Un bel sogno/XX
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XX
L’inverno era trascorso. Ai geli della temperatura, alle nevi che coprivano la campagna, erano succeduti i zeffiri primaverili e le erbette. — Ov’era il ghiaccio, giù pei burroni ammantati di bianco, spuntavano timidette le viole schiudendo i loro profumati petali alle aure vivificanti. — Le colline avevano perduta la loro squallida apparenza, ed ai tiepidi raggi solari spingevano dal loro seno i primi sbucci del muschio che le rende sì belle.
Le nebbie della notte dileguavansi sul mattino, posando roride stille di rugiada sulle zolle fiorenti, gli alberi già si coronavano della loro verzura nascondendo gli stecchiti rami. — Eppure tanta dovizie di vegetazione, i primi saluti di natura che ritorna al sorriso, segnarono gli ultimi giorni dell’esistenza di Ermanno.
— A metà della primavera, fra il profumo dei fiori e le carezze dei zeffiri, il povero giovane esalava l’ultimo sospiro sulle labbra dell’infelice madre.
Fu una lunga agonia! Durante l’inverno stette a Brescia; nella primavera i medici gli consigliarono l’aria pura dei colli, epperciò fu ricondotto alla villa del conte. Ma tutte le cure e le sollecitudini furono vane!.... Un mese dopo, appunto in un bel mattino lieto e ridente, il povero Ermanno morì.....
Morì fra quei colli che l’avevano ospitato nei giorni di sua felicità. — Povera madre, egli diceva morendo, tu resterai sola, sola al mondo perchè io lo sento, non vivrò più a lungo..... E diffatti due giorni dopo, Ermanno non era più!....
Poco lungi dalla villa del conte, dopo il cammino di una mezz’ora si scorge non molto lontano un modesto cimitero, poetico sempre come tutti i cimiteri di villaggio, ove non vi ha lusso di monumenti, e la natura opera a suo capriccio..... Vi si giunge per una stradicciuola che scende dolcemente; dintorno tutto è bello; da una parte il lago e le colline, dall’altra i monti. — La costruzione di quel sacro luogo è di una semplicità elementare; tutto consiste in una cinta di rozza muraglia.
L’entrata è chiusa da un cancello di ferro; nel mezzo del campo si erge una gran croce di legno che sembra il trono della morte; indi attorno, fra l’erba che cresce confusa, spuntano molte croci, talune portanti ghirlande appassite. —
Eppure tutto è bello là dentro. Quella semplicità parla al cuore, e sembra che quei morti riposino sotto la protezione della gran croce che s’innalza fra loro. — Accanto al cimitero havvi una chiesuola col campanile quasi in rovina; una piccola campana appare fra quelle macerie; è dessa che chiama i pietosi popolani del dintorno, allorquando qualche anima passa da questa all’altra vita. —
Verso sera di un bel giorno di Maggio, una donna vestita a bruno, col dolore più profondo scritto sul volto, si avviava alla volta del campo santo; assorta nè suoi pensieri, procedeva cogli occhi a terra asciugandosi talvolta una lagrima; giunta al cancello l’aprì, ed entrò nel recinto. — In fondo, all’ombra di un salice, l’unico che vi fosse colà, eravi una croce nuova piantata nella terra smossa di recente; appiè di quella croce la donna cadde in ginocchio, e pianse a dirotto.
Da tre giorni Ermanno riposava là sotterra!....
Era un’incantevole dimora degna al tutto dell’artista che ebbe al mondo vita affannata e tempestosa; là, sotto le povere zolle quel cuore straziato aveva forse trovata la sua pace.
Ermanno non era più! Il soffio di morte spense la sua debole esistenza. Il cuore più nobile, il dolore più grande, il genio più sublime, si compendiavano in quella povera croce che sovrastava mestamente al tumulo. — Ermanno non era più! La sua vita fu breve come lampo..... Passò e sparve, lasciando dietro di sè una traccia luminosa. —
Egli non era nato a tempo; l’anima sua precorse l’epoca a cui era destinata, epperciò la sua fase fu una tortura continua, un martirio straziante. Passò rapidamente la corruttela del mondo non ancora pervenuto a’ suoi alti destini; ovunque trovò seminata la perfidia, ovunque ebbe a soffrire disinganni. — Oppressa e sfinita quell’anima nobile, s’involò dalle nostre basse regioni per risalire al suo cielo d’onde erasi dipartita prematuramente, e nascose il corpo che la vestiva in un cimitero deserto e solitario; lo nascose allo sguardo dei profani, affinchè quel frale che non ebbe pace in vita non venisse insultato in morte!....
Ermanno morì lasciando nel più doloroso isolamento la povera madre sua che tanto lo amava. — Se è vero che le vicende di quaggiù sono governate da Dio, bisogna dire che la sapienza divina è talora inesplicabile! — A noi miseri mortali non è certamente dato di confutare e comprendere le sante leggi della creazione; ma bisogna dirlo, noi sortiamo dalla natura un carattere diametralmente opposto e ribelle alle disposizioni sui destini umani!
Quella povera donna aveva sperato che la sua vecchiaia venisse confortata dall’amore dell’unico figlio educato con tanto affetto; aveva sperato che egli le chiuderebbe gli occhi nell’estremo istante della vita; invece..... cosa straziante! toccava ad essa vecchia e cadente, di compiere sì doloroso ufficio sulla sua creatura.
Quel poco che le rimaneva d’avvenire doveva attaccarlo alle speranze d’una tomba. — Sola, abbandonata con un dolore inestinguibile che solo una madre può comprendere, quella sventurata doveva ancora vivere..... e vivere forse per anni ed anni, fra una moltitudine che le era indifferente. — Vivere della memoria del suo Ermanno estinto!
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— Per di qua, per di qua, gridava un ragazzino precedendo una comitiva di cittadini giù del pendio. — Ecco la chiesa, essa è là sicuramente, aggiunse additando la chiesuola del cimitero.
— Va bene, rispose un signore elegantemente vestito, — va abbasso e bada ai cavalli; e volgendosi agli altri sclamò: da brave signorine si diano coraggio. E tu poltrone ajutale. Questa rampogna era diretta ad un altro giovane di aspetto distinto che dava il braccio a due giovani donne. Una era vispa ed allegra, e durante tutta la salita, non aveva fatto altro che chiaccherare..... e l’altra, sebbene pure giovanissima, aveva un’aria più grave, e col suo pallore dava segni d’interna sofferenza. — Era infine Laura. Il giovane che le dava il braccio era suo cugino Alfredo; negli altri il lettore avrà già riconosciuto Paolo e Letizia; tutti buoni amici di Ermanno.
Laura da qualche mese si chiamava madama Salviani; ma in vederla sembrava che le gioie del matrimonio valessero poco a consolarla. —
Paolo seppe subito della ricaduta di Ermanno, la notificò a Laura che ne ebbe grave rimorso. — Al momento di partire per la campagna secondo il consiglio de’ medici, Ermanno ne fece avvisato l’amico.
D’allora in poi non vi fu più scambio di novelle, per cui Paolo decise di recarsi in Brescia e passare alla villa del conte, onde saperne qualche cosa. — Nessune nuove, buone nuove, pensava egli, tuttavia volle assicurarsene.
Giunto a Brescia, trovò facilmente un compagno in Alfredo. Laura in quei giorni era appunto in casa dello zio, e parte per desiderio di rivedere colui che aveva amato..... e che forse amava ancora; parte per tentare una riconciliazione che la coscienza le imponeva, decise di unirsi essa pure con Letizia alla gita di Paolo.
Partirono dunque in carrozza, il pittore faceva da auriga, ed in brev’ora giunsero ai piedi del colle per cui si sale alla villa del conte. — Discesero e presero la salita. Nessuno si trovava alla villa, ed un ragazzino richiesto da Paolo, disse che madama Alvise era andata alla chiesa.
Paolo persuaso che Ermanno fosse colla madre non chiese altro, e si fece guidare sul luogo.
— Faremo una bella sorpresa ad Ermanno, sclamò egli entrando per il primo nella chiesuola. Ma subito dopo ne uscì dicendo: non c’è anima viva..... Eppure quel ragazzo assicurò d’averla vista.
— Sarà nel giardino, osservò Alfredo.
— Dov’è questo giardino?
— Eccolo qui.
— È un cimitero, non ne vedi la croce.
— Allora sarà un cimitero..... entriamo.
— No, no signor Paolo, sclamò Laura, io non vado volontieri in questi luoghi, mi attristano troppo..... piuttosto ripassiamo alla villa del conte.
— C’è un cancello, disse Alfredo, si può vedere senza entrarvi; in così dire si liberò dal braccio delle due donne appressandosi all’entrata del recinto. —
In quel mentre una donna vestita a bruno, comparve fra le sbarre del cancello, l’aperse, e senza nemmeno alzare lo sguardo sugli astanti, s’incamminò via.
Un senso di terrore gelò le fibre d’ognuno; Paolo, Alfredo e Letizia, riconobbero in quell’infelice la madre di Ermanno; Laura non la conosceva di persona, ma fu pur colta dalla stessa pietà, ed il di lei cuore provò una stretta dolorosa, perchè su quel volto addolorato, vi trovò una rassomiglianza che le fece tutto palese. — Le gramaglie ond’era vestita suscitarono un dubbio crudele nell’animo di tutti, e Paolo con passo incerto, senza poter profferir parola, mosse incontro a quella donna, e l’arrestò per il braccio.
Ella si volse, lo guardò in volto, mandò un grido di sorpresa che scoppiò in un singulto, e si nascose il volto fra le mani.
Gli altri si avvicinarono, ma nessuno osò turbare lo sfogo di quel dolore; tutti avevano le lagrime agli occhi.
— Per pietà di voi signora! sclamò finalmente Paolo, diteci, diteci qualche cosa.... che è avvenuto?
— Mio figlio.... il mio Ermanno, non è più!
Queste parole dette con tanto strazio caddero come colpi di pugnale sull’anima di Laura, che non ebbe più freno al pianto.
— Oh! Paolo, aggiunse la madre fra i singhiozzi, se tu sapessi quanto ha sofferto quel povero angelo!... certamente egli è in cielo, perchè mio Dio, non si può morire così senza premio!.... ora è là, riprese additando il salice, è là che dorme la mia creatura, è là mio buon Paolo il tuo amico.... tuo fratello. Ed io non sono morta di dolore! Il cielo m’infligge di vivere in tanta desolazione peggiore di morte. — Sono tre giorni appena che il mio Ermanno è morto; tre giorni che il suo corpo sottile e consumato riposa là, sotto quel salice!....
Nessuno sapeva trovare una parola di conforto. — Letizia e Laura si erano abbracciate piangendo; Paolo ed Alfredo si facevano forza, ma le lagrime scaturivano dai loro occhi. — Era un quadro straziante oltre ogni dire. Già da alcuni istanti, tutti serbavano un assoluto silenzio, nessuno aveva più parole; quando quella povera madre interruppe coll’accento un po’ più rassegnato:
— Ho una lettera per te Paolo, ed un’altra che non so a chi sia diretta, eccola; e trasse dal seno due lettere una delle quali portava scritto — per lei — e più sotto: consegnarla a Paolo. — Le ho trovate nel suo tavolo, fu anzi egli stesso che mi disse di mandartele.... povero figlio mio! Tu farai recapitare quella lettera a chi tocca... non dirmi chi sia colei, non voglio aver alcuno da maledire; non dirmi chi essa sia, non voglio conoscerla. — Nel consegnarle questa sua ultima lettera, le dirai che io le perdono tutto il male che ella fece a quello sventurato..... le dirai che all’ultimo suo sospiro si frammischiò col nome di sua madre quello di un’altra donna... certamente il suo. — Le dirai infine che io pregherò Iddio affinchè risparmii a lei l’espiazione del male, che fece a noi.... non uno de’ suoi dolori, non una delle mie lacrime le cadano sulla coscienza, giacchè ne avrebbe un eterno rimorso!
Ora vieni Paolo.... vieni a vedere la tomba di mio figlio; a mandargli l’ultimo saluto, tu che l’amavi tanto!....
Paolo si lasciò condurre macchinalmente, gli altri lo seguirono.
Giunti presso il cancello la madre di Ermanno si fermò ad un tratto. — Ella osservò che dal collo di Laura pendeva una medaglietta sfuggita di sotto al velo della giovine sposa che si era scomposto nell’abbracciare Letizia. — La povera madre ravvisò quella medaglietta, e la verità le brillò d’un lampo alla mente; ma fece forza a sè stessa e tacque; però mentre gli altri erano già entrati nel recinto e Laura si preparava a seguirli, ella la prese ruvidamente per il braccio sclamando:
— No signorina..... voi non potete entrare; e la respinse con sdegno.
Laura cadde in ginocchio, si celò il volto fra le mani, e stette immobile finchè gli altri ritornarono. — Ella aveva pregato!
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Ultima lettera di Ermanno a Laura.
«Permettimi o Laura che colla stessa famigliarità di altra volta, colla stessa confidenza rivolga a te le mie parole; saranno le ultime, e per dirti tutto quello che mi viene dal cuore, ho bisogno di richiamarmi alla mente i giorni più felici del mio passato; per dirti l’animo mio ho duopo di credere che tu sii sempre qual prima l’angelo delle mie speranze.
«Non aspettarti amare rampogne. — In questi momenti supremi, sento che io non appartengo più alla terra; sono tranquillo, calmo e sorridente come nei primi anni di giovinezza, allorchè il mondo mi appariva come un giardino di fiori.
«Fra pochi giorni, io non sarò più! Sento che la mia vita volge al suo termine, e quando tu leggerai queste pagine, il mio corpo poserà sotterra. — Ascolta adunque o Laura le ultime parole, l’ultima preghiera di un moribondo che negli ultimi istanti di sua esistenza ti manda un tenero saluto.
«Al punto di separarmi da questo mondo, e dare l’addio estremo alle cose sue, mi sento in obbligo di sciogliere la tua coscienza da qualsiasi rimorso, e far sì, che tu possa liberamente rivolgere a me i tuoi pensieri, senza che nessun ostacolo mi contenda quelle poche reminiscenze che tu serberai del tuo Ermanno.
«Se lo rammenti, io fui sventurato profeta del mio avvenire: l’amor tuo era cosa troppo grande per me, perchè potesse a lungo appartenermi. La felicità suprema, trae seco per legge di natura sui destini umani una sequela di sacrifizii, e quel po’ di bene che l’uomo incontra in vita, deve pagarlo a prezzo di dolore. — Il triste vaticinio si avverò, e dal momento che le più ridevoli speranze presero possesso nel mio cuore, venne a colpirmi il disinganno più amaro.
«Non a te Laura io volgo lamentanza; se alcuno si può cagionare della mia disgrazia, è questi il destino di cui tu fosti innocente esecutrice. — Non a te, povera fanciulla, tocca la taccia di avermi aperta una tomba; io soccombo al male che già rapì di vita il padre mio. — Può darsi che alcune circostanze mi abbiano tratto immaturamente a sì dolorosa catastrofe, può darsi che alcuni avvenimenti abbiano affrettato il termine della mia esistenza; ma di ciò non debbo incolpare che me stesso.
«D’altronde, credi tu Laura che tanto mi spaventi l’idea di morire?... Da lungo tempo mi sono rassegnato al duro passo, e mi ricordo che sino dalla prima giovinezza presentiva che la mia vita sarebbe stata breve. — Se è tale il mio destino, si compia; piego il capo ai voleri supremi; ma prima di lasciare questa terra, prima che il mio cuore abbia cessato di battere, voglio svelarti che se di qualche bene mi sorrise la vita, ne debbo a te gran parte, che le più belle speranze, le gioie più pure mi vennero da te. — Voglio dirti di quanto amore tu mi empiesti l’anima, e che nessuno più al mondo ti amerà quanto io ti ho amata.
«Il tuo affetto per me fece nascere nel mio cuore delle grandi cose, mi arrecò grandissimi conforti. — Or fa quasi un’anno che noi ci siamo incontrati per la prima volta, un’anno trascorso come sogno, e che fu tutto un sol sospiro. — Oh i bei giorni! me li vedo ancora apparire in lontananza lieti e sorridenti, ne risento ancora il loro passaggio!
«Laura mi abbandonò, ed essi con ella.... Ora sono solo desolato, stanco di tutto; ora non ho più nulla a desiderare, nulla a sperare....
«Vivere sarebbe per me di peso. Le memorie del passato non bastano per sè sole a confortare il presente, qualora la speranza cessi di sorridere: le reminiscenze dei dì felici aggravano vieppiù nella sventura.
«Abituato alle tenebre, mi trascinava sul cammino della vita un passo dietro l’altro; la via era forse più lunga, ma assai triste. — Volli veder la luce; era cosa troppo grande per me, ne rimasi abbagliato. Mi toccò la sorte della farfalla che corre anelante alla fiamma ove sciagurata, si brucia l’ale.
«Ma io non ignorava quale dovesse essere l’ultima scena del dramma. — Ti ricordi Laura della mia prima lettera?.... Profeta veridico io fui di tutte le mie vicende; tu mi amavi coll’entusiasmo dell’inesperienza, il primo barlume di ragione cacciò dal tuo cuore ogni memoria di me, e mi dimenticasti.
«Eppure, dopo tutto io mi serbava ancora una dolce speranza! — Oh! perchè Laura mia invece di ricorrere ad un pretesto, non trovasti il coraggio di confessarmi la verità? Perchè non dirmi che la prima fase del tuo cuore era compiuta?.... L’amante avrebbe ceduto il posto all’amico, e ti giuro che mai uno più fedele ne avresti trovato. Quanto rassegnato mi sarei se tu penetrata di pietà mi avessi stesa la mano confortandomi colla tua amicizia a sopportare il peso di tanta sciagura! — Tu sola avresti potuto operare questo miracolo.
«Ma nulla! Ecco ciò che mi amareggia; ti circondasti di una noncuranza opprimente, simulando la più barbara indifferenza col povero Ermanno, che pur tanto ti amava. — Fu una ben crudele prova quella che mi toccò subire! Non ti dirò tutte le mie torture, nè quanto straziante mi giungesse quella tua lettera scritta a Paolo. — Tentai una bassa vendetta in quella sera della tua fidanza, ma tu mi avrai già perdonato, perchè in quei terribili momenti io era fuor di senno.
«Ormai, lo ripeto, sono tranquillo; gli sconforti ed i disinganni della vita, le noje ed i disagi della malattia, hanno paralizzata la mia suscettibilità. Ormai ho rinunziato al più ridente sogno che mai mente umana abbia vagheggiato.
— Sai tu qual era questo sogno?.... Ora appena oso confessartelo; ora non temo più di offendere la tua verecondia svelandoti il secreto del mio cuore, perchè la mia morte troncherà qualunque suggestione.
«Fissando lo sguardo nel passato, veggo ancor da lontano quella bella speranza.... essa fugge, fugge nello spazio, e fra poco sparirà a’ miei sguardi; — Oh! di quanti secreti palpiti non ho io alimentato questo caro sogno! Al di là di tutte le gioie umane, io ne pregustava una sola, grande, immensa;.... quella di divenire un giorno tuo sposo. — Vedi che bella follia! eppure l’ho cullata nel mio cuore per molto tempo questa dolce lusinga, ho vissuto per essa.
«Tuo sposo! Ma havvi parola che riassuma maggiori felicità.... havvi idea più dolce, speranza più bella? — Oh! di quante cure saresti l’oggetto se tu fossi mia: vorrei circondarti de’ miei sospiri, avvolgerti nelle mie carezze; vorrei seminare una via di fiori sul tuo cammino, dividere le tue gioie, confortare i tuoi affanni, asciugare le tue lagrime. — Tu saresti felice, perchè io tanto farei, tanto ti amerei che non troveresti una spina sotto a’ tuoi passi, anche a costo di piantarmele tutte in cuore.
«Vorrei chiudere colle mie dita i tuoi begl’occhi al riposo, e riaprirli sul mattino co’ miei baci; vorrei sempre guardarti, bearmi ne’ tuoi sguardi; sempre vivere dell’amor tuo!.... Ma ciò non può essere, è destino che la vita scorra fra un’alternarsi di speranze e d’affanni. — Noi saremmo troppo felici, sempre felici, e la felicità duratura non è per i mortali; l’uomo si santifica sulla via del dolore; è quella la sua missione.... la sua scienza.
«Perchè non sei tu nata povera come me? perchè la sorte ti pose a tanta altezza sicchè io non possa mirarti senza arrossirne?.... Tu saresti stata la compagna di mia giovinezza, mia madre, la povera mia madre avrebbe benedetta in te una figlia. — Soli, lontani dal mondo, racchiusi nel nostro nido, avremmo trovata una felicità rara in terra.
«Sarebbe stato allora il mio compito di provvedere alla tua esistenza; avrei lavorato sino all’incredibile per procurarti tutti i comodi di una vita agiata. — Oh Laura, l’amore fa dei prodigi, ed io sento che con te sarei diventato grande. Qual dolce sogno, mio Dio! Perchè mai la mente può concepire una felicità che non può realizzarsi?
«Io ti avrei celata allo sguardo di tutti per conservarti mia, tutta mia per sempre. — Con un angelo come te al fianco, avrei sfidate tutte le avversità della sorte;.... ma che dico, poteva mai il soffio della sventura alitare sui nostri cuori uniti? Poteva colpirci affanno tanto grave da farci per un’istante dimenticare la nostra felicità?
«Laura, tu potrai cercare per tutto il mondo, ma non troverai un paradiso quale io l’ho sognato per te! Nè la turbolenza delle feste, ne il fasto, il lusso ed il sussidio delle ricchezze, potranno mai avvicinare quell’aureola di tutta gioia che avrebbe coronata la nostra unione.
«Vivere per te, amarti dell’amore degli angeli; ecco quale sarebbe stata la mia meta! e nelle recondite dolcezze del nostro santuario abbellito dal sorriso ineffabile d’un amore senza fine, noi avremmo provato che il cuore è il più ricco dei tesori, e che solo per esso si possono dimenticare le angustie dell’esistenza!....
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«Ecco il secreto che ora oso confidarti perchè sono sull’orlo della tomba; ecco il sogno che allegrò di qualche dolcezza la mia povera vita. — Dimmi tu Laura se si poteva più oltre spingere l’illusione; dimmi tu se non sono un povero pazzo!
«Ciò che è strano si è che ti scrivo colla dolce persuasione di avere una risposta: davvero che sarei molto ansioso di sapere quel che penserai dopo la lettura di queste pagine; e sono certo che tu mi perdoneresti di aver sollevato il velo di una speranza che sinora nascosi tanto gelosamente.... Ma io sarò morto allora, e la tua lettera giungerebbe troppo tardi!
«In queste ore supreme, mi attraversano la mente tutti gli episodj della vita; gli anni passati si schierano nella mia memoria... oh la triste corona! Ognuno d’essi porta l’impronta di illusioni svanite, di speranze deluse. I primi appariscono come pallide larve, e già si confondono nelle tenebre dell’oblio. — L’ultimo appena si presenta adorno di qualche conforto... Fu una lunga illusione, una lunga speranza, morta essa pure miseramente come tutte le altre!....
«Vivi felice, o Laura; è questo il voto più ardente dell’anima mia: possa tu ritrovare nella pace domestica, nell’amore del tuo sposo quelle gioie che io ho cercato invano. — Vivi felice, e quest’augurio si mescerà all’ultimo mio sospiro.
«Io non vedrò più i tuoi begl’occhi, non udrò più il suono della tua voce penetrante, non stringerò più la tua bella mano, ma tu ti ricorderai spesso di me, perchè lascio nel tuo cuore un tesoro di memorie.... fra qualche anno, allorchè l’affetto di madre vincerà quello di sposa, volgendo il pensiero al povero Ermanno, ti sentirai commossa.... rammentati allora per tua pace che io abbandono la terra perdonandoti.
«Un’altra preghiera. — Se mai ti accadesse di recarti in Brescia, vieni Laura, vieni fra questi colli a visitare la mia ultima dimora.... vieni a deporre un fiore sulla croce che segnerà il mio nome. —
«Ah! pur troppo non sarà incolta quella tomba! È riserbato alla mia povera madre lo straziante compito di vegliare al tumulo... mia madre, che mentre ti scrivo mi guarda cogli occhi lagrimosi. Essa mi legge sul volto l’amara sentenza del mio destino; mi vede lentamente morire, senza che le sue lacrime, le sue preghiere ritardino d’un istante il colpo fatale che la spingerà al sepolcro.
«Povera madre! Tanti anni di cure consumati a crescere un figlio che presto spirerà fra le sue braccia, lasciandola col triste retaggio di un dolore senza fine. — Io l’abbandono sola per tutto il resto di sua vita nella più straziante desolazione.... Ove volgerà i suoi passi per cercarmi questa misera creatura, allorchè sarò morto?.... Chi asciugherà le sue lagrime; chi le chiuderà gli occhi all’eterno riposo!
«Oh! faccia il cielo che ella trovi la forza per reggere a tanta sventura. — Povera madre! —
«Bisogna credere in fin di vita, bisogna credere nella Provvidenza divina; ed io spero che il martirio di questa donna avrà il suo premio. — Rassegnazione e confidenza nei decreti supremi!... Ora Laura, mio angelo..... addio! — Se una lacrima ti venisse sul ciglio a questo estremo saluto, pensa che io pure piango.... Ah! mi saranno care le tue lacrime.... piangi, piangi sulla sventura di colui che pur morendo sente di amarti ancora immensamente!
Ermanno.»