Un romanzo/XXIV
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XXIV.
Il signor Prospero che era andato a Nizza per ristabilirsi tornò indietro peggio di prima.
Appena giunto a Milano dovette mettersi in letto; Giulia lo aveva trovato a mal partito, le sregolatezze del nipote lo affliggevano assai e si lasciò persuadere a sborsargli la somma richiesta col solo patto che non gli comparisse mai più davanti agli occhi.
Olimpio aveva promesso di partire per l’Inghilterra — ma i denari dello zio erano già sfumati chè egli passeggiava ancora per le vie di Milano, fresco e sorridente, scherzando colla sua giannettina.
Il signor Prospero giurò di diseredarlo ma la morte lo sorprese prima che avesse potuto fare testamento — ed Olimpio, unico erede, raccolse un centinajo di mila lire che gli tornarono proprio a cappello.
Ordinò splendidi funerali, prese il lutto, e quindici giorni dopo lo si vide sul Corso biondo e pallido nel suo vestito nero — guidando con mano maestra dall’alto di un tilbury un bajo puro sangue.
Egli ebbe il successo più elegante di quella giornata e discendendo i bastioni verso Porta Venezia incrociò un coupé azzurro, dal fondo del quale due occhi neri lo saettarono.
Olimpio si morse le labbra, frustò il cavallo, che, sapendosi innocente, protestò rizzandosi sulle gambe posteriori, e spingendolo a corsa sfrenata si perdette nei bastioni solitari di Porta Vittoria.
Arrivato a casa sua — non abitava più le due camerette borghesi ma un grazioso appartamentino da scapolo — consegnò le redini al groom e si chiuse nella sua camera mormorando fra i denti:
— Ho deciso; ella sarà mia!
La sera di quel medesimo giorno nessuno lo vide nè al teatro, nè al club. Chiuso in un modesto pastrano, col cappello basso e guanti scuri, s’era avviato alla povera osteria dove Roberto compiva da anni ed anni il suo magro desinare.
Olimpio era così fatto che i più rapidi passaggi lo lasciavano insensibile. Dissi altrove che egli si trovava sempre bene dovunque, purchè facesse a modo suo. Entrò con passo sicuro e coll’aria di un uomo che è abituato a sedersi tutti i giorni davanti ad un tovagliolo di cotone gustando con serena compiacenza una porzione di trippe all’aglio.
Roberto in un angolo bujo finiva di mangiare una zuppa che era il principio e la fine di tutti i suoi pranzi. Egli era bensì disposto a fare dei debiti — ma per lei — quanto a sè viveva come un anacoreta, risparmiando un piatto per offrirle un mazzo di fiori. Esultò vedendo l’amico e lo accolse con ambedue le mani tese:
— Che miracolo in questi luoghi! come stai?
Olimpio strinse quelle mani — e non un fremito lo scosse — non una piega increspò la sua fronte — nessuna voce dalla coscienza gli gridò: arrestati, Giuda!
Il cuore leale di Roberto si commosse a tutte le sventure cui gli piacque tessere in ben ordinata fiaba. Convenne di avere dei torti, ma si disse realmente pentito e deciso a mutar regime.
Narrò, col fazzoletto sugli occhi, la perdita dello zio Prospero e dell’eredità fatta distribuì le parti con tanta saggezza che l’amico pensò: «È uno sventato ma ha buon cuore.» E a voce alta:
— Quanto è diversa la mia fortuna dalla tua!
Olimpio che era venuto all’osteria senza un piano tracciato, nell’intento solo di tastare il terreno per improvvisarvi poi qualche bricconata delle sue, osservò in Roberto una tristezza insolita, un abbattimento poco in armonia colla sua parte di amante fortunato.
— Ti lagni a torto, disse con affettuosa semplicità. Che cosa sono i beni della fortuna posti a confronto della felicità del cuore! pur troppo esperimentai, a mio mal costo, che fuori dell’amore vero e profondo tutto il resto è vanità.
Roberto taceva. Olimpio continuò:
— Un cuore che ci comprende è il tesoro favoleggiato dai poeti — per mio conto non ebbi mai occasione di convertirmi a questa fede — ma tu...
Roberto tirò un gran sospiro.
— Ma tu!... — insistette Olimpio.
Roberto si cacciò le mani nei capelli.
— Ebbene? Si direbbe che hai una smentita dietro la lingua. È forse finito tutto?
— No — interruppe freddamente il giovane innamorato — se tutto fosse finito, come tu dici, in quel tutto bisognerebbe comprendere anche la mia vita!
— Diavolo! fece Olimpio mordendosi i baffi.
— No, ella mi ama; ma, o che io sono un pazzo egoista o che il mio cuore non è fatto per accontentarsi di mezze passioni. Sacrificai per quella donna libertà, avvenire, speranze di gloria — il mondo mi è diventato indifferente; lo vedo come un punto nero attraverso la sua luce — io sono tutto per lei, ella... ella non è tutta per me! L’anima sua vaga di novità e di moto, spazia in sfere lontane dove io non posso seguirla; il suo cuore, più grande del mio, contiene un focolare di scintille — io non ho che una scintilla sola — e ardo solamente per lei.
Olimpio ascoltava con molto raccoglimento; la sua faccia impassibile non tradiva l’altalena di pensieri che si succedevano nella sua mente; nessuno si sarebbe accorto che un progetto vi era nato e che andava mano mano sviluppandosi dietro le parole di Roberto.
— Te l’ho pur sempre detto che queste teorie sentimentali in pratica non vanno. Amare come ami tu è una sciocchezza — ma darlo a divedere poi sono due. Se tu volessi seguire i miei consigli vedresti che la donna è un incidente nella vita, come i fiori nel regno della natura, come le farfalle nel mondo animale.
E poichè Roberto scuoteva il capo da destra a sinistra, Olimpio soggiunse:
— Non pretendo convertirti, sta tranquillo; vo’ essere conciliante, anzi vo’ ammettere che l’amore inteso fortemente abbia il suo lato buono, ma concedimi qualcosa anche tu; ammetti che la donna è debole, è vana, è civetta per istinto. Non protesti? bene — è quasi una conferma. Aggiungerò che i suoi pensieri sono mobili e cangianti; quello che le piace oggi domani le verrà a noja; la monotonia la stanca, la varietà l’attira, e noi, suoi adoratori perpetui, dobbiamo, per piacerle, mutar faccia come Giove.
— Non mi pare molto facile.
— Eppure la cosa mi è sempre riuscita.
Noto questa asserzione come una delle pochissime veritiere uscite dalla bocca di Olimpio.
— Se non mi inganno (è sempre lui che parla), i tuoi amori si trovano in un periodo di noja; tu sei troppo assiduo, troppo zelante — alla lunga la costanza è un fardello.
— Concludi!
— Eh! non farmi quegli occhi da spiritato — la conclusione ti piacerà. Non si tratta che di dipingere a nuovo questo vecchio Cupido che conta già sei mesi di vita e che incomincia a perdere le ali. Si cala la tela per qualche giorno, e a lavoro compito l’idolo non è più riconoscibile. Dovresti aver pratica di queste metamorfosi.
Roberto sorrideva malinconico.
— E chi farà il miracolo?
— Il tempo. Una settimana di lontananza, meno quattro giorni — un po’ di curiosità, l’incertezza, il timore, il dispetto — poi la gioja di rivederti.... e tutto il resto.
— Pazzo! disse Roberto sorridendo ancora, ma senza malinconia.
— Vedrai, vedrai, non ce rimedio migliore. Un po’ di dieta per voi due è indispensabile — le hai dato una indigestione d’amore, poverina! Ella non desidera che un momento di tregua per tornare da capo.
— Ma io non mi sento la forza di subire giorno per giorno questo sacrifizio.
— Lo sapevo, e sono tanto fortunato da poterti offrire un mezzo di facilitazione.
— Vuoi farmi partire?
— Precisamente.
— Ma dopo due ore ritornerò!
— Tu non ritornerai perchè sulla tua coscienza d’amico peserà un obbligo da compiere.
— Diventi misterioso.
— Sciolgo subito il mistero. Ecco. Rammenti la sciocca avventura che mi fece abbandonare il podere? Non è la sola che io ebbi colà, dove, oltre i rancori, lasciai dei debiti. La morte dello zio mi mette in grado di cancellare e questi e quelli; ma mi secca presentarmi in un paese dove ebbi tante contrarietà, dove la mia memoria è avversa ai più, dove correrei rischio di riaccendere vecchie contese. Vuoi fare le mie parti? Vuoi essere l’incaricato di assopire in un’opera buona i miei falli e le mie colpe?
La proposta tentava l’animo cavalleresco di Roberto — quando non vi fossero stati altri motivi egli avrebbe accettato per la gratitudine che lo legava all’amico.
— Non ti lascio più finchè t’ho visto partire; saresti capace di farmi qualche corbelleria e mandare in fumo il mio savio progetto.
Così disse Olimpio prendendo il pittore sottobraccio ed uscendo insieme dall’osteria.
— Ti ringrazio — sarò uomo e questa volta l’orgoglio d’uomo avrà il sopravvento. Partirò senza dirle nulla; vedremo come mi accoglierà al ritorno.
Olimpio non si tenne sicuro. Per tutta la sera passeggiò a fianco di Roberto facendosi l’eco fedele de’ suoi sfoghi amorosi e descrivendogli a colori così vivi l’esito di quella breve eclissi che il pittore, credulo e per natura e per lo stato esaltato del suo cuore, rifabbricò castelli di rose sulle spine di quella passione morente.