Tay-See

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L'ufficiale Josè Blancos

TAY-SEE


Tay-See, moglie del terribile Tay-Shung, era una giovanetta cocincinese sui diciassett'anni, tenuta per la più bella e la più gentile della vallata del Dong-Giang.

Era un fiorellino profumato, come dicevano nel loro pittoresco linguaggio gl'indigeni, al quale il soffio di Buddha aveva dato sembianze umane.

Snella, piccola anziché grande, delicata che si avrebbe detto l'esile gambo di giglio pronto a piegarsi al primo buffo dell'uragano, con una testolina più che ammirabile sormontata da una folta e nera capigliatura, metà raccolta a chignon con bande laterali, e una gran perla sulla fan duong trau1 e metà sciolta ondulante graziosamente sui nudi e nivei omeri; un visino incantevole dalla tinta quasi bianca, con due occhi che parevano stelle adombrate sempre da un velo melanconico, che faceva risaltar doppiamente la bellezza. Aggiungasi un nasino diritto che nulla aveva di cocincinese, folte e nere sopracciglia, due labbra piccine piccine che parevano strappar e cercar baci e che lasciavano veder denti che sembravano perle sboccianti fra rosso velluto, due mani fine, dalle unghie dipinte a rosso e due piedini da far invidia a una cinese, calzanti eleganti scarpini a punta ricurva.

Chi aveva mai veduto sorridere Tay-See, la profumata Rosa del Dong-Giang?

Nessuno potevasi vantare di aver veduto sorridere quest'ammirabile creatura, idolo di Bien-hoa, e lo stesso Tay-Shung potevalo contare sulle dita, se pur quelli erano realmente sorrisi. Taciturna, sempre malinconica, spesso tetra, Tay-See non sorrideva mai, ma se non sorrideva se la udiva cantare sotto i silenziosi boschi dei banani e sotto le profumate foreste dei thrai tham e dei thrai cam, dove ella amava tutta sola a passeggiare al calar del sole o allo spuntar dell'alba, canto sempre triste, sempre lamentevole che pareva il gorgheggiare del solitario francolino e che aveva un non so quale tono, che si avrebbe detto lo sfogo di un'anima addolorata languente, canto che i superstiziosi di Bien-hoa dicevano degli angeli di Buddha o di Ba-chua-ngoc che si trasfondevano nel corpo di Tay-See.

La udivano pur suonare sotto gli arcani e torreggianti boschi dei tek e dei calambuc, nel cuore della notte, quando maggior era la tenebria e maggiore il mistero, toccando con quelle manine da bimba le tre corde del tro siamese o trarre dalla chiarina certi suoni, che nessun pi dei dintorni sarebbe stato capace d'imitare, musica melanconica e triste come le canzoni e che tutti dicevano musica celeste.

Più volte al chiaro di luna, sulle incantate rive del Dong-Giang, era stata veduta, come una apparizione soprannaturale, ritta sulle rupi colle braccia incrociate, lo sguardo infuocato fisso al sud e le gote rigate d'ardenti lagrime; più volte allora che all'oriente appare la prima striscia di luce, che le stelle impallidiscono, che le tenebre lottano coll'alba, che l'upupa si tace, l'avevano veduta ritta sulle più alte cime dei colli, immobile come una statua, rapita in un'estasi e l'avevano udita singhiozzare.

Le più strane dicerie e le più barocche superstizioni attribuivano a questa strana giovanetta. Si diceva che nei boschi volava come fantasma sulle più alte sommità dei giganteschi cay-sao, i torreggianti tek ad abboccarsi cogli spiriti celesti, che proprio alla mezzanotte col suono del pi svegliava i defunti, e cento fiammelle, le anime dei trapassati, venivano a danzare a lei dintorno facendo udire i loro lamenti; o che si trasformava in un fiorellino dal dolce profumo che andava a mormorare colle erbette, o che si cangiasse in una lucente stella per abboccarsi con Buddha, e chi asseriva di averla veduta prima dell'alba diventar un vago uccello dalle brillanti penne che volava a posarsi sulle mani di un giovane di rara bellezza.

Tay-Shung udiva sempre queste dicerie sul conto della bella sua moglie, ma fingeva non farne caso, o almeno non ardiva comunicarle a Tay-See, persuaso pur egli che fosse una creatura misteriosa che si abboccasse con Buddha.

Sapeva pure che tutta sola a notte inoltrata, abbandonava la casa e il suo fianco per recarsi nelle misteriose foreste, ma lui, tigre in guerra, era schiavo di lei che amava alla follia e non ardiva opporsi paventando, è duopo dirlo, tanto è radicata la superstizione in quei popoli, qualche disgrazia da parte del dio. Che Tay-See amasse poi Tay-Shung, nessuno avrebbe potuto affermarlo.

Si mostrava rispettosa, sottomessa al suo signore, spesso fredda, più spesso fuggente la sua compagnia. Un abisso, e un profondo abisso, era indubitato che separasse i due cuori, un abisso che Tay-Shung cercava colmare colle tenerezze e che Tay-See lasciava approfondarsi invece, sempre più.

Tay-Shung l'aveva conosciuta due anni prima a Saigon dove lei viveva col padre, un rigido cocincinese dell'antica schiatta, avverso a tutto ciò che era straniero e uno dei più caldi patrioti, nemico giurato dei barbari d'occidente.

Tay-Shung, la prima volta che l'aveva veduta erasi innamorato fino a perdere quasi il senso, ma Tay-See non aveva corrisposto.

Si diceva che amasse un bianco, un maledetto, uno spagnolo e l'aveva rifiutato, rifiuto che pel terribile Tay-Shung fu un colpo da trarlo quasi all'orlo della tomba.

E infatti, la bella Tay-See, senza che suo padre lo sospettasse, amava con tutte le forze dell'anima un ufficiale addetto all'ambasciata spagnola, Josè Blancos che la riamava con egual passione e che aveva giurato di farla sua malgrado gl'insormontabili ostacoli che li dividevano.

Tale voce, a lungo andare, giunse agli orecchi del padre di lei, che fremè tutto d'ira al solo pensarlo ed ugualmente giurò che giammai si sarebbe fatta tale unione disonorevole per un cocincinese del suo stampo.

Invano la povera Tay-See si lasciò cadere di sfascio ai suoi piedi, invano pregò, pianse, supplicò, invano chiese mercé pel fidanzato bianco che sarebbe diventato cocincinese, invano disse che separarla, darla a un altro sarebbe stata la sua morte.

Tutto fu inutile e il rigido cocincinese, saputo che Tay-Shung ambiva la mano di lei, tenendosi altamente onorato di stringere parentela con un lanh-binch che aveva il nomignolo di terribile per le sue prodezze, gliela vendette.

Tay-Shung pagò cinquanta dinh vang o chiodi d'oro,2 e la sventurata Tay-See, tratta a forza sulle rive del Dong-Giang era stata sacrificata.

Credette morirne, ma non morì, perché Josè Blancos aveva giurato di rapirla dalle braccia del maledetto Tay-Shung.

Dimagrì, ammalò, appassì come un fiore trapiantato su altre terre e sotto altri climi, ma non inaridì del tutto, poiché la speranza della liberazione la inumidiva come benefica rugiada della notte.

Scavò un abisso fra sé e Tay-Shung al quale non perdonava più d'averla sacrificata, l'odiò nel più profondo del cuore, tacitamente ma tremendamente e finse rassegnarsi alla sua sorte.

Invano il terribile Tay-Shung cercava di colmare quell'abisso.

Sempre più innamorato di quel povero fiorellino che vedeva piegarsi sull'affranto gambo, la chiamava coi più dolci nomi, cercava con ogni sua possa farle dimenticare lo spagnolo.

La lasciava libera di vagare nei boschi, libera di rimpiangere il passato, libera di approfondarsi nelle sue lunghe malinconie e non ardiva strapparle del tutto quei ricordi che la struggevano.

Ogni parola di lei era per lui un comando, e giammai erasi veduto schiavo più sottomesso ai capricciosi voleri di una sultana. Le portava vezzi di perle e d'oro di cui amava tanto ornarsi; le cantava la canzone de' suoi monti, la circondava di mille cure, di mille attenzioni sempre pauroso che il vento abbattesse il delicato fiore; pensava dì e notte per sapere che potesse fare per renderla felice; mille volte felice, quando quelle mute labbra si schiudevano a un sorriso che per lui era la vita e che per lei era un sacrifizio, mille volte felice quando quei malinconici sguardi brillavano di tenerezza di un fugace lampo di gioia.

E così, in quell'angosciosa aspettativa di rivedere l'amato Josè, erano passate tante lune; due volte la stagione delle piogge era venuta ad inondare le fertili campagne a far crescere le erbe, due volte il gran cappero bianco e i rosai del Dong-Giang avevano fiorito, e due volte l'arsura avea disseccato le piantagioni e Josè non era venuto, non s'era fatto vedere, non aveva dato segno di vita!

La sventurata col tempo sentiva il succo vitale scorrere più lento, più lento, sentivasi sempre più appassire, andarsene la vita, aggrappata, sospesa sempre a quel magico e invisibile filo ch'era la speranza, e lottava, lottava disperatamente per vivere ancora, intristire, ma pur vivere.

Invano qualche volta, quando la speranza venivale meno, cercava rassegnarsi e lasciarsi morire, stanca di una lotta che la sfibrava atomo ad atomo, cercava dimenticare quel passato e cancellare ogni ricordo, sforzandosi credere l'amato Josè lontano, lontano assai, di credere che ormai l'avesse dimenticata, o che fosse morto. Sempre più intristiva, sempre più illanguidiva, ma il soffio della vitalità si manteneva ostinatamente nel fragile involucro né voleva lasciarla, e la speranza, un presentimento, che finiva per rianimarla, e una voce interna, misteriosa, inconcepibile, le diceva sempre che Josè sarebbe tornato, e non tornava mai, e le forze esauste cominciavano a lasciarla, e la poveretta che contava i mesi, che contava i giorni, le ore, i minuti, si sentiva alfine agli estremi, si sentiva morire, e morire senza averlo riveduto!...

Quando Tay-Shung la vide apparire alla porta dell'abitazione, scarna, pallida come se le nere ali della morte la avessero di già toccata, cogli occhi incavati, inariditi, sentì uno stringimento di cuore. Egli l'abbracciò delicatamente, la guardò con due occhi che più nulla avevano della ferocia consueta, e la strinse al cuore stampando un bacio sulle arse e disseccate labbra:

— Tay-See, mia bella Rosa del Dong-Giang! — esclamò egli teneramente continuando a baciare con frenesia lo smorto volto della giovanetta. — Lascia, mio povero fiorellino dal dolce profumo, che io ti contempli. La tua immagine divisa come quella di Ba-hao-ting3 mi accompagnò sempre sui campi di battaglia e mi pareva fossero passate cento lune da che ti avevo lasciato. Lascia ora, che io miri i tuoi occhi più lucenti delle più brillanti stelle, lascia ora che respiri il tuo profumo più olezzante di quello del calaminte. Tay-See! Lascia che io veda il tuo sorriso che mi da la vita, lascia che io ammiri le perle dei tuoi denti, lascia che io, il terribile Tay-Shung, ti dica che sono il tuo schiavo, che tu sei il mio dio, che io ti amo!

Tay-See rimase fredda fra le braccia del guerriero. L'espressione malinconica del suo volto si fece più profonda e mandò un sordo gemito.

— Tay-See, tu soffri, tu sei ammalata, il vento, il maledetto vento ha piegato il gambo della povera Rosa del Dong-Giang. Dimmi che posso fare per te, divina creatura, dimmi che dovrei fare per vederti felice. Sempre tetra, tu, Tay-See, sempre sofferente. Sai tu che mi strazi il cuore, sai tu che mi fai piangere nel vederti così! Sei tanto cangiata dal giorno che partii per questa malaugurata guerra. È sempre il vento del paese dei bianchi, che mi fa appassire il fiorellino del Dong-Giang. Maledetto vento, rugge sempre nel cuore di lei!

— Tay-Shung! — balbettò la giovanetta.

— Hai ragione, Tay-See. La collera sempre mi prende, e la gelosia mi rode sempre. Sono pazzo Tay-See a parlare così. Dimmi, stai forse male?

— No, mio ong (signore).

— Lascia l'ong, Tay-See. Non lo voglio più udire. Chiamami il tuo anh (fratello maggiore). Questo titolo è mille volte più dolce dell'altro. Vieni Tay-See, rientriamo che l'aria della notte non fa sempre bene ai fiori. Olà, Ca Bong, vieni a vuotare una zuppiera di nuoc neon, che la nostra Tay-See sa farla meglio di tutti i cucinieri di Tu-Duc, che Buddha lo guardi. Io credo che una tigre a digiuno da due lune non avrebbe più fame di noi. Vieni fiorellino mio.

Egli trasse a sé la giovanetta e sollevandola fra le braccia entrò nell'abitazione seguito dal luogotenente.

Si arrestò in una stanzuccia elegantemente arredata, circondata da strati di morbidissime stuoie alte tre palmi dal suolo dove solo sedevano i grandi del borgo e da predelle egualmente coperte di stuoie dove sedevano i personaggi di rango inferiore.

Nel mezzo vedevasi una tavola rotonda, stretta, alta quanto basta perché vi giunga il petto sedendosi a terra, verniciata a nero filettata di argento e ben scolpita, con sopra zuppiere, teiere, chicchere cinesi di porcellana di Ming color di cielo dopo la pioggia.

Negli angoli alcune eleganti sputacchiere, delle grandi scatole verniciate piene di trau da masticare; un assortimento di armi, uno di pipe cinesi di terracotta per fumare il ciandù cioè oppio, e alcuni amuleti indispensabili appesi alle pareti, come dei pezzi di huyen phach o ambra nera, una pelle di ranhò o serpente giallo e alcune ossa di cani gialli, kim-tnau-cu-u come le chiamano gl'indigeni.

Uno schiavo in un batter d'occhio allestì il pasto, semplicissimo del resto, non consistendo che in riso cotto all'acqua e ridotto in pasta, ch'è il principale nutrimento dei cocincinesi, di un po' di nuoc nam o salsa piccante, di qualche cay-ró-an-nam o cavolo cinese, e il tutto inaffiato con un sorso di spiritoso ruon-manch e di the diluito con acqua e senza zucchero.

Tay-Shung mentre si affaccendava a sbarazzare la tavola grandemente aiutato da Ca Bong che non perdeva boccone, gettava tratto tratto uno sguardo su Tay-See.

La giovanetta, sfinita, adagiata sulle stuoie pareva non s'accorgesse della presenza di lui, e come sempre sembrava immersa nei suoi tetri e dolorosi pensieri.

Non faceva un gesto, non diceva una parola tanto da crederla una morta. Solo tratto tratto, le si sollevava penosamente il seno sotto l'affannoso respiro.

— Guardala, Ca Bong — mormorò Tay-Shung al compagno. — È sempre la stessa.

— La vedo, Tay-Shung — rispose il luogotenente. — Il fiorellino inaridisce a poco a poco.

— Nulla pel povero Tay-Shung, sempre nulla, sono il maledetto, sono l'appestato!...

— E che vuoi farci? È nata così, morrà così. Buddha così ha voluto.

— È sempre il vento del paese dei bianchi che rugge nel suo cuore. Lo appassisce.

— Qual vento? Sempre il vento dei barbari?

— Sempre quello, sempre quello, Ca Bong! E non comprende quanto io l'ami, questa divina creatura. Eccomi qua, di ritorno dalla guerra, e non una parola, non una domanda. Tutti fanno festa ai superstiti nel borgo, tutti li abbracciano, tutti piangono d'allegrezza, e a me, al terribile Tay-Shung, nemmeno un sorriso. Mi sarei accontentato di questo e nemmeno questo mi è dato di vedere!... Ca Bong, perdo la speranza di farmi amare.

— Il tempo medica le piaghe e spegne le passioni. Aspetta, Tay-Shung.

— Ho paura che la morte abbia a spegnerla prima. Ho notato sul suo volto il pallore della morte, e tutto mi induce a credere che l'abbia di già sfiorata. Sai, Ca Bong, che quel giorno che si spegnerebbe la Rosa del Dong-Giang si spegnerebbe pure il terribile Tay-Shung.

— Ubbie da innamorato pazzo, Tay-Shung. Lascia i tetri pensieri, amico, e vedrai che la Rosa sarà più forte del gran cappero bianco. Tu vuoi vederla sorridere? Dov'è la catena dello spagnolo?

— Hai ragione, Ca Bong — disse il generale. — E sorriderà poi lei?

— In tal caso ne farai senza — disse filosoficamente Ca Bong. — E poi, so che ama le gioie giacché la vedo sempre adorna più che non fosse Cò-hanc,4 e te ne sarà riconoscente se non sorriderà, tanto più che domani il prigioniero combatterà la tigre. Portare una catena strappata a un comandante spagnolo, e sotto i forti di Kiloa, e da Tay-Shung, amico mio, è cosa da invidiarsi.

— Credi tu che verrà a vedere il supplizio del prigioniero? Ne dubito, Ca Bong.

— E chi mai non andrà a vedere un nemico della patria, uno degli invasori, un figlio della razza maledetta, che cade sotto gli artigli della tigre? Io credo che i moribondi domani si faranno portare al recinto, e non sarei sorpreso se i fuochi dei nostri defunti venissero a danzare sulla testa della belva a incoraggiarla.

— Tay-See non ha patria, Ca Bong — disse sordamente Tay-Shung. — I bianchi l'hanno ammaliata, e non sono più suoi nemici. Lo vedrai.

Egli trasse la catena gelosamente nascosta in petto, una magnifica catena tempestata a brillanti e di una forma particolare. Il lampo che mandò dinanzi alla lanterna attirò lo sguardo velato di Tay-See. Nel vederla, la giovanetta fremette e scattò in piedi come se una pila elettrica l'avesse tocca.

— È una catena spagnola! — esclamò con istrana voce.

— Oh! — fe' Tay-Shung. — Sì, è di uno spagnolo, di un gigante di sei piedi cui ho spaccato la testa fino al mento, per prendergli questa catena. È tua, Tay-See.

La giovanetta non si mosse. Guardava la collana come l'affascinasse.

— Che hai, mia bella Rosa?

— Dove sono gli spagnoli? — chiese Tay-See che tremava tutta. — Dove sono? Dove sono?...

— I maledetti erano assieme ai francesi all'assalto di Saigon. Come sai che la collana è spagnola?

— La conosco, è di Alvarado.

— Alvarado? Chi è questo Alvarado? Come conosci quest'uomo? Tay-See!

La giovanetta si scosse. Strappò quasi di mano a Tay-Shung la catena e la guardò fissamente.

— Era un amico di mio padre e di...

— Di chi? Di chi? — domandò con voce strozzata Tay-Shung.

— Del mandarino di Tuan-Keou — balbettò con supremo sforzo Tay-See.

Tay-Shung respirò. Il sospetto balenatogli in mente dileguossi come nebbia al sole.

— Ah! Tu conoscevi quest'uomo? Mi dispiace averlo spacciato, Tay-See. La collana di un morto porta fortuna, di più è il più bel gioiello che io abbia mai veduto, Tay-See, domani la porrai al tuo collo. Abbagliami tutte le donne che verranno al supplizio del prigioniero. Tu verrai a vedere il combattimento della tigre, non è vero?

— Il prigioniero! — esclamò come trasognata Tay-See. — Che prigioniero?

— Quello che abbiamo pescato sul Dong-Giang, uno di quei maledetti che ci diedero le botte laggiù e che venne a spiare i dintorni di Bien-hoa. Il birbo aveva fatto i conti senza i kemays che guardano qua e là le rive del fiume e che lo gettarono a far compagnia ai pesci. Stava per andarsene a trovare il suo dio, quando lo tirammo a bordo del nostro balon.

Una fiamma salì in volto a Tay-See. Guardò con occhi stralunati Tay-Shung.

— Era... era spagnolo? — chiese ella cercando dominarsi.

— No, era un francese — rispose Tay-Shung.

— Francese?... E combatterà la tigre?

— Sicuro, la combatterà.

— È un volerlo assassinare, Tay-Shung.

— E quanti dei nostri macellarono quei ladroni, in Saigon. È vendetta di Dio. Tu verrai a vederlo.

La giovinetta stette un momento sopra pensiero guardando Tay-Shung.

— Voglio vederlo — disse poscia. — Verrò.

— Basta così, mia bella Tay-See! — esclamò il generale. — Tu mi fai felice!

Le tenebre erano calate da un pezzo e l'ora fattasi tarda. La palla di rame traforata che serve d'orologio era andata quattro volte al fondo dopo il tramonto del sole e il gong della mezzanotte aveva battuto. Ognuno si ritirò nelle proprie stanze e Tay-See, giunta nella sua, arrestossi a lungo a guardare la collana e nel guardarla tremava e sentiva il succo vitale scorrerle con maggior forza nelle vene.

— È a Saigon! — esclamò ella. — È la catena del suo fido Alvarado —, e gli occhi mandarono un lampo e il cuore gli balzò nel petto e in quel momento si sentì rivivere, rinvigorirsi...

All'indomani i gong strepitavano da un capo all'altro della cittadella e le trombe e le chiarine squillavano in tutti i quartieri, annunciando il supplizio del prigioniero.

Tutta la popolazione, avida di sanguinosi spettacoli, si portava in massa al recinto destinato al combattimento, elevato la notte stessa all'estremità settentrionale di Bien-hoa.

Vecchi che mal si sostenevano, infermi, guerrieri, donne, persino i fanciulli, già dalle prime ore del mattino avevano preso d'assalto i dintorni.

Tay-See, dopo una notte agitata, al primo tocco del gong era di già in piedi vestita sfarzosamente come si conviene alla moglie di un generale e colla scintillante collana.

Si sentiva ardere, si sentiva assalita da una strana febbre, si sentiva spinta suo malgrado ad accorrere al recinto della dàn.

Quando comparve Tay-Shung decorato dei distintivi del suo grado era già pronta ed appoggiossi al suo braccio.

— Andiamo! Andiamo! — mormorò ella. — Voglio vedere la tigre.

Man mano che avvicinavasi al recinto sentiva le forze venirle meno e il cuore battere in tal guisa da credere che si volesse spezzare. Invano indagava la causa di quelle strane sensazioni, invano cercava di calmare la febbrile ansietà che la divorava. Quando vide il recinto e udì la popolazione urlare con quanta voce aveva in corpo contro il francese, un tremito la invase tutta e tale che Tay-Shung se ne accorse.

Egli la guardò e rimase sorpreso della pallidezza del suo volto.

— Staresti male, Tay-See? — chiese premurosamente egli.

— No, Tay-Shung — rispose ella con voce soffocata.

— Tu sei pallida come una morta.

— Non è nulla.

— Ma tu tremi, fiorellino mio.

— È un po' d'emozione e nulla più. Vieni, Tay-Shung, voglio vedere la tigre!

Erano giunti al recinto. Il generale fu accolto dai principali dignitari della cittadella e da una salva d'applausi, e poscia fu condotto al posto di onore sotto un baldacchino di seta adorno di fiori, dove campeggiavano le rose del Dong-Giang in omaggio a Tay-See.

Il fuan fu o capo della provincia e i mandarini si assisero loro d'intorno.

Tay-See si lasciò cadere sulla sedia anziché sedersi.

— Ah! Tu stai male, Tay-See — disse Tay-Shung con ispavento.

La giovinetta reagì contro quello strano malore e si sollevò.

— Fa' suonare il pi — diss'ella improvvisamente.

A un cenno di Tay-Shung il trombettiere suonò. Quasi nel medesimo istante una gran gabbia coperta s'aprì e una magnifica tigre balzò leggermente sull'arena del recinto.

La folla l'accolse con un frenetico battimani.

— Avanti!... Avanti!... — balbettò Tay-See.

Un secondo squillo echeggiò e il silenzio succedette ai clamori della folla.

Tay-See volse la testa a un piccolo padiglione guardato da guerrieri kemays e senza sapere il perché chiuse gli occhi.

Quando li riaprì il prigioniero era nell'arena, armato di una catana di fronte alla tigre che si preparava ad assalirlo.

Lo guardò, scattò in piedi, una nube le oscurò la vista, gettò un urlo disperato, straziante e cadde come fulminata fra le braccia di Tay-Shung.

Il prigioniero che stava per combattere la tigre era lo spagnolo Josè Blancos!


Note

  1. Fan duong trau. È la cima della capigliatura raccolta a chignon.
  2. Un chiodo d'oro o dinh vang equivale a 130 lire italiane.
  3. Una divinità della religione cocincinese rappresentante una donna.
  4. Deità delle donne cocincinesi.