Storia segreta/Capo XXVI

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Procopio di Cesarea - Storia Segreta (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
Capo XXVI
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CAPO XXVI.

Angherie del commercio. Dazii agli Stretti. Violenze nel porto di Costantinopoli. Abbassamento di valore delle monete nobili ne’ cambii plateali. Ruina de’ mercatanti, e de’ fabbricatori di robe di seta, prima con ingiusto prezzo del genere, poi con monopolio, e colla concentrazione nella capitale de’ lavori di seta.

Or vengo a dire come trattasse i mercatanti, i navigatori, gli artefici, i forensi, e con questi le altre classi del popolo.

Due Stretti sono a’ fianchi di Costantinopoli: uno nell’Ellesponto, ove stanno Sesto ed Abido; l’altro [p. 168 modifica]alle fauci dell’Eussino. Nello Stretto dell’Ellesponto non si permise mai alcun ordine di pubblicani, nè alcun banco di cambiatori, o prestatori. Fu colà dagl’Imperadori mandato un pretore, residente in Abido, officio del quale fosse vedere le merci e le armi, che senza licenza del Principe sulle navi si trasportassero a Costantinopoli, e chicchè fosse, il quale di là navigasse senza lettere o tessera del magistrato a ciò preposto. Nè poi era permesso partire con navi da Costantinopoli, senza licenza de’ ministri dipendenti dal maestro degli officii. Piccolissimo era il dazio, che esigevasi dai padroni di nave. Simile magistrato mandavasi all’altro Stretto colle stesse ispezioni; ed invigilava se merci si conducessero ai Barbari abitatori delle spaggie dell’Eussino, le quali fosse vietato di recare dalle città de’ Romani ai nemici. Il pretore a queste cose destinato non poteva dai naviganti farsi pagare veruna cosa. Non così fu dacchè Giustiniano salì al trono imperiale. Sull’uno e l’altro Stretto vennero messi pubblicani; e due pretori colà collocati con determinato soldo, perchè ogni attenzione ponessero a cavar denaro quanto potessero mai il più. Costoro, che non desideravano se non di rendersi accettissimi all’Imperadore, fecero pagar dazio per ogni qualunque merce a’ naviganti. Così fecesi pure all’altro Stretto.

Al porto poi di Costantinopoli prepose un certo Addeo, siro di nazione e suo famigliare, a cui ordinò di procurargli guadagno qualunque sulle navi mercantili che colà approdassero. Costui alle navi stanziate nel porto di quella capitale non permise di partirne, se non [p. 169 modifica]se costretti i padroni delle medesime od a pagare il nolo di esse, o a portare le merci in Africa, o in Italia. Per lo che alcuni non volendo più saperne di carichi e di navigazione, abbruciate le loro navi si liberarono da quelle angherie. Ma quelli che il bisogno obbligava a vivere di tale professione, vollero dai mercatanti per le condotte un prezzo tre volte maggiore; e i mercatanti per salvarsi dalle cresciute spese alzarono poi i prezzi con chi dovea comprare. Con queste diverse arti ecco come tutti finalmente i Romani vennero a patire. Ciò risguarda le negoziazioni.

Ma non credo di dovere omettere come questi Principi tesaurizzassero sulla piccola moneta. In addietro i nummularii pagavano per ogni statere d’oro dugento dieci oboli chiamati fole a chi voleva cambiare. I Principi vedendo di poter guadagnare, stabilirono di cambiare a cent’ottanta: con che vennero a rubare a tutti i sudditi il sesto della moneta d’oro.

Siccome poi aveano essi fatto monopolio di quasi tutte le merci con incredibile e cotidiano incomodo di chi avea a comprarne, salvo che di ciò che riguardava le cose di vestito, e gli emporii delle medesime; vennero a sottilizzare finalmente anche su di queste. Una volta i mercatanti di vestiti di seta, e gli artefici de’ medesimi, negoziavano gli uni, e gli altri aveano le loro officine in due città della Fenicia, Berito e Tiro, di dove le merci di tal genere diffondevansi poi per tutto il mondo. Ma sotto il regno di Giustiniano, avendo quelli presa stanza in Costantinopoli, e in varie altre città, alzarono i prezzi della merce, allegando che [p. 170 modifica]presso i Persiani ancora eransi alzati, e che cresciuti erano i dazii nello Stato dell’Imperio. Il che tutti capirono essere stata speculazione profonda di Giustiniano, dopo che videro da lui stabilito per legge che la seta si vendesse otto monete d’oro la libbra sotto pena della confiscazione de’ beni. La quale disposizione essendo paruta assurda ai negozianti, giacchè avendo essi pagate le merci a carissimo prezzo avrebbero dovuto venderle per pochissimo, preferirono di abbandonare la mercatura. Per lo che le merci che trovavansi avere, clandestinamente spacciarono a note persone, le quali amassero o di gittare il suo di tale maniera, o di avere presso di sè tal genere di roba, oppure per alcun’altra speculazione servirsene. Il che avendo Teodora udito andarsi susurrando nel pubblico, essa senza accertarne il fatto multò i mercatanti di cento libbre d’oro, ed in oltre portò loro via le merci.

Ora poi tutto l’opificio della seta nello Stato romano si è posto sotto l’ispezione del prefetto del tesoro imperiale: con che a Pietro Barsame, di quella carica investito ancora, s’accrebbe mezzo di ogni maggiore perversità. Costui costretti i fabbricatori a lavorare solamente per conto suo, tutti gli altri tenne sotto l’iniqua legge promulgata; ed intanto, non di nascosto, ma nel Foro pubblico fece vendere la seta d’altro colore tinta sei monete d’oro l’oncia; e la tinta col regio colore, detto olovero, la fece vendere l’oncia ventiquattro e più di quelle monete. Con che all’Imperadore grosse somme procurò, e a sè stesso segretamente altre assai grossissime. Ciò che fu preso a farsi allora, si [p. 171 modifica]continua a fare anche presentemente; nè più è permesso ad alcuno esercitare pubblicamente quell’arte. Laonde i negozianti sì in Costantinopoli, che nelle altre città, sentirono i danni di tale arte per terra e per mare sbandita; e tutto il popolo, che ne’ varii rami della medesima lavorava in Tiro, e in Berito, fu costretto a cercar la limosina, o a morirsi di fame. Una parte, abbandonato il paese si rifugiò in Persia: perciocchè, concentrato, come dissi, tutto il traffico di quel genere nel solo prefetto del tesoro imperiale, data del guadagno una parte all’Imperadore, l’altra maggiore ritenuta per sè, colla miseria pubblica venne ad accrescere le sue ricchezze. Ma di ciò basti.