduta in sogno: si aggirava pallida e pensosa dentro una folta macchia d’arbori antichi; un negro velo le fasciava la fronte. Ansante m’arrampicava su e giú per il bosco, onde raggiungerla; la chiamava flebilmente e pregava. Ma, quando le sono appresso, e giá le stendo le braccia, mi slancia uno sguardo cosí mesto..., cosí lugubre..., e, lasciandosi ad un tratto cadere il negro velo su la faccia, mi volge muta le spalle..., si rinselva e sparisce. Avanzo il piede timido e vacillante: esce dal piú profondo e basso della macchia un ululo fioco e lamentevole... All’improvviso mi desto, e, tutto bagnato d’un freddo sudore, spalanco gli atterriti miei lumi: non miro che la muta oscuritá, di tratto in tratto schiarita dal languente barlume d’una lucerna, e solo frattanto mi ferisce l’orecchio il tristo suono della funerea campana dei morti.

Che orrore non mi assalse! quai pensieri funesti! quali angosce!

          . . . . . . E dietro mi correa sull’aure
     lungo un rimbombo di voci di pianto,
     che mi fean pianger, tremare, ululare,
     e il perché non sapea!.. 1.

Oh Dio! che sará di Teresa?... Vive ancora? oppure... Non potea proferir di piú. Scese un raggio del mattino albeggiante: raggio benefico! Sopí un poco gli affanni e mi calmò.

Lorenzo!...

Qual cosa è l’uomo alle passioni in preda!


  1. Alfieri.