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XVI XVIII
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XVII.


Come aveva detto l’oste, la notte era stupenda — chiara e biancheggiante per il riflesso della via lattea che attraversava la vôlta celeste cingendola d’una grande zona cosparsa di stelle.

Olimpio camminava tranquillo a guisa d’uomo che nulla lascia dietro a sè e cui nulla aspetta.

Pensava, è vero, che partendo da casa aveva lasciato Max legato alla catena e che quell’imbecille di giardiniere non si sarebbe ricordato di scioglierlo, senza di che il bravo animale non voleva coricarsi — ma pazienza! Forse Giulia ci avrà pensato.

Messo da parte anche questo pensiero, egli si godeva la bella notte, fumando un profumato sigaro e facendo, colla destra, mulinello del bastone.

Improvvisamente gli si affacciarono due uomini addossati a un muricciuolo che girava intorno al cimitero del villaggio. [p. 143 modifica]

Olimpio che costeggiava la strada si piantò nel mezzo: quei due si mossero.

— Chi va là? domandò senz’ombra di alterazione nella voce.

Nessuna risposta; ma uno degli sconosciuti fece un balzo e lo afferrò alla gola, intanto che l’altro tentava sorprenderlo di dietro. Olimpio non glie ne lasciò il tempo, perchè liberatosi dal primo lo gettò violentemente per terra e con una rapida mossa si pose in guardia rotando maestrevolmente la canna.

Il secondo aggressore non mostrava molta voglia di arrischiarsi, ma l’altro trascinandosi carpone toccava quasi una gamba d’Olimpio che fieramente atteggiato aveva una posa degna dell’Antinoo greco. Il suo occhio attento vide l’insidia, indietreggiò un passo e assestando un colpo sulla testa del disgraziato, lo rese immobile.

Era il povero Rocco.

Pietro, sbigottito, levò il piede alla fuga, e Olimpio che forte e audace detestava i vili, lo raggiunse e lo conciò così bene per le feste da toglierli per sempre il grillo di fare il paladino.

Poi calmo, sereno, zuffolando un’arietta proseguì la sua strada, lagnandosi solo che quell’incidente gli avesse fatto perdere l’eccellente sigaro che stava fumando.

A Giulia, che lo aspettava malinconica, non disse [p. 144 modifica] nulla dell’accaduto; scambiò con lei alcune parole indifferenti, scese in corte a visitare Max e da ultimo andò a coricarsi colla coscienza tranquilla di un uomo che ha impiegata bene la sua giornata.

Ma quella faccenda dell’aggressione fece molto rumore. Rocco fu portato a casa svenuto, nè per una settimana potè lasciare il letto.

Le ciarle correndo di bocca in bocca arrivarono anche all’orecchio di Giulia ed ella, prima vittima delle sregolatezze d’Olimpio, dovette farsi superiore all’onta propria per lenire l’altrui. Accorse, suora doppiamente caritatevole, al capezzale di Rocco — e dove non bastarono le buone parole sacrificò di borsa. All’indomani del fatto, Olimpio con rara impudenza pavoneggiavasi sulla soglia dell’osteria.

Il paese era indignato — sorde voci di vendetta circolavano nei crocchi del giovani contadini; una lettera anonima lo ammoniva di non metter più piede nell’osteria della luna; Maria stessa, cui era caduta la benda dagli occhi, e che piangeva solitaria nella sua camera non osando mostrarsi in pubblico, gli fece dire di starsene lontano.

Olimpio sogghignava alzando le spalle.

Tra i due sposi non si scambiavano che le parole strettamente necessarie. Giulia riteneva di sua dignità il silenzio — e quale frutto avrebbe ricavato dai [p. 145 modifica] rimproveri? I lamenti della moglie non hanno mai convertito nessun marito; Giulia lo capiva per intuizione; d’altronde, convien dirlo, all’amore ardente e subitaneo che le aveva ispirato quel bellissimo fra gli uomini era subentrata, dopo tanti disinganni, una placida indifferenza, un affetto rassegnato cui sosteneva l’idea del dovere — null’altro.

Per fortuna il caso inviò una plausibile diversione a quell’esistenza che la virtù sola di Giulia rendeva tollerabile.

Un mattino di domenica, colla ferrovia che passava a pochi chilometri dal podere, giunse inaspettato e direi quasi dimenticato l’amico Roberto.

Giulia era sola in casa e lo accolse con quel piacere che si prova sempre rivedendo una persona cara, a maggior ragione se l’isolamento o le disgrazie hanno fatto desiderare un cuore fido in cui espandersi. Roberto notò il di lei pallore, l’aria malinconica, il pianto recentemente asciugato e colla confidenza d’un’amicizia sincera insistè per conoscere la verità.

Giulia non la disse tutta. Combattuta fra l’angoscia e il ritegno parte svelò, parte lasciò indovinare, parte nascose.

Dal complesso, Roberto potè formarsi un’idea di quell’infelice matrimonio — e buono, amoroso com’era struggevasi nel vedere mancargli sotto agli occhi [p. 146 modifica] l’eccelso piedistallo, sul quale aveva collocato Olimpio. Tuttavia volle illudersi, accagionarne la spensieratezza, la gioventù, l’occasione.

Giulia crollava mestamente la testa.

Allora Roberto fece una proposta. Per chetare un po’ gli animi, per distogliere Olimpio dalle abitudini contratte e gettare possibilmente il velo dell’oblio sul passato, imaginò di condurre seco l’amico. Alcune settimane di lontananza avrebbero rimediate molte cose.

Giulia approvò l’offerta, persuasa che suo marito non vi avrebbe posto ostacolo. Lavori in quella stagione non ve n’era — ed era poi giusto che Olimpio andasse anche a fare una visita allo zio Prospero — tutto sommato il progetto parve ragionevolissimo e conveniente.

Il pittore disse che lo avrebbe allogato nel suo studio — che ciò non gli recava nessun incomodo — anzi ne approfitterebbe per modello.

Si rise un po’ — superficialmente, perchè Giulia era triste e Roberto distratto — finchè venne Olimpio.

Le dimostrazioni furono grandi da una parte e dall’altra. Roberto finse di essere venuto apposta per condurlo via, che la solitudine gli pesava e sempre aveva in mente l’amico (verissimo per altro). Olimpio non si fece pregare e la sera di quel medesimo giorno partirono. [p. 147 modifica]

Giulia restò più che mai sola.

Era la fine di gennaio, spirava un vento rigido e la neve circondava come gelido deserto la vecchia casa spopolata.

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Che cosa aveva fatto Roberto dal giorno in cui lo abbiamo lasciato alla ricerca del coupé azzurro?

Il povero giovane visse non so quanti giorni come un pazzo. Le nature appassionate come la sua — poche fortunatamente — comprenderanno quell’orgasmo di un primo amore, ardente, irresistibile, nato da uno sguardo — meno ancora, da una fuggevole apparizione, quasi una larva — amore ideale, amore esaltato, amore da artista e da poeta!

Era un sogno — che importa? Egli vi metteva tutta l’anima — non è qui il caso di discutere se avesse ragione.

Quel misterioso coupé egli lo cercò dovunque — nelle vie più frequentate e nelle piazze solitarie — davanti alle porte dei teatri — davanti ai magazzini di mode — sempre, con costanza infaticabile.

Un giorno era stato chiamato in tutta fretta al capezzale di un ricchissimo moribondo cui la dolente famiglia voleva ritrarre l’espressione degli estremi momenti. Roberto era povero e quell’occasione forse unica in tutta la sua carriera, gli apriva liete prospettive per [p. 148 modifica] l’avvenire. Piena la mente di rosei disegni, attraversava il largo e squallido corso di porta *** quando vide fermo davanti a un palazzo il coupé azzurro, lucente, foderato di raso, coi cristalli che parevano brillanti, colle ruote piccole ed elastiche, col cavallo nero, col servitore immobile.

Il coupé era vuoto.

Certamente la signora era in visite dentro il palazzo e più certamente ancora ne sarebbe uscita.

Roberto non pensò ad altro. Rincantucciato sotto una porta aspettò — aspettò un’ora, lunga, eterna, co’ suoi quattro quarti simili a quattro secoli — finalmente dall’atrio di marmo uscì radiante la bella incognita — più bella che Roberto non l’avesse mai ideata — elegante, maestosa, altera. Salì nel coupé — per un istante i suoi occhi meravigliosi sfavillarono sul fondo di raso azzurro — poi il cavallo si mosse e il giovane innamorato sentì darsi un tuffo nel sangue come se una mano invisibile gli avesse strappato il cuore.

Al pari d’un insensato seguì a corsa la splendida visione; alcuni amici che lo videro saltare i lastricati lo credettero pazzo o ubbriaco — egli non vide nessuno. Arrivò ansante in una via solitaria — udì un fischio — si schiuse una porta — e il coupé descrivendo maestrevolmente un angolo retto, scomparve sotto le arcate di una vecchia casa signorile. [p. 149 modifica]

Roberto si appoggiò al muro dirimpetto sperando di vedere alla finestra la sua divina ammaliatrice; ma questa speranza non aveva senso comune. Una signora che torna a casa dopo il passeggio ha ben altro in mente che correre alla finestra — così fanno tutt’al più le ragazze di quindici anni quando un brillante ufficialetto le ha seguite per via.

Deluso nella sua aspettativa il povero pittore notò il numero della porta, quasi che la casa tutta non fosse stampata nella sua memoria — e ritornò meditabondo su’ suoi passi. Molto tardi gli sovvenne dell’impegno che aveva; così tardi che l’ammalato era già morto e la famiglia indignata aveva chiesto un altro artista onde ritrarre le sembianze del cadavere.

In circostanze ordinarie Roberto si sarebbe rammaricato per questo nuovo tiro che gli giuocava l’avversa fortuna — ma in quel momento egli era troppo felice — amore gli sorrideva e lo faceva ricco.