Tre croci/Capitolo XV
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XV.
Enrico, come della cambiale, seppe alla bettola che Niccolò era morto prima dell’alba. Era, ormai, stralinco; con le mani e le gambe gonfie; con la bocca livida; da cui non esciva più nessuna parola che non facesse sentire mia cattiveria quasi repugnante. Stava seduto, con un bicchiere di vino davanti. Si grattò i capelli sul collo, pieni di lendini, e disse:
— Comincio a credere che ci sia Dio! È morto prima di me, razza di un cane! Ha fatto di tutto per straziarmi; ma, questa volta, è partito prima lui! Ohè! Avete sentito quel che m’è stato detto? È morto quel farabutto di mio fratello! Ora voglio vedere stesa la sua moglie, quel pezzaccio di carnaccia e di grasso! E io non seguo quello scimunito di Giulio che, appeso al soffitto, scalciava per dare la benedizione con i piedi!
I suoi amici, da un bugigattolo buio e puzzolente, risero; e risposero, rifacendogli la voce un poco strascicata:
— Quando morirai tu, si piglia tutti la sbornia! Quel giorno, il nostro oste non ci metterà l’acqua. Credi di averci molto da campare?
— Che m’importa a me? Se fossi un signore come prima!
— Un signore non sei stato mai.
— Del resto, una volta, mi portavate tutti rispetto.
Allora, uno gli andò a versare una bottiglia d’acqua dentro il collo, mentre non se l’aspettava; perchè sollevava con una mano la tendina rossa della porta e teneva gli occhi ai vetri. Sbalzò dallo sgabello, scuotendosi:
— O non lo sapete che mi potete far morire da vero con la gotta come ho io? E non sono mica guarito dell’uremia nervosa e viscerale!
— Che ce ne importa a noi? Dici sempre la stessa tiritera!
— Io dico quei che ho, e non invento niente!
Ma, visto ch’era inutile arrabbiarsi o protestare, anche perchè non ci avrebbe ricavato nulla, si ributtò a sedere; e, voltando le spalle a quelli, si mise a discorrere con l’oste che stava con una mano appoggiata allo spigolo dell’uscio e la fronte sopra.
— Stamani il conte, quello che ha più corna che quattrini, non s’è vergognato, di mettermi in mano mezza lira sola! Gli ho tenuto dietro per tutta Siena, e gli ho detto che non avevo nè meno da mangiare! Se fossi un signore io, vorrei insegnare a quanti sono. Mi voglio metter a vendere le corna dei signori, per arricchire anch’io.
L’oste gli rispose:
— Sarebbe il mestiere più adatto per te!
Prima l’oste gli dava del lei, poi aveva fatto come tutti gli altri; ed Enrico aveva detto:
— Sì, sì; a farmi dare del tu mi piace.
Enrico, allora, gli fece una lunga spiegazione:
— Il carretto, come fanno tanti che vanno a prendere le valige alla stazione, io non lo tirerò mai; perchè non l’ho mai tirato. Mi dovrei mettere a fare il fabbro? E la forza dove l’ho? È inutile: quando si nasce con l’animo di signore, non si perde mai. Ci vuole altro!
— E a dormire dove vai?
— In una panchina della Lizza, sotto agli abeti. Ma comincio a starci male, perchè è freddo. Con la malattia che ho, reumatismo e gotta, mi scricchiolano le ossa e mi vengono certe nevralgie che mi fanno perdere i sensi. Mi dolgono tutte le ossa, e mi chiappa un malessere, indefinibile che non mi lascia addormentare. Non posso stare in nessun modo; e, anche se avessi una coperta, non potrei adoprarla, perchè addosso non sopporterei nulla. Basta anche toccarmi con un dito, per farmi saltare dallo spasimo. Perciò, scendo giù dalla panchina e mi metto a passeggiare; anche perchè il freddo mi faccia meno male e non mi sbatta i denti. Passeggio fin quasi a giorno; e, allora, potrei quasi addormentarmi; ma ci sono i giardinieri, che mi destano; e così non riposo mai.
— Ma non hai trovato nè meno un buco, una spelonca, che so io? Dove ficcarti per essere più riparato? O quando piove?
— Ho dormito, per quasi una settimana, in quelle grotte che sono giù per la strada di Pescaia. Ma ci venivano a fare all’amore; e, poi, la notte, due o tre giovinastri, vagabondi, che la insozzavano da non respirarci più dal puzzo. La mattina, a digiuno, mi sentivo quasi svenire. Alla Lizza, invece, sarebbe un luogo più sicuro e più pulito! Però, vorrei sapere perchè ti diverti a sentirmi squadernare queste delizie!
— Hai sempre la stessa boria: non c’è verso di fartela passare. Ora, vattene! Bada se raccapezzi qualche altro soldo! Vattene: se no, il passeggio dei signori finisce.
Enrico si alzò e chiese a quelli dentro il bugigattolo:
— Volete niente da me?
Quelli non risposero. Allora, egli ci si avvicinò.
— Vi ho chiesto se volete niente da me.
Uno gli disse:
— Tieni: piglia questa cicca. Se tu ne avessi parecchie, potresti levarti la fame!
Enrico se la mise in bocca, per biascicarla. Il suo vestito non ne poteva più e mancavano tutti i bottoni.
Non sapendo come arzigogolare il tempo, andò al cimitero. Ma il guardiano non lo voleva far passare; credendo che volesse portarsi via qualche cosa. Allora egli, risentito, con i suoi denti ancora intatti e bianchi, come quelli di un lupo, che gli si vedevano quand’era arrabbiato e gli s’arricciava la bocca, gli disse:
— Non mi riconosci? Pochi mesi fa son venuto a sotterrare quel mio fratello che si suicidò. Oggi vengo a veder sotterrare quell’altro fratello, che allora era con me.
— Come si chiama?
— Niccolò Gambi.
— È sotterrato. L’hanno portato già stamani.
— Dove l’hanno messo?
— Nel quadrilatero più vecchio, che ora per ordine del municipio si ributta all’aria. Quasi in fondo. La fossa si riconosce, perchè è la più fresca.
— Ho capito: vado!
Ma il guardiano, non rassicurato del tutto, gli disse:
— Aspettami un momento: ti ci porto io. Devo venire da quella parte per preparare un’altra fossa.
Cominciava a pioviscolare, ed era un’acqua così diaccia che faceva venire i brividi. Tutto il vecchio cimitero era stato scavato. Avevano addossato le lapidi al muro di cinta; e le croci erano tutte una catasta accanto a un cippo. I cipressi odoravano; come se la pioggia facesse escire i loro succhi. E gli uccelli saltellavano sul muro di cinta.
Il guardiano, per avvertire ch’era venuto, fischiò al becchino; e disse a Enrico:
— La fossa è quella.
— Sei proprio sicuro?
— Per una settimana almeno, me ne ricordo di tutte e sono sicuro di non sbagliare. Ora che cosa fai?
— Ho voluto vedere qual’è per tornarci con più agio.
Girandolò un poco attorno alla fossa, fin quasi a metterci un piede sopra; poi, tornò via.
Il guardiano gli tenne gli occhi dietro finchè non ebbe ripassato la cancellata. Enrico, allora, si ricordò di come il fratello l’aveva lasciato proprio in quel punto; e sentì stringersi i pugni: non gli pareva che già fosse morto!
Ma non si decideva ad entrare in città. Quella Porta è più stretta delle altre; e ci passano soltanto per andare al cimitero. Egli s’era soffermato, ma siccome la guardia daziaria, dall’apertura del suo casotto di legno, lo spiava per capire quel che voleva fare, entrò.
Alzando gli occhi a sinistra, vide l’Ospizio de’ Vecchi Impotenti: ce n’era uno vestito di nero, con una suora ritta accanto; e stava seduto sul muraglione alto, con il dorso verso la strada. Allora pensò che anch’egli, con la raccomandazione di qualche signore, avrebbe potuto farsi prendere con gli altri lì dentro.
Strascicava una gamba; e; per quel giorno, non aveva trovato ancora nè meno da spilluzzicare. Il vecchio stava lassù, tranquillo sotto una pergola; riparato dal vento e dall’acqua. Egli, invece, si sentiva male e non ne poteva più.
Ma a Modesta, che ora campicchiava con le trine e i ricami, pareva di far male a lasciarlo finire in quel modo; senza mai dirgli almeno una parola. Perciò andava quasi ad appostarlo dove indovinava ch’egli potesse passare. E siccome egli tirava di lungo, facendo finta di non averla guardata, ella aspettava un poco, tutta dritta; poi lo raggiungeva. Gli metteva nella mano ch’egli non apriva subito, qualche lira; e seguitando a camminargli di fianco, perchè egli non si voltava nè meno allora, gli diceva:
— Perchè, almeno, non ti converti a Dio? Anche il povero Niccolò è morto senza potersi confessare; e Giulio s’è ucciso. Forse, stanno male tutti e due; ora. Bisogna pensare alle loro anime.
Enrico faceva il viso cattivo; e si raggomitolava tutto; perch’ella non lo vedesse.
La donna proseguiva:
— Vai a farti aiutare dai canonici del Duomo. Fermali quando escono dal coro, la mattina. Tu non hai da compicciare niente in tutta la giornata!
Ella voleva che chiedesse l’elemosina ai canonici, perchè a poco a poco gli venisse l’idea di entrare in chiesa. Ma Enrico ai preti non voleva ricorrere; e le rispondeva con la voce velata:
— Ora basta! Vattene!
Modesta, prima di lasciarlo, gli chiedeva:
— Hai bisogno che ti lavi qualche fazzoletto, almeno? Vieni in casa nostra, a farti ricucire i calzoni: li hai troppo rotti.
Ma egli tirava di lungo; ed ella tornava a casa con la stessa tristezza, sebbene un poco sdebitata di coscienza.
Enrico non le dava ascolto, perchè non voleva che le bambine, vedendolo, si vergognassero di lui.
Quando le scorgeva di lontano, spariva; magari entrando dentro un uscio, finchè non fossero passate.
E, se era dentro la bettola, diceva agli amici:
— Quelle sono due angeli. Ho riguardo soltanto dei loro occhi innocenti, che non mi vedano così.
Aveva imparato tutti i luoghi più deserti e più sporchi di Siena. Soltanto a quelli ci si avvicinava sicuro; come quando andava a riposarsi in Via del Sole, sotto le case di Salicotto, e doveva stare attento che i cenci tesi alle finestre, legati alle forcelle di legno e i fili di ferro, non gli sgocciolassero addosso. E, poi, c’era caso che lo colpissero su la testa con qualche scarpa vecchia, attraventata giù, o magari con le bucce di pomodoro quando le donne ripulivano le pentole e i piatti. Buttavano via anche pezzi di vestiti logori; e i suoi occhi ci si fermavano sopra per ore intere.
Alla fine, dopo aver atteso per un altro mese, i primi di febbraio lo presero all’Ospizio di Mendicità. Egli avrebbe voluto rifiutare, perchè si vergognava; ma dovette cedere. Era sempre meglio di quando moriva di fame in qualche immondezzaio, e qualche cane randagio, con le costole sottili che tremolavano, andava a raspare nei mucchi della spazzatura e delle putrilagini; e trovava un osso; ed egli, allora, guardava il cane che mangiava, e gli veniva la saliva alla bocca.
Lo misero in un camerone, dove c’era un centinaio di letti e nessuno vuoto. Quando lo fecero lavare e gli dettero un vestito come avevano tutti gli altri, rossiccio e grosso, con un berretto filettato di turchino, si sentì avvilire.
I primi giorni, non poteva fare a meno di guardare fisso quel che gli altri mangiavano; e a lui pareva che la sua parte non bastasse.
Siccome era dei meno vecchi, lo mandarono nell’orto a raccattare le potature restate sotto gli olivi. Poi, con due compagni a portarle in un piazzale; dove erano le serre dei limoni.
Egli pensava sempre alle nipoti; e avrebbe voluto che le domeniche fossero andate a trovarlo. Ma esse non andavano, ancora; perchè non sapevano il suo desiderio; e passavano tutte le sere dinanzi all’Ospizio di Mendicità.
Una mattina, mentre raccattava le potature, disse a quelli con lui:
— Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io m’ero messo a lavorare.
Gli altri alzarono gli occhi da terra; e lo guardarono, senza rispondergli. Allora egli si spiegò:
— Anch’io io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero.
I più vecchi si misero ad ascoltarlo; e, per ascoltarlo, non lavoravano. Qualcuno cercò di sorridere e non ci riescì: smosse le labbra, come se ciancicasse. Egli proseguì:
— Sono mesi e mesi che non mi parlano più.
Ed egli pensava, senza osare di dirlo:
«Mi porterebbero una boccina di vino.»
Ma egli aveva patito troppo; e, una notte, preso da una nuova crisi di gotta, che gli aveva ormai infettato tutto il sangue, morì senza nè meno accorgersene.
La mattina era freddo come il marmo del refettorio.
Lola e Chiarina gli misero due mazzetti di fiori sul letto, uno a destra e uno a sinistra. C’era una sola candela; che, essendo di sego, si piegava per il calore della sua fiamma rossa come se avesse nello stoppino un poco di sangue morticcio.
Esse pregavano inginocchiate, con le mani congiunte vicino ai mazzetti di fiori, e, in mezzo a loro, il morto doventava sempre più buono.
Il giorno dopo, spaccarono il salvadanaio di coccio e fecero comprare da Modesta tre croci eguali; per metterle al Laterino.
FINE.