Una cultura è meglio di due/Una cultura è meglio di due

Una cultura è meglio di due

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Prefazione Per saperne di più

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Una cultura è meglio di due



§1 Nel 1911 Federigo Enriques era uno dei più importanti matematici non solo italiani ma di tutto il mondo; la sua organizzazione del Congresso internazionale dei matematici del 1908 fu lodata da tutti i partecipanti; insomma era una figura di punta del panorama accademico, grazie anche ai suoi interessi che non si limitavano alla matematica ma spaziavano a 360 gradi sulla cultura in generale. Quell’anno, con l’appoggio di vari colleghi di discipline diverse, pensò di fondare la Società Filosofica Italiana. Pensava infatti che le scienze moderne potevano dare nuova linfa alla filosofia: non perché fossero migliori, ma perché avrebbero portato punti di vista diversi e freschi. L’idea non era campata in aria: quelli erano gli anni in cui per esempio la logica, venerando ramo filosofico fondato da Aristotele che ebbe poi un impetuoso l’impulso nel Medioevo con la Scolastica1 ma da allora era rimasta più o [p. 6 modifica]meno stabile, veniva scossa dalle fondamenta con i lavori di Boole, Frege e Russell.

Mal gliene incolse. Benedetto Croce scrisse una ferocissima invettiva contro di lui e gli scienziati che osavano invadere il campo della più pura delle attività del pensiero umano; Croce terminò consigliando a costoro di limitarsi a occuparsi dei temi adatti ad “ingegni minuti” quali loro erano.2 Il peso dell’accademico napoletano era tale che non solo Enriques smise di occuparsi ufficialmente di filosofia, 3 ma tutta l’istituzione italiana fu plasmata dando preminenza alle materie letterarie e relegando quelle scientifiche in secondo piano; Giovanni Gentile, la cui riforma scolastica resta fondamentalmente alla base dei [p. 7 modifica]nostri corsi di studi, era un crociano ancorché in rotta con il maestro sui temi più filosofici. [p. 9 modifica]

§2 Da questa descrizione si direbbe che lo iato tra cultura scientifica e umanistica sia una delle tante tristi peculiarità italiane, ma non è esattamente così. In ambito anglosassone, il saggio di Charles Percy Snow del 1959 The Two Cultures è seminale. Snow4 si chiedeva perché sembravano esserci due mondi culturali separati: molti scienziati5 facevano fatica a leggere testi classici come i racconti di Dickens, ma soprattutto i letterati sembravano essere assolutamente impervi a una qualunque nozione scientifica, nonostante la seconda guerra mondiale fosse stata vinta anche e soprattutto per le innovazioni tecnologiche, dal radar al decrittaggio dei codici segreti dell’Asse.6 Insomma, tutto il mondo è paese. Qualche tempo dopo Snow attenuò questo giudizio, riconoscendo che in fin dei conti gli pareva che le posizioni dei due campi si fossero un po’ avvicinate. Se devo dirla tutta, non mi pare proprio sia così; soprattutto la distanza sembra [p. 10 modifica] essere a senso unico. Certo, continuano a esserci persone di formazione scientifica che non sanno mettere insieme due parole in croce, e ritengono che i letterati siano mangiapane a tradimento; ma per fortuna sono una minoranza. È invece piuttosto comune trovare persone di formazione umanistica che non solo non sanno nulla di matematica al di là — forse — dell’aritmetica elementare, ma rivendicano orgogliosamente la loro purezza, in pieno spirito crociano. La matematica per loro è roba da ingegni minuti, appunto.

È proprio intrinseca questa separazione? Naturalmente no. Senza tornare indietro a Galileo, che è anche studiato in letteratura italiana come uno dei più importanti scrittori del Seicento,7 possiamo ricordare Lewis Carroll, la cui notorietà non poggia certo sul suo trattato riguardo ai determinanti in matematica8 o sulla sua [p. 11 modifica]proposta di un sistema di votazione equo quando i candidati sono più di due; in Italia abbiamo poi avuto l’ingegner Carlo Emilio Gadda e il chimico Primo Levi.9 Se passiamo al lato letterario, vengono subito in mente i membri dell’Oulipo: Georges Perec e Raymond Queneau applicarono tecniche combinatorie in alcune delle loro opere, dal salto del cavallo in La vita: istruzioni per l’uso ai Centomila miliardi di poemi dove la poesia si rivela essere nient’altro che una combinazione di versi. Queneau ha persino pubblicato un articolo in una rivista di matematica.10 Insomma, si… può… fare!


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§3 Entra in scena David Foster Wallace. Tecnicamente era laureato in letteratura inglese e in filosofia. La sua tesi in questo secondo campo era di logica formale, che come dicevo sopra più che parte della filosofia classica è ormai un ramo molto teorico della matematica. Detto così, si potrebbe pensare che in fin dei conti DFW fosse anche un matematico: ma la realtà è che la logica formale non solo non è vista come “vera” matematica dalla gente comune, ma non lo è nemmeno da buona parte dei matematici stessi!11Niente da fare: non possiamo appiccicargli quell’etichetta, né d’altra parte DFW si è mai definito tale. Lui era un appassionato della matematica, che riteneva una delle cose divertenti create dall’umanità, ma anche una delle sue imprese più significative;12 non un matematico. Nell’unico esame [p. 14 modifica]universitario di matematica che sostenne prese D, insomma un 18; i suoi ricordi principali arrivavano da un corso seguito alle superiori e tenuto da un tal professor E. Robert Goris «dei corsi di matematica applicata I e II della Sr. High School of U...», come racconta in Tutto, e di più (Everything and more, E&M, in originale),13quindi le sue conoscenze di base non


[p. 15 modifica]erano chissà cosa ma si limitavano a quanto uno studente liceale dovrebbe conoscere.

Eppure la matematica appare molto spesso nei suoi racconti, anche se spesso in modo obliquo. Prendiamo per esempio il saggio Tennis, trigonometria e tornado: troviamo scritto

“Il tennis agonistico, come il biliardo professionistico, richiede una mente geometrica, l’abilità di calcolare non soltanto le vostre angolazioni ma anche le angolazioni di risposta alle vostre angolazioni. Poiché la crescita delle possibilità di risposta è quadratica, siete costretti a pensare in anticipo ad un numero n di colpi, dove n è una funzione iperbolica limitata dal senh della bravura dell’avversario e dal cosh del numero di colpi scambiati fino a quel momento (approssimativamente). Io lo sapevo fare.”

Che significa questa frase? Niente, e molto. Un matematico direbbe piccato che la crescita non è quadratica ma esponenziale14, e

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che senh e cosh in quel contesto non c’entrano un tubo. Un curiosone potrebbe però notare che si parla di seno e coseno iperbolici,15 e in effetti quella frase è un’iperbole: in senso non matematico, ma letterario.16 DFW sta dunque

[p. 17 modifica]giocando su due livelli distinti, esattamente come tipicamente gioca con la lingua alternando livelli linguistici elevati e triviali. Per esempio, per lui la matematica è “sexy”: noi potremmo dire che “è una figata”. In Infinite Jest (IJ) abbiamo un personaggio, Michel Pemulis, che vuole sempre stupire con la matematica, inventandosi frasi come “Derivatives’re just trig with some imagination.” (Le derivate sono solo trigonometria con un po’ di immaginazione). Anche qua è interessante vedere il brano in cui è presente questa frase:

“Questa è trigonometria, cazzo. […] Le derivate non sono altro che trigonometria con un po’ d’immaginazione. Immaginati i punti che si muovono inesorabilmente l’uno verso l’altro fino a che in pratica diventano un unico punto. L’inclinazione di una linea specifica diventa l’inclinazione di una tangente rispetto a

[p. 18 modifica]un punto. […] Scrivitelo sul polso o su qualche altra cosa. Funzione x, esponente n, la derivata sarà nx + x^n-1 per ogni tipo di tasso di aumento di primo grado.”

Tutto di nuovo bellissimo: la definizione di tangente è quella intuitiva usata da Leibniz (Newton preferiva le flussioni), messa in soffitta nell’Ottocento quando ci si accorse che non funzionava con le funzioni patologiche create ad hoc ma più che sufficiente per gli usi nel mondo reale. Solo che la formula per la derivata è sbagliata. Sbaglia Wallace? Sbaglia Pemulis? Nessuno, nemmeno l’autore, si era accorto di un errore di trascrizione del testo? Non ci è dato di saperlo.

Ma in generale le strutture matematiche appaiono ovunque in IJ, e sono sicuramente volute. In un’intervista del 1996 Michel Silverblatt gli dice per esempio di aver osservato che il libro sembra essere organizzato come un frattale17: un argomento appare in una prima [p. 19 modifica]forma, dopo un po’ di digressioni ritorna in una seconda forma più ampia che contiene la prima e via discorrendo. Wallace risponde

“È proprio una delle cose su cui si basa il romanzo. È in effetti strutturato come una cosa che si chiama triangolo di Sierpinski, un tipo primitivo di frattale piramidale.18

[p. 20 modifica] Di nuovo, Wallace spiazza il lettore con un termine che nessuno si aspetterebbe in una intervista a uno scrittore: passi parlare di frattali, ma il triangolo di Sierpinski è ben poco noto al di fuori della matematica, anche se lui ha spergiurato che da ragazzo aveva un poster appeso al muro di camera sua con raffigurata quell’immagine19 e quindi per lui era un concetto usuale.20 [p. 21 modifica]

§4 Arriviamo finalmente a E&M e alla storia della sua nascita. Intorno al 2000, l’editore americano W. W. Norton pensò di pubblicare una collana di libri intitolata “Le grandi scoperte”; nelle intenzioni dell’editore le opere non dovevano solo parlare delle scoperte ma anche degli scopritori, e soprattutto sarebbero state scritte da persone non necessariamente vicine all’ambiente tipico dei divulgatori scientifici. Wallace aveva raggiunto la fama con IJ, e probabilmente proprio il suo tipo di approccio alla matematica come qualcosa di figo portò l’editore a proporgli di scrivere quello che sarebbe poi stato il primo libro della collana.21

DFW si mise subito al lavoro, lesse un buon numero di libri sul tema, sia testi accademici che romanzi:22 accorgendosi che gli mancavano però [p. 22 modifica]le basi matematiche per fare il lavoro che lui aveva in mente e assunse una “consulente matematica”, la dottoranda Erica Neely.23 Il lavoro non fu semplice, e ci furono molti litigi con il redattore. Tanto per dire, la nota 57 a pagina 218 comincia con “NCVI24 (inserita su insistenza dell’editor)” in grassetto, mentre la nota 70 a pagina 226 parte con “NCVI dalla lista di domande dell’editor della collana sulla versione manoscritta di questo libretto25 alla quale domanda Wallace replica con “Dalla stizzosa risposta dell’autore”; entrambe le

[p. 23 modifica]frasi sono scritte in maiuscoletto. La nota termina con la frase, in perfetto stile wallaciano,

Qui “esistere” dovrebbe essere accompagnato da un bel “per così dire” o “qualsiasi cosa questo significhi”, ma il lettore dovrebbe essere uno sciita radicale kroneckeriano per pensare che quello che stiamo facendo in questa dimostrazione sia davvero creare questi nuovi sottoinsiemi.

frase che ha tra l’altro perfettamente senso… se qualcuno ha un mimino di infarinatura di filosofia della matematica, cosa che ovviamente non ci si aspetta dal lettore tipo, neppure se appassionato di matematica. Come dicevo sopra, Wallace usa il linguaggio matematico proprio come uno dei tanti stili a sua disposizione: non vede alcuna differenza tra lo scrivere ironico, leggero o sentenzioso oppure scrivere matematico.

In effetti il guaio nello scrivere sull’infinito in matematica è che questo è un tema fin troppo abusato, tanto che ne scrivono tutti:26 quindi bisogna trovare una chiave di scrittura personale. Il primo aiuto è che come ricordate la collana [p. 24 modifica]nasceva per parlare soprattutto delle persone dietro le scoperte: il focus (teorico) del libro è su Cantor, e DFW lo prende molto sul serio, dilungandosi su quali erano i suoi lavori matematici prima che si infilasse nel ginepraio della teoria dell’infinito. Vi siete mai chiesti perché diavolo Cantor si fosse sognato di dedicarcisi?27 Probabilmente no, a meno che non siate appassionati di matematica, se non proprio matematici di professione.

Poi naturalmente DFW ci mette del suo. Il testo è affiancato da tantissime note, 408 in tutto; forse per non spaventare il lettore la numerazione ricomincia da capo in ogni sezione. Un numero così alto di note in genere si trova nei testi che citano puntigliosamente le fonti delle proprie affermazioni; ma questo non è mai il caso di Wallace: le note sono un’altra dimensione del [p. 25 modifica]testo.28 Mentre nel caso di IJ esse sono fondamentali per comprendere la trama del libro, qui invece preferisce spesso usarle per aggiungere i suoi NCVI: nelle sue intenzioni, riuscirà così a permettere in contemporanea una lettura pop e una più tecnica, così da ottenere un libro che possa essere letto da due tipi diversi di persone. C’è poi una commistione di lingua molto alta e molto bassa; oltre a “sexy” abbiamo per esempio “si ingrifa” (“gets turned on”) parlando di Cohen. Come detto sopra, con la scusa che in matematica è normale usare abbreviazioni perché la struttura delle dimostrazioni è piuttosto rigida riempie poi il testo con una quantità di acronimi non sempre utili o necessari, oltre ad inserire due “glossari di emergenza” perché si rende conto che se si perde lui il povero lettore potrebbe trovarsi davvero a malpartito. [p. 27 modifica]

§5 Anche la struttura logica del libro è fuori standard. Il testo non è propriamente scritto in capitoli, ma in sezioni (da 1 a 7, con le sottosezioni specificate da una lettera). Esse a prima vista assomigliano ai capitoli, nel senso che nella versione cartacea cominciano su una nuova pagina, ma non hanno titolo e non mostrano un vero stacco. Le sezioni sono precedute da una “Breve ma necessaria premessa” (davvero breve, non solo per i suoi standard ma anche in assoluto) nella quale Wallace avverte il lettore sulle idiosincrasie che troverà, sia per quanto riguarda il testo a due livelli di profondità che per le abbreviazioni principali usate nel testo. Il primo capitolo è anch’esso relativamente breve e più che altro filosofico: vi troviamo infatti, oltre alla dichiarazione di intenti per il seguito, uno sguardo sul concetto di astrazione in matematica. Wallace comincia raccontando della fama di pazzia dei matematici, un classico soprattutto quando si parla di logici come Cantor o Gödel. Cita Chesterton: “I poeti non diventano matti, i matematici invece sì. Il pericolo è nella logica, non nell’immaginazione.” solo per contraddirlo: secondo lui, non è infatti la logica che fa diventare matti, ma l’astrazione, e l’infinito è per DFW il massimo dell’astrazione. [p. 28 modifica]

Dopo questa premessa, parte con un centinaio di pagine che con Cantor non c’entrano nulla. La sezione 2 si dilunga sui paradossi di Zenone e su come in realtà non siano stati davvero risolti fino a Cantor, o al massimo a Weierstrass. Racconta di come Aristotele non li avesse davvero confutati ma si fosse limitato a nascondere sotto il tappeto l’apparizione dell’infinito nella matematica.29 Aggiunge poi che una vera soluzione era stata data dagli ellenisti, con il metodo di esaustione ideato da Eudosso e portato al suo massimo splendore da Archimede. La sezione 3 continua a raccontare la storia dell’infinito nella matematica occidentale, arrivando teoricamente fino alla fine del Seicento ma tradendo in realtà l’assunto iniziale della sezione per impelagarsi con Bernhard Bolzano: poco male, perché il lavoro del matematico tedesco venne riscoperto diversi decenni dopo la sua morte e quindi può essere considerato abbastanza astorico. [p. 29 modifica]

La sezione 4 parla della seconda crisi delle fondazioni della matematica occidentale, quella legata al calcolo differenziale.30 Riprende nuovamente Zenone e Aristotele per mostrare come Newton e Leibniz (pardon, N&L) siano di per sé ricascati nello stesso problema: gli infinitesimi, l’altra faccia dell’infinito, non avevano un fondamento valido. L’unica differenza è che i filosofi del Settecento avevano meno presa di quelli ellenici sul mondo: ecco perché gli [p. 30 modifica]avvertimenti di Berkeley non furono presi sul serio come quelli di Aristotele al tempo. Nella sezione 5 Wallace segue lo sviluppo dell’analisi nel Settecento e all’inizio dell’Ottocento con la sua formalizzazione da parte soprattutto di Weierstrass. Il lettore che conosce già la storia si chiederà perché mai DFW continui a porre l’accento sulle serie trigonometriche: sì, le trasformate di Fourier sono nominate in quasi tutti i resoconti di storia della matematica, ma di solito ci si ferma lì. Wallace invece sta preparando la ragnatela che avvilupperà il lettore.

Siamo finalmente arrivati alla parte più corposa del libretto. Nella sezione 6 si riprende la definizione dei numeri reali da parte di Dedekind e Cantor e la (definitiva?) addomesticazione dell’infinito; la sezione 7 comincia con la trattazione dei numeri transfiniti ordinali e cardinali, ma soprattutto continua a raccontare quello che è successo dopo Cantor. Qui gioca in casa, perché la teoria dei modelli è parte della logica modale che come ricordate è stato l’argomento della sua seconda tesi. Il problema è proprio questo: mentre nel resto del libretto Wallace può più o meno immedesimarsi nel lettore medio, già la sezione 6 diventa molto formale, e la 7 è un tour de force [p. 31 modifica]dove il linguaggio allegro non riesce a nascondere che si sta parlando di temi così astratti che anche molti matematici si trovano a disagio. Non oso pensare a cosa abbia detto il redattore riguardo a quest’ultima sezione: probabilmente aveva già gettato la spugna da un pezzo. [p. 33 modifica]

§6 Wallace è insomma riuscito nel suo intento? Come i matematici che hanno recensito il libro non hanno mancato di far notare,31 presenta molti buchi in analisi e teoria degli insiemi, con una serie di errori. C’è chi dice che DFW ha messo apposta gli errori, per mostrare come la letteratura sia una cosa diversa dalla matematica: io non ci credo. Secondo me ci si dimentica che Wallace non era un Vero Matematico ma era un grande appassionato di matematica. Era sì convinto che la sua trattazione, anche se non a tenuta stagna, fosse abbastanza dettagliata da dare un’idea di come funzionino le cose, senza volerle insegnarle come farebbe un manuale; ma la matematica è una severa maestra, e un approccio di questo tipo non può funzionare. Guardiamoci però in faccia: E&M non pretende affatto di essere un libro di testo. Perché dobbiamo quindi pretendere una precisione che non serve a nessuno in un libro come quello? Divertiamoci con la sua prosa, cerchiamo di afferrare almeno qualche brandello di teoria matematica, e viviamo sereni. [p. 34 modifica]

Torniamo così al punto di partenza, nelle migliori tradizioni dell’infinito: il simbolo matematico ∞, una lemniscata, è infatti una curva che gira e ritorna su sé stessa. DFW è un rappresentante perfetto per il superamento delle due culture, e lo è tanto di più proprio perché arriva dal campo storicamente più distante dall’affermare l’unicità della cultura umana. Purtroppo gli sciiti radicali, o se preferite i talebani, si trovano in entrambi i campi; ma cercate di non lasciar cadere nel nulla i suoi sforzi. Voi fate finta di nulla: la lettura di E&M non sarà semplice, ma un bel libro non deve per forza essere semplice.

  1. Quello in cui fiorì la Scolastica era un periodo in cui nel mondo cristiano occidentale nascevano le prime eresie, che tra le altre cose ritenevano che i fedeli dovevano essere acculturati e non accettare supinamente le spiegazioni dei sacerdoti; la Chiesa si era dovuta pertanto adeguare, almeno per le alte leve del clero.
  2. Croce non si era inventato quella locuzione. Essa era stata coniata da Giambattista Vico, che confessò di avere cercato di leggere gli Elementi di Euclide fermandosi però alla quinta proposizione. Il suo commento fu che «alle menti, già dalla Metafisica fatte universali, non riesce agevole quello studio, proprio degli ingegni minuti». Corsi e ricorsi storici...
  3. No, è un’esagerazione. Enriques continuò infatti a dirigere la rivista Scientia, salvo un’interruzione dal 1915 al 1922 e una dal 1938 al 1944 a causa delle leggi razziali. Certo che però l’importanza della rivista nel dibattito filosofico italiano non fu certo enorme.
  4. Snow era un chimico ma anche uno scrittore, quindi aveva ben presente il problema delle due culture.
  5. Userò i termini “scienziato” e “letterato” nel significato più ampio di “di formazione scientifica / umanistica”, per mia comodità di scrittura. Intendo insomma gente qualunque, non soloni o luminari.
  6. No, non la bomba atomica. È indubbiamente stata una conquista tecnologica legata alla guerra, ma non è servita per vincerla.
  7. Per onestà intellettuale specifico che nel Seicento non è che ci fossero chissà quali scrittori nella penisola italiana; quindi ci si deve accontentare di quello che c’è. È però vero che Galileo è stato uno dei maggiori contributori per la terminologia scientifica italiana, quindi la sua fama è comunque meritata.
  8. Si narra che la regina Vittoria avesse apprezzato Alice nel paese delle meraviglie e avesse chiesto che gli venisse portata l’opera più recente dell’autore, e si vide per l’appunto recapitare il trattato sui determinanti. La storia è quasi sicuramente falsa: il reverendo Dodgson scriveva infatti i suoi testi “seri” con il suo vero nome per distinguerli dalla parte più ludica.
  9. In verità le cose sono più complicate. Gadda avrebbe sempre voluto dedicarsi alle lettere e scelse ingegneria per accontentare la madre, ma comunque la sua bella laurea scientifica se l’era presa. All’opposto, possiamo citare Italo Calvino che aveva cominciato a studiare agraria, anche se poi si è poi laureato in lettere.
  10. L’articolo di Queneau è “Sur les suites sadditives”, nel Journal of Combinatorial Theory, Series A, Volume 12, Issue 1, January 1972, pp. 31-71. Il titolo occhieggia le opere S+7 dell’Oulipo. Diciamo che matematicamente parlando è alla portata di un liceale abbastanza sveglio: ma tanto non è che chiediamo a un matematico di scrivere un capolavoro di narrativa, no?
  11. Può sembrare strano a chi non è addetto ai lavori, ma la matematica moderna è così ampia che nessuno può dire di conoscerla tutta, o anche solo di avere un’idea di tutti i suoi sottocampi. A seconda della definizione che si dà, l’ultimo “matematico totale” è stato Carl Friedrich Gauss, Jules-Henri Poincaré, John (Johann? János?) von Neumann oppure Terence Tao (però in quest’ultimo caso avremmo un matematico totale ancora vivente!)
  12. Non entro nella diatriba se la matematica esista per conto suo, come affermano i platonisti, sia semplicemente un gioco con un certo insieme di regole, come credono i formalisti, o sia una creazione di noi esseri umani, come dicono gli intuizionisti. Wallace si direbbe far parte di quest’ultimo gruppo.
  13. Come da nota a pagina 21 di E&M. Peccato che non esista alcuna traccia di questo professore: è pertanto ragionevolmente certo che DFW se lo sia inventato. I vari esempi molto istrionici di spiegazioni matematiche che DFW presenta a nome di Goris, tipo quella del fazzoletto rosso a pagina 75, dovrebbero essere tratti dal folklore matematico: io personalmente non ne conoscevo nessuno, ma sono simili ad altri che si tramandano di generazione in generazione. Negli archivi di Austin dove sono conservati molti dei suoi libri c’è in effetti una collezione di libri divulgativi di matematica da cui potrebbe averli tratti. La mia ipotesi è che Goris sia una sorta di alter ego di Wallace: il professore che lui avrebbe voluto avere, o meglio che avrebbe voluto essere se in un’altra vita avesse scelto la carriera matematica anziché quella letteraria. D’altra parte, in IJ quasi tutti i personaggi principali sono alter ego di Wallace, almeno in qualche sfumatura, da Jim Incandescenza a Don Gately. Perché non averne uno anche qui?
    Ah: la dimostrazione del fatto che i razionali sono “pochi” rispetto ai punti della retta è standard; sono i fazzoletti rossi usati da Goris a non esserlo.
  14. Nel significato matematico, non quello della vita di tutti i giorni “che cresce tantissimo”.
  15. Le funzioni iperboliche si ottengono in maniera simile a quelle trigonometriche (seno e coseno) partendo però da un’iperbole anziché da un cerchio. La figura qui sotto (di Marco Polo, da Wikimedia Commons) mostra come si ottengono.
  16. Come diceva Goethe, i matematici sono come i francesi: quando si parla con loro prendono le parole e le fanno diventare qualcosa di completamente diverso. Tra l’altro, seno e coseno iperbolico sono funzioni che tipicamente non si studiano a scuola; la citazione insomma può facilmente passare inosservata, o peggio essere vista come un errore di stampa.
    Ah, dimenticavo: anche Goethe era un letterato interessato alla scienza. Disse addirittura «Io non provo orgoglio per tutto ciò che come poeta ho prodotto. Insieme a me hanno vissuto buoni poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima di me, e ce ne saranno altri dopo. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono stato l’unico che ha visto chiaro in questa difficile scienza del colore, e sono cosciente di essere superiore a molti saggi.» Diciamo però che il suo La teoria dei colori non ha retto alla critica scientifica.
  17. I frattali sono strutture che sono simili a sé stesse se vengono guardate a livelli di dettaglio diversi. Sono stati pubblicizzati negli anni ’80 del secolo scorso da Benoît Mandelbrot, e in quegli anni era facile trovare disegnini vari di strutture frattali se non addirittura programmi per generarli.
  18. Il triangolo di Sierpinski si costruisce partendo da un triangolo equilatero. Si toglie il quarto centrale; dai tre triangoli rimasti si toglie la parte centrale; e così via, in puro stile frattale. I primi passi della costruzione sono mostrati qui sotto.
  19. Poster che del resto troviamo descritto in IJ nella cameretta di Hal Incandescenza, un altro dei tanti alter ego di DFW
  20. Qui ci sta una digressione sulla MACT, Midwestern American College Town. Neal Stephenson nella prefazione alla seconda edizione di E&W racconta di come DFW, come del resto anche lui, è cresciuto in una di queste città nelle quali i figli dei professori si trovavano in un ambiente che per loro era naturale [Immagino che io non debba ricordarvi l’inizio di “Questa è l’acqua” con i due giovani pesci che poi si chiedono “ma cos’è l’acqua?”] ma in realtà aveva una quantità incredibile di stimoli che in un modo o nell’altro sono entrati nell’inconscio di loro come scrittori.
  21. In tutto sono stati pubblicati quattordici volumi: diciamo che la collana non è stata un successone. La cosa più divertente è che io posseggo la versione originale in “Great Discoveries”, ma poi W. W. Norton decise di togliere il libro dalla collana e pubblicarlo indipendentemente. Destino curioso, vero?
  22. E già che c’è, DFW recensisce due libri di “narrativa matematica” per Science: The Wild Numbers di Philibert Schogt e Zio Petros e la congettura di Goldbach di Apostolos Doxiadis. Questa recensione (“Rhetoric and the Math Melodrama”, 22 dicembre 2000; la versione pubblicata pare sia pesantemente editata rispetto al testo originale di Wallace) è importante per capire quale strada voleva intraprendere per il suo libro.
  23. Il buffo è che Neely, pur essendo stata una ragazza prodigio in matematica, stava completando un dottorato in filosofia, dopo aver deciso che la matematica non era poi così interessante. La scelta è stata un po’ strana, insomma: forse Wallace non voleva avere un Vero Matematico ma qualcuno più vicino a quello che si immaginava essere il lettore tipo del libro, oppure pensava che sarebbe stato più semplice interagire con qualcuno dai suoi stessi interessi.
  24. NCVI è una delle tante abbreviazioni che si trovano in E&M; l’acronimo sta per Nel Caso Vi Interessi, in originale IYI, If You’re Interested.
  25. DFW si riferisce sempre al suo testo come “booklet”. Sicuramente rispetto a IJ le dimensioni di E&M sono molto minori, ma siamo comunque ben oltre le 300 pagine…
  26. Per dire, persino io ho pubblicato l’ebook Matematica e infinito. Non preoccupatevi: non siete costretti a comprarlo.
  27. Tra l’altro i lavori cantoriani sulla convergenza puntuale di serie di potenze, che gli hanno fatto capire che non era così banale dare una definizione coerente di insieme infinito di punti, sono moto più incasinati della teoria sugli infiniti vera e propria, e in effetti sono quelli la cui spiegazione nel libretto è meno solida: probabilmente Wallace non li aveva compresi troppo bene. DFW lo ammette anche in una nota, assicurando che “la parte più brutale finirà presto” (pag. 194)
  28. Questo tipo di note di stile accademico è di per sé presente, ma è relegato in un’appendice, con titolo “Riempitivo accademico” e sottotitolo “Riferimenti per il materiale citato e/o scopiazzato” (“Citations for quoted and/or cribbed material”).
  29. Qui abbiamo anche un problema storiografico. Tutto quello che conosciamo di Zenone deriva degli scritti di Aristotele, che scrive per confutare quei paradossi. Ora, lo Stagirita naturalmente porta acqua al proprio mulino mettendo in cattiva luce l’Eleatico, ma soprattutto spiega le cose dal proprio punto di vista: non siamo perciò certi che l’argomentazione di Zenone fosse proprio quella.
  30. Per Wallace la prima crisi è stata quella della scoperta dei rapporti incommensurabili, o se preferite degli irrazionali; la terza è quella dovuta ai teoremi di indecidibilità di Gödel. Mentre sulla prima crisi non ci sono dubbi, la seconda a mio parere giunge più di un secolo dopo, perché prima nessuno si preoccupava dello status precario degli infinitesimi, tranne Berkeley che più che altro filosofeggiava e prima di lui Hobbes che di matematica non ne capiva nulla. Per quanto riguarda la terza crisi, come si dice su Facebook “it’s complicated”: Gödel ha semplicemente mostrato che la matematica non può fondarsi su sé stessa perché in un certo senso è troppo ricca, ma i veri problemi sono precedenti e sono legati al non essere riusciti a trovare un insieme di assiomi di base che sembrino naturali ma le cui derivazioni rispecchino allo stesso tempo il mondo come noi lo immaginiamo. Un esempio classico è l’assioma della scelta: se accettiamo di poter sempre scegliere un elemento da ciascuno di un’infinità di insiemi, allora dobbiamo accettare di poter dividere una sfera in cinque parti secondo una certa regola, spostare queste parti come nel gioco delle tre carte, e ottenere due sfere identiche alla prima. Non c’è via di scampo.
  31. Tra i tanti detrattori c’è stato anche Rudy Rucker, matematico ma anche scrittore (e che ovviamente ha scritto anch’egli un libro sull’infinito: La mente e l’infinito). Ci caschiamo tutti, insomma.