Un romanzo/VI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | V | VII | ► |
VI.
Cuore, cuore, eterna sfinge, chi potrà mai conoscere i tuoi mille labirinti? Chi arriverà mai a separare la tua scintilla dal tuo fango? il Dio da cui avesti principio e il verme a cui metterai fine?
E voi, palombari audaci della verità, che la inseguite nei visceri più nascosti dell’uomo, anatomici dalle mani sanguinose, dite, questo cuore che stringete in un pugno, che squarciate colla vostra lama sapiente, questo cuore, questo misero cuore ammalato di ipertrofia, v’ha esso mai rivelato i suoi misteri?
Odio, amore, i più nobili sentimenti, le passioni più vili, il redentore e l’assassino; tutto chiudi in te o infame cuore, o cuore sublime!
E come battevi tu nel petto di Olimpio in quella notte memorabile?
E come battevi nel seno vergineo della sua casta sposa addormentata?
Se Olimpio dormisse non lo so. Era già alto il sole, e Giulia svegliandosi di balzo girò lo sguardo rapido per la stanza, vide Olimpio, respirò pieno e largo come da dodici ore non aveva fatto, sorrise, lisciò i capelli, si avvicinò cheta cheta a contemplarlo. Così divinamente bello! con quella bocca semichiusa di corallo vivo, con quelle linee del volto così seducenti anche nell’immobilità del riposo, e le guancie pallide, e il leggiero cerchio azzurro sfumante sotto l’ombra delle palpebre, e i biondissimi capelli aerei, vaporosi, aureola di cherubino sulla testa di don Giovanni.
Lo guardava e ripensò alla cameretta del tutore, agli scacchi, alla sua vita di fanciulla: Dio che noja! Ripensò la chiesa parata a festa, i lumi, i fiori, l’abito, l’anellino.... eccolo al dito, lucido, brillante il suo anello di sposa: eccola felice, sì, aveva già dimenticato le pene, di quella notte, aveva perdonato ad Olimpio prima che Olimpio potesse scolparsi, non vi pensava più. Si scostò dal letto, girellò per la camera, toccò il cappello di lui, la cravatta che giaceva spiegazzata per terra, la distese colle sue manine e la pose sulla sedia, in vista.
Si rifece accanto al letto, si chinò un poco, accarezzò col dito, leggermente, una ciocca di quegli splendidi capelli...
— Ah!...
Egli l’aveva cinta con un braccio.
— Che paura!... credevo che dormissi!
Coll’altro braccio attirò la sua testina sul guanciale e la baciò.
— Mi perdoni, Giulia?
Era già fatto, e non ci vollero molte parole.
Lesti, spigliati, sorridenti, i due sposi uscirono verso mezzogiorno dalla loro camera. A vederli si diceva: che bella coppia! e come sono felici!
Il momentaneo ritorno della gioja diffondeva un soave rossore sulle guancie di Giulia.
Nello scendere le scale incontrò il cameriere a cui la sera prima aveva domandato conto di suo marito.
— Buon giorno, signori, egli disse nascondendo sotto la sua vecchia maschera un sorriso equivoco.
Giulia guardò da un’altra parte.
La mattina era bella e il sole splendeva sulla dorata cupola di S. Marco.
— Dove andiamo a far colazione? domandò Olimpio.
— Dove vuoi, mio amore.
— Ti condurrò da Bauer, troveremo le ostriche fresche.
Giulia era bellina, ma la bellezza di Olimpio faceva senso. Due o tee signore che mangiavano una frittura di scampi lo guardarono sorprese e invidiose.
Olimpio passò oltre. Un vecchio celibatario, in un angolo, leggeva Sior Tonin bonagrazia — sedettero accanto a lui. Egli non guardò nè l’uno nè l’altra e seguitò a leggere.
— Ho fame, disse Giulia ridendo.
— Brava, questo mi fa piacere; è segno che stai bene.
— Non sei come lord Byron tu che non poteva soffrire una donna a tavola.
— Lord Byron era inglese, e sotto quella latitudine avanzata del polo nord si ha l’abitudine di ubbriacarsi soli.
— Spero bene che da noi non vi sarà l’abitudine di ubbriacarsi in compagnia.
— Ubbriacarsi è una brutta parola, una parola inglese, ma la dolce ebbrezza di una bottiglia di Barolo...
— Uh!... vergogna — fece Giulia scherzando.
Ridevano, erano allegri; attaccarono vigorosamente le ostriche, e invece del Barolo, che a Venezia non si usa, fecero conoscenza con un delizioso vino di Conegliano, al quale Olimpio giurò di essere fedele per tutto il tempo che sarebbe stato a Venezia.
Altri avventori s’erano aggiunti ai primi; la sala era quasi piena; fumavano e ciarlavano tutti.
Una grassa signora di provincia, vestita in lilla con un nastro verde e un cappellino carico di rose, diceva a suo marito:
— Mio caro, sono venuta in città per vedere qualche cosa di nuovo, ma trovo tutto come al nostro paese.
— Parla piano, Zanze, tutti ti guardano.
— Mi guardano forse colle orecchie? Ma vedi un po’ questi piatti, somigliano come due goccie d acqua ai nostri; è questo coltello!... sta a vedere che non taglia.
— Più adagio, Zanze.
— Un buco nel tovagliolo!
— Hai il cappello di traverso, mi pare, disse il marito per cambiare discorso; e fu una trovata felicissima, poichè la grassa signora sollevò subito le sue braccia rosse cariche di braccialetti verso la piramide delle rose.
— A destra o a sinistra?
— A sinistra, così, lo hai tirato abbastanza; non ho ancora veduto in Venezia un cappello come il tuo.
— Lo credo bene; cosa hanno di bello queste veneziane? E un altro buco! Se Giovanna mi portasse in tavola un tovagliolo come questo....
— Piano, Zanze! piano.
Giulia si divertiva un mondo.
— Dobbiamo andare? disse Olimpio.
— Aspetta ancora un poco. C’è quella grassa signora sepolta sotto le rose, che mi fa l’effetto di essere a teatro quando si rappresenta una farsa tutta da ridere.
Olimpio accese un sigaretto.
In quel mentre un giovinetto bruno, con una faccia da spiritato entrò, lasciando sbattere l’uscio, e venne dritto dritto dal vecchio celibatario che leggeva Sior Tonin bonagrazia.
— Zio, zio, non sa nulla?
— Di che cosa? fece il vecchietto guardandosi attorno.
— È accaduto un fatto orribile.
— Oh!
— Dove?
— Quando?
Mezza dozzina di teste si avanzarono curiose; la grassa provinciale vestita di lilla tirò indietro la sedia per sentire meglio.
— Una tragedia! Figuratevi, mi trovavo nella mia bottega....
— Di grazia, dove è la sua bottega?
— Presso il Ponte dei Sospiri; e stavo mettendo fuori le mostre, era mattina affatto, quando un corri corri attira la mia attenzione, e vedo molta gente che seguiva un ufficiale di polizia.
— Scusi (è la provinciale che interrompe), era un bell’uomo grande, maestoso, sul fare di mio marito? domando così perchè ho un cugino alla polizia.... grande, maestoso, con una voglia di cioccolata sull’orecchio....
— Taci, Zanze, taci.
Qualcuno rideva, ma il giovinotto bruno s’impazientì, e volgendosi direttamente a suo zio, continuò:
— Non potevo abbandonare il negozio perchè Tofolo, il garzone, non era ancor giunto; ma dalle ciarle sorprese a volo potei argomentare che si trattava d’un omicidio.
— Nespole!
— E il resto! Soltanto adesso ho potuto andare alle informazioni, e sa cosa mi hanno detto? Quel vecchio signore cui ella, caro zio, ha appigionato il primo piano della sua casa...
— Al ponte... interruppe lo zio cominciando ad animarsi.
— Precisamente. Ebbene, pare che sua moglie gli facesse fare la figura che deve aver fatto Putifarre ai suoi tempi, perchè tornato a casa stanotte, e visto che la moglie era fuori, l’aspettò sulla soglia con un revolver in mano...
— Misericordia! esclamarono in coro tutte le signore presenti, compreso Giulia.
Olimpio non battè ciglio, ma un impercettibile pallore comparve sulle sue guancie.
— E l’ha uccisa?
— A bruciapelo.
— Ma è un orrore! (sempre in coro).
La provinciale che finalmente trovava in Venezia qualche cosa di nuovo domandò:
— È proprio morta?
— Subito.
E qui cento domande; ognuno voleva dire la sua; si smaniava di sapere i particolari, si cominciava già a inventarne. Le donne si affrettarono a chiedere se la disgraziata era giovane, bella, bionda o nera, se vestiva con eleganza.
— Io l’ho conosciuta, povera signora! esclamò il vecchietto, e fu subito circondato, interrogato.
— Quanti anni poteva avere?
— Diciotto anni al più; era bella come una madonna. Si chiamava Maria.
— E il marito vecchio?
— Sessantanni.
— È naturale... si capisce.
Ecc., ecc.
Olimpio pagò il conto. Era un importo di quindici lire, e pose sul banco un biglietto da due.
— Cosa fai? gli disse Giulia a bassa voce.
— Ah! è vero.
Si morse le labbra, cambiò il biglietto e uscì colla giovinetta sposa per le vie di Venezia.
Fu taciturno qualche tempo, evitò il ponte dei Sospiri; si disse stanco e tornarono all’albergo, ove si coricò e fece un sonnellino di due ore.
Quando si svegliò tutto era scomparso — rimembranze, tristezza, rimorso.
Passò il pettine d’avorio ne’ suoi capelli d’oro; arricciò con una mano i sottilissimi baffi, e posando un bacio sulla fronte di sua moglie disse:
— Andiamo a pranzo?
Cuore, cuore, eterna sfinge!