Tre donne/XIII
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CAPITOLO XIII.
Decomposizione.
L’estate torrida di quell’anno, l’afa che prostra le forze, i copiosi sudori, il nutrimento manchevole e il progredire della malattia, ridussero la Virginia tanto debole da non potersi muovere di camera. E poco andò che non le fu possibile neppure di levarsi.
I suoi rancori e le recriminazioni acquistarono nel medesimo tempo un carattere più acre ed insopportabile. Una vera ripugnanza si manifestò in lei per l’uomo che era stato il suo amante; e con la ripugnanza, non più interrotta da ritorni di passione, ingigantì l’odio sordamente covato. La decomposizione morale e fisica non si arrestò più.
E Pietro Rampoldi, l’ignaro testimone del tradimento e del lungo supplizio del traditore; l’uomo semplice, onesto, sano, incapace di sospettare il fratello e capace di resistere al veleno della tubercolosi; Pietro Rampoldi soggiacque rapidamente al contagio della decomposizione morale. In lui pure il cupo risentimento divenne odio; e quest’odio ebbe improvvisi aneliti di ferocia: bramiti di fiera che fiuta il sangue.
Le circostanze esteriori recarono la loro cieca contribuzione allo svolgimento funesto del terribile germe.
Se le Scaramelli fossero state lì sotto a’ suoi occhi, offrendo uno sfogo all’amara passione, forse Pietro non avrebbe odiato il fratello. La memoria dell’antica affezione, e la riconoscenza pei recenti quotidiani servigi, lo avrebbero forse fatto resistere all’attacco oscuro dell’assorbito veleno.
Ma nessun altro nemico si presentava; nessun capro espiatorio era là. E la sua esasperazione saliva, saliva fino a quel punto, ove non è possibile che un uomo rozzo, passionato, impotente contro le sventure che lo colpiscono, non sia trascinato a sfogarla su qualcheduno.
Anche nell’aspetto esteriore egli si mutava in modo rapido e doloroso.
L’alta statura, le spalle grosse, le gambe solidamente piantate, la faccia larga dalla folta barba, dalla fronte diritta, che una foresta di capelli ancora neri incorniciava severamente, tutti questi segni di salute e di forza deperivano giorno per giorno; e la robustezza generale degenerava in una incipiente obesità flaccida, stracca.
Una sera di luglio, dopo una giornata tra le più accascianti, nella camera bassa, sotto le tegole, calda come un forno, la Virginia aspettava ansiosamente una mano pietosa che la sollevasse su quel largo letto di piuma — grande ambizione dei contadini lombardi — dove il suo corpo in sudore, affondava penosamente come in una buca vischiosa.
Sandro, occupato per conto del padrone, non s’era fatto vedere in tutto il giorno.
Pietro rincalzava il formentone appena finito di zappare.
Le vicine, poco curanti della Virginia, si dicevano occupate in mille faccende.
Ella li avvolgeva tutti nel medesimo corruccio angoscioso; e a tutti imprecava.
— Maledetti! Perchè non crepano tutti?...
Perchè il sole non si decide a incendiare ogni cosa?...
Ma al parossismo seguiva l’abbattimento che la faceva rimanere immobile, senza pensiero, senza volontà, in un prolungato torpore.
Era distrutta adesso: un vero scheletro. Il viso, un tempo delicatamente ovale, appariva lungo e stretto con la bocca e gli occhi enormi. Pure, quegli occhi profondi di tisica, quei pomelli accesi, quella massa di capelli, quei denti bianchi, le davano ancora una singolare parvenza di bellezza.
Il sole cominciò finalmente, a nascondersi dietro alla solita fumana serale. Una brezzolina sottile volò via pei campi. Anche nella camera della malata penetrò il frescolino. Ma lei non ne ebbe sollievo; chè il sudore le si diacciò subito sulla pelle e un lungo brivido la scosse tutta.
Un passo greve fece scricchiolare la scaletta che dalla cucina metteva in camera per mezzo di una bòtola. La testa grossa e le spalle curve di Pietro apparvero quasi subito sopra il livello del pavimento.
Quando egli fu presso al letto, la Virginia che voleva rampognarlo, ammutolì vedendogli la faccia sconvolta, gli occhi gonfi di lagrime. La sua indifferenza di egoista e di malata, fu scossa da quella inesprimibile disperazione.
— Che hai? — mormorò.
Egli volle rispondere, ma non potè subito; e solo un gorgoglio confuso gli uscì dalla strozza. Si lasciò cadere su uno sgabellotto che era là accanto al letto, e stentamente, con voce sorda pronunciò queste poche parole:
— Il padrone mi ha fatto chiamare. Si ripiglia il podere!... Ha già fatto il contratto con Giovanni Cappella di Gu che ha due figliuoli grandi e quattro ragazze!...
E tacque, incapace di commentare un fatto così eloquente.
La Virginia restò un momento sbalordita; ma poi, con tetro cinismo, la sua voce quasi fischiante uscì in questa esclamazione:
— A san Martino io non ci sarò più!...
— L’ha detto anche a te? — si lasciò sfuggire Pietro.
— Chi?! Il dottore?! Dunque è vero?... Non ci sarò più?!...
E la sua testa, che pure aveva trovato l’energia di rialzarsi, quasi per isfuggire a quella mazzata brutale: la sua povera testa deformata dalla magrezza, ricadde sul guanciale pesantemente, come cosa morta.
Pietro, non intendendo che a metà, sentendo però l’orrore di quella situazione, rimaneva a bocca aperta, spaventato, intontito; le spalle curve, il mento sul petto, le mani penzoloni. Non poteva parlare, pensava a stento.
Annottava.
Nella piccola camera, che il largo letto matrimoniale, il canterano e una vecchia guardaroba occupavano quasi interamente, le ombre si addensavano.
Nella stanza accanto, abitata in addietro da Sandro e Maria, una giovine sposa, venuta da poco in Val Mis’cia, addormentava il suo primonato con una monotona canzone.
A poco a poco Pietro vedeva chiaro dentro di sè. Dallo sbigottimento opprimente, in cui l’avevano gettato quei due colpi improvvisi, si andava svolgendo distinta e terribile la coscienza della immane sventura che lo minacciava. Due separazioni, del pari strazianti per lui, lo attendevano: due perdite irreparabili: il grande podere, largamente fruttuoso, coltivato con tanto amore, e la bella donna, la brava massaia: ciò che egli aveva di più caro al mondo. Tra pochi mesi egli se ne sarebbe andato da quella casa che a lui sembrava bella perchè vi era entrato fanciullo coi suoi — una famiglia numerosa e gagliarda che sapeva difendersi dalla miseria — se ne sarebbe andato, chi sa dove; senza un soldo, indebitato e solo, senza quella donna, senza la sua Virginia!...
Pur non volendo, correva col pensiero al fratello, che l’aveva abbandonato, ed era quindi la colpa di tutto, secondo lui.
Un’altra volta la scaletta della bòtola scricchiolò. Un altro uomo saliva.
— Lui! — mormorò la Virginia scuotendosi. Lui! Il demonio della tua casa, povero Pietro!... Tutto rimescolato dal senso di quelle parole, e più dall’accento con cui la Virginia le aveva pronunciate, Pietro ebbe un sobbalzo, ma non disse parola.
Sandro entrò, come il solito, premuroso, e scusandosi dell’involontario ritardo.
Allora il fratello maggiore, scambiate appena le poche frasi indispensabili, si allontanò: doveva cambiar lo strame alle bestie e metter dell’altro fieno nelle mangiatoie, e approfittava di quel momento che la Virginia aveva compagnia.
Appena sola con l’amante, costei gridò singhiozzando:
— Vammi via!... Muoio... e tu sarai capace di vivere... Vammi via!... ti odio...