Un romanzo/IX
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IX.
Olimpio non amava sua moglie e non aveva mai amata nessuna donna.
L’amore, fior di virtù, era a lui ignoto.
Natura potente ma incompleta, poteva essere il genio del bene o il genio del male, se — e qui sta la mancanza — se non fosse stato assolutamente privo di sentimento.
I grandi delitti e le grandi virtù nascono da una sensibilità vigorosa. Si deve sentire molto per odiare come per amare. — Il cuore di Silla è grande come il cuore di Cesare — la sensibilità di Nerone eguaglia in peso specifico quella di Numa Pompilio.
Il buono e il cattivo si toccano; solo chi non è nè buono nè cattivo fa da sè.
Olimpio era solo nella sua indifferenza.
Ho detto che non aveva sentimento, e lo provo. Oltre il sentimento affettivo c’è il sentimento del bello, del giusto, del grandioso; c’è il sentimento dell’arte, il sentimento della gloria, il sentimento del proprio dovere — ed altri, e molti ancora, svariati, suddivisi che si confondono nella gran massa del cuore e del cervello.
Per Olimpio i comodi della vita erano superflui; dormiva egualmente bene nel suo letto morbido che sul nudo terreno; punto ghiotto — e che il paesaggio fosse di ridenti colline o di aride steppe, dolce o rigida la temperatura, non se ne curava. Fisico di bronzo, approfittava degli agi ma non li godeva; gli organismi malaticci che soffrono hanno potentemente sviluppata la fibra del piacere. Olimpio, che non conosceva dolore, era del pari straniero al vero ed intimo godimento. Piaceri raffinati dello spirito, piaceri dell’intelligenza, piaceri eziandio del gusto perfezionati dallo studio gli erano ignoti.
Superiore a qualunque uomo per la bellezza meravigliosa delle forme, si avvicinava nel poco sviluppo dei sensi agli animali d’ordine inferiore.
Cinico per natura, freddo per sangue, incapace d’uccidere un suo simile, e non curante di salvarlo.
Aveva fama di libertino — ma lo era poi veramente e nello stretto senso della parola? Ne dubito.
Le donne lo adoravano ed egli si lasciava adorare; pronunciava la frase sacramentale ti amo appunto perchè è una delle tante frasi fatte che non costano nulla e direi quasi, tanto usate, che non hanno valore alcuno, come gli augurii, come le condoglianze, come il buon giorno e il buon capo d’anno.
La voluttà egli la conosceva sotto forma di Venere terrena — Psiche non gli aveva rivelato i suoi misteri divini.
Dicevano che aveva buon cuore. Dio mio, che s’intende per ciò? Era ricco e spensierato, prodigo senza scelta e senza misura. Se il cavallo elegantemente bardato di un signore alla moda sdrucciolava, sul Corso, egli si prestava a cavarlo d’imbarazzo; ma se il cocchiere di un fiacre si lasciava prendere la mano, Olimpio bastonava uomo e cavallo.
Un punto, un punto solo brillava senza velo nella vita del mio eroe. Egli aveva un amico.
Povero, artista, sconosciuto; si chiamava Roberto.
Olimpio lo proteggeva, lo faceva lavorare, gli pagava molte volte i debiti; si divertiva a stare con lui ed erano sempre insieme.
Carattere totalmente opposto. Roberto era appassionato, avido d’ideale, poeta. Olimpio se ne faceva beffe.
Olimpio accettava tutte le donne; Roberto a ventott’anni cercava ancora la donna.
Eppure andavano d’accordo.
Roberto era pittore e lavorava con gusto, con amore; la fama bugiarda e capricciosa lo aveva accarezzato, una volta colle sue ali d’angelo; per un istante aveva creduto all’ebbrezza della gloria, per un istante il fuoco sacro che Prometeo rapì agli dei divampò nella fantasia sognatrice del giovane artista — ma fu un lampo, fu un sogno — aveva intraveduto un lembo di cielo e il cielo scomparve — e ripiombarono più fitte le tenebre, e la mediocrità l’involse, lo strinse il bisogno, caddero le ali, si spense la face.... addio gloria!
Fu allora che conobbe Olimpio e s’attaccò, lui debole e sfortunato a quell’atleta felice — il colosso di granito tollera che a’ suoi piedi la formica cerchi un ricovero.
Olimpio tollerò Roberto — vi si abituò — prese il vezzo di tenerselo al fianco — se lo fece amico. E gli diceva: Roberto! collo stesso accento di Max, il mio cane. Ma non serve; il povero pittore l’amò, compatì le sue durezze; la sua calma abituale mise in conto di bontà, la sua indifferenza prese per tolleranza e i suoi gusti scialaquatori per indizio d’animo generoso. Roberto parlava d’Olimpio come della provvidenza e — si capisce — questi discorsi equilibravano sufficentemente la sua fama di scapestrato.
Qualcuno diceva: Come marito sarà forse discutibile, ma in amicizia non v’ha chi l’eguagli.
E intanto egli continuava la sua esistenza sfrenata.
A casa vi andava soltanto per il pranzo. Mangiava un boccone in fretta, sedeva svogliato sul divano leggicchiando i giornali, poi li gettava via e accendeva lo sigaro.
— Mi accompagni questa sera a teatro? domandava Giulia colla sua più dolce vocina.
— Impossibile; ho un impegno.
— E il mio vestito nuovo?... e il palco che mi ha favorito la contessa A***?
— Ti manderò Roberto; fatti accompagnare da lui.
Giulia faceva una smorfietta, ma Olimpio non la guardava, e per troncare la quistione prendeva il suo cappello.
Giulia triste, malinconica avvilita si lasciava cadere nella sua poltroncina — mobile solitario e fido ove soleva passare quasi interi i suoi giorni.
Ma entrava Roberto, colmo il turibolo delle lodi d’Olimpio, e Giulia ricominciava a dubitare che il torto fosse suo; un marito cattivo le avrebbe proibito d’andare a teatro; mentre Olimpio, condiscendente, non potendo farle da cavaliere s’incaricava di procurarglielo.
In fondo la poveretta non si sentiva felice. Era libera, ricca, padrona di godere tutte le gioje che offre la società — superficialmente anche pareva amata — Olimpio la trattava con dolcezza, sfiorava distrattamente la sua fronte con un bacio, le stringeva la mano guardando altrove; ma Giulia incominciava a farsi donna — capiva quelle gradazioni sfumate di un affetto che costeggiava l’indifferenza.
Non accusava Olimpio, non si lagnava; pure un malessere sempre crescente s’impadronì del suo spirito.
— Eccoti all’isterismo! diceva Olimpio. Presto o tardi tutte le donne vi cascano.
Si annoja, ha bisogno di distrazioni — suggeriva qualcuno. Altri: soffre a non aver figli, una gravidanza le farebbe bene.
Il dottore le ordinò le pillole Blancard, le doccie fredde, l’acqua antisterica di S. Maria Novella.
Giulia si sottomise docilmente — ma dimagrava, e un pallore malinconico subentrò alle rose del suo fresco volto.
Si era in carnevale.
Olimpio presiedeva un club in via di formazione; stava assente quasi l’intera notte, giuocava, e per coprire i deficit della sua cassa pose mano a speculazioni arrischiate.
Una sera verso le undici si presentò a sua moglie. Era un po’ alterato e la voce gli tremava.
— Che hai, Olimpio, ti senti male?...
— No, no.
Sedette, le cinse con un braccio la vita — ella s’irrigidì, si trasse indietro e lo guardò fisso.
— Olimpio!
Balzò in piedi, fece qualche passo e tornò a lei.
— Senti — devi farmi un piacere.
— Fa d’uopo di tanto apparato? disse Giulia sorridendo. Parla.
— Ho bisogno della tua firma.
Giulia alzò le spalle.
— È tutto qui?
— Devo disporre di una somma un po’ forte, e senza il tuo consenso....
— Finisci subito, non voglio ascoltar altro.
Gli pose vezzosamente una mano sulla bocca e l’obbligò a tacere.
— Quando?
— Domani, se credi; condurrò qui il notajo....
— Basta, siamo intesi.
Olimpio restò tutta sera accanto a sua moglie. Giulia era in estasi.
Presero il the soli nell’angolo del caminetto acceso. Olimpio aperse il pianoforte e fece scorrere le sue dita nervose sui tasti sonori. Giulia cantò la romanza: Io t’amerò....
Scoccarono le due alla pendola dorata del salotto.
Giulia, colla testa sull’omero d’Olimpio, sorrideva. Egli chiuse il pianoforte e la baciò sulla bocca.