Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. III)/Spiegazione dei rami

Carlo Fea

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SPIEGAZIONE

DELLE TAVOLE IN RAME

CONTENUTE NELL’OPERA.




Le contrasegnate coll’asterisco * erano nella traduzione milanese, di molte delle quali si sono rifatti i disegni.

TOMO I.

Rami sparsi nel corpo.

Frontispizio grande.


1. Il Destino sotto la figura d’una delle Parche è appoggiato su di un monumento, e tiene con una mano uno stilo, e l’altra alcune medaglie allusive a quelle, che furono occasione della morte di Winkelmann, come si è detto dagli Editori Viennesi nella loro prefazione pag. lvij. seg. L’idea morale si riferisce ai decreti impenetrabili della Providenza, giusta il proverbio, che l’uomo propone, e Dio dispone. La Verità sotto l’immagine del sole è coperta da un panno, e non lascia trapelare che pochi suoi raggi. Sul monumento vi è un sarcofago, o cenotafio col piccolo ritratto dell’Autore. Il fuso, e il gnomero di filo, che stanno sul plinto, alludono alla Parca, e al fine della vita dello stesso Winkelmann. L’invenzione è del signor Oefer amico di lui, nominato alla pag. xlvij.; e l’abbiamo tratta dalla Tavola premetta dal signor Huber alla sua traduzione francese.

Sul frontispizio dell’opera.


2. * Teste figurate in una gemma antica già del museo Stoschiano, ora di S. M. il re di Prussia, data da Winkelmann nel principio della lettera dedicatoria premessa, alla prima edizione tedesca, e nei Monumenti antichi inediti 1, ove [p. 418 modifica]spiega per Ulisse quella del più vecchio, l’altra per Diomede; e da altri si dicono Ulisse, e Telemaco, come nota il signor Huber nella spiegazione delle sue Tavole2. Ulisse ha il pileo nella forma solita darsegli dai pittori, al dire di s. Girolamo3, cioè di un globo diviso per metà, detto dai Greci, e dai Romani tiara, e da qualcuno anche galero. Nicomaco fu il primo a dipingerlo con tal berretta, secondo Plinio4.

3. Pag. j. Lettera iniziale col ritratto dell’Editore.

4. Pag. v. Moneta del re Antigono I., in cui Winkelmann nel Tom. I. pag. 294., e Tom. iI. pag. 261. trova nel rovescio Apollo sedente sulla prora d’una nave, e nel dritto l’immagine del dio Pane. Per questo io non so accordarmici, non avendo la testa verun carattere di Pane, come la corona di pino, le orecchie di Satiro, l’idea del volto satiresca, e le due cornette5. L’ellera è un simbolo di Bacco6: onde possiamo dire con più ragione, che la testa sia il ritratto dello stesso Antigono, di cui sappiamo da Erodiano7, essere stato solito affettare di comparire un Bacco, portando in vece del diadema una corona d’ellera, e in vece di scettro un tirso: Antigonus, quo Liberum per omnia repræsentaret, pro causia, & diademate macedonico hederam capiti circumdare, thyrsumque pro sceptro gestare est solitus. Hanno avuto simile gusto pazzo per le cose di Bacco il re Demetrio figlio d’Antigono, altri sovrani dell’Asia successori d’Alessandro il Grande, il triumviro M. Antonio, l’imperator Cajo, ed Eliogabalo, facendosi alcuni chiamare Bacco, Libero, e Dionisio, come osservò lo Spanhemio8. Potrebbe anche sospettarsi che Antigono avesse fatto mettere in quella medaglia la testa di Bacco barbata all’uso orientale, come diremo appresso.

5. Pag. xvij. * Ornato ideale.

6. Pag. xxij. * Sepolcro di Winkelmann immaginato dal signor d’Hancarville sul modello degli antichi colombarj. Si [p. 419 modifica]veda alla pagina xxj. E’ ricavato da una consimile figura in gran foglio premessa dallo stesso Hancarville al Tom. iI. della collezione del signor cav. Hamilton.

7. Pag. xxiij. Pezzo di ornato lavorato in legno nel coro de’ PP. Benedettini in Perugia sul disegno di Raffaello d’Urbino. Ci siamo riservati9 a questo luogo di riportare un pezzo di una lettera di Celio Calcagnini a Giacomo Zieglero10 stampata senza data alcuna, che può servire di supplemento a ciò, che scrisse il Vasari, e i suoi annotatori, di quel grand’uomo11, tacendone il più grande elogio, e narrando anche le di lui fatiche d’architettura per riedificare la città di Roma sull’antico suo sistema: Vir prædives, & Pontifici gratissimus Raphael Urbinas, juvenis summæ bonitatis, sed admirabilis ingerii. Hic magnis excellit virtutibus, facile pictorum omnium princeps, seu in theoricen, seu praxin inspicias. Architectus vero tanta industriæ, ut ea inveniat, ac perficiat, quæ solertissima ingenia fieri posse desperarunt. Prætermitto Vitruvium, quem ille non enarrat solum, sed certissimis rationibus aut defendit, aut accusat: tam lepide, ut omnis livor absit ab accusatione. Nunc vero opus admirabile, ac posteritati incredibile exequitur (nec mihi de basilica Vaticana, cujus architectura præfectus est, verba facienda puto) sed ipsam plane Urbem in antiquam faciem, & amplitudinem, ac symmetriam instauratam magna parte ostendit. Nam & montibus altissimis, & fundamentis profundissimis excavatis, reque ad scriptorum veterum descriptionem, ac rationem revocata, ita Leonem Pontificem, ita omneis Quirites in admirationem erexit, ut quasi cælitus demissum numeri ad æternam Urbem in pristinam majestatem reparandam omnes homines suspiciant. Quare tantum abest ut cristas erigat, ut multo magis se omnibus obvium, & familiarem ultro reddat, nullius admonitionem, aut colloquium refugiens: utpote quo nullus libentius sua commenta in dubium, ac disceptationem vocari gaudeat, docerique, ac docere vita præmium ducat.

8. Pag. lxj. * Testa di Winkelmann tratta dal gesso del di lui busto posto nella Rotonda, di cui si è parlato alla [p. 420 modifica]pag. lix. Ix., cogli attributi, che convengono a sì chiaro antiquario.

9. Pag. lxxxij. * Musa, che piange sulle ceneri di Winkelmann, disegnata fu di una pasta a bassorilievo, ideata dal sig. consigliere Reiffenstein, di cui si è detto alla pag. lix.

10. Pag. 1. * Bassorilievo su di un’ara tonda del museo Capitolino, in cui sono rappresentati Mercurio, Apollo, e Diana: lavoro di molta bellezza, che Winkelmann crede etrusco, ma da poter gareggiare coi greci lavori. Vedi pag. 183. e 203. L’essere scolpito in marmo greco salino può far credere piuttosto che sia lavoro greco, e per lo stile, greco antico. Vedi appresso al numero XVIII.

11. Pag. 19. * Corniola del museo Stoschiano rappresentante Prometeo, che riunisce le membra dell’uomo, che vuol formare, spiegata da Winkelmann nella descrizione di quel museo12.

12. Pag. 42. * Tazza, o bicchiere antico di vetro lavorato al torno, esistente presso il signor D. Carlo de’ marchesi Trivulsi in Milano. Vedasene la descrizione alla pag. 35. seg.

13. Pag. 59. Figura di sacerdote egiziano tratta da una breccia gialla del Museo Pio-Clementino, dell’altezza poco meno di un palmo. Vedi la pag. 96. in nota col. 1. Questo frammento è simile ad una statuetta sedente di basalte nero alta un palmo con geroglifici alla sedia, conservata nel museo Borgiano a Velletri. Nella mano destra pare, che quella tenga una fettuccia, o corda raddoppiata; all’altro dato non ben si capisce, parendo piuttosto un bastone, su cui appoggi il dito.

14. Pag. 60. Sfinge egiziana in bronzo lunga poco meno di un palmo e mezzo, ricavata dalla Raccolta d’Antichità del conte di Caylus13, il quale la crede della più remota antichità, e secondo lo stile grandioso di quella nazione. Dice che è tutta bella, fuorchè le braccia, che non corrispondono al resto. Si è qui portata, supponendola antica, principalmente per essere scritta sul corpo, e per avere le braccia umane. Vedi pag. 16. not. a., e pag. 95. n. a. A comprovare la prima [p. 421 modifica]proposizione, può recarsi un torso alto un palmo, e mezzo, in basalte nero, di lavoro troppo finito per crederlo anteriore ai Greci in Egitto, tutto scritto con geroglifici, conservato nei museo Borgiano a Velletri. Plutarco racconta nella vita di Pericle, che questi fece scrivere la risposta di un oracolo sul lato destro di un lupo di bronzo, sulla fronte del quale un’altra ne aveano incisa gli Spartani.

15. Pag. 76. Pezzo di pittura fatta sulle fasce d’una mummia egiziana, forse al tempo dei Greci, o anche dopo, in cui si rappresenta la funzione d’imbalsamare un cadavere. E’ presa dal P. Kirchero14, e se ne parla alla pag. 75. not. a., e pag. 96. not. b.

16. Pag. 77. Sfinge egiziana, che sta sulla punta dell’Obelisco del sole in Campo Marzo, particolare per la bellezza del lavoro straordinaria nelle opere egiziane; e per le mani disegnate a rovescio la delira per la sinistra, e viceversa. Nella sinistra tiene una piramide. Vedi alla pag. 95. not. a. In capo ha la cuffia, solita vedersi in tante altre figure; e sulla fronte si stende un serpe, che dagli Egiziani si teneva per il Genio buono, odia Agatodemone secondo l’espressione dei Greci, o per un simbolo di esso15.

17. Pag. 106. Statuetta egiziana, di quelle, che mettevano nei sepolcri, forse per immagini dei defonti. Ha dei geroglifici dietro alle spalle sulla veste; ed ha la perrucca, che gli Egiziani solevano mettere ai morti, come scrive Clemente Alessandrino; siccome anche i viventi nella morte di qualche congiunto si lasciavano crescere i capelli, che in altro tempo non portavano per niente, come pare, che possa anche intendersi Erodoto16. Vedi alla pag. 103. in nota col. 1.

18. Pag. 107. Bassorilievo di terracotta dipinto a vari colori. Rappresenta una Sfinge barbata, probabilmente di maniera greca. Se ne dà la descrizione alla pag. 94. not. a.

19. e 20. Pag. 116. seg. Canopo bellissimo in basalte verde nella villa Albani, dato già dal Borioni nella sua Raccolta d’Antichità, rappresentato in due aspetti. Vedi pag. 117.

[p. 422 modifica] 21. Pag. 119. * Imitazione dello stile egiziano fatta al tempo dei Romani. Ivi la figura intiera si crede rappresentare Iside, a cui l’altra figura muliebre in abito egiziano, che potrebbe essere una imperatrice romana, raccomanda il suo figliuolo. Se ne parla alla pag. 116. n. 1. Circa le frange dell’abito, le ali, che coprono le cosce, e i fianchi della dea, le triplicate trecce, che sembrano posticce, e il creduto fior di persea, se pure non sono corna di vacca17, con in mezzo il globo simbolo del sole, si veda l’Autore nei Monumenti antichi inediti18, ove ne dà la figura, e la detenzione. L’originale si è smarrito; e il disegno fu tratto da quello posseduto allora dall’emo Alessandro Albani.

22. Pag. 120. * Sfinge in marmo nero dello stile d’imitazione, colla cuffia in capo all’uso delle egiziane. L’originale è nella villa Albani. Vedasi alla pag. 94. n. a., e pag. 100. e 115.

23. Pag. 143. * Moneta d’argento creduta egiziana da Winkelmann, e dal sig. Lippert, seguiti prima, e poi confutati dal dottissimo espositore del Museo Pio-Clementino19; e attribuita a Crotone nella Magna Grecia da Pellerin. Vedi pag. 141. not. 1. Questo grande raccoglitore di medaglie nota, che già ne era stata pubblicata una consimile dal signor de Boze nelle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni di Parigi; e siccome quella data da lui, che era tanto attento nei suoi disegni, deve essere più esatta, noi l’abbiamo ripetuta nella Tav. XV. di quello Tomo, ove nella spiegazione a quel numero diremo il nostro sentimento intorno ad essa.

24. Pag. 144. Bassorilievo tondo incavato, che dal contedi Caylus si crede di lavoro persiano, e che rappresenti un sovrano di quella nazione in atto di ricevere tributi dai suoi sudditi. Vi si ha un’idea dei loro abiti. Vedi alla pag. 159. not. a.

25. Pag. 161. * Bellissima gemma del museo Stoschiano di stile etrusco, in cui Winkelmann crede di vedere Tideo, che si tragga una freccia dalla gamba. Ma vi si rappresenta [p. 423 modifica]questo eroe in atto di purificarli collo strigile per la morte data involontariamente al suo fratello Menalippo; e potrebbe essere una copia della famosa statua di Policleto rappresentante uno in atto di raschiarsi collo strigile. Vedi pag. 189. e 203. Ciò supposto dovrà spiegarsi, come un artefice etrusco abbia potuto copiare una statua greca. Si dovrà supporre un commercio d’idee, e di gusto relativamente alle belle arti fra quelle due nazioni, in maniera, che gli Etruschi siano stati trasportati per li capi d’opera dell’arte greca; e si dovrà anche supporre, che dessi abbiano continuato a scrivere colla stessa forma di lettere in tempi molto bassi; il che si accerta colla storia, e con monumenti quasi fino al principio dell’era volgare.

26. Pag. 162. * Corniola celebratissima in forma di scarabeo, del museo Stoschiano, ora presso il re di Prussia, in cui rappresentansi cinque dei sette eroi, che andarono contro Tebe, coi loro nomi in lingua etrusca. Vedi pag. 188. Secondo Palefato presso Giovanni Antiocheno, cognominato Malala20, furono cinque soli questi sovrani, che andarono in ajuto di Polinice: e sono Adrasto, Capaneo, Anfiarao, Partenopeo, e Ippomedonte.

27. Pag. 195. Moneta in bronzo di Hatri, o Adria, presa dal museo Borgiano a Velletri. Potrebbe appartenere all’Adria nel Piceno per l’iscrizione, che porta la lettera H sì fatta propria de’ Greci, anzichè degli Etruschi; e a quella città vengono attribuite più comunemente simili monete. L’idea della testa marcata nel dritto, la quale non rassomiglia a que’ bei volti, che veggonsi nelle medaglie della Magna Grecia, la farebbe credere etrusca, se noi non potessimo penaare, prescindendo anche da molte medaglie della Sicilia con teste forse più cattive, che quanto più i Greci d’Italia si allontanavano dalla Magna Grecia, tanto meno avessero perfezionate le arti. Ma io direi più probabilmente, che potesse appartenere a quella, o all’altra Adria stata anche greca, le quali ritenessero le monete degli Etruschi, o altri Itali; oppure viceversa, che ritornate etrusche ritenessero le lettere greche. E’ un [p. 424 modifica]poco corrosa nel contorno. Forse nel dritto vi manca un punto dalia parte corrosa, e farà stata un quincunce, ossia cinque parti dell’asse per il peso, e per il valore. Tali possono infatti dirsi quelle, che porta monsig. Guarnacci della stessa grandezza, e con que’ cinque punti. Nel rovescio vi è un vaso forse per simbolo dell’eccellenza dei vasi detti etruschi, lavorati anche in quelle città. Vedasi pag. 191. not. 1., e 213. not. b.

28. Pag. 206. * Corniola posseduta già dal sig. Cristiano Denh. Rappresenta Peleo padre d’Achille, che fa voto al fiume Sperchio in Tessaglia di consecrargli la chioma del figlio se salvo ritorna dalla guerra di Troja. La forma delle lettere, la maniera del lavoro, e l’essersi trovata, come le altre numerate, in Etruria la fanno credere opera d’artefice etrusco. Vedi pag. 189. e 203.

29. Pag. 207. * Pittura antica sopra di un vaso di quelli detti etruschi, ove si rappresenta Ercole venduto ad Onfale. E’ presa dalla collezione Hamiltoniana, e si descrive alla pag. 363. Ha la iscrizione in fondo, di cui meglio diremo appresso.

30. Pag. 238. * Pittura d’altro vaso dei detti etruschi, posseduto dal cav. Mengs, ed ora colla sua raccolta esistente nella biblioteca Vaticana. Ivi si credono rappresentati in maniera comica gli amori di Giove, e d’Alcmena. Vedi alla pag. 228. seg., e Tom. iI. pag. 73. not. 1.

31. Pag. 239. * Bassorilievo della villa Albani, che Winkelmann avea fatto disegnare, e incidere in grande per la terza parte de’ Monumenti antichi inediti. Pare che rappresenti una dispensa. Vedi Tom. iI. pag. 142.

32. Pag. 287. * Vaso creduto etrusco posseduto in Milano dal signor D. Carlo de’ marchesi Trivulsi, e spiegato dagli Editori Milanesi alla pag. 233. not. 2. Potrebbe anche pensarsi, che quello, il quale abbraccia la persona porta in letto, dia dei baci a questa per la credenza, che aveano i Gentili di trattener così per qualche poco l’anima dei moribondi, come notò il Barzio21.

33. Pag. 288. * Pittura d’antico vaso consimile preso dalla collezione Hamiltoniana, ove il nostro Autore alla pag. 232. [p. 425 modifica]e seg. crede rappresentati i giuochi fatti dal re Danao per maritare le sue figlie. Il ch. espositore del Museo Pio-Clementino22, approvando la spiegazione di Winkelmann, congettura, che il vaso abbia servito ne’ riti delle tesmoforie. Crede che la figura sedente accanto a Nettuno, conosciuto dal tridente, sia Amimone23. L’ara, i rami d’ulivo, e d’alloro sono allusivi alla espiazione delle Danaidi dall’omicidio de’ loro cugini, e mariti seguita prima delle seconde loro nozze: e finalmente nota, che Winkelmann abbia errato nel dire temine ambedue le figure su di un cocchio, quando una è virile; e deve essere un vincitore, che porta seco la sposa.

34. Pag. 312. Statua in bronzo del peso di 36. libbre, ora custodita nella biblioteca Vaticana. Rappresenta un fanciullo di qualche anno. Il Passeri, che l’ha illustrata con una dissertazione, crede che possa essere stata fatta per voto dopo ricuperata la salute di qualche nobile fanciullo. Se non si sapesse dove è stata scoperta, vale a dire nell’agro di Tarquinia in Etruria, e se non avesse l’iscrizione sul braccio sinistro in caratteri etruschi, parrebbe incredibile per la bellezza del suo lavoro, che fosse opera di quella nazione. La regola, che dà Quintiliano24 della durezza dello stile etrusco, che differiva dal greco, come l’eloquenza attica dall’asiatica, prova in questa figura una grande eccezione, che perciò dee crederli di un’epoca non molto antica. Vedi pag. 238.

35. Pag. 390. Testa bellissima di Giove coronata di lauro in un’agatonice, della grandezza dell’originale, ricavata da una stampa in creta conservata in Roma dal signor consigliere Reiffenstein. Vedi pag. 286. not. a.

36. Pag. 397. Winkelmann, che riportò, e illustrò nei Monumenti antichi inediti25 questo bassorilievo, non seppe dirne altro, se non che vi fosse rappresentata una scuola di due fanciulli, come notai alla pag. 370. nota 1., perchè egli lo copiò da un disegno, che niente di più conteneva, ed era stato ricavato da un marmo andato fuor di Roma. Ora noi possiamo discorrerne meglio dopo la bella illustrazione data [p. 426 modifica]dal ch. signor abate Lanzi di un intiero sarcofago già della villa Medici, ora della galleria Granducale a Firenze, inserita coi suoi rami dal signor abate Guattani nelle Notizie sulle antichità, e belle arti di Roma26. Osserva pertanto il lodato espositore, che nel detto monumento sono rappresentati come in sette diverse tavole, o spartizioni, i fatti, o i principali punti della vita di un uomo illustre. Nelle prime due tavole scolpite sopra un angolo del sarcofago, corrispondenti precisamente col disegno dato da Winkelmann, ripetuto da noi, si rappresenta la nascita di quell’uomo, e la sua educazione. Si vede il fanciullo nudo, che indica di essere nato appena, preso, e sostenuto dalla nudrice avanti a quel globo, e la sua madre sedente all’uso delle puerpere27. Le due donne, una delle quali collo stilo, e l’altro colla mano toccano il globo, sembrano due Muse, le quali, secondo il costume superstizioso dei Gentili, osservano accuratamente il globo celeste, notando il segno, sotto cui era nato il fanciullo, l’ora, ec. L’altra parte del bassorilievo rappresenta l’educazione dello stesso fanciullo, vestito, e già grandicello, con un libro in mano che guarda, secondo il marmo, e non già il globo, come pare dal disegno; accanto al suo maestro, detto dai Greci καθηγητής, e διδάσκαλος, persona diversa dal pedagogo28, che vale ajo, o pedante, come dopo il Martorelli29 osserva il lodato espositore del Museo Pio-Clementino30, confermandolo con una bella iscrizione, in cui l’uno dall’altro si distingue: e finalmente vi è una figura, che pare una Musa, la quale tiene una maschera tragica in mano, forse per indicare, che agli studj dei poemi epici d’Omero, e di Virgilio deve unirsi la lettura dei tragici, secondo Quintiliano31. I Romani, da tempo innanzi fino a Cicerone, come questi lo attesta32, aveano introdotto di far apprendere ai fanciulli per prima cosa, ut carmen necessarium, a mente le leggi delle XII. Tavole, che lo stesso principe degli oratori arditamente preferiva a tutta la filosofia dei Greci33. Crede il signor abate Lanzi, [p. 427 modifica]che la persona, di cui si tratta in tutto il monumento, possa essere un Romano vivuto al tempo degli Antonini, come rileva dallo stile della scultura. Mi fa dubitare, che i fatti esposti sopra del sarcofago non siano propij, o privativi del morto sepoltovi, il vedersi ripetuta la stessa rappresentazione, o poco meno in tante urne nominate dallo stesso dotto espositore, che tutte non poteano appartenere ad un sol uomo; e perciò erano adattabili a molti uomini, come azioni ordinarie della vita. Il sagrifizio rappresentato in quella della Granducale, pare certamente all’uso dei Romani, siccome anche gli abiti, ed altre cose.

37. Pag. 422. * Testa di Plutone, o piuttosto Giove Serapide, in marmo bianco, esistente nel monistero di s. Ambrogio maggiore a Milano. Vedi pag. 304. not. 1. Ivi gli Editori Milanesi, che la possiedono, scrivono, che sul modio siano scolpite alcune spighe di frumento, e una pianta d’ulivo, cose indicate anche nella stampa in rame. All’opposto il lodato sig. abate Visconti34 pensa, che la pianta sia l’elce albero glandifero, e di tristo augurio. Possono avere equivocato quegli Editori fra l’ulivo, e l’else, le cui foglie in Italia, al dir di Plinio35, non sono molto diverse da quelle dell’ulivo: ma poi rifletto, che l’ulivo ha più relazione colle spighe, che l’elce; e qui può alludere all’olio, e alle ulive misurate col modio come il grano, adattando il monumento a Serapide; o se vi si voglia effigiato Plutone, perchè l’olio era adoprato nei di lui sagrifizj, come osserva Elia Schedio36 sull’autorità di Virgilio37.

38. Pag. 451. Bassorilievo in avorio, esistente nella biblioteca Vaticana, dato già dal Buonarruoti38. Se ne è parlato alla pag. 290. not. a. Questo scrittore39 spiega per un ibi, uccello sacro in Egitto, perchè distruggeva i serpi40, quello, che sta sopra il bue; e le due lettere segnate nella tavoletta le prende per Α Δ, e le apiega per ἁγαθός δαίμων buon genio. Nel resto crede, che rappresenti il bue Api [p. 428 modifica]allattato da Iside, la quale ha in capo la gallina numidica, portati amendue in una barchetta per il Nilo a Memfi; del che si è parlato alla pag. 69. e 93.


Tavole grandi in fine del Tomo.


I. * Erme feminile in marmo bianco, esistente nella villa Albani, in cui la divisione delle gambe è indicata da un taglio longitudinale. Vedasi alla pag. 9.

II. e III. * Figure di due soldati, che possono credersi galli, o celti, arguendolo dalla stesa, e piuttosto lunga capigliatura, e dalle basette, o mustacci all’uso di quei popoli. Vedi pag. 46., e Tom. iI. 203. col. 1. Gli originali però esistenti nella villa Albani, tranne la testa, sono in gran parte restaurati.

IV. fig. 1. e 2. Statua del famoso antichissimo colosso del re egiziano Mennone, detto anche Amenofi, Osimandue, o Osimante, nell’Egitto superiore, veduta di facciata, e per di dietro. Se ne è parlato alla pag. 74. e seg., alla pag. 81. 85. 118. not. c. Essa al presente, e da’ tempi di Cambise, come si crede, è rotta in due pazzi dal mezzo in su, e questa parte giace per terra. Le dita dei piedi, come ha sospettato Winkelmann alla detta pagina 85., sono mancanti nella statua, e sono state supplite nel disegno da Pococke, secondo che egli stetto dice nella sua opera41. Dalle misure minute, che ne dà lo stesso Pococke, si capisce quanto sia alta; e può argomentarsi dalle figure, che si sono aggiunte nel rame. La testa ha sei piedi di diametro, e undici dalla cima fine al principio del collo. E’ coperta sulle gambe, piedi, e alla base d’iscrizioni greche, e latine di diverse persone illustri, che l’hanno visitata negli antichi tempi. La pietra è una specie di granito poroso, ma durissimo, di un colore particolare tra il nericcio, e il rosso. Il disegno si è preso da Pococke, da cui lo ha ricavato anche Jablonski, che l’ha illustrato con una dissertazione42. Quello datone da Norden dovrebbe essere più esatto. Pococke ha aggiunti nel rame [p. 429 modifica]que’ buchi sul monte per indicare gli antichi sepolcri dei sovrani del paese.

V. Figurina di bronzo della grandezza dell’originale, rappresentata in tre aspetti. L’originale è nel museo profano della biblioteca Vaticana. Se ne è parlato alla pag. 81. n. a., e nel Tomo iI. pag. 34. not. b. Al primo luogo citato riportammo l’opinione del ch. P. Paoli, il quale con una eruditissima dissertazione ha preso a sostenere, che ella rappresenti un sacerdote Cananeo con in mano un sorcio per memoria dell’offerta fatta dai Filistlei all’arca dopo lo strepitoso castigo, di cui furono percossi dal Dio d’Israele. Fattevi poi maggiori riflessioni sopra, vedendo la figura non aver barba, che avrebbe come sacerdote orientale; che le si vede chiaro il rilievo delle mammelle feminili, la forma dei capelli, i tratti del volto, che indicano una donna; e finalmente la grandezza dell’animale tenuto in mano dalla figura, che oltre il non avere indizio di quella lunga coda del sorcio marcata in tanti monumenti, ove quello si rappresenta; supera di molto la corporatura di un sorcio, il quale se sarebbe capito nella mano della figura, quello occupa la lunghezza di tutto il braccio; quelle cole tutte, dico, mi fanno sospettare, che la statuetta rappresenti piuttosto una donna etrusca con un porcello in mano, che forse vuol offerire a qualche divinità. Varrone scrive43, che i sovrani etruschi, ed i magnati solevano sagrificare una porchetta nelle loro feste nuziali; e un porcello si sacrificava nelle feste di Cerere44, della Tellure, e di Silvano, che si vede rappresentato anche nei monumenti45. Nel lodato museo Borgiano a Velletri esiste una figurina in bronzo della stessa grandezza, e forma di abito precisamente; come è simile nell’abito una statua in marmo bianco nella villa Lodovisi. La testa è simile a molte figure etrusche di donna.

VI. * Sacerdote egiziano, uno de’ pastofori, che porta sopra una cassettina segnata con geroglifici, come la base, [p. 430 modifica]tre figure, in gran parte restaurate da non potersi ben riconoscere chi rappresentassero nell’originale antico, che è di granito nericcio nella villa Albani. Vedasi pag. 86. e seg. Era prima anche senza testa, e braccia, come si vede nella stampa presso il P. Kirchero46. Ha per veste un grembiule, solito vedersi alle figure di quei sacerdoti. Si legge presso Diodoro47, che una specie di grembiule se la mettevano i sacerdoti egiziani quando facevano i funerali dei loro sovrani.

VII. Bellissima pastofora egiziana in basalte verde, alta circa tre palmi, conservata nel Museo Pio-Clementino. La testa è moderna, con un pezzo d’un braccio. E’ ornata ai polsi di un braccialetto a due teste di serpe, come usavano anche le donne egizie. Tiene una cassetta col suo manubrio, che posato per terra viene a spaccare il di lei piede: inavvertenza considerabile dello scultore, che dalla bellezza del resto del lavoro pare stato uno del tempo de’ Greci. Dentro alla cassetta vi è rappresentato Oro tutto infasciato coi soliti suoi simboli. Se ne parla alla pag. 85. not. b., 87. in nota, 91. in nota, 99. in nota, 106. col. 1., 129. not. b.

VIII. * Statua egiziana di granito nericcio nella villa Albani, che probabilmente rappresenta Iside, o una donna isiaca, colla testa di leone, o piuttosto di cebo, ovvero colla maschera ad imitazione. E’ di grandezza naturale. Sono restauro moderno le braccia, le mani, e le gambe, che sono prese da un’altra statua, E’ moderna anche la testa dell’uccello, che sta in capo al bastone, creduto l’upupa dal Pignorio, e non è troppo ben fatta: perciò si è disegnata dalla tavola Barberini, nominata alla pag. 102. not. b., per farla incidere in questo rame. Vedi alla pag. 92.

IX. * Statua della villa Albani in granito cenerino dell’altezza di circa tre palmi. Rappresenta un cercopiteco, o scimia colla coda, venerata dagli Egiziani, vestitasi della pelle d’altro animale a uso di mantiglia. E’ simile a quella, che sta nel cortile del palazzo dei conservatori in Campidoglio, che mi pare scolpita in una specie di marmo cipollino, meno conservata, ma un poco più grande. Il globo, che ha in [p. 431 modifica]capo è moderno. Vedi pag. 88., e Tom. iI. pag. 136. e segg. Ultimamente il signor abate Marini48 colla sua oculatezza particolare ha raccapezzate alcune parole, tuttochè mal concie, della iscrizione posta alla base di quest’ultima, di cui si è parlato alla detta pagina 137., e sono le seguenti:

.......
.... OS . . . .
. . . ILLIANON . .
..... SACR...
..SEPT. QVINTILLO ET PRISCO
COS


Quindi almeno sappiamo quando fu dedicato questo brutto simulacro, che fu l’anno 159. dell’era cristiana, sotto il regno d’Antonino Pio, allorchè la religione egiziana in Roma era molto favorita, come dissi alla pag. 116. L’iscrizione greca, incisa alla parte opposta della base, riferita nel citato Tomo iI. pag. 136., fa vedere, che gli scultori di essa furono greci, i quali o abbiano lavorato in Grecia, o in Roma, o in altre parti, hanno lavorato sullo stile d’imitazione, del quale stile è anche l’altro cercopiteco, e quasi tutte le statue egiziane della villa Albani. Questo stile d’imitazione dovrebbe essersi introdotto in Roma prima degl’imperatori, che favorirono il culto delle deità egiziane: poichè abbiamo da Varrone presso Tertulliano49, che una volta quando fu proscritto il culto di quelle divinità, forse l’anno 695. di Roma prima del console Gabinio, furono rovinate le loro statue: Serapem, & Isidem, & Arpocratem, & Anubem prohibitos Capitolio Varro commemorat, eorumque statuas a Senatu dejectas, nonnisi per vim popularium restitutas. Anche in Grecia il culto d’Iside era molto antico50; e vi saranno state fatte le statue delle deità egiziane, come ne furono fatte in Egitto dai medesimi Greci. Per la qual cosa dovrà badarsi, che molte statue dette dello stile d’imitazione, e perciò supposte dei tempo di Adriano, [p. 432 modifica]che veramente promosse all’ultimo segno questo stile, possono essere più antiche di lui, fatte in Roma, o fuori.

X. * Statua della villa Albani di grandezza naturale in marmo bigio morato, lavoro del tempo de’ Romani, o de’ Greci al più. E’ particolare per il suo panneggiamento, nel quale somiglia un poco alla creduta Iside del Campidoglio51, e più ad un’altra data in rame dal Gori52. Forse Iside per questa forma d’abito di lino si diceva linteata53. La testa della statua non è sua, ma è antica. Mostra di avere come una perrucca. La capigliatura arricciata mal non conveniva a Iside; avendola le mentovate statue; e potendosi credere, che Iside così la portasse, per il proverbio antico, che gli abitanti di Memfi si gloriavano di possedere i ricci della dea Iside, come i Tebani di avere le ossa di Gerione, e i Tegeati il cuojo del cignale di Calidona ucciso da Meleagro54. Nel resto vi sono dei restauri non troppo ben fatti. Se ne parla alla pag. 97., 103. in nota col. 2. princ., e pag. 107.

XI. e XII. * Due ermi con testa senza barba, che pare ritratto. La pelle, di cui sono coperti, stante che in parte è corrosa, e mal restaurata, non si distingue bene se sia di cane, o di leone, come si è detto nel Tom. I. pag. 101. not. d. La forma delle orecchie, e del pelo può far credere più probabile, che sia di cane; sebbene per le ragioni portate nella citata nota possa crederli di leone. Il Gori55 dà un’urna di terra cotta, in cui vi è un genio alato colla pelle in capo, che pare di cane, e una figura di bronzo56, ch’egli crede un genio domestico parimente colla pelle di cane in testa.

XIII. * Statua in marmo bianco della villa Albani con testa, e braccia antiche, ma staccate, e lavorate a parte dal resto della statua. La testa è coperta di pelle, che non ben si distingue se sia di cane, o piuttosto di qualche animale selvatico, per quanto si scorge dalla dentatura, e dal pelo. Vedi la pag. 101., e Tom. iI. pag. 11.

XIV. * Statua di grandezza naturale in marmo nero con [p. 433 modifica]testa, e braccio destro moderno. Può rappresentare un sacerdote isiaco di quelli, che andavano in processione con abito di certa, e determinata torma. Adorna la villa Albani, e se ne parla alla pag. 118. seg.

XV. * Statua al naturale di breccia egiziana bellissima con mani, e testa moderna in marmo bianco, che probabilmente rappresentava un prigioniero. Sta nella villa Albani. Vedi p. 135.

XVI. * Bassorilievo in marmo bianco posto sopra una porta nel casino della villa Albani, rappresentante un sagrifizio al dio Mitra con varj simboli. Se ne parla alla pag. 156.

XVII. * Facciata di un’urna etrusca in alabastro di Volterra, nella villa Albani, fu cui Winkelmann pag. 166. crede rappresentato l’eroe Echetlo, che nella battaglia di Maratona fece straqe de’ Persiani con un aratro. Benchè sembri un fatto di tempi bassi per crederlo rappresentato in tante urne etrufche, come in due presso il Dempstero57, in due presso il marchese Maffei58, due del Collegio Romano in terra cotta, altra della biblioteca Vaticana nello stesso alabastro; e in molte altre; pure non è tanto improbabile, che gli Etruschi lo abbiano imitato dai Greci, dai quali hanno imitate quasi tutte le altre cose; e presso i Greci fu quella battaglia una delle più strepitose, e stimate degne d’eterna memoria, dipinta anche da famosi artisti59. Il lodato signor ab. Lanzi congettura, che possa rappresentare Giasone, il quale uccide i guerrieri nati dai denti, ch’egli seminò: ma siccome Apollodoro60, e Apollonio61 scrivono, che gli uccidesse con pietre, e colla spada; converrà supporre, che lo scultore, e la nazione etrusca abbia avuta qualche altra notizia, o tradizione, che facesse adoprare a Giasone l’aratro per uccidere coloro, perchè dell’aratro si era servito a seminare i denti; congiungendo così due idee del seminare i denti, e dell’uccidere i guerrieri, che ne nacquero.

X VIII. * Statua in marmo bianco grande più del naturale. Winkelmann crede, che debba attribuirsi agli Etruschi: ma difficilmente si vorrà supporre opera di quella nazione per la [p. 434 modifica]buona maniera del lavoro; e perchè pare, che abbia qualche somiglianza con un sacerdote di Bacco in un bassorilievo presso il Gori62. Non sarei tanto propenso ad attribuire agli Etruschi opere in marmo, principalmente se siano in marmo greco salino, come è pure il mentovato qui avanti al numero 10., e il bassorilievo della villa Albani dato dal nostro Autore nei Monumenti antichi inediti63, e mentovato nella Storia dell’Arte64 con altri appresso del museo Capitolino. Egli non ne dà veruna ragione, che appaghi. Io poi dico, che oltre l’essere molti di que’ lavori in marmo salino, in cui non so se mai abbiano scolpito gli Etruschi, e molto meno in que’ primi tempi dell’arte, ne’ quali Winkelmann vuole scolpiti que’ monumenti, dico, che non farà facile di provare, che quella nazione abbia lavorato sì bene in marmo fin dai tempi. antichissimi, da non cederla ai Greci; e che poi al vedere in seguito i capi d’opera di questi non abbiano dovuto andar migliorando lo stile, e non ci abbiano lasciate altre opere. Sostengo al più, ch’essi abbiano talvolta lavorato con eccellenza nel bronzo, come ne ho dato l’esempio al num. 34., e altrove65, e forse anche in terra cotta, che erano le materie, che potevano avere facilmente, e non già i marmi della Grecia: e di queste belle opere si può anche sospettare, che siano imitate da greci originali; come della gemma, in cui è inciso Tideo, si è motivato al num. 25.; e della Minerva in bronzo ora ricordata66 si può argomentare al confronto di essa con una statua in marmo già posseduta dal Cavaceppi67. Nè ci permette di giudicare altrimenti quella invariata durezza di stile rilevata negli etruschi lavori da Quintiliano68, che li mette in paragone coi greci, come l’eloquenza d’Atene in confronto dell’asiatica. La statua è restaurata nelle braccia, e in qualche altra piccola parte. Merita di essere osservata la forma dell’abito, e delle pieghe, che pajono soppressate. Si vede in qualche maniera simile in altri monumenti; e alla figura in ispecie ricordata presso il Gori. L’originale è nella villa Albani. Vedasi alla pag. 181.


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T O M O   I I.

Frontispizio grande.


1. Ritratto del signor cav. D. Niccola de Azara ministro di S. M. il re di Spagna presso la Santa Sede.

Sul frontispizio del Tomo.


2. * Gemma incisa, che stava dianzi nel real museo Farnese a Napoli, rappresentante Bacco, ed Arianna, della più finita bellezza, cui non ha potuto imitare il bullino.

3. Pag. 5. * Bassorilievo in marmo bianco della villa Albani, con iscrizione latina, che dichiara la persona, sopra cui sta, essere Quinto Lollio Alcamene, decurione, e duumviro, vale a dire senatore, e magistrato supremo nella sua patria; come già notammo69 mettendo in dubbio la spiegazione, che ne dà Winkelmann per farne uno scultore, vedendo che tiene lo stecco nella mano destra (nella Tavola comparisce sinistra a cagione dell’essere stato inciso a rovescio, e pubblicato sempre così dopo Winkelmann), e nella sinistra un busto, cui sta lavorando. Il signor abate Marini, che ha ripetuto la stessa rappresentazione70, asserisce, che sul marmo non è uno stecco quello, che tiene il duumviro, ma un volume, come lo tengono tante altre figure togate, e una fra le altre presso il P. Montfaucon71. Escluso quel primario fondamento della spiegazione del nostro Autore, combina bene il resto a farcelo credere un duumviro, cioè il suppedaneo, che lo stesso Winkelmann credette essere un argomento di dignità72, che non conveniva per conseguenza ad uno scultore, come in fatti non lo ha Dedalo nei due bassirilievi parimente della villa Albani da lui dati73: la sedia, che dubito non sia un tribunale, come crede il signor abate Marini, conveniente bensi a quel magistrato74, ma da non usarsi in quella [p. 436 modifica]occasione fuor di luogo, e di tempo, se non fosse stato per un vero capriccio, come quello di Trimalcione, che volle essere rappresentato nel fuo sepolcro sedente sul tribunale, vestito colla pretesta, e in atto di spargere denaro al popolo da un sacchetto75; e non necessario per indicare la dignità di duumviro, nota abbastanza dalla iscrizione; la sedia dico, il cuscino sopra, e il suppedaneo, pare che indichino persona distinta; e così la toga, che non conviene ad un artista, in atto d’esercitare l’arte sua, al quale molto meno conveniva l’abito senatorio, per tale spiegato da Winkelmann. E poi che correlazione avrebbe avuto il sagrifizio col resto? Sarà dunque più probabile, che siasi avuto in mira di farvi rappresentare altra cosa. Opina il signor ab. Marini, che possa dirsi, che Alcamene pianga il figliuolo estinto, e se ne formi quasi un idolo domestico, per ciò che leggesi nel libro della Sapienza76 averlo fatto un padre, creduto così autore dell’idolatria; e per una iscrizione della villa Albani dello stesso argomento. Anche Plinio il giovane narra77 di un certo Regolo, il quale avea fatto effigiare il suo figlio morto in oro, argento, bronzo, cera, avorio, e in marmo. Ma nel nostro monumento non pare si veda cosa indicante lutto, o cosa funebre; siccome al lutto non sarebber convenute quelle vesti78, il supposto tribunale, e nè anche la sedia di lusso, che in tali occasioni soleano lasciarsi, e sedere in più bassi, e vili arnesi per segno di mitezza79. Vuolsi riflettere eziandio, che secondo la legge di Numa riferita da Plutarco nella di lui vita80, in Roma, e s’intende anche nello Stato, non potea farsi funerale, e portar segno di lutto per li figli minori di tre anni: legge, che Plutarco dice anche praticata in Grecia da tempo antico81: In acceptis a majoribus per manus moribus, atque legibus magis elucet quia in his rebus sit verum. Suis enim infantibus mortuis neque inferias libant, neque aliud quicquam faciunt eorum, quæ fieri mortuis apud alios solent: neque enim terra, [p. 437 modifica]aut terrestrium infantes ullam partem percipiunt, neque circum eorum sepulcra, & monumenta, ac cadaverum expositionem commorantur, aut adsident: nam leges id non permittunt; quia hoc nefas sit, cum ii in meliorem, ac diviniorem conditionem simul, locumque concesserint: sebbene poi col tempo non fosse troppo osservata; e forse non ebbe luogo nel figlio d’Alcamene, il cui bustino mostra l’età più avanzata, almeno di circa i sette anni. Solevano parimente i Gentili far voto, e consecrare agli dei il capo de’ loro figli, o i loro capelli, o parte di essi, come abbiamo da Tertulliano82, che vale per molti altri testimonj, che potrebbero addursi: Quis non exinde aut totum filii caput reatui vovet, aut aliquem excipit crinem, aut tota novacula prosecat, aut sacrificio obligat, aut sacro obsignat, pro gentica, pro avita, pro publica, aut privata devotione? e da Esichio nel commentario sopra il Levitico83: Student Pagani caput puerorum offerre demonibus: e usarono principalmente i padri fare quelle consecrazioni, e delle feste, e sagrifizj agli dei per la prosperità dei loro figli appena erano nati84. Ma se vogliamo dare la spiegazione più semplice del nostro soggetto, diremo, che vi si fa un sagrifizio agli dei per la prosperità, e buona educazione del figlio, rappresentato in quel busto, e simboleggiata ottimamente l’educazione collo stecco, che tiene il padre nella mano destra, tale rilevandosi senza dubbio nel marmo, e non già un volume, per indicare, che la buona educazione si ottiene coll’ajuto degli dei, e colla cooperazione dei genitori, procurando di modellare, e formare i costumi dei figli, come gli scultori modellano, e formano la creta, e la cera, cui danno collo stecco la figura, che vogliono, come si vede nei monumenti, che ricordai al luogo citato: e allora al nostro monumento si potrebbe applicare ciò, che dice appunto Giovenale85 dell’educazione dei figli:

Exigite ut mores teneros ceu pollice ducat,
Ut si quis cera vultum facit.


La donna stolata farà la madre, o altra donna appartenente [p. 438 modifica]ad Alcamene, che unisce i suoi voti per lo stesso oggetto, mettendo nel fuoco sopra un candelabro qualche cosa odorosa, e forse l’incenso, che presso i Greci solevasi mettere con tre dita86. Se poi Alcamene fosse liberto della famiglia Lollia, come crede Winkelmann; oppure uno della stessa famiglia, stabilitoli in qualche luogo fuori di Roma87, o che in questa città ancora avesse avuto quelle cariche per onorificenza, come si praticò più d’una volta con persone benemerite; io lo lascerò disputare ad altri più opportunamente; bastandomi qui di poter dire a favore di Winkelmann, che non era necessario fosse ingenuo, quando non se ne dia alcuna buona, o probabile ragione, come dice il signor abate Marini; poichè è certo dalle leggi romane88, che a quegli impieghi potevano aspirare ugualmente i liberti, che gl’ingenui, qualora fossero loro restituiti i natali, o avessero jus aureorum annulorum. Chi saprà poi dire il fine, per cui Alcamene facesse fare questa rappresentazione colla data di quell’anno, che era duumviro? Se si potesse dire, che il piccolo pezzo del marmo appartenerte ad un’urna, potrebbe sospettarsi, che su di questa vi fossero scolpiti i fatti principali del morto, o fosse Alcamene, o il suo figlio, colla iscrizione ripetuta ad ogni fatto; e che ne fosse rimasto soltanto quello, in cui si figurava l’educazione, e i voti per essa, come era simboleggiata in altra maniera nell’urna, o bassorilievo descritto qui avanti al numero 36. del Tomo I.; oppure che il monumento fosse fatto in quell’anno del magistrato d’Alcamene. Quello bassorilievo stava prima in casa Vitelleschi, come si ha dal Reinesio, che lo descrive, e ne riporta l’iscrizione89. Dopo tutto quello aggiugnerò, che di monumenti sepolcrali, in cui vedonsi morti dei fanciulli, più d’uno se ne trova; ed uno, fra gli altri, se ne ha nella galleria Granducale a Firenze dato dal Gori90, nella cui facciata vedesi un fanciullo morto steso sopra un letto, la madre, che siede sopra la sedia col cuscino, e suppedaneo, in atto di piangere, col padre di contro seduto sopra una grande sedia alta dietro, ove [p. 439 modifica]non si vede cuscino, ma sibbene il suppedaneo, e anch’esso mesto. Ma qui non si vede segno di sagrifizio; e se la madre siede col cuscino, o avrà avuto qualche ragione particolare, o non avrà osservato il costume.

4. Pag. 31. * Corniola del museo Stoschiano, rappresentante Prometeo, che prende le misure dell’uomo91, o della donna, che vuol formare, secondo Esiodo92, e Luciano93. Ne parla Winkelmann nel Tomo iI. pag. 7. 8.

5. Pag. 51. Disegno di un bassorilievo in bronzo conservato nel museo Borgiano a Velletri della stessa grandezza. Il soggetto rappresentato è Minerva, che insegna a costruire, o piuttosto a dirigere la nave ad Argo. Vi è in compagnia di quella dea Mercurio, forse come inventore delle arti, che non mi è riuscito di trovare in alcuno dei tanti monumenti collo stesso soggetto; nè mentovato per ciò dagli scrittori.

6. Pag. 87. * Due antiche monete siracusane del museo Stoschiano, delle quali parla Winkelmann nel Tomo iI. p. 93. Se ne veggono delle simili presso il sig. Scachmann94, che le ha pure illustrate, e presso il Castelli principe di Torre Muzza95.

7. Pag. 83. Terracotta del museo del Collegio Romano portata, e illustrata dal nostro Autore nei Monumenti antichi inediti96. Vi si rappresenta Ulisse tornato in Itaca alla casa paterna, e riconosciuto dalla sua nudrice Euriala, che nell’arto di lavargli i piedi, come si solea fare ai forastieri, scoprì nella di lui gamba la cicatrice97. Essendo questa soprafatta da piacere, e da timore, e avendo perciò slargate le mani, le sfuggì il piede d’Ulisse, che nel cadere urtò con impeto nel vaso dell’acqua, e lo rovesciò. Allora efclamò: tu sei il vero Ulisse, e non ti ho riconosciuto prima di toccarti, e vederti le gambe! A queste parole Ulisse le chiuse la bocca colla mano, perchè non divulgante il suo arrivo. Dietro a lui sta Eumeo suo porcaro, celebre negli ultimi libri dell’Odissea. Il cane è quello, che lo riconobbe dopo tanti anni98. La stessa rappresentazione si vede sopra un lato di un’urna data [p. 440 modifica]dal Gori99, il quale malamente la spiega per Diomede, che si medica le ferite.

8. Pag. 105. Moneta in argento d’Alessandro il Grande, di un lavoro bello quanto altra mai. La testa coperta di pelle di leone, è di molto rilievo, ed ha rilevata, e quasi staccata perfino la pupilla a forma di globetto. L’originale, con alcune altre di diverso tipo, ma non molto inferiori di merito, forma a mio giudizio un pregio singolare del museo Borgiano a Velletri, e per la bellezza del conio, e per la novità del rovescio, in cui si vede l’ancora finora incognita nelle monete fatte in onore di Alessandro, dalla sua prima impressione, non formatavi dopo, quale in alcune si vede. Per questa si può congetturare, che appartenga alla città di Ancira, la di cui insegna è l’ancora100; oppure ai Seleucidi, nelle medaglie de’ quali parimente si trova quello simbolo101, per la visione della madre di Seleuco, alla quale parve di vedersi presentare in sogno una gemma da Apollo, con cui prima avesse avuto commercio, segnata coll’ancora, che poi si vide marcata sul fianco del bambino quando nacque102. Dee quindi aggiugnersi al catalogo delle medaglie d’Alessandro, che dopo le pubblicate dal Goltzio103, e dal Pellerin104, ha riferite con delle nuove, delle quali dà la figura in rame, il sig. Eckhel105, e a quelle descritte dal P. Arduino nelle note, ed emendazioni al libro 34. di Plinio106, a due date dal Dutens107, e due altre dal Neumanno108. L’opinione del P. Arduino, del Pellerin, e di tanti altri, preceduti però dall’imperator Costantino Porfirogeneta109, è stata, che nel dritto di quelle medaglie vi fosse effigiata la testa d’Alessandro; ed io scrissi110, che quella, di cui trattiamo, abbia della somiglianza coll’erme di quel conquistatore, di cui riparleremo qui appresso al numero V., supponendone in essa un poco alterata la fisonomia per [p. 441 modifica]meglio accostarla a quella di Ercole. La pelle in capo a questo eroe ad imitazione d’Ercole, non gli disconviene; perocchè sappiamo da Ateneo111, ch’egli talvolta si faceva vedere agli amici ora col petaso in capo, e caduceo in mano per figurare da Mercurio; ora colla pelle di leone in testa, e colla clava in mano per imitare Ercole, di cui si vantava discendente112; e abbiamo nel piccolo bassorilievo di giallo antico, rappresentante un clipeo in onor di lui, trovato alcuni anni sono dal signor principe Chigi negli scavi di Porcigliano, che Alessandro stesso chiamisi discendente di Ercole con questi due versi, gentilmente comunicatimi dal più volte lodato signor abate Visconti, da cui aspettiamo la spiegazione di tutto il prezioso monumento, corrispondente ai rari suoi talenti:


ΕΙΜΙ Δ’ΑΦ’ΗΡΑΚΛΕΟΣ ΔΙΟΣ ΕΚΓΟΝΟΣ ΥΙΟΣ ΦΙΛΙΠΠΟΥ
ΑΙΑΚΙΔΩΝ ΓΕΝΕΗΣ ΜΗΤΡΟΣ ΟΛΥΜΠΙΑΔΟΣ

Sono per mezzo d’Ercole nipote di Giove, figlio di Filippo,
Stirpe degli Eacidi per mezzo della madre Olimpiade.


All’opposto il signor Eckhel, ed altri non pochi danno per sicuro, che la detta testa sia d’Ercole giovane; e il citato Neumanno a provarlo fa osservare113, che sia la medesima testa quella, che si vede nelle medaglie d’Aminta III., di Perdicca III, e Filippo II. ascendenti di Alessandro, postavi anche per essi come discendenti d’Ercole; e inoltre che nelle medaglie in bronzo di Alessandro intorno alla testa vi sta l’arco, la faretra, e la clava, come insegne di Ercole. Non posso fare il confronto di tutte quelle medaglie per vedere se la fisonomia sia un ritratto, come pare, anzichè testa ideale, e se sia la stessa precisamente, quale non comparisce nelle stampe in rame, che citai ad altro proposito114, nè in quelle date dallo Spanhemio115, e da altri; siccome la stessa precisa somiglianza non si vede nelle medaglie dei Bruzj, e in quelle di [p. 442 modifica]Siracusa, una delle quali per sorte ho esaminata nello stesso museo Borgiano, ed altre, che si vedono frequentemente nelle raccolte di medaglie stampate, appartenenti a città, le quali non doveano avere con Alessandro alcuna relazione. Nel resto del rovescio della nostra medaglia si vede un Giove sedente su ben lavorato sedile col suppedaneo, con un’aquila nella mano delira, e scettro nella sinistra; sotto la sedia la lettera Π, e intorno la leggenda del suo nome. Il lavoro e del rovescio, e del dritto è molto più bello di quello comparisca nella stampa datane, in cui però si è bene imitata la grandezza dell’originale. Si veda anche appresso al detto numero V.

9. Pag. 162. * Bassorilievo, che si ha triplicato nella villa Albani. Il soggetto è molto oscuro. Se n’è fatta menzione alla pag. 100. e 104. in nota.

10. Pag. 163. * Intaglio già del museo Farnese a Napoli, ora del conte di Lamberg, dato in rame da Winkelmann in quest’opera, e nei Monumenti antichi inediti116, ove lo spiega per Teseo, che sostiene Laja, o Faja, da lui uccisa, e ne contempla nello stesso tempo la bellezza. Vedi il Tomo I. pag. 416. not. 2. Teseo si conosce alla clava, e al suo volto sbarbato, e gentile, come lo è nell’intaglio di sorprendente lavoro colla iscrizione moderna, interpretata da Stosch per Teseo colla pelle del toro maratonio, e potrebbe essere colla pelle del Minotauro, per cui Teseo si rese anche celebre117, non mai di leone come pensò Winkelmann118; nè di capra, come dettò magistralmente l’ab. Bracci119 per fare di Teseo una Giunone Lanuvina. Questi, che a tal proposto, e sempre, dice tante ingiurie contro Winkelmann, ha dato il più chiaro argomento di meritare, che tutte gli si ritorcano, facendo vedere in poche parole di essere privo affatto delle cognizioni spettanti alle belle arti, e di non avere nè gli occhi della mente, nè quei del corpo. E perchè non ricorrere almeno ad un beccaio per farsi dire se quella pelle era di capra, o di toro? Chi ha occhi la conosce ad evidenza, vedendo il muso, il pelo, e un corno dritto, corto, e [p. 443 modifica]grosso, che nulla ha da fare colle corna di capra ritorte, e lunghe, quali poteva esaminarle il sig. Bracci nella stessa medaglia, che porta in prova de’ suoi spropositi. La fisonomia della testa è maschile, ed ha un non so che di fiero, e di eroico; ha un poco di lanugine sotto l’orecchia, e il pomo, o tiroide al collo; cose tutte, che non convengono a una donna; come conviene a Teseo l’aria di donna, che mostra a prima vista la testa, sapendosi che la la bellezza di quell’eroe era tale da essere preso per una fanciulla a Delfo120 circa l’età, in cui superò il bue di Maratona; e parla di questo suo pregio di bellezza anche Seneca121. Plutarco nella di lui vita non dice, che si mettesse la pelle del toro in capo; ma però dice, che lo fece scolpire sulla moneta: nè si trova negato da alcuno, che ne portasse in capo anche la pelle a somiglianza d’Ercole, come adoprò sempre la clava, al dire dello stesso Plutarco.

11. Pag. 235. * Contorno della cista mistica in bronzo del museo del Collegio Romano, di cui si è parlato a lungo nel Tomo iI. pag. 146. Ivi si è data anche l’iscrizione, e la forma delle lettere con quella esattezza, che è stata possibile. Argomentando da queste lettere, che hanno molta somiglianza colle lettere etrusche, si può dire, che il monumento sia dei più antichi di Roma, e forse il più antico, che si conofca, paragonandolo colle iscrizioni degli Scipioni, delle quali appresso diremo. In Roma al principio suo, e prima si usavano sicuramente i caratteri etruschi, come abbiamo da Plinio122 ove scrive, che in Roma li vedeva ancora un elce con una iscrizione in lettere etrusche di bronzo, che lo dichiarava sacro prima della fondazione di quella città; e ce ne dà123 un altro esempio parlando delle pitture di Marco Ludio in un tempio di Ardea, ove era l’iscrizione in quattro versi, che parlava di quello artista scritta in antiche lettere latine, che sono le stesse colle etrusche: donde noi rileviamo, che sbagli Tacito124 asserendoci, che Damarato insegnò il primo a scrivere a questa nazione: paradosso tanto più sensibile, quanto ch’egli stesso continua a dire, che gli Aborigeni, stati [p. 444 modifica]confusi cogli Etruschi, aveano avute le lettere da Evandro tanti secoli avanti. Però aggiugne Tacito una verità, che le lettere antiche latine, le quali erano etrusche, fossero simili alle antichissime greche: il che si prova colle iscrizioni di queste due nazioni, e in ispecie colle iscrizioni dei vasi detti etruschi, nelle quali la forma delle lettere è greca antica; e lo conferma anche Plinio medesimo dicendo125, che le.antiche greche erano quasi simili alle latine usate a suo tempo. Da Eforo presso lo Scoliaste d’Omero inedito, le di cui parole adduce lo Spanhemio126, si ha, che Callistrato di Samo al tempo della guerra del Peloponneso127 mutò la forma, e i nomi di quelle antiche lettere greche, e diede nuova grammatica agli Ateniesi. Meriterebbe un lungo esame quella asserzione, che intesa semplicemente per miglioramento fatto nella forma del carattere, viene contradetta dalle medaglie della Sicilia, e della Magna Grecia, e da quelle in ispecie di Gelone, e di Jerone anteriori alla guerra Peloponnesiaca, nelle quali le lettere sono molto ben formate, e non inferiori a quelle de’ tempi appresso; e possono vedersi presso il Paruta128, e il Castelli principe di Torre Muzza129. Demostene, che visse non molti anni dopo, scrivendo130 che una iscrizione posta da Teseo in un tempio di Bacco, simile forse alla nominata da Plutarco131, era scritta in antiche lettere attiche oscure; e Luciano, che chiama oscure132 le lettere greche in bronzo di una iscrizione fatta sopra una colonna, che segnava il termine, ove erano giunti Ercole, e Bacco; doveano parlare della più antica forma delle lettere presso i Greci, della quale può stimarsi l’iscrizione Amiclea. Così le lettere della maggior parte dei vasi detti etruschi essendo attiche antiche, come osserva pure il Mazochi133, fanno credere che siano opera di tempi anteriori alla guerra Peloponnesiaca, o lì intorno, come diremo anche appresso: perocchè se non sono tanto cattive, e simili alle più [p. 445 modifica]antiche, mostrano di essere meno belle, e di forma non poco diversa da quelle delle citate, ed altre medaglie.

12. * Pag. 230. Cameo del museo Farnese, opera di Atenione, in cui Giove fulmina i Giganti, dato, e illustrato da Winkelmann nei Monumenti antichi inediti134. Vedi pag. 30.

13. Pag. 250. Bassorilievo in terra cotta da Napoli passato in Inghilterra, prima in posseduto del dottor Mead, e poi di altri, dopo la di lui morte pagato a caro prezzo. Se ne è qui ricavato il disegno dal getto, che conserva il valente scultore irlandese signor Cristoforo Hewetson. Il soggetto è Demostene sedente sopra un’ara del tempio di Nettuno nell’isola Calauria, ove si era rifugiato, con un volume nella mano sinistra dopo aver preso il veleno per sottrarsi dalle persecuzioni dei suoi nemici. La testa rassomiglia alla testa in bronzo del museo Ercolanese colla iscrizione; e il nostro Autore lo avea destinato per la terza parte de’ suoi Monumenti antichi inediti. Si avverta, che nell’originale, come anche nella stampa in rame è scritto ΔΗΜΩΣΘΕΝΗΣ coll’Ω in vece dell’Ο secondo il solito, forse per errore dell’artefice, che lo incise. Vedasi alla pag. 255.

14. Pag. 304. Moneta in bronzo dell’antica città di Possidonia nella Magna Grecia, di quelle, che volgarmente diconsi incuse, benchè non lo sia. Se ne è parlato alla pag. 91. La figura scolpitavi è di Nettuno col tridente in mano, in atto come di scuotere la terra, detto perciò frequentemente ἐνοσίχθων, e ἐνοσίγαιος, scuotitore della terra da Omero135, e dagli altri antichi136, e in una bella iscrizione dei Tarentini pubblicata in più libri137; credendosi che i terremoti fossero cagionati dal mare; cosicchè per dire il terremoto, dicevano, che Nettuno avea scossa la terra138; e una volta, che s’intese nell’Acaja un fiero terremoto, fu attribuito allo sdegno di lui per una ingiuria fatta al suo tempio139. Per la stessa ragione [p. 446 modifica]in altre medaglie di Possidonia140 si vede un toro, animale sagrificato a Nettuno141, come simbolo della sua forza nello scuotere la terra, e dello ftrepito del mare col suo muggito. Socrate142 racconta, che gli Antiocheni avendo veduta la moneta battuta dall’imperatore Giuliano l’apostata col toro nel rovescio, dissero che vi stava bene, per simbolo dell’aver quell’imperatore rovinato il mondo. Nettuno così col tridente si vede anche sulle monete di Pompeja, di Siracusa, di Tenaglia, ed altre143.

15. Pag. 305. Frammento di pittura antica della villa Albani rappresentante una veduta di diverse fabbriche, di un ponte, e porta da guardarlo, fiume con barche, armenti, pastori, con alberi coronati di fasce, o bende, e sepolcro indicato da una colonna all’uso dei più antichi; intorno a’ quali può vedervi anche il traduttor fiorentino dei Caratteri di Teofrasto144. E’ descritta da Winkelmann nel Tom. iI. pag. 57., che l’avea data nei Monumenti antichi inediti145.

16. Pag. 348. Testa di grandezza naturale in marmo bianco nel Museo Pio-Clementino, che rappresenta Scipione Africano il maggiore, tutta rasata, e con un segno nella tempia delira, che si crede una cicatrice, e potrebbe non esserla. Vedi Tom. iI. pag. 306. e segg. Di Scipione non si legge, per quanto io sappia, che fosse ferito in testa: si legge bensì di Tiberio Gracco146, che vi fosse ferito con una sedia dal suo collega Saturejo, e poi di nuovo da Lucio Rufo per ucciderlo, mentre saliva in Campidoglio. Quegli era nipote del detto Scipione; e l’altro Scipione Africano, detto più comunemente Emiliano dagli scrittori, avea per moglie una di lui sorella.

17. Pag. 374. Copia d’un bassorilievo in bronzo della medesima grandezza, conservato nel museo Borgiano a Velletri. Vi è rappresentato l’uso degli antichi Gentili di cercare le risposte degli oracoli in sogno, dormendo sulla pelle degli animali, che aveano sagrificato. I Greci solevano ciò fare principalmente all’oracolo d’Anfiarao in Oropo paese [p. 447 modifica]dell’Attica, sagrificando un ariete, come narra Pausania147. Nel Lazio, e precisamente nella Selva Albunea si faceva lo stesso all’oracolo di Fauno, sagrificando però agnelle, o pecore, come facevano anche i Daunj, e i Calabresi, per testimonianza di Tzetze riferito dal Brodeo148. Fra quelli, che confutarono l’oracolo in tal maniera in quella selva, è celebre il re Latino nella Eneide di Virgilio149. Se si volesse credere rappresentato questo fatto del re Latino nel nostro bassorilievo, avremmo in esso un lavoro romano, come accennammo nel Tom. iI. pag. 147. col. 2., e di un soggetto, che uscirebbe dalla storia mitologica d’Omero; benchè in sè abbia del mitologico anch’esso. La figura sedente potrebbe essere il re in atto di dormire: il cortello, e le parti degli animali significarebbero il sagrifizio preventivo, e i due alberi la Selva Albunea; essendo solite le selve a rappresentarsi nei monumenti con un albero, come in un medaglione d’Adriano dato dal Buonarruoti150, e in altri monumenti, che si vedono frequentemente. Pare peraltro, che una delle teste degli animali, esattamente disegnata, sia di capra, anzichè di ariete, o di pecora, come dimostra la barba, e la forma delle corna. E’ notabile, che il re tiene appeso il fodero del cortello sotto il braccio destro. Intorno a questo costume di consultare gli oracoli in sogno può anche vedersi il signor abate Raffei151.

18. Pag. 375. Bassorilievo in marmo della villa Albani dato da Winkelmann nei Monumenti antichi inediti152, e nominato qui nel Tom. iI. pag. 254. Il soggetto è il colloquio d’Alessandro il Grande coi filosofo Diogene sotto le mura della città di Corinto, che sono indicate nel muro a grosse pietre quadrate, con un albero, che sarà capriccio dell’ardita per interrompere l’uniformità. Winkelmann pensa, che la fabbrica fattavi come in lontananza possa essere il ginnasio detto Cranio, vicino alle mura di Corinto, ove stava Diogene nel dolio, o vettina di terra, figurata così rotta, e poi fermata con due spranghe fatte a coda di rondine, perchè gli fu rotta da un [p. 448 modifica]giovanetto ateniese, che ne fu pubblicamente castigato. Sopra il dolio si vede un cane per allusione al sopranome di cinico dato a Diogene. In tal maniera nel dolio, e col cane, egli è figurato in più gemme illustrate da Winkelmann nella descrizione del mufeo Stoschiano153, in una presso il Causeo154, e in un bassorilievo portato dallo Sponio155, nel quale si vede anche il tempio. Si dee finalmente notare, che la testa d’Alessandro, e altre non piccole cose nel nostro bassorilievo sono moderno restauro.

19. Pag. 385. Bassorilievo in marmo bianco della villa Albani di un lavoro finitissimo. Vi è scolpita una delle più belle immagini d’Antinoo favorito d’Adriano, in grandezza naturale, coronato di fiori di loto. Se ne dà la figura in parte rotta, quale era prima che fosse restaurata. Qui si vede, che nella mano sinistra teneva come una fettuccia, o correggia, non mai un’altra corona, che si sarà duplicata negli occhi sciarpellati del sig. abate Bracci, il quale crede156 inutile di confutare l’opinione proposta da Winkelmann alla pag. 385. per ispiegarne il significato, spacciando francamente, che vi si veda ancora nella mano una parte dei fiori.

20. Pag. 389. * Intaglio col nome dell’artefice Dioscoride dato da Winkelmann nella prima edizione della Storia dell’Arte, e nominato dagli Editori Milanesi nel Tom. iI. pag. 331. n. 1. Vi si rappresenta Mercurio col caduceo, e una testa d’ariete dentro un piatto, o patera, portata nella mano sinistra, per cui si chiama Crioforo, o porta ariete. Pausania parla157 di tre statue di quelfo Mercurio, l’ultima delle quali in Tanagra città della Beozia era opera di Calamide: ma in esse Mercurio portava intiero, e vivo l’ariete, come si vede anche sulla bocca di pozzo del museo Capitolino, di cui fu parlato altrove158, e in tanti altri monumenti. In tre gemme del museo di Scosch illustrato dal nostro Autore159 è rappresentato quel dio parimente col caduceo nella destra, e nella sinistra la testa dell’ariete. In una statuetta posseduta del marchese [p. 449 modifica]dell’Ospital già ambasciatore di Francia alla corte di Napoli, Mercurio ha nella mano sinistra una patera con entro una tartaruga. Il P. Paciaudi, che la illustrò con una dissertazione, stampata in Napoli nel 1747., molto si estese sul simbolo della tartaruga dato qui a Mercurio, facendo vedere con molti esempi recati dal P. Montfaucon160, nelle mani Pantee, e in altri monumenti che si trovi Mercurio collo stesso simbolo, o il simbolo almeno per allusione ad ess. Lo Schoepflin161 nomina una statua di quel dio colla tartaruga ai piedi trovata nella campagna di Zurigo, probabilmente come si vede alla statua di Germanico a Versailles, che noi per questo simbolo dicemmo alludere a Mercurio162.

21. Pag. 407. * Gemma incisa posseduta dal signor abate Bianconi segretario perpetuo dell’Accademia delle belle arti in Milano, nella quale si pretende ravvisare fenza giusto fondamento le teste di Massinissa e Sofonisba. Vedi Tom. iI. pag. 306. not. b. Questa, e le altre gemme greche, e romane ordinariamente sono liscie per di sotto. All’opposto molte delle egiziane, e le etrusche quasi tutte, come quelle descritte qui avanti hanno il fondo lavorato in figura di scarafaggio, o scarabeo. Degli Egiziani è facile dare la ragione di avervi fatta quella bestia; perchè da essi era venerata quale immagine del sole163. Per gli Etruschi dubita Winkelmann164, se lo abbiano fatto ad imitazione degli Egiziani, dai quali abbiano anche appresa l’arte di scolpire. Plinio165 ci dà notizia, che gli antichi artefici di gemme quando lavoravano teneano uno scarafaggio di color verde, per ricreare l’occhio, ed aguzzar la villa. Chi sa, che questi artisti avendo sempre avanti quella bestiola, non si pigliassero talvolta il piacere di scolpirne l’immagine sulla stessa gemma, per cui la guardavano?

22. Pag. 427. Medaglione di Lucilla figlia di M. Aurelio e di Faustina, e moglie di Lucio Vero. Il rovescio tutto insieme ha qualche somiglianza con una pittura trovata negli [p. 450 modifica]scavi della villa Negroni, ove perciò si è sospettato, che abbia avuto un luogo di delizie la stessa Lucilla. Se ne è ricavato il disegno dal medaglione alquanto più piccolo, posseduto in Roma dall’illustre prelato monsignor Caetani, e si è combinato con quello dato dal P. Mazzoleni166. Quello, che dà il Vaillant, almeno secondo l’edizione romana della di lui opera167, è molto scorretto, come lo è presso altri, che l’hanno ripetuto. Se ne parlò nel Tomo iI. p. 58. col. 2.


Tavole grandi in fine del Tomo.


I. * Pezzo degli ornati incisi a semplice contorno sulla cista mistica dei museo del Collegio Romano, di cui si è parlato qui avanti al num. 11. di questo Tomo iI. Vi si raffigura una parte delle gesta degli Argonauti segnate in tutto il contorno del vaso; ed è la vittoria di Polluce sopra Amico re de’ Bebrici, che lo avea costretto a battersi con lui al cesto, sperando di farne strage come avea fatto barbaramente di tanti altri capitati nel suo regno. Le descrizioni costanti dei mitologi insegnano168, che Polluce vinse, e uccise quel sovrano col cesto. Qui all’opposto lo lega ad un albero dopo averlo vinto, forse per quindi ucciderlo, o farlo morire di stento. L’artista avrà seguita qualche altra relazione, o immaginazione di scrittori a noi incogniti; o avrà avuta in vista qualche altra ragione particolare, come già notammo169. Sarebbe più interessante per l’arte, e per la storia di sapere il tempo preciso, in cui sia stlato fatto quello lavoro, e chi debba dirsene autore, cioè se sia opera di stile etrusco, o greco. Greca è senza dubbio la rappresentazione; greci sono i baccanali, ai quali appartiene la cista, e da un greco furono introdotti prima in Etruria, e quindi parlarono in Roma, ove furono solennemente proscritti l’anno 566. della sua fondazione. Dalla storia, che ce ne dà Tito Livio170, si può congetturare che vi fossero introdotti qualche tempo prima; e di certo si [p. 451 modifica]ha, che gran parte dei cittadini era iniziata in que’ riti, per li quali vi era un grande trasporto, e fanatismo. Può dunque tenersi per fermo, che la cifra sia anteriore a quell’anno sì per quella proscrizione, e sì per la forma delle lettere, e l’ortografia delle parole, come fu rilevato al detto num. 11. E che difficoltà potremmo avere a credere, che Navio Plauzio abbia lavorata in Roma la cista sullo stile migliorato da greci artisti? Per poco che s’intenda l’arte, e si abbia pratica dell’antichità, si capisce, che la composizione di tutto il grafito, l’aggruppamento delle figure, l’esattezza dei contorni, e anche gli abiti, la Minerva, e l’Apollo, i quali assistono al supplizio di Amico, sono certamente di maniera greca, che poco mostrano di comune coll’etrusco, e danno un’idea delle arti già da quel tempo molto perfezionate in quella città. Si veda appresso al numero XIV. del Tomo iiI.

II. Statua in marmo greco detto a giaccione dell’altezza di nove palmi, e tre quarti, posseduta in Roma dal signor marchese Massimi nel suo palazzo alle Colonne. Ha il pregio singolare di essere intiera, fuorchè in un pezzo della gamba dritta restaurato. Se ne è parlato a lungo nel Tom. iI. p. 211. e segg. per provare, che è una copia del famoso Discobolo, o giuocatore del disco fatto in bronzo da Mirone; e che se ne hanno altre copie in marmo, sebbene mutilate. Il giudizio, che dell’opera di quel celebre statuario dà Quintiliano, e molto più ciò, che ne dice Luciano, il quale prima di darsi alla filosofia esercitò la scultura fino all’età d’anni trenta, e vedeva i giuochi della Grecia, bastano a farne l’elogio, e a difenderla dal preteso difetto del piede ritorto contro natura. Gli antichi artisti voleano principalmente distinguersi nell’effigiare gli eroi, o gli altri uomini di qualche merito, in quel punto, che era il più interessante delle loro azioni, ma nel tempo stesso il più difficile ad imitarsi. Ctesilao fece la statua in bronzo di quel moribondo, in cui potea comprendersi quanto di vita ancora gli rimanese, come scrive Plinio171. Tale può dirli anche il così detto Gladiatore moribondo del Campidoglio, che Winkelmann pensa essere un araldo, e fra [p. 452 modifica]gli altri Antemocrito araldo di Pericle, o come noi crediamo piuttosto un trombetta spartano, o un armigero, benchè si legga in una lettera del re Filippo tra le opere di Demostene172, che a quell’araldo fosse eretta una statua. Nel Filottete opera di Pittagora gli spettatori quasi sentivano il dolore della di lui piaga173: l’Apollo del Vaticano è preso nel punto di partire; e l’opera famosa d’Agasia, di cui appresso riparleremo, è figurata nel punto estremo, dove può giugnere un guerriere, o atleta, che si ripara da un colpo, steso, e storto quanto è possibile con tutto il corpo. Questa fu certamente la stessa mira dell’autore del Discobolo; come dovette esserla in altra statua di Lada vincitore al giuoco della corsa, che da lui fu gettata in bronzo in atteggiamento quasi di volare, appena reggendosi sulla punta d’un piede, quale è descritta in un epigramma dell’Antologia greca174, che riportiamo secondo la traduzione latina fattane dal ch. Cunich175:

Qualis eras, Lada, fugiens pernicior euro,
Vixque imo tangens flammeus ungue solum,
Ære Myro talem fecit: studiumque corona,
Et prima toto e corpore laudis amor,
Lataque se prodit fiducia: pectore ab alto
Ductam animam summis cernimus in labiis.
Jam fugiet; palma adsiliet jam jamque volucre
Æs, ipso levior quod ciet ars animo.

Il Ficoroni176 ci dà notizia di alcuni frammenti di busti in marmo, col nome di Mirone scultore in uno, trovati l’anno 1734.: ma chi può dire, che appartengano al nostro Mirone, o a qualche altro: quando questo nome si trova dato a molte altre persone in varj tempi, come liberti, ed altre?177. S’ignora il soggetto rappresentato nella nostra statua. Se si volesse ricorrere alla storia eroica, potrebbe credersi un Perseo, che fu inventore del disco178. Ma il sapersi, che Mirone fece la statua di quel vincitore al corso, ed altre179, rende verisimile, [p. 453 modifica]che facesse anche questa per un altro vincitore, le statue de’ quali soleano farsi in bronzo, come si rileva dalle tante, che nominano Plinio, e Pausania. Sulla fronte della figura si vedono due punti sollevati, indicati pure nella stampa in rame, che vogliono due punti regolatori lasciativi forse per inavvertenza dall’artista.

III. Statua in marmo bianco maggiore alquanto della grandezza naturale, esistente nella villa Borghese. Rappresenta Apollo in atto di prendersi giuoco a saettare una lucertola rampicata a un albero, detto perciò Saurottono, ossia ammazza lucertole. L’originale fu opera celebre di Prassitele, descritta da Plinio, e da Marziale. Vedi Tom. I. pag. 382., iI. pag. 223. e segg. Winkelmann alla pag. 225. e 316. vorrebbe togliere alla storia degli artisti un altro Prassitele, di cui parla Cicerone180, che perciò vorrebbe li emendarle in Pasitele, credendo che sia il medesimo, di cui parla Plinio181; e anche vorrebbe nel Trattato preliminare ai Monumenti antichi inediti si emendasse Plinio in altro luogo182, ove nomina un Prassitele, vivuto circa i tempi di Pompeo. A me pare che quello non sia il medesimo Pasitele (così dovrà leggersi, ove ne parlai alla detta pag. 225. n. *), del quale Plinio parlò in que’ due altri luoghi; perchè Pasitele lo nomina pure altra volta183; e dal contesto dei di lui discorsi ben si comprende, essere persona diversa da Prassitele, il cui nome è ricordato anche dallo Scoliaste di Teocrito, come osserva il Giunio184. Un Pasitele scultore maestro di Stefano, si ha nella iscrizione posta da questo medesimo Stefano ad una sua statua nuda in marmo, creduta rappresentare uno de’ Tolomei, ora conservata nella villa Albani, e data in rame dal signor abate Marini185, che pur ha notato l’errore di Winkelmann. Non so se sia quello stesso, di cui parla Plinio. Mi pare bensì, che quello fosse contemporaneo di Prassitele; perchè gli fu data la cittadinanza romana insieme ad alcuni popoli della Magna Grecia verso quel tempo; e fece, al dire di Plinio186, una statua di Giove in avorio per il tempio di Metello.

[p. 454 modifica]IV. Statua in marmo bianco di Laocoonte co’ suoi figli tormentati a morte da due serpi, mandati, secondo la favola, da Minerva per punire il padre dell’attentato contro il cavallo di Troja, e delle sue rimostranze perchè non fosse introdotto nella città187. Winkelmann ne ha parlato più volte, nel Tom. I. pag. 309. 337. Tom. iI. pag. 14. 117. 240. segg. Lungo trattato ne hanno scritto i signori Lessing, e Heyne; ma meglio di tutti ne esamina parte a parte le bellezze, e le particolarità il ch. espositore del Museo Pio-Clementino188. con una energica descrizione. Noi ci tratterremo soltanto a dire qualche cosa per supplire a ciò, che osservammo alla pag. 241. e 244. del Tom. iI. La figura in rame, che qui se ne dà, l’abbiamo fatta disegnare da un piano elevato quasi a livello della statua, perchè ci pareva, che questo fosse a un di presso il vero punto di vista del gruppo, non quello, che ha nel luogo, ove si trova nel cortile di Belvedere, posto sopra un piedistallo piuttosto alto, di maniera che si guarda dal sotto in su. Da questo punto prescelto si gode l’inarrivabile espressione della testa di Laocoonte, che si vede coronata di lauro a guardarla di fianco, e la testa dei figlio piccolo a destra del padre; tutto si scorre coll’occhio il bello della composizione; e come bene osserva anche il lodato espositore, la gamba del figlio più grande, che a misurarla è alquanto più lunga, veduta da questo punto si accorcia, e comparisce proporzionata per ragione di ottica189. A prima vista non sembra potersi rimediare ai tanti giri dei serpi, che per il loro intreccio furon detti da Plinio maravigliosi: dracorum mirabiles nexus190. Essi sono tanti, che fanno comparire la lunghezza di tutto il serpe un terzo maggiore del vero, come può comprendere chi ha qualche notizia di storia naturale, o ha veduto alcune specie di serpi, o vuol fissare almeno lo sguardo sopra il serpe, che si rampica al tronco della statua del vicino Apollo, di cui diamo la figura al num. IX., e ad altri, che veggonsi negli antichi monumenti: difetto, che gli scultori Agesandro, Polidoro, e Atenodoro avrebbero dovuto [p. 455 modifica]sagrificare alla disposizione delle figure, che tutte tre essi voleano far aggruppare, e vincolare dai serpi con qualche artifizio. Con tutto ciò, riflettendosi, che di serpi lunghi assai ve n’ha più d’una specie secondo i paesi, arrivando fino a 30. cubiti quei d’Epidauro, come narra Pausania191; e che quei, che assaltarono Laocoonte, secondo Virgilio, e Quinto Smirneo192, forse erano serpi acquatici, o anfibj, i quali d’ordinario sono più lunghi dei terrestri; potremo dire con probabilità, che gli scultori del gruppo li facessero tanto lunghi, perchè credeano, che tali dovessero farsi per qualche ragione naturale, senza il bisogno di allungarli per l’effetto predetto. Baccio Bandinelli fu il primo a restaurare in cera il braccio destro del figlio piccolo, e la mano sinistra del grande, quando volle farne la copia in marmo per il cardinale Giulio de’ Medici, che ora sta nella galleria Granducale maltrattata dal fuoco. In appresso non so da chi fosse restaurato in terra cotta il braccio del padre, variando dall’idea del Bandinelli col distenderlo più, e togliergli l’avvolgimento del serpe. Considerando l’originale, Baccio ideò bene il restauro; perciocchè il braccio dovea torcere più in dietro; e certi avanzi di attacchi mostrano di richiamare il giro del serpe nel principio del braccio; come lo avea fatto il medesimo, con generale applauso, al dire del Vasari. Il resto fu lasciato tal quale, finchè poi lo restaurò in marmo poco bene, e variando il Cornacchini, come si vede dalle stampe in rame, che ne furono fatte in seguito, al confronto della detta Statua di Firenze, e della stampa in legno, che ne fece Tiziano rappresentando le tre figure con tre scimie, per deridere la presunzione, che avea Baccio di volerne fare una copia migliore dell’originale, di cui alterò le forme, e l’espressione. L’altezza di tutto il gruppo è di palmi otto, e once nove; senza il plinto palmi otto, e once cinque.

V. Erme d’Alessandro il Grande maggiore del naturale, interessantissimo per essere finora l’unico scoperto colla iscrizione antica. Se ne è parlato molto nel Tom. iI. pag. 23. n. a. Abbiamo quindi ragione di credere, che sia l’immagine vera [p. 456 modifica]di quel famoso conquistatore; non potendosi accertare delle altre teste, come quella della villa Borghese, e le altre nominate al luogo citato. Dei ritratti di lui nelle medaglie si è già veduto al num. 8. di quello Tomo, che quello creduto da molti, non lo sia di certo. Lo stesso può dirli dell’altra testa, data per vero ritratto dal Liebe193, e dal Neumanno194, la quale piega in dietro guardando in alto, col leone nel rovescio, o Cupido a cavallo al leone; la prima in argento, che si crede coeva ad Alessandro; e l’altra in bronzo del tempo di Alessandro Severo di lui grande ammiratore. Questa testa per verità rassomiglia a quella del Campidoglio data da Winkelmann195, a quella della Granducale a Firenze, e a qualche altra, creduta di Alessandro. Ma se vogliamo sostenerle per ritratti di lui, potremo dire, che ne sia forse un poco alterata la fisonomia per rappresentarlo quasi divinizzato; osservandosi dai buchi, che ha intorno la testa del Campidoglio per inserirvi dei raggi a modo di corona, che era fatta per rappresentare alcuno coi simboli del sole: benchè l’idea del volto sia tale, che in questa, e nell’altra testa della Granducale, taluni v’abbiano riconosciuto Alessandro moribondo, o piangente per la morte di qualche suo favorito. Archelao presso Plutarco196 ci dice, che Lisippo fece in bronzo l’immagine d’Alessandro col volto cosi alquanto sollevato verso il cielo, come soleva portarlo; e che altri volendolo imitare in quella politura, non conservavano il di lui carattere. Pare quindi che fosse una particolarità di questo statuario il farlo così; non di Pirgotele, che ebbe anche il privilegio di rappresentarlo in gemma, e Apelle in pittura, il quale secondo lo stesso Plutarco lo dipinse in atto di fulminare. E chi sa che l’erme non sia copiato dal ritratto originale di questi due artisti, o non sia anch’esso originale, o ricavato dall’originale scolpito in marmo, di cui non si sa che vi fosse scultore? Se Alessandro medesimo non avesse approvato la maniera di Lisippo, scegliendolo per suo artefice in bronzo, potrebbe dirsi, che gli altri artisti avessero [p. 457 modifica]cercato di sminuire secondo la solita regola e del decoro, e dell’adulazione197, il difetto, che esso aveva di pendere col capo verso l’omero sinistro, e che perciò nell’erme appena si accenni con una gonfiezza nel collo da quella parte, che fa quasi pendere la testa alla parte opposta; e come osservammo alla pag 251. not. e., Caracalla imitando Alessandro per questo difetto portava la testa piegata alquanto verso la spalla sinistra, non verso il cielo, quale la vedeva nelle di lui immagini, al dire d’Aurelio Vittore. La grandezza dell’erme è di circa i tre palmi in tutto: ben conservato nel volto, fuorchè il naso rotto, e la pelle un pò corrosa. Il marmo è cipollino statuario. Questo marmo cipollino, che era di varie specie, si cavava nel territorio della città di Caristo nell’isola Eubea198, ora Negroponte, detto perciò caristio, di cui si facevano principalmente le colonne. Per il suo colore bianco pallido, e verde chiaro si dice di vario colore da Strabone al luogo citato, e da Seneca199: Paolo Silenziario200, e s. Isidoro201 lo chiamano verde, e Stazio202 lo paragona alle acque del mare. Vedasi anche il Cariofilo203. L’annotatore al Nardini204, il quale crede, che il cipollino sia il marmo detto frigio dagli antichi, non avrà osservato le descrizioni, che essi danno di questo, dalle quali conosciamo essere il marmo detto ora paonazzetto, allora frigio, e sinnadico, dalla città di Sinnada nella Frigia. Tutti convengono nel dirlo bianco strisciato, o asperlo di macchie paonazze, o color di sangue. Stazio205:

Sola nitet flavis Nomadum decisa metallis
Purpura, sola cavo Phrygiæ quam Synnados antro
Ipse cruentavit maculis lucentibus Atys:
Quasque Tyrus niveas secat, & Sidonia rupes.

e nella descrizione della villa Sorrentina di Pollio Felice206:

[p. 458 modifica]

Synnade quod mœsta Phrygia fodere secures
Per Cybeles lugentis agros: ubi marmore picto
Candida purpureo distinguitur area gyro.

Sidonio Apollinare207:

Cedat puniceo preciosus livor in antro
Synnados.

Claudiano208:

Purpureis cui cedit Synnada venis.

e Paolo Silenziario209: Purpureo simul, ac argenteo flore suaviter coruscantem. Giuliano l’apostata210 parla di una specie di marmo frigio bianco, al quale paragona le croste del ghiaccio rotto nel fiume di Parigi, la senna, che deve essere diverso dal paonazzetto.

VI. Statua di Demostene in atto di arringare con un volume in mano. Si è tratto il disegno dal gesso posseduto in Roma dal signor Jenkins inglese; essendo andato l’originale di marmo bianco in Inghilterra. Vedasi Tom. il. pag. 255. col. 1. La fisonomia è precisamente la stessa delle teste ora riconosciute per ritratto di quel principe degli oratori greci211, e del bassorilievo, di cui parlammo sopra al numero 12. In tutte quante si vede il labbro di sotto alquanto ritirato in dentro, forse per esprimere il difetto di balbuziente, ricordato da Cicerone212, da Valerio Massimo213, da Plutarco214, Laerzio215, ed altri. Tiene le braccia fuori in atto di gestire, per ciò ch’egli stesso racconta216, vale a dire, che a suo tempo generalmente così era usato di gestire colla mano; quando a’ tempi anteriori Pericle, Temistocle, Aristide, ed altri per modestia arringavano colle mani sotto l’abito: e ne dà per prova anche una statua inalzata a Solone 50. anni prima217 nella città di Salamina, rappresentata colle mani sotto: cosa da notarsi per riconoscere le sue figure se mai se ne scoprono: Veteres oratores Pericles, Themistocles, Aristides adeo [p. 459 modifica]modesti fuerunt, ut quod nunc de more omnes facimus, ut prolata manu dicamus, id tum audacia tribuerint, & verecundati sint. Cujus ego consuetudinis me reipsa magnum vobis argumentum ostensurum arbitror. Satis enim scio, vos omnes trajecisse Salaminem, & Solonis spectasse statuam. Itaque ipsi testari potestis, Solonem in foro Salaminiorum situm esse manu intra vestem condita. Illud est monumentum, Athenienses, & simulacrum gestus Solonis, quonam pacto cum populo Atheniensium sermonem habnerit.

VII. Ercole di Farnese in atto di riposarsi dopo vinto il leon nemeo, appoggiato sulla clava colle spoglie di quella bestia, e con tre pomi nella mano destra, che tiene ripiegata sul dorso, per ragion de’ quali Winkelmann Tom. iI. p. 285. vuol che si riposi dopo l’impresa dell’orto delle Esperidi. Le gambe sono moderne, fatte da Guglielmo della Porta sul modello in terracotta ideato da Michelangelo Buonarruota, e tanto eccellentemente, che trovatesi le antiche nel 1560., ora custodite nelle villa Borghese, Michelangelo fu di parere, che vi si lasciassero le moderne218. Accennai nel Tomo iI. pag. 412. not. b. l’opinione dell’Haym, che vuole trasportata in Roma questa famosa statua dall’imperatore Antonino Caracalla, che la pose nelle sue terme. In una medaglia dei Messenj al tempo di Settimio Severo padre di Caracalla219, e in un medaglione de’ Tralliani220 se ne trova ancora l’immagine, non so se perchè ne avessero qualche copia, o per adulazione a Caracalla. Libanio221 descrive una statua d’Ercole senza dire di qual materia, di qual artefice, e in qual luogo si trovasse, che pare combini a puntino colla nostra. E’ fuor di dubbio. che se ne facessero molte copie, una delle quali un poco alterata sta accanto ad essa nel cortile del palazzo Farnese, una la possiede monsig. Guarnacci a Volterra, di cui parlammo alla pag. 286. not. a., e una piccola in bronzo si ha nella villa Albani. L’artefice di essa Glicone è ignoto nella storia; ma supposto che sia stata trasportata in Roma da Caracalla, non sarà maraviglia, e non potremo [p. 460 modifica]ragionevolmente col cav. Mengs222 trarne un argomento di dubitare della autenticità di quel nome; perocchè Plinio, a cui dobbiamo la memoria della maggior parte delle statue, che esistevano in Roma a suo tempo, morto tanti anni prima di Caracalla, non potea parlarne; e rari sono gli altri posteriori, che abbiano avuto gusto, e premura per quelle cose. Lo stesso diremo riguardo ad Agasia, di cui si parlerà qui appresso al numero X., e di altre famose statue, forse portate in Roma ne’ tempi dopo Plinio. Winkelmann parla di quell’Ercole nel Tom. 1. pag. 302. 309. 349. 392., nel Tom. iI. pag. 285., ove ne fa il confronto colla statua d’Ercole, detto il Torso di Belvedere, nella quale questo dio è anche rappresentato in atto di riposarsi, ma però sedente col braccio destro appoggiato alla coscia destra, e col sinistro (non col destro come dice Winkelmann per equivoco) alzato verso il capo, appoggiato forse alla clava, come nelle gemme, delle quali parlammo qui avanti pag. 229. Nella iscrizione posta sulla base dell’una, e l’altra statua si vede l’ω fatto così all’uso corsivo, che Winkelmann in una lettera qui avanti pag. 196. dicea non trovarsi nelle medaglie prima di Polemone re di Ponto vivuto ai tempi d’Augusto; ma poi alla pag. 282. del Tomo iI. riflette, che si trova molto prima nelle medaglie dei re di Siria. Io l’ho trovato nelle monete dei Soluntini223, che dovrebbero essere molto antiche, e in quelle degli Egiei, che devono essere state battute durante ancora la lega degli Achei224, fecondo che osserva il signor Eckhel, da cui furono pubblicate225.

VIII. Statua di bigio morato, maggiore del naturale, che si vede nel cortile del palazzo dei conservatori in Campidoglio con un’altra compagna. Vedasi Tom. I. pag. xxvij., pag. 425., e Tom. iI. pag. 13. not. b., e pag. 320. La stretta benda, che le cinge la fronte, vi ha fatto riconoscere un sovrano; e l’attitudine delle mani un prigioniero. Ma voglio qui osservare, che secondo Dione Grisostomo226, pare che quella benda fosse comune anche ai cestiarj, pugili, e pancraziasti [p. 461 modifica]vincitori nei giuochi, come da taluno è stato inteso. Egli però non parla più in quello luogo di atleti, de’ quali avea parlato prima; bensì di altri, che per qualche male avessero fracassata la testa, legata, o fasciata poi con una benda, per farne un paragone coi sovrani, che portavano al capo la benda per insegna reale.

IX. Statua celebratissima dell’Apollo di Belvedere in marmo bianco greco, alta palmi 9. once 11., e palmi 9. once 8. senza il plinto. Ho congetturato, che rappresenti Apollo nell’atto di partire verso Tempe dopo avere scagliati contro il serpente Pitone i suoi dardi, i quali secondo il poeta Simonide227 furon cento, detto quindi Apollo ἑκατόν, vale a dire centenario. L’atteggiamento delle braccia è di avere saettato; e porta anche la faretra, che gli si vede dietro le spalle. Winkelmann notò pure un non so che di sdegnoso nel naso, ove gli antichi fissavano quasi sa fede dello sdegno228. Veggasi Tomo I. pag. 85. §. 8., pag. 332. seg., 371. 392., e Tomo iI. pag. 355 segg.

X. Statua in marmo bianco greco, opera d’Agasia col nome greco inciso nel tronco d’appoggio, che forma uno de’ principali, e più belli ornamenti della villa Borghese. Questo nome di scultore, per quanto si sappia, non è stato registrato dagli antichi scrittori, o non è a noi pervenuto alcun loro scritto, in cui si nominava. Il soggetto della statua è stato finora controverso, e indarno si è faticato per indovinarlo. La volgare denominazione di Gladiatore è senza alcuna ragione; datale forse in passato, come a tante altre, che sono d’eroi greci, perchè sempre si aveano in mira soggetti appartenenti a Roma. Winkelmann229 ha osservato, che l’orecchia antica di essa è fatta come quelle dei Pancraziasti, o Pugili, osservate da lui anche nelle altre statue di questi. Tale sembra anche a me: ma non si può dire perciò, che la statua rappresenti un di quei giuocatori, come neppure Winkelmann lo dice. Al più ne inferiremo, che il soggetto siasi prima esercitato in quei [p. 462 modifica]giuochi; e qui poi sia rappresentato da guerriere. Nel braccio sinistro ha l’attacco dello scudo, che si può credere stato di bronzo per li buchi rimastivi al di sopra; e nella mano destra che è moderna, come l’altra, avrà forse impugnato la spada. Non farà maraviglia il vedere la figura nel resto tutta nuda; potendosi facilmente rispondere, che lo scultore volendo fare un’eccellente figura al vero tutta nuda, non dovea imbarazzarla da farne perdere gran parte coll’elmo, vesti, tracolla, e fodero di spada. E’ cosa frequente nei Momunenti antichi di Winkelmann, e nelle monete il vedere guerrieri o senza l’elmo, o senza vesti, colla sola lancia, e scudo. La mossa delle braccia della nostra statua non è certamente di uno, che cerchi difendersi da un pugno, e nel tempo stesso voglia contracambiarne uno all’avversario; ma di un guerriere, che si ripara, o cerca di riparare altri collo scudo nel braccio sinistro, e colla spada nella destra vuol avventarsi al nemico per ferirlo da sotto in su. Chi poi sia questo guerriere non è facile il dirlo. Fra le tante congetture potrei motivarne tre. Primieramente, che sia un Ajace figlio di Telamone, di cui sappiamo da Ditte Cretense230, che si segnalò in una circostanza, che potrebbe adattarli all’atteggiamento della statua: vale a dire, che sotto alle mura della città di Troja inseguendo coraggiosamente i Trojani, i quali si ritiravano dentro la porta, seppe guardarsi da un nembo di terra, e di sassi scagliatigli contro dalle mura, che scansava collo scudo, senza punto desistere dal dare addosso ai nemici: Ajax Telamonius insecutus fugientes, adusque portam pergit. Ibi cæsa vis multa hostium quum festinantibus inter se, & singulis evadere cupientibus, magis in ipso aditu, multitudine sua detinerentur. Interim multi eorum, qui primi evaserant, super muros sui, collecta undique cujusquemodi saxa, super clypeum Ajacis dejicere, congestamque quamplurimum terram desuper volvere; scilicet ad depellendum hostem: quum super modum gravaretur egregius dux, facile scuto decutiens, haut segnius imminere. Potrebbe essere anche l’altro Aiace figlio d’Oileo, che si vede in questo atteggiamento, sebbene armato anche coll’elmo, nelle [p. 463 modifica]monete di Locri sua patria231, forse per qualche particolare azione, in cui si segnalò con quella positura: e finalmente potrebbe sospettarsi eretta la statua in onore di Leonida spartano, che tanto si refe famoso pel coraggio inoltrato nel resistere con trecento soldati alla numerosa armata di Serse nello stretto passo delle Termopile: bravura celebrata dagli scrittori greci232, ed anche dai latini233 con ammirazione. Potrebbe dirsi appunto rappresentato Leonida nell’atto di fare il maggiore sforzo per reggere all’impeto di tanto esercito. Catone presso Aulo Gellio scrive, che fu onorato da tutta la Grecia Leonida, e suoi compagni con iscrizioni, statue, elogi, ed altre memorie gloriose; e di monumenti parlano anche Erodoto, Strabone, e Pausania234. L’insussistenza dell’opinione del sig. Lessing, che facemmo notare alla pag. 362. Tom. iI., di riconoscervi cioè il generale Cabria, è stata poi rigettata dal medesimo autore nelle sue lettere antiquarie235, sull’autorità di Diodoro236, e di Polieno237, che nel descrivere la positura di Cabria accordansi a Cornelio Nepote, ed anche più chiaramente la descrivono. Nel volto della statua si vedono molti caratteri di ritratto, e fattezze non troppo eroiche, o da sovrano: onde potrebbe sospettarfi ancora, che vi fosse rappresentato un semplice soldato distintosi forse nella mentovata, o altra circostanza; se non vogliamo dire, che l’artefice ne abbia alterate le forme.

XI. Statua in bronzo dell’altezza di circa venti palmi, esistente nella pubblica piazza della città di Barletta nella Puglia. Alla pag. 425. col. 2. ho detto, che possa essere un Costantino, e forse direi uno dei figli, giudicando sul disegno tanto gentilmente inviatomi dal signor D. Emanuele Mola prefetto dei regj studj, ed accademico nella vicina città di Bari. Questi, benchè mi confessi di essersi dovuto prevalere di un poco abile pittore; pure deve ringraziarsi della notizia di un monumento così interessante; avendo voluto contribuire con quel buon gusto, che è raro in provincia, all’onore di quella [p. 464 modifica]città, e dell’Italia, e alla maggior importanza di questa edizione dell’opera di Winkelmann, alla quale è associato: e noi contenti di averne data un’idea, desideriamo, che qualche abile artista ne taccia un più bello, e più esatto disegno. Costantino è creduto in Barletta anche dai più illuminati. Il volgo lo chiama Eraclio. Ma oltre che non rassomiglia alle medaglie di quell’imperatore, che hanno la barba, e fisonomia diversa affatto238; è impossibile, che nella totale decadenza delle arti verso la metà del VII. secolo siasi potuta fare una statua sì magnifica, grandiosa, e di non mediocre lavoro: se mai non volessimo dire, che secondo l’uso quasi generale de’ bassi tempi, la statua tolta alla memoria d’altro imperatore fosse dedicata in qualche particolare occasione ad Eraclio, senza badare alla somiglianza. Mi avvisa il lodato Mola, che la croce è moderna, e che la statua ha in capo una corona di lauro, non troppo frequente negl’imperatori cristiani, che trovo nelle medaglie averla per lo più di gemme. Le due statue dei figli di Costantino, o di Costantino stesso, nella salita del Campidoglio sembrano coronate di quercia.


TOMO III.

Frontispizio grande.


1. Ritratto di Winkelmann ricavato dal quadro a mezza vita fattone dal celebre pittore cav. Maron viennese poco prima che morisse l’Autore.


Sul frontispizio del Tomo.


2. Medaglia in bronzo della grandezza dell’originale posseduta dal signor ab. Visconti. Se ne è parlato nel Tomo iI. pag. 365;. not. b., ove si è detto essere l’unico sicuro monumento, che possa darci la vera immagine di Britannico; poco dovendosi valutare le medaglie greche, nelle quali si vede alterato, al solito delle medaglie fatte lungi dalla capitale. La figura armata, che vedesi nel rovescio, può spiegarsi per un [p. 465 modifica]Marte. Scrisse il nostro Autore239, che quel nume non si trova effigiato colla barba: ma ora possiamo dire il contrario molto più sicuramente dopo la scoperta della statuetta del Marte Ciprio in marmo bianco, fatta in Gubbio l’anno 1781. Ha ciò egregiamente osservato il signor conte Ranghiasci, che pubblicò la figura in rame colle sue dotte riflessioni, prima in una dissertazione inserita nella Raccolta degli opuscoli scientifici del P. Mandelli240, e poi nelle giunte, e correzioni ad essa pubblicate in Perugia al principio dell’anno 1784. In quelle dunque osserva colla scorta della sua statua, che sia pure un Marte, e forse l’originale di essa, la famosa statua gigantesca del Campidoglio pubblicata finora per un Pirro241, e da Winkelmann al luogo citato creduto d’Agamennone: congettura, che aveva già messa fuori il signor ab. Visconti col confronto principalmente del Marte, che si vede nelle monete dei Mamertini, e de’ Bruzj; come spiegava per un Marte anche l’altra statua del palazzo Borghese, data in rame dal sig. Lens242, quasi simile alla capitolina, fuorchè nelle gambe, che quella ha moderne, e la testa, che ha antica, e l’altra no. In conseguenza di quelle osservazioni diremo, che siano di Marte anche le gemme della galleria Granducale a Firenze pubblicate dal Gori243 per ritratti del detto re Pirro, ed altre immagini, che abbiano la stesa fisonomia. Però se quello della medaglia, che illustriamo, è un Marte, cade la congettura del lodato Ranghiasci, che vuole data la barba a quel nume dopo i tempi d’Adriano, vedendovi un non so che di calamistrato, o riccio artificiale all’uso di quell’imperatore, che io non so vedervi, perchè è ricciuta naturalmente; e senza replica ci provano l’opposto di questa epoca le citate monete dei Mamertini, e dei Bruzj, che sono molto più antiche, e possono vedersi presso il P. Magnan244. Finalmente aggiugneremo, che di Marte siano le gambe della gemma nominata dallo stesso nostro Autore nel Tom. iI. pag. 247., che sono [p. 466 modifica]ocreate come quelle della statua di Borghese, e mostrano quasi di volare, anzichè di correre, come dicono i poeti delle deità. Eppure il signor abate Bracci vuol che stimiamo queste gambe d’Achille sulla sua parola245; e tronfio di segnalarsi nel contradire a Winkelmann a forza d’ingiurie, e di spropositi, sus Minervam, piucchè ex pede Herculem, senza neppur conoscere le lettere greche ha il coraggio di riprenderlo in tuono magistrale quasi che vergognosamente sbagli nell’intendere l’iscrizione accanto ad esse . . ΙΝΤΟС ΑΛΕΞΑ per Quinto figliuolo d’Alessandro, in vece di Quinto Alessa. Egli anzichè riportarci degli altri ALEXA nelle iscrizioni latine, e negli scrittori, ci dovea dare esempi, ove si vedesse, che i Greci fossero soliti mettere nelle iscrizioni sulle gemme, ed altri monumenti, il loro nome, e prenome, se pur l’avevano; e che il nominativo dei mascolini della prima declinazione nella loro lingua finisca in Α, e non in ΑС: non potendosi dire, che qui vi sia l’abbreviatura dell’ultima lettera, come avrebbe almeno dovuto spacciare il signor ab, Bracci; poichè simili abbreviature non soleano farli nè presso i Greci, nè presso i Romani; e nella gemma vi era luogo da mettere anche due lettere. Un solo argomento potrebbe rilevare a suo favore il signor abate Bracci; e sarebbe l’inavvertenza degli autori della descrizione del museo Tiepolo, ove i genitivi greci in Α del nome di Galba246, ed altri gli spiegano in latino per nominativi.

3. Pag. 5. Frammento di terra cotta dell’altezza di circa un palmo, dipinto a varj colori, trovato con altri molti di diversa ripresentazione in uno scavo fatto nel mese di ottobre 1784. in Velletri, e ivi conservati nel museo Borgiano, di cui fanno uno dei più interessanti ornamenti. Se ne parlò qui avanti alla pag. 100. not. a. Essi ci danno una nuova idea di lavori volsci, e italici, e un nuovo stile non più veduto nei monumenti della nostra nazione. Una certa rigidezza, ma esattezza insieme, riportano l’epoca del lavoro ad un tempo molto antico, e mi fanno sospettare di essere imitati [p. 467 modifica]da migliori originali. Riuscirebbe di affermare qualche cosa se si potesse almeno congetturare il soggetto rappresentato nel pezzo, che diamo, e negli altri più interi. Se avessero rapporto a favole greche, non farebbe improbabile, che lo stile del lavoro fosse imitato parimente dallo stile greco, essendovisi notata della somiglianza colle figure dei due creduti più antichi vasi greci, o abusivamente etruschi, della collezione Hamiltoniana illustrati da Hancarville247; e avendo già osservato, e lo faremo di nuovo rilevare al numero XIV., che i Greci molto di buon’ora hanno portate, o migliorate le arti nella Magna Grecia, in Roma, e nelle sue vicinanze. La cista mistica illustrata qui avanti al numero 11. del Tomo iI., e la Minerva in bronzo della Granducale a Firenze, di cui si vede la figura presso il Gori248, benchè antiche assai, mostrano di essere o copiate da greci originali, o imitate, o fatte collo stile migliorato dai Greci; e abbiamo ricordate da Plinio249 le pitture di Marco Ludio Elota, nativo dell’Etolia, nel tempio di Cerere in Ardea anteriori a Roma; senza che possa ragionevolmente dubitarsi della sincerità, e antichità della iscrizione di esse, riportata dallo stesso Plinio, per le difficoltà proposte dal ch. Tiraboschi250; alle quali pare si soddisfi col dire, che Plinio avrà portati que’ versi secondo l’ortografia, e la pronunzia de’ suoi tempi, e direi quasi a senso: essendo continui gli esempi di ciò presso gli antichi scrittori. Così credo facesse Erodoto251 colle due celebri iscrizioni su due tripodi del tempio di Apollo Ismenio nella città di Tebe nella Beozia, e Plutarco252 colli due versi incisi da Teseo su quella colonnetta, che citammo pocanzi; e lo fece senza dubbio Cicerone riportando le parole di Ennio, e delle XII. Tavole. Molto oscuro è il soggetto di queste terre cotte principalmente per non essersi trovate intiere, o almeno seguita la rappresentazione. Nel pezzo, che illustriamo, è interessante la biga alata, se i cavalli sono forniti di ale finte naturali, come io credo, non di semplice ornato; vedendosi troppo chiaramente spuntare dalla vita senza verun [p. 468 modifica]indizio di cosa riportata, o attaccata. Serve così a confermare ciò che dicemmo nel Tom I. pag. xvj. e pag. 175 contro il sentimento di Winkelmann, il quale pretende, che non si trovi fatta menzione di carri con cavalli alati; ma solo di ali attaccate al carro stesso; spiegando in questo senso alcuni passi di icrittori, che vanno intesi senza dubbio di cavalli alati. Alati poteano essere i cavalli dati col carro da Nettuno a Ida figlio di Afareo, per rapire Marpessa, che parrebbero appunto rappresentati nel nostro monumento secondo le parole d’Apollodoro253, se una figura potesse dirli donna: Evenus genuit Marpessam, quam cimi Apollo sibi collocari in matrimonium quæritaret, Idas Apharei filius, accepto a Neptuno curro pennato (ἅρμα ὑπόπτερον) rapuit: perocchè lo stesso scrittore254 parla dei cavalli alati da Giove uniti al suo carro: ἐπὶ πτερῶν ὀχούμενος ἵππων ἅρματι; e di altri cavalli consimili parimente di Giove parla Luciano255. Platone256 parla anche di un cocchio a sei cavalli alati dedicato a Nettuno nell’isola atlantica; ma di questi cavalli potrebbe dubitarsi, che fossero marini, detti alati per le loro pinne; dicendo Platone, che Nettuno era accompagnato dalle Nereidi, e leggendosi dati dai poeti comunemente a quel nume i cavalli marini257: sebbene in una gemma presso il Begero258 indicatami dal signor abate Raponi, si trovi Nettuno sopra una biga con cavalli terrestri alati; potendosi dubitare della sua antichità: il che non sembra potersi dire d’un’altra gemma riportata nel supplemento alla Raccolta del conte di Caylus259, e ripetuta dallo stesso Raponi in una Raccolta di gemme, che illustra, in cui un uomo nudo, che può dirsi il fole, guida una biga di cavalli alati. Potrebbe nel nostro monumento sospettarsi figurato anche Pelope con Ippodamia guadagnata alla corsa del cocchio, i di cui cavalli sull’arca di Cipselo erano alati, come scrive chiaramente Pausania nel luogo, che riportammo alla detta pag. xvj. Questa biga di Pelope viene ricordata parimente da Pindaro260, ma in una maniera ambigua, se abbia [p. 469 modifica]da intendersi di ali date ai cavalli; o dei cavalli, che si considerino come due ali, che abbia il timone del cocchio lateralmente, una a destra, e l’altra a sinistra, come pensa Giovanni Benedetti nella nota a quell’ode. Ecco le paiole di Pindaro: τὸν ἀγάλλων Θεὸς, ἔδωκεν δίφρον χρύσεον, ἐν πτεροῖσίν τ᾽ ἀκάμαντας ἵππους; le quali si traducono letteralmente così: eum lætificans Deus, dedit ei currum aureum, in alisque indefessos equos. Fa l’equivoco quell’ἐν πτεροῖσιν , in alis, che si dovrà intendere per modo poetico, se vogliamo credere, che dia, o supponga le ali ai cavalli: per abbracciare il qual sentimento gioverà riflettere, che veramente alati erano i cavalli della biga di Pelope sull’arca; e che si ha l’altro citato esempio del cocchio dato da Nettuno a Ida, che era alato, sia che debba intendersi del carro, o dei cavalli. L’unico carro, che io abbia veduto, in cui le ali si vedano non ai cavalli, ma al barile delle ruote, è in un vaso presso il Dempstero261. In una moneta degli Eleusj data dall’Haym262, e in una conservata nello stesso museo Borgiano è pure alato il carro di Cerere tirato dai due serpi, per ripiego dell’artista, che nell’angustia del luogo non potea fare alati i serpi, come si vedono in tanti altri monumenti secondo il solito263. Ma senza andar più avanti su i citati monumenti, lasceremo che i curiosi, e gli eruditi approvino la dotta esposizione di essi data ultimamente dal più volte lodato P. Becchetti.

4. In fine della prefazione. Bassorilievo in marmo bianco della lunghezza di circa un palmo e mezzo, e alto la metà. Fu trovato nella campagna di Velletri, ed ora si conferva nel museo Borgiano in quella città. Penso che significhi una deduzione di colonia militare. Le campagne di Velletri due volte furono divise; la prima per legge di Sempronio Gracco; la seconda per legge di Augusto264. Si può considerare il nuovo possessore in quel soldato a cavallo; il possessore antico in quell’uomo, che precede l’aratro, e sembra andar curvo, e in atteggiamento di dolente, quasi ripetesse con quel contadino Virgiliano265:

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Horridus hac tam culto, novalia miles habebit?
Barbarus has segetes?

L’aratore in tutte le medaglie di colonia, ov’è espresso, sta in atto di lavorare; ma qui tien l’aratro sospeso quasi per indicare esser quello il termine prescritto al possessor nuovo. La colonnetta col numero IX par che sia il termine della centuria, o sia della porzione di terreno toccatale in sorte. Non è facile a determinare la spiegazione di questo numero. Può essere il nono miglio della colonia; giacchè anche fuor delle vie regie, e militari potean essere colonne milliarie; benchè di tal foggia non mi sovvenga averne vedute. Può esser numero relativo alla dimensione fatta nel distribuire il territorio; il qual costume tennesi in qualche luogo: Inscripserunt quidam vertices lapidum, & limitum TANTUM NUMERUM significaverunt266. Potrebbe anche significare Decumanus Primus, ch’era il principio di tutte le dimensioni: ma questo incidevasi piuttofto così D. M. Decumanus Maximus, o D. I. Nondimeno non esiterò ad approvare questa interpretazione; giacchè X lignifica Decumanus267. La fabbrica vicina sembra cosa annessa alla possessione toccata in sorte.

5. Pag. 16. Bassorilievo in marmo bianco esistente in Roma nel palazzo Spada, ove rappresentasi Bellerofonte, e Pegaso quasi di grandezza naturale. Ivi sono sette altri bassirilievi consimili, che servivano di scalini alla chiesa di s. Agnese fuor delle mura; e conservaronsi perchè il lavoro era voltato in dentro. Uno di quelli lo dà Winkelmann nei Monumenti antichi inediti268, ove lo spiega per Cadmo, che uccide il serpente custode della fonte Dirce, da cui erano stati ammazzati molti de’ suoi compagni. Egli non ha osservata la fisonomia della persona avvolta dal serpe, che è di fanciullo; e non ha avuto in memoria, che poteva essere Archemoro ucciso da un serpe quando la sua balia lo lasciò sopra un cespuglio per additare un fonte ai principi, che andavano ad assediar Tebe. Questi poi uccisero il serpe, e sono appunto rappresentati nel bassorilievo in atto di farne strage. Dietro vi è la balia [p. 471 modifica]spaventata; e il vaso posto avanti per terra indica il fonte, o la ricerca dell’acqua. Quei principi, portato seco loro il cadavere d’Archemoro, in memoria del fatto istituirono i giuochi nemei, che si facevano di tre in tre anni269.

6. Pag. 17. Pittura antica del museo Ercolanese, in cui si vedono rappresentate monete, strumenti da scrivere, libri, ed altre cose. Se ne è parlato qui avanti pag. 105. 190. 199.

7. Pag. 85. Moneta in bronzo tra prima e seconda grandezza appartenente a Tiro metropoli dei Fenici, ora nel museo Borgiano a Velletri. Nel dritto vi è la testa d’Ercole giovane coronata di lauro, e nel rovescio un tempio curioso, e stravagante nel suo frontone, con in mezzo una cosa, che pare una stella.

8. Pag. 266. Frammento di un rosone in marmo bianco del Museo Pio-Clementino, su cui sono scolpiti tre animali, una ranocchia, una lucertola, e forse un’ape. Vedasi alla pag. 57

9. Pag. 415. Erme in marmo greco salino trovato dal sig. cav. de Azara nello scavo da lui fatto nell’antica villa de’ Pisoni a Tivoli l’anno 1779. Mostra di essere di uno stile molto antico, come si è accennato nel Tom. iI. p.97. n. c. La fisonomia è ignota, benchè sembri di un filosofo, che si è sospettato Ferecide, di cui è stato spacciato altro ritratto dal Gronovio270, e da altri, ma senza fondamento. Da un epigramma dell’Antologia greca271 sappiamo, che un Ferecide, perchè eran più272, e forse il più celebre, avea il difetto, non so se come Alessandro, di torcere il capo, e guardar sempre in alto.

10. Infine di questa spiegazione delle Tavole in rame. E’ la parte superiore di una delle colonne di porfido, che ora adornano il Museo Pio-Clementino, nella cui sommità sono attaccate sopra una mensola due figurine d’imperatori romani de’ bassi tempi, che si abbracciano, probabilmente perchè erano colleghi nell’impero. Vedasi alla pag. 90.


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Tavole grandi in fine del Tomo.


I. Avendo il nostro Autore nella prefazione alle Osservazioni sull’Architettura, da noi tradotte, e riportate in principio di quello Tomo, data una tal quale descrizione degli avanzi maestosi dell’antica città di Posidonia, detta poi Pesto; ci è sembrata cosa utile alle belle arti di supplire nelle note quelle notizie più esatte, che poteano aversi dopo essere stata pubblicata la magnifica opera del ch. P. Paoli intorno a quei monumenti; e di estrarre eziandio da quella le figure degli edifizj ridotte in piccolo colle loro misure ragguagliate per moduli, e per palmi napolitani, e inserirle in fine dello stesso Tomo iiI. Qui si comincia dalla pianta della città, ove si sono accennate le mura, le porte, e i luoghi, ove esistono gli avanzi delle fabbriche, colle loro denominazioni. Ma prima di assicurare il nome della città, vale a dire, se debbasi chiamare Possidonia, Posidonia, o Pesto, è bene di motivare qualche cosa più a lungo della sua fondazione, e de’ suoi possessori. Nelle dette note, che aggiugnemmo alla prefazione di Winkelmann, riferimmo ancora il sentimento del lodato P. Paoli, che è di credere, che le fabbriche della città, le mura, e il resto siano opera degli Etruschi in tempi antichissimi prima della greca architettura; benchè nel resto l’ordine dell’architettura dei tempj sia dorico proprio de’ Greci. Comunemente si crede l’opposto sì per il popolo, cui se ne attribuiscee la corruzione, greco d’origine; e per l’ordine greco, che si osserva, come dicemmo, negli edifizj. Le ragioni, che possono assistere questa diversa inveterata opinione sono molte, e tali da meritare qualche attenzione; e tanto più le riporterò qui volentieri dopo aver ammirato il piacere, che mostra il lodato dottissimo scrittore perchè venga porta nel suo giusto lume la verità273. Pare incredibile primieramente, che fabbriche sì ben conservate, o almeno le mura, e il tempio maggiore debbano credersi d’un’epoca di gran lunga anteriore alla greca architettura, e fatti ne’ tempi antetrojani274. In fatto abbiamo la [p. 473 modifica]storia, e la maniera delle fabbriche, d’onde veniamo certificati, essere tutto opera dei Greci. Prima di questi nulla si sa nè di Pesto, nè del sognato Pesitan del Mazochi275, nè di Posidonia. Strabone276 tacendone in compendio la storia, ne dà per fondatori i Sibariti, che ne cacciarono, i primi ignoti abitatori. Il P. Paoli277 crede che i Sibariti non fondassero la città, ma che atterrato il muro della vecchia fondata dagli Etruschi, se ne impadronissero semplicemente. Ma come mai una città supposta fin d’allora sì ben murata, sì ricca, potente, e ben popolata cede sì vilmente a pochi Greci, o Sibariti, e fuggendo i cittadini a’ monti lasciarono in abbandono il tutto ai nuovi possessori? La difficoltà nasce dalla greca parola ἔθεντο ethento278. Supporto ancora, che abbia un doppio senso di edificare, e di distruggere, la regola di critica detterà sempre, che abbiamo a seguire il significato più ordinario, e quello molto più, che nei casi particolari venga comprovato da altri scrittori, come ora par confermato nel senso di fabbricar mura, e fondare la città, da Scimno di Chio, ossia Marciano d’Eraclea, il quale nella sua descrizione della terra279 dice, che Posidonia fu edificata da una colonia de’ Sibariti, come appunto dice Strabone, servendosi di un termine, che non avvolge equivoco: ἥν φασι Συβαρίτας ἀποικίσαι ποτέ: olim Sybaris alumnos condidisse hanc ferunt: così anche Solino, chiamandola col nome posteriore di Pesto280, dà per cosa nota, che ne fossero fondatori i Dori, perchè i Sibariti erano colonia dei Dori, ossia degli Achei, come scrive Strabone281, detti Dori quando ritornarono alla loro patria dopo la guerra di Troja sotto la condotta di Doro282; non già i Dori della Fenicia, come pretese il Mazochi283 per sostenere fondatori di Pesto, e autori di questo nome, o del Pesitan, i Fenici: il che può comprovarsi coll’autorità d’Aristotele284, il quale non solo scrive, che gli Achei vennero a fondar Sibari; ma [p. 474 modifica]che ci vennero in compagnia dei Trezenj, i quali erano loro vicini, e stati anche loro sudditi285, e nulla aveano che fare coi Dori della Fenicia. Ma l’abbiano fondata, o no, resta sempre a vedere, chi abbia fatte le mura, e i tempj, che vi si vedono al presente. Ragion vuole, che se ne faccia autore quel popolo, al quale possa convenire il gusto, e la maniera delle fabbriche, e tutte le circostanze storiche. Nessuna di queste cose potrà mai convenire agli Etruschi. Prima dei Greci, come dicemmo, nulla si sa nè della magnificenza della città, nè de’ suoi fondatori, nè qual nazione l’abbia posseduta, nè del suo nome qual fosse. Al più si ricava dal citato Scimno di Chio, e da Strabone286, che in quella regione fossero allora gli Enotrj. Quando l’abbiano posseduta i Greci, ossia la colonia dei Sibariti, è certo a un di presso, costando della fondazione di Sibari nell’olimpiade xix. secondo Eusebio nella sua Cronica, o qualche anno prima secondo Scimno; e della sua rovina, che fu nell’olimpiade lxvii.287. Ora esaminando tutto ciò, che può cavarsi dalla storia, vediamo, che la città fu detta Posidonia, che vale città di Nettuno, dai Greci; e il nome di Pesto le fu dato dopo288, abbreviando, e storpiando il primo nome, secondo che notò anche il Salmasio289, non mai prima, o contemporaneamente: dunque una gran parte, e in numero ben grande, delle monete di quella città, col nome di Posidonia, riportate da tanti scrittori, e in maggior copia dal P. Paoli290, sono del tempo dei Greci, come lo provano anche la bellezza del lavoro, e le lettere, le quali non solamente sono greche, ma della forma usata in quei tempi; e in tutto sono molto migliori delle altre fatte al tempo dei Romani291. A questa epoca, e per qualche tempo appresso, tutti gli scrittori portano il più gran lustro, potenza. ricchezza., e buon gusto della nazione greca, nella Grecia, nella Sicilia, e nella Magna Grecia. Allora in Grecia fioriva Aristide, Milziade, Temistocle, Nicia, Demostene, Pericle, e gli altri famosi [p. 475 modifica]capitani, che l’onor de’ Greci sollevarono al maggior punto. Nella Sicilia, e nella Magna Grecia vennero nuove colonie, che fondarono città in breve tempo divenute potentissime. Allora le fscuole dei filosofi piucchè mai fiorirono anche nella Magna Grecia, e alcuni filosofi pitagorici nativi di Posidonia li numera il P. Paoli292: i giuochi olimpici in modo speciale, e gli altri tre poco meno solenni giuochi pitici, nemei, ed istmici tenevano in orgasmo tutta la nazione, e da Posidonia parimente vi si concorreva293: e finalmente, ciò che decide al nostro proposito, allora comparve la turba de’ più grandi artisti, scultori, statuarj, pittori, architetti, e perfino insigni boccalaj, a’ quali dobbiamo la maggior parte dei vasi detti etruschi, fatti in Sicilia, e nella Magna Grecia: furono fatte le più grandiose fabbriche pubbliche d’Atene, delle quali Demostene l’oratore ci assicura294 l’epoca, e gli autori, che le fecero nel corto giro di anni sessantacinque: vale a dire, i mentovati famosi capitani, l’ultimo de’ quali fu Pericle, dopo il qual tempo si pensò colà a fare delle belle fabbriche private, e adornarle con incrostature di marmi, selciar le strade, far delle fontane: fu ornata anche di fabbriche pubbliche, come tempj, teatri, ed altre la Sicilia, ed in particolare Agrigento, di cui parleremo appresso al numero XIX.: fabbriche tutte di pietre grandi, e quadrate, di uno stesso gusto, proporzione presso a poco, e ordine d’architettura, tranne alcune dei tempi di Pericle. A tali fabbriche sono eguali nell’ordine d’architettura, e somigliantissime anche nelle proporzioni, e nella disposizione delle parti esterne, ed interne le nostre fabbriche di Posidonia, e le mura della città fatte ugualmente di pietre quadrate, per un ufo di fabbricare comune a tante nazioni, e alla greca certamente, come delle alte torri de’ Feaci, ed altri edifizj di gran massi ne parla Omero295: delle mura fatte dai Focesi a Tartesso lo ricorda Erodoto296: di pietra era il tempio di Delfo297, opera [p. 476 modifica]d’Agamede, e Trofonio, che arse l’anno primo dell’olimpiade lviii.: di massi della pietra porina, che non dovea essere specie di tufo298, era fabbricato in parte il tempio di Giove Olimpico d’ordine dorico299, e ne fu rifatto il detto tempio di Delfo dagli Anfizioni300; e dei Greci in generale Plinio301, compendiando Vitruvio302, scrive: Græci e lapide duro, ac silice æquato construunt veluti lateritios parietes. Con tutto quello complesso di cose, che mostrano uno stesso genio contemporaneo della nazione greca, e lo stesso impegno, e quasi gara fra le diverse città, perchè vorremo credere, che le nostre fabbriche, o almeno le mura, e il primo tempio, che è simile nell’ordine d’architettura, e nella disposizione delle parti al secondo, siano d’un’epoca tanto più antica; e benchè simili, pur siano opera d’una nazione diversa, che diversamente pensava, e fabbricava tanti secoli prima, come si suppone, senza darne altra prova, se non che le stesse fabbriche; e non piuttosto attribuirle ai Greci abitanti, o anche ai Sibariti loro fondatori, popolo ricchissimo, magnifico, e potente a segno da mettere in campagna trecento mila combattenti303, tornito di tutte le arti di lusso, inventore di tanti comodi della vita, e delle stufe, munito di forti mura, e non privo di tempj, e di statue?304. Non si sa il tempo preciso, in cui [p. 477 modifica]furono i Greci abitanti di Posidonia soggettati dai Lucani305, che forse erano Tirreni di origine. Il Mazochi306 sull’autorità di Vellejo Patercolo307 non ha saputo fissarne altro, se non che vi fosse mandata una colonia da Roma l’anno 480. della sua fondazione. Io credo che prima dell’anno 422. già ne fossero padroni i Lucani, per ciò che narra Tito Livio308: Samnium quoque jam alterum annum turbavi novis consiliis, suspectum erat: eo ex agro Sidicino exercitus Romanus non est deductus; ceterum Samnites bellum Alexandre Epirensis in Lucanos traxit: qui duo populi adversus regem, exscensionem a Pæsto facientem, signis collatis pugnaverunt. Livio non parla dei Greci, ma dei Lucani, e Sanniti, che si opposero al re Alessandro allorchè tentava in quell’anno di fare uno sbarco dalla parte della città, di cui parliamo, detta Pesto da Livio, perchè avea mutato nome sotto i nuovi padroni Lucani, ai quali fu tolta dai Romani poco dopo, come diremo al numero XIV. Ma sia quando si voglia, che poco importa al nostro assunto, il Padre Paoli non crede, che da quelli nuovi padroni fossero fatte quelle fabbriche: nè si può credere ragionevolmente; poichè, quello che osserva Cicerone309, e Strabone310 in [p. 478 modifica]generale della Magna Grecia quando fu tolta ai Greci padroni, o abitanti, lo racconta di Posidonia Aristosseno, filosofo, e medico di Taranto, il quale visse trecent’anni prima dell’era cristiana al dire del citato Mazochi311, presso Ateneo312, che fosse cioè ridotta dai Tirreni, o Lucani, e poi dai Romani in desolazione al confronto dell’antico suo stato di gloria, e di magnificenza; mutandovi anche il linguaggio, e le costumanze, in maniera che i Greci furon ridotti a scarso numero; e questi pochi ogn’anno in un dato giorno si univano insieme per ricordare le antiche loro grandezze, usanze, e feste, e solennizzarle in qualche modo a forza di lagrime: Aristoxenus in miscellaneis convivalibus, scrive Ateneo, nos id facimus, inquit, quod Poseidoniatæ, ad Tyrrhenicum sinum positi, qui antea Græci, in Tyrrhenorum, aut Romanorum barbariem lapsi, mutatis voce, & institutis, festo quodam uno die ex iis, qui sunt in Græcia celebres, coeunt, memoriamque refricant, & priscorum nominum, & consuetudinum antiquarum, ac legitimarum patriæ, lacrymatique, & sortem suam ad invicem conquesti discedunt.

Qualche somiglianza vuol trovare il P. Paoli fra le proporzioni, e le parti del più grande tempio313 di Posidonia, e in varie cose anche del piccolo314, e fra le regole, che dà Vitruvio per li tempj toscani; mediante la quale con ingegnosissimo raziocinio vuole illustrare quello scrittore, e confermare insieme l’opinione sua dell’ordine toscano in quelle fabbriche. Lunga cosa sarebbe voler esaminare il confronto di tali proporzioni, e parti, e fuor di proposito, quando ci basta fare alcune osservazioni, che tolgono ogni difficoltà. Supponiamo tutte quelle somiglianze: che perciò? Sarà una combinazione accidentale, che poteva benissimo succedere anche in due ordini diversi di fabbriche fatte in diverse epoche dell’arte; ma non proverà mai, che Vitruvio abbia date le regole di quelle fabbriche antichissime, e della prima principalmente, creduta de’ tempi anteriori a Troja; sì perchè ne avrebbe parlato con altre regole, e sì perchè ad evidenza si scorge, che l’ordine toscano da lui descritto nulla ha che [p. 479 modifica]fare sostanzialmente coll’ordine delle fabbriche di Posidonia, che combina ottimamente colle regole generali, e colle parti date da lui all’ordine dorico. Lasciamo, che quell’architetto nulla prescrive del colonnato tutto intorno ai tempj toscani, che anzi li vuole con un semplice portico avanti; o se può intendersi di colonnato anche ai lati, non potrà mai credersi, che parli di portico anche dalla parte di dietro; che mette la base a tutte le colonne, e fa gl’intercolonnj assai larghi: basterà considerare il fregio, e i triglifi. Io sostengo, che Vitruvio nell’ordine toscano non solamente non ci vuol triglifi, ma neppure il fregio315, che nelle di lui parole hanno voluto trovare il Perrault, il Galiani316, ed altri. Perchè merita questo punto di essere esaminato, daremo le parole dell’architetto colla traduzione del detto Galiani: Supra columnas trabes compactiles imponantur, uti sint altitudinis modulis iis, qui a magnitudine operis postulabuntur: eaque trabes compactiles ponantur, ut tantum habeant crassitudinem, quanta summæ columnæ erit hypotrachelium, & ita sint compacta subscudibus, & securiclis, ut compactura duorum digitorum habeat laxationem; cura enim inter se tangunt, & non spiramentum, & perflatum venti recipiunt, concalefaciuntur, & celeriter putrescunt. Supra trabes, & supra parietes trajectura mutulorum, parte quarta altitudinis (il Galiani emenda latitudinis) columnæ, projiciantur: item in eorum frontibus antepagmenta figantur: supraque ea tympanum fastigiis ex structura, seu materia collocetur, supraque id fastigium columen, cantherii, templa, &c. „ Sopra le colonne poi (traduce il Galiani) si situano travi accoppiati, che formino l’altezza proporzionata alla grandezza dell’opera: e di più abbiano tanta larghezza, quanta è quella del collo della colonna: e si accoppiano questi travi con biette, e traversi a code di rondine, in modo che nella commessura vi resti una distanza di due dita; imperciocchè se si lasciassero toccare fra di loro, non giuocando l’aria per mezzo, presto si riscaldano, e s’infradiciano. Sopra quelli travi, anzi sopra la fabbrica del fregio posano i modiglioni, [p. 480 modifica]lo sporto de’ quali è uguale alla quarta parte della larghezza della colonna, e alle loro teste si affiggono degli ornamenti: sopra si fa il tamburo coi suoi frontespizj, o di fabbrica, o di legno: sopra del quale frontespizio ha da posare l’asinello, i puntoni, e le assi, ec. „. Il Galiani pertanto ha trovato il fregio in quelle parole & supra parietes, perchè, dice nella nota, in altro luogo Vitruvio scrive, che tutti quegli spazj, i quali rimanevano fra trave e trave nel fregio, si muravano. Che bisogno v’era di spiegare amendue questi luoghi in uno stesso senso, quando nel secondo citato Vitruvio parla espressamente di fregio, triglifi, e metope dell’ordine dorico, che le porta essenzialmente; e nell’altro luogo riportato può intendersi dei modiglioni, che girano tutto intorno all’edifizio sopra i muri mentovati da lui poco prima, ove non sono colonne, per reggere la cornice? Nè pare, che Vitruvio voglia dire parietes nel senso del Galiani, quando per parlare del fregio dorico, e qui parlando del timpano, usa la parola structura; e parietes l’usa sempre a dire i muri grandi. Se altrimenti s’intenda, quanti assurdi non ne vengono? In primo luogo sarebbe errore il voler tradurre et per anzi; unendo la prima parola due sensi, e correggendo immediatamente il primo la seconda, la quale farebbe una maniera di dire impropria, appena soffribile, per gli esempj registrati nelle leggi romane, in un tentatore, che premuroso d’enunciare gli ultimi suoi voleri, forse non ha tempo d’emendare una parola precipitata, o di meglio esprimere una nuova sua determinazione; ma non mai supponibile in un architetto, che deve togliere ogni equivoco; e in uno scrittore, che può con tutto l’agio rifare il suo scritto. In secondo luogo Vitruvio direbbe di mettersi questo membro d’architettura, senza darne misura alcuna, mentre la dà di tutte le altre parti sotto, e sopra di esso. In terzo luogo, supponendo il fregio come se lo figura il Galiani, dopo il Perrault, nella sua Tavola X. in rame, formato di metope, e delle teste dei travi senza triglifi, sarebbe un vero fregio dorico, benchè senza triglifi, perchè quelli non essendo altro, che un ornato della testa del trave, non sono essenziali all’ordine: e se [p. 481 modifica]veramente nell’ordine toscano vi fossero state queste teste de’ travi in fuori visibili, non avrebbero tralasciato o i Toscani, o i Romani di farvi anche i triglifi, o canaletti per la stessa ragione, per cui si fecero nel dorico, vale a dire, o perchè le teste dei travi non si screpolassero, o per imitare, e far meglio scorrere le gocce dell’acqua venuta di sopra317; o vi avrebbero fatto mettere altro ornato come alle teste dei modiglioni. E quantunque si voglia supporre il fregio così fatto nell’ordine toscano senza triglifi, quale se lo figura il Galiani, non si toglierebbe la difficoltà per le fabbriche di Posidonia; perocchè se Vitruvio parla di un antichissimo ordine toscano, le sue regole non si possono adattare ai tempj di Posidonia, perchè questi hanno i triglifi: se parla dell’ordine toscano al suo tempo, come potremo credere, che quest’ordine in vece d’ingentilirsi quando fu adottato dai Romani, diventasse più rozzo, omettendosi un ornato, che fa tanto bene nell’ordine dorico, come facea bene nei tempj di Posidonia supposti etruschi? Intanto è indubitato, che secondo Vitruvio318, il triglifo è un distintivo proprio assolutamente dell’ordine dorico, come tale lo fece Euripide tanti anni, e più secoli prima di lui, nel luogo, che altrove riportammo319; e l’ordine dorico si conviene appunto alle fabbriche di Posidonia, innalzate, come dicemmo, dai coloni dei Dori nell’Acaja, i quali, al dire dello stesso Vitruvio320, furono gl’inventori di quell’ordine. A ciò si potrebbe rispondere, che nel tempio maggiore di Posidonia i triglifi non vi sono321, ma il solo fregio liscio, che combinerebbe col fregio immaginato dal signor le Roy nell’ordine toscano. Con questa risposta però la difficoltà non si sminuisce. Chi non vede, che il fregio diventa jonico? Erano le teste dei travi nel fregio toscano? e perchè coprirle con fabbrica, come nell’ordine jonico? Quello è contro la semplicità di quell’ordine. Non v’erano i travi; e perchè farvi il fregio, e farlo tutto così di fabbrica? Vitruvio dice, che i modiglioni sporgano in fuori la quarta parte dell’altezza della colonna tanto nel [p. 482 modifica]frontespizio del tempio, che ai lati per formare così una specie di coperto tutto intorno all’edifizio, come vediamo praticato in Roma nei tetti antichi del palazzo Vaticano, e di altre case. E’ impossibile, che facciano sporto sì grande i puntoni, cantherii, i quali vengono inclinati, e non sono nel frontespizio. Dunque devono farlo i correnti del soffitto: e allora, perchè vi faremo un secondo fregio sotto? Il Galiani, che emenda altitudinis in latitudinis per fare que’ modiglioni assai più corti, non riflette primieramente, che non si dice da Vitruvio latitudo di una colonna, o altra cosa, ma crassitudo: e in secondo luogo non bada, che con quei piccoli modiglioni fa una specie di dentelli inutili nell’ordine toscano, e proprj, secondo Vitruvio, dell’ordine jonico, i quali uniti al fregio formato di teste di travi, e di metope fanno dell’ordine tofcano un misto del dorico, e dello jonico, e ne travisano la semplicità, e il suo vero carattere. L’aggiunta del fregio si vedrebbe nella fabbrica maggiore di Posidonia, la quale poi mancherebbe dei modiglioni voluti espressamente da Vitruvio. Ma per quella fabbrica la cosa si riduce ad una questione di fatto, che si scioglie facilmente; perchè vengo ora assicurato da più architetti, che vi hanno trovati in gran numero i triglifi; come uno ne resta, cogl’incavi, ne’ quali erano incastrati gli altri, al secondo tempio, il quale, tolte alcune differenze nell’interno, è simile al primo in tutto322: oltre di che farebbe un paradosso nell’arte, e nella critica il voler supporre il maggior tempio etrusco, e l’altro no; e quello fabbricato dagli Etruschi prima della guerra di Troja, vederlo egualmente conservato che il secondo fatto almeno cinque, o sei secoli appresso dai Greci; e finalmente supporre, che i Greci, nazione di genio, e di gusto molto diverso dagli Etruschi, come osserva giustamente il P. Paoli323, tanti secoli dopo abbiano imitata la loro architettura così esattamente; e abbiano adottata la stessa disposizione di parti non solo esterne, ma anche interne del tempio, quali che abbiano avuta la stessa religione, gli stessi riti, e uffizj sacerdotali.

[p. 483 modifica] Ma per quanto io vedo, tutta questa disputa è fondata sopra due falsi supposti. Primo, che non vi possano essere nell’ordine dorico proporzioni più basse dei sei diametri della colonna, perchè Vitruvio324 crede questa la prima, e più bassa proporzione messa in opera325. Secondo, che i tempj di Posidonia326 egualmente, che i tempj di Sicilia, e della Grecia, perchè hanno le proporzioni tanto basse, debbano considerarsi come i primi sforzi della nascente architettura: nella quale opinione è caduto anche Winkelmann327, e tanti altri generalmente. Vitruvio quando scrisse quella erudizione, mostrò di esser male informato della storia architettonica, e delle fabbriche esistenti in Italia, e in Grecia; come si mostrò addietro in tante altre cose, che uscivano dalla squadra, e dal compasso, delle quali meglio parleremo nella nuova edizione latino-italiana, che faremo, della di lui opera. L’esser poi grave, soda, e quasi pesante una fabbrica, non la dee far subito credere delle più antiche, e un primo abbozzo, o tentativo dell’arte. Può essere un gusto particolare di nazione, e di tempo il far cosi. L’arte o nascente, o raffinata si vede nell’insieme della fabbrica, nella distribuzione delle parti, e negli ornati. Per poco che si considerino le fabbriche di Posidonia, e quella di Girgenti, di cui abbiamo date le figure nella Tavola XIX. di questo Tomo, chi non resta stupefatto al vedervi ogni cosa così ragionata, così ben disposta, e così elegante, con quei capitelli, ornatini, entasi, distribuzione di triglifi, di colonne, e queste nel tempio piccolo di Posidonia intonacate di stucco328, pavimento di musaico329, e tutto in somma, che incanta chi intende, e rapisce in ammirazione chi li contempla sulla faccia del luogo, come si vedrà meglio al detto numero XIX.? Si rifletta secondariamente, che, come si è detto poc’anzi, e altrove330, queste fabbriche sono state inalzate circa i tempi di Pericle, nel fiore dell’arte, quando era già posto in opera l’ordine jonico, e il corintio; e poi si dica, che ne sono i primi sforzi. Tali sono [p. 484 modifica]creduti volgarmente, come scrive il P. Paoli al suo proposito331, perchè altro non siamo stati finora soliti a vedere, ed ammirare, se non che le opere di più gentili proporzioni, sotto la scorta anche di Vitruvio, ed in confronto delle gentili proporzioni degli altri ordini corintio, e composito. Lo stesso Vitruvio332 ci assicura, che molti furono i tempj innalzati dai Dori nell’Acaja, dopo fatto il primo da Doro nella città di Argo, in que’ primi tempi, sebbene non si sapessero ancora le vere, e giuste proporzioni dell’ordine dorico: e ciò fu probabilmente qualche secolo prima delle fabbriche di Posidonia, e di Girgenti, e del tempo, in cui dicemmo aver fiorito l’architettura nella Grecia.

II. Porta della città di Posidonia, ora Pesto, veduta dalla parte esterna, e la sola, che presentemente esiste. E’ fatta con un grand’arco di pietre tagliate, che prova quanto fosse antica presso i Greci l’arte di fare archi di pietre tagliate a conio. Seneca333 confuta quelli, che facevano Democrito inventore di quelli archi, rispondendo loro, che le porte così curvate, e i ponti erano di più antica invenzione; come più antica è la porta di Posidonia; poichè Democrito, che vifTe 108. anni, nacque nell’anno i. dell’olimpiade lxxx. Della fondazione della città di Posidonia, de’ suoi possessori greci, ed altri se ne è parlato nel numero precedente. Vedasi qui avanti alla pag. 4. e 32.

III. Pianta del tempio più grande di Posidonia, e spaccato interno preso sulla lunghezza. Si avverte, che in tutte le misure indicate a’ suoi rispettivi luoghi, è stato adoprato il palmo napolitano, il quale è otto pollici, e sette linee del piede parigino. Da ciò, che si è detto nel numero I. qui avanti, si prova sufficientemente, che questo tempio è opera della nazione greca stabilita in Posidonia, e del greco ordine dorico. Tolte le proporzioni di esso, che sono più basse, il resto tutto combina colle regole date da Vitruvio per quell’ordine, che nulla ha da fare coll’etrusco, o toscano, che descrive: e se ne consideriamo bene lo spaccato interno, che ha un [p. 485 modifica]ordine di colonne sopra un altro, diremo col Galiani essere l’ipetro descritto precisamente nella sostanza, sebbene varii nel numero delle colonne date da quell’architetto334, che nel luogo di mezzo, ove si crede stata la cella, era scoperto: esempio da aggiugnersi al solo, mentovato dallo stesso Vitruvio, del tempio di Giove Olimpico in Atene; e l’unico, che si sappia esistere al mondo.

IV. La figura superiore rappresenta la facciata esterna orientale del tempio più grande. La figura inferiore rappresenta lo spaccato del detto tempio preso sulla larghezza. Si noti, che le misure di amendue queste figure, notate in numeri, appartengono al modulo, che è la metà del diametro delle colonne dell’ordine più grande: quello modulo per maggior esattezza è stato diviso in trenta parti.

V. La figura I. di quella Tavola ci dà le parti in grande con tutte le sue misure del capitello, architrave, fregio, e cornice dell’ordine grande: accanto vi si è posto il soffitto per far vedere li modiglioni colle gocce, e le loro misure con quelle del triglifo. Per tutte quelle misure si è diviso il modulo, ossia il semidiametro della sua colonna, in parti trenta. La figura A. è stata fatta per rendere più visibili le parti piccole del capitello: le misure di quella figura sono state fatte su di una scala maggiore il doppio dell’antecedente. La figura II. dà le parti, e le misure in grande del capitello, ed architrave dell’ordine più piccolo: per queste misure si è preso il semidiametro della colonna di quell’ordine più piccolo, e se ne è fatto un modulo diviso in parti trenta. La figura III. dà le parti in grande, e le misure del capitello, ed architrave dell’ordine mezzano. In questa figura parimente il semidiametro di quella colonna mezzana ha servito per il modulo diviso in parti trenta per le misure notate. La figura IV. finalmente dà le misure, e la modinatura del capitello, architrave, fregio, e cornice dei pilastri, e colonne, che separano i portici dai vestiboli: accanto alla detta figura vi è il disotto della cornice per le misure de’ triglifi, e delle metope. Si avverte, che il modulo, che ha servito in questa [p. 486 modifica]figura IV., è lo stesso della figura I.; e si è disegnata sulla stessa scala.

VI. La metà superiore di quella Tavola si è fatta per dare un’idea in prospettiva di ciò, che esiste del tempio minore di Posidonia; e tutto ciò, che attualmente è restato sì del cornicione nei lati, come dei due frontispizj nelle facciate. La metà posteriore segnata lettera A. appartiene al tempio di Giove Olimpico a Girgenti, di cui si è parlato qui avanti pag. 125. segg. Ivi ho formata la pianta, e il prospetto del tempio secondo mi pare vada inteso Diodoro, e a un di presso a norma delle misure date dal sig. barone di Riedesel di qualche avanzo di esso; benché le proporzioni mi sembrino troppo alte. Il capitello è preso dal vero nella forma disegnata dall’architetto sig. Barbier, di cui parleremo al numero XIX., ove meglio parleremo anche di questo tempio di Giove.

VII. Pianta del tempio minore di Posidonia: accanto vi si è fatta la sezione della lunghezza sulla linea di mezzo di quello tempio per dimostrare il principio del piantato, e la piccola inclinazione del piano nel portico anteriore. Per le misure notate in numeri si è fatto uso del palmo napolitano.

Vili. La figura superiore rappresenta la parte interna della facciata anteriore del tempio minore di Posidonia, e lo spaccato di ciò, che rimane sopra terra della cella, preso nel mezzo della larghezza dell’edicola. La figura inferiore dà la facciata esterna anteriore di questo tempio, in cui vedesi ciò, che attualmente vi resta del frontispizio. Ivi notisi l’unico triglifo, che nel mezzo vi è restato; essendone di tutti gli altri restato solamente l’indizio del sito. In questa Tavola le misure notate sono prese dal modulo eguale al semidiametro della colonna, e diviso per maggior esattezza in trenta parti.

IX. La figura a sinistra di questa Tavola ci dà le parti in grande colle sue misure del capitello, architrave, fregio, e cornice delle colonne esterne di questo tempio minore: accanto vi si è posto il soffitto per indicare il compartimento di sotto, ed il ripartimento dei triglifi. Le misure di questa figura sono state cavate dal modulo: questo si è fatto eguale al semidiametro della colonna nella sua maggior grossezza. [p. 487 modifica]La base, che vedesi indicata, appartiene alle colonne interne del vestibolo. La figura a destra dimostra la maniera, con cui è diminuita la colonna del terzo edifizio di Posidonia, che ii descriverà nelle altre Tavole appresso. Si vede in questa figura come se ne è formata l’entasi: nel contorno a sinistra le misure notate sono state prese dalla scala de’ moduli posta sotto la figura. Si avverte però, che dove si vede notato in queste sette mifure min. 3., min. 9., min. 11. ec., deve esservi qualche piccolo errore. Ma noi l’abbiamo lasciata così per copiare fedelmente le Tavole del Padre Paoli, o conte Gazola, eccettuato il num. 8. e 8. noni, che deve essere 9. Quella forma di entasi è un poco particolare, e di un effetto migliore di quella sconcia, che si usa oggidì dagli architetti senza gusto, benchè a un di presso sulla forma di quella trovata in una colonna, e in un pilastro dal sig. Piranesi, di cui parlammo qui avanti pag. 43. not. c. Sostenendo greca la fabbrica di Posidonia, in cui si vede l’entasi, sarà il primo greco monumento, che potrà darsi in esempio. Peraltro nei luoghi, che citai alla detta pag. 43. not. b., Vitruvio riporta l’entasi, nome che pure è greco, agli ordini greci, non al toscano, di cui la vorrebbe far propria il P. Paoli335, supponendo etrusca quella fabbrica. Ma noi meglio parleremo di tale ornato, o aggiunta, nelle osservazioni allo stesso Vitruvio. Nel contorno a destra le misure sono ricavate dalla scala de’ palmi napolitani, che è l’ altra scala posta sotto all’antecedente.

X. La figura superiore di quella Tavola rappresenta la pianta del terzo edifizio di Posidonia colle sue misure notate, e prese col palmo napolitano. Nella figura appresso vi sono le parti in grande colle sue misure del capitello, architrave, e fregio delle colonne di questo edifizio, di cui la cornice non si è conservata, e perciò manca. Il semidiametro della parte inferiore ii quelle colonne nella maggior grossezza ha servito per il modulo diviso poi al solito in parti trenta per le misure di quella figura. Si sono finalmente indicati a piè di questa Tavola alcuni pezzetti de’ diversi ornatini, che si vedono scolpiti sotto i capitelli di dette colonne, di un lavoro eccellente.

[p. 488 modifica] XI. Nella figura superiore di quella tavola si ha ciò, che resta attualmente della facciata di questo terzo edifizio di Posidonia, colle sue misure prese col modulo eguale al semidiametro inferiore delle colonne. Vi si è posta sotto la pianta misurata col palmo napolitano, per supplire in parte all’altra pianta intiera della Tavola X., che è meno visibile attesa la piccolezza. La figura inferiore di questa tavola rappresenta lo spaccato interno dello stesso edifizio preso sulla larghezza nel mezzo dei secondi intercolonnj laterali, e le misure cavate dal modulo secondo il solito. Da questa figura si vede la differenza dei capitelli dei pilastri dagli altri delle colonne; come ancora questa diminuzione, che fanno in alto: cosa indolita ne’ pilastri. Sotto poi per maggiore intelligenza vi si è aggiunta la pianta per indicarne meglio le parti; che però in questa si troveranno notate in palmi napolitani per supplemento della pianta della Tavola X.

XII. In questa Tavola si sono riportate varie maniere di fabbricare, per meglio intendere ciò, che si dice qui avanti pag. 30 segg. A. Ganghero riportato nell’originale tedesco di Winkelmann, e citato qui pag. 69. seg. B. Ganghero in bronzo dell’Ercolano, esistente nel museo di Portici. C. Maniera di fabbricare nell’interno de’ muri con molta calce, e mattoni radi, come a Pozzuolo. D. Maniera di situare i mattoni per coltello, detta a spina pesce. E. Quarto di mattone triangolare, come nelle mura di Aureliano. e. e. Mattoni intieri, da’ quali cavavasi la tavolozza triangolare. F. Diatoni, ossia, che prendono tutta la larghezza del muro da una fronte all’altra. G. Emplecton, riempita. H. Corsi di mattoni. I. Due corsi di quadrilunghi nell’opera reticolata, come dice l’Alberti. K. Reticolato. L. Pseudisodoma, vale a dire quando le filare, o corsi delle pietre sono di grossezza disuguale. M. Isodoma, cioè quando le dette pietre sono d’uguale grossezza. N. Maniera di fabbricare con grosse pietre, detta incerta. O. Fabbrica quadrata. P Tetradoro, o sia mattone di quattro palmi. Q. Suo mezzo mattone, ossia didoro, cioè di due palmi. R. Pentadoro, o mattone di cinque palmi. S. Emilater, ossia mezzo mattone.

[p. 489 modifica] XIII. Bassorilievo in marmo, che esiste nella città di Capua, e riguardava l’antico teatro di quella città. Noi ne abbiamo cavata la figura da quella data dal Mazochi336, il quale la illustra diffusamente. Il serpe, che si vede nell’angolo, deve essere il genio337 del teatro, come pure indica l’iscrizione postavi sopra GENIVS THEATR1. La figura appresso fa un sagrifizio, o una libazione colla patera nella destra, e cornucopia nella sinistra. Crede il Mazochi essere Giove, Minerva, e Diana, le tre deità seguenti, venerate nel Campidoglio di Capua. Minerva dea delle arti, e delle scienze pare che insegni, o accenni qualche cosa allo scarpellino sedente in atto di lavorare un capitello. L’importante al nostro proposito è la macchina accanto fatta per alzare gran pesi, e qui alza una colonna per mezzo di una fune, che scorre sopra due taglie, una in capo alla colonna da alzarsi, e l’altra sopra. La ruota, in cui girano due uomini, è in sostanza il timpano descritto da Vitruvio338, non capito dal Galiani, come noi osserveremo a quel luogo, e accennato da Lucrezio339:

Multaque per trochleas, & tympana, pondere magno
Commovet, atque levi sustollit machina nisu.

Fu fatto questo bassorilievo da Luccejo Peculiare, impresario, come diremmo, che si era addossato l’incarico di fare il proscenio del teatro, per esserne stato avvisato in sogno, forse da Minerva, che li vede rappresentata in atto di fargli cenno, come si legge nella iscrizione portavi sotto. Vedi avanti p. 37.

XIV. Urna sepolcrale in peperino di Lucio Cornelio Scipione Barbato, ora conservata nel Museo Pio-Clementino. Se ne è parlato più volte, e si è pure descritta come un monumento dei più importanti per la storia delle arti in Roma. Veggasi Tom. I. pag. 30. not. a., Tom. iI. pag. 309. col. 1., e qui avanti pag. 46. not. b. Per l’iscrizione, che vi si legge sopra, copiata da noi coll’esattezza possibile per la forma dei caratteri, meritando un lungo commentario, ci contenteremo di mandare il leggitore alle erudite osservazioni, che vi [p. 490 modifica]ha fatte il ch. Visconti nell’Antologia Romana340, e alle altre, che aggiugne nella spiegazione di tutti i monumenti, e iscrizioni del sepolcro della famiglia degli Scipioni da pubblicare incisi in rame per opera del Piranesi. Ne daremo bensì la lezione ridotta all’ortografia moderna per maggior intelligenza, facendo prima notare i punti fra le parole, e quei tratti in qualche luogo per segno forse di maggior pausa, e per distinguere i sensi: Corneitus Lucius Scipio Barbatus Gnaeo patre prognatus, fortis vir, sapiensque, cujus forma virtuti parissima, fuit, Consul, Censor, Ædilis, qui fuit apud vos: Taurasiam, Cisaunam, Samnium (o meglio, in Samnio) coepit, subigit omnem Lucaniam, obsidesque abducit. Le ultime parole, ossia l’ultimo membro è per noi il più interessante. Vi si dice, che Scipione soggiogò tutta la Lucania, e ne portò via degli ostaggi. Ci ricorderemo essersi detto pocanzi al numero I. pag. 477., che Posidonia fu ridotta in potere dei Lucani prima dell’anno 422. di Roma. Se Scipione sottomise alla potenza di Roma tutta la Lucania, che fu l’anno 477., in cui fu console; dunque ci fu compresa anche Posidonia, che formava una parte di quella provincia, come scrive Strabone341, allora detta già Pesto, come osservammo: ed ecco forse la ragione, per cui la cassa del conquistatore della Lucania, e di Pesto è fatta come un cornicione dorico, imitando probabilmente le fabbriche di Posidonia, di greca architettura, come provammo, e dell’ordine dorico. Sia che fossero condotti in Roma gli artisti da quella città, o che i Romani andati colà imparassero a migliorare le arti, e ad acquistare più buon gusto per esse; potrà sempre dirsi, che la conquista di quella città greca allora insigne per tanti monumenti d’architettura, e forse anche di statue, ed altri lavori dell’arte, abbia influito a introdurre in questa dominante un nuovo sistema. Dico migliorare sempre più le arti; perchè molto erano già state migliorate prima, secondo ciò che notammo più volte, e meglio qui avanti alla pag. 443. e 450., per la venuta in Italia, e credo anche in Roma, di greci artisti. Damarato, ossia Demarato di Corinto, padre di [p. 491 modifica]Tarquinio Prisco, venne, per testimonianza di Strabone342, e di Plinio343, in Etruria, e nominatamente a Tarquinia344, con una turba di artisti, i quali vi perfezionarono le arti, e l’arricchirono di lavori più belli degli Etruschi. E chi ci vorrà provare, che Tarquinio fatto sovrano di Roma non abbia anche fatto venire in questa città qualcuno di quelli, o altri greci artisti, se al dire di Strabone continuava ad essere molto impegnato per far ornare di monumenti Tarquinia sua patria? Egli fu, che rese più magnifico il trionfo; ornò la città di Roma con portici345; formò il progetto di quel tanto celebrato tempio di Giove Capitolino, e ne gettò i fondamenti. Tarquinio il superbo, di lui nipote, fu quello, che l’inalzò con una spesa enormissima, e una grandiosità sorprendente, ammirata anche dai secoli appresso, e fece i sotterranei spurghi della città non meno stupendi, chiamando per tutti quelli lavori gli artefici dall’Etruria346; e credo con probabilità dalla patria del suo avo. Servio Tullio di lui antecessore, per emulare il tempio di Diana Efesina fatto di comun consenso dalle città dell’Asia347, uno ne alzò in Roma alla stessa dea, facendovi contribuire i popoli latini; e fu detta cipria la strada, in cui fu eretto: chiaro argomento, che si aveva fin d’allora in Roma qualche idea delle cose dei Greci, e si gareggiava per imitarli, e superarli. Non sarebbe quindi improbabile, che avessero avuta la stessa mira i due Tarquinj nella fabbrica del tempio di Giove. Quale fosse la sua architettura io noi saprei dire. Il P. Paoli348 per farcela immaginare, fa riflettere, che fu riedificato al tempo di Vespasiano nella stessa forma, e disposizione di parti, che avea quello fatto dai Tarquinj. Ma guai all’architettura etrusca, se dobbiamo intendere cosi esettamente la risposta di quegli aruspici riferita da Tacito349, come osservammo qui avanti pag. 44, not. a. Sarebbe stato un tempio indubitatamente greco, [p. 492 modifica]secondo la descrizione datane da Dionisio d’Alicarnasso350, il quale dice, che aveva tre ordini di colonne alla facciata, e due nei lati: cosa non mai veduta, nè intesa presso gli Etruschi. Forse gli aruspici intendevano del tempio rifatto da Siila, che vi fece trasportare le colonne del tempio di Giove Olimpico in Atene, come scrive Plinio351, il quale poi non dice, che il primo tempio in vece di colonne avesse le ante, o pilastri alle cantonate dei muri, come gli fa dire il P. Munitolo352. Dopo i re le belle arti doveano fare ulteriori progressi per la maggior comunicazione, che s’introdusse colla Grecia, la Sicilia, e la Magna Grecia, come si prova da tanti fatti, e dalla raccolta in ispecie delle leggi delle XII. Tavole; chechè abbia preteso in contrario il Duni353 a forza di sofismi, e di una crassa, o affettata ignoranza di storia. Ritornando al primo assunto, resta da notarsi per l’arte, che nell’urna, di cui parliamo, sopra il fregio vi sono i dentelli, i quali secondo Vitruvio354 non dovrebbero farsi nell’ordine dorico, come scrive che non li facevano gli antichi, perchè sono imitazione dei panconcelli, che in quell’ordine non possono effere: ma il vederli noi in questa cassa, e sopra la porta del tempio creduto di Ercole nell’antica città di Cora, tanto fitti, che non possono imitare i panconcelli, diremo che fossero ridotti fin d’allora ad un semplice ornato per interrompere quella linea dritta della cornice, simile a un di presso agli ovoli, ed ai gusci, come bene avverte il Galiani allo stesso Vitruvio.

XV. In questa Tavola si sono poste le due parti laterali della detta urna per far osservare quella specie di foglie scolpite sul coperchio, che ha l’idea di una stuoja, o coltre. Vi ho ripetuta anche una moneta, che è quella, di cui fu parlato nel Tom. I. pag. 141., data dal Pellerin. Essendomi paruta più ben disegnata di quella ripetuta da me alla pag. 143. come l’aveano data gli Editori Milanesi, ho stimato necessario di qui riportarla per togliere ogni equivoco. Credo col Pellerin, che appartenga a Crotona, anzichè all’Egitto, come [p. 493 modifica]ha creduto Winkelmann, ed altri. Il bue è un animale troppo frequente nelle monete di tante altre città, principalmente della Magna Grecia, e della Sicilia, per non doverlo subito credere un Api; al quale neppure si potrebbe riferire, perchè quello della moneta, che ripetiamo, non mostra di avere il solito globo fra le corna355. Il Tau, o piuttosto il fallo, come io credo col ch. Visconti356, che si volea prendere per un altro segno di cosa egizia, è pure cosa equivoca; essendo piuttosto in questa moneta il segno celeste di Venere, o altro incognito, quale si vede a un di presso in altra moneta del museo Borgiano in Velletri, in oro assai piccola col tipo del leone, che sbrana un cervo, solito vederli nelle monete di Velia; e nel rovescio, per quanto pare, un Ercole, che combatte colla clava: e qualche somiglianza con questo segno si vede nelle monete di Siracusa nella lettera Ϙ, che si crede un K, o coph357. Sulla coscia del bue in questa moneta non si vede segno alcuno; cosicchè la lettera, che si vede nell’altra, può esservi stata impressa dopo, come si sa di altre. Bensì sotto al bue si vede altra lettera, che nella moneta degli Editori Milanesi pare una foglia, o altra cosa. Winkelmann giudicando nella prima edizione della Storia, che quella moneta fosse egiziana, precipitò il suo giudizio, forse come nelle tre monete nominate da Pococke, da lui nella stessa pagina citata credute anche egiziane, sebbene non coniate prima dei Persi. Pococke nulla ne dice per l’antichità, e non ne dà la figura. Solamente trovo nell’altra sua opera delle iscrizioni358, che dà l’elenco di varie monete del tempo dei Tolomei, e degl’imperatori Romani, alcune delle quali egli possedeva.

XVI. Capitello d’ordine jonico esistente nella chiesa di s. Lorenzo fuor delle mura di Roma, nelle cui volute si vede una lucertola da una parte, e una ranocchia dall’altra. Se ne è parlato a lungo qui avanti pag. 55. segg., ove si è anche fatto vedere, che non è nè di quella antichità, nè di [p. 494 modifica]quella importanza per la storia dell’arte, che pretende Winkelmann per illustrare Plinio. Ne ho fatto rifare il disegno con qualche maggiore esattezza, e una parte l’ho fatta vedere di sotto per maggior effetto anche degli altri lavori.

XVII. Bassorilievo in marmo bianco già nella villa Medici, ora nella galleria Granducale a Firenze. Se ne è parlato qui avanti pag. 67. not. a., 82. not. d. In esso si ha un esempio dei tempj monotteri, ossia rotondi con un solo giro di colonne, dei quali parla Vitruvio359, non ben inteso dai suoi interpreti. Gl’intercolonnj si vedono chiusi con una specie di cancelli forse di bronzo, o di pietra per la sua grossezza. L’ordine è jonico, colla base alle colonne, e un alto piedistallo, o stilobata, che alza molto il piano interno del tempio. Polluce, il quale al luogo citato qui avanti pag. 58. not. b. scrive, che lo stilobata, o piedistallo era proprio dell’ordine jonico in vece della base, è stato confutato dal Kuhnio; e si vede in quello monumento, che oltre a! piedistallo vi è la sua base. Qui è notabile anche la scala, che sta tutta fuori del recinto, o vivo del muro; perocchè non è chiaro presso Vitruvio come debba tarli. Gli scalini compariscono ad angolo acuto, probabilmente, come notai nella detta pag. 82., per l’effetto del bassorilievo; e l’essere in tanto numero fa capire, che fossero molto comodi a salirsi. Allo stesso luogo si è parlato della forma, che aveano gli scalini presso gli antichi. Nell’Anfiteatro Flavio, o Colosseo, ho notato, che secondo i varj piani in una scala gli avanzi dei gradini sono senza cordone, ad angolo retto; in altra hanno il sottosquadro; e quelli in cima alla parte rovinata hanno modinature colla gola rovescia: alti tutti poco più, o poco meno d’un palmo, come si sono trovati molto bassi anche nelle rovine del palazzo de’ Cesari: dal che sempre più apparisce quanto fia falfo ciò, che dice Winkelmann in quel luogo; e quanto sia pericoloso il voler fare una regola con uno, o più esempj. Il Piranesi360, per riguardo ai tempj, osservò con uno scavo da lui fatto, che all’antichissimo tempio creduto di [p. 495 modifica]Bacco, ora di s. Urbano, gli scalini non erano alti. In un tempietto antico di Pompeja, fra gli scaglioni, che servono di basamento, assai alti, sono stati trovati gli scalinetti per comodo di salire, simili a quelli, che ho riferiti alla stessa pag. 82.

XVIII. Bassorilievo in marmo bianco della villa Negroni, di una particolar bellezza di lavoro, qui riportato principalmente per il tempio, di cui si è parlato qui avanti pag. 63. 75. 82. Questo tempio dovrebbe essere d’ordine composito, diverso da quello del numero precedente; ma è curioso per avere ai capitelli, in vece delle volute, un delfino per parte, forse per alludere a Nettuno, a cui sarà stato dedicato, come di altri consimili capitelli scrive il nostro Autore qui avanti pag. 94. La porta si apre in dentro all’opposto dell’altro tempietto. E’ moderno restauro la parte aperta di essa, con sotto e sopra quali perpendicolarmente, ove è stato terminato in maniera diversa dall’antico, che forse continuava appresso con altra rappresentazione. I cancelli sono anche diversi da quelli dell’altro tempietto. Sono notabili le grosse teste dei puntoni, che vengono fuori inclinati. E’ di un lavoro, e di una grazia straordinaria, e che forse non ha l’eguale in bassirilievi, la figura della donna accanto, tutta di uno stesso pezzo col tempietto, benchè ne sia tanto diverso il lavoro; e di una perfetta conservazione, fuorchè la mano, colla quale tiene la ghirlanda, con un pezzo della stessa ghirlanda sotto e sopra, e buona parte dei piedi.

XIX. A. Dopo le notizie, che ha date il nostro Autore sulla relazione dell’architetto scozzese sig. Mylne intorno al tempio detto della Concordia a Girgenti, da noi ripetute in questo Tomo, non dovrà essere discaro agli eruditi, e ai professori delle belle arti, che qui aggiugniamo altra relazione intorno allo stesso tempio, che è molto più esatta, e interessante per le osservazioni, che contiene. Si è compiaciuto di comunicarcela il signor Giacomo Barbier de Noisy parigino, architetto di molto merito, e buon gusto, e molto esercitato nel disegnare le antiche fabbriche; per ammirare, e disegnar le quali ha fatto il viaggio di Pesto, e della Sicilia nel mese di [p. 496 modifica]maggio 1784.; e per rendere queste osservazioni più interessanti ci ha favorito anche dei disegni da lui fatti con tanta scrupolosità, ed esattezza, da non lasciarci dubitare che siano di gran lunga migliori, e più utili di quelli dati dal P. Pancrazj, e da altri. Si sono divisi in quattro Tavole sotto lo stesso numero; ma però distinte con diverse lettere, per descriver le quali porteremo le parole del sig. Barbier tradotte in italiano sotto la sua revisione. „ La figura della lettera A. dà la pianta di questo tempio in due maniere differenti divise dalla linea a. a.: la metà a sinistra fa vedere la pianta come attualmente esiste; l’altra metà a destra dimostra come era anticamente.

Esso è perittero, avendo colonne con peristilj, o passeggi tutto intorno: è anfiprostilo avendo due portici, uno dalla parte davanti, che guarda l’oriente, e l’altra dalla parte di dietro: è esastilo, avendo nella facciata sei colonne: è finalmente picnostilo, essendo l’intervallo fra una colonna, e l’altra di un diametro e un quarto negl’intercolonnj più larghi: le colonne sono sei nelle facciate, e tredici ne’ lati, comprese quelle degli angoli361.

Il tempio, a prendere dal diametro b. b. delle colonne degli angoli, ha di lunghezza due volte e un terzo la sua larghezza: la lunghezza della cella, compresovi lo spazio per le scale, e i due vestiboli, è tre volte la larghezza della cella compresivi i suoi due muri; e ciascuno de’ vestiboli ha di lunghezza la metà della larghezza della cella: il vano della cella senza comprendervi i muri, è lungo due volte la sua larghezza: i muri hanno quasi il nono del vano della cella: i peristilj, o passeggi fra le colonne, e il muro della cella sono di un diametro e due terzi: finalmente i portici davanti, e di dietro hanno da una colonna all’altra due diametri e tre quarti.

Sembrarebbe che tutte quelle proporzioni da noi esposte, e alle quali gli antichi architetti s’attenevano principalmente, abbiansi fatti cadere in una irregolarità, rimproverata loro dai moderni: vale a dire, che le colonne interne, e i pilastri, che separano il portico dal vestibolo, nella [p. 497 modifica]larghezza del tempio non ribattono al vivo delle colonne laterali; ma vengono a ribattere nel mezzo dell’intercolonnio; e lo stesso succede nella lunghezza del tempio: i pilastri, che s’attaccano ai muri, non ribattono incontro delle seconde, e quinte colonne, che sono nella facciata del tempio; ma la loro distanza è minore.

Questa irregolarità è troppo scusabile, se si considera, che a prima vista non si vede di fuori; e che volendovi servilmente rimediare, s’incontrarebbero altri inconvenienti maggiori, come quelli di fare troppo stretti i peristilj, o passeggi; di togliere alla cella la sua proporzione di due volte la sua larghezza; di guastare la bella proporzione dei portici, e vestiboli, e di non esservi il sito per farvi le scale.

Non è dunque senza ragioni, o per motivo d’ignoranza, che quelli antichi architetti hanno trascurato questa irregolarità; mentre vedesi, che non hanno cercato di scansarla in alcuno de’ tempj della Sicilia, nè in quelli di Pesto, dove osservasi la stessa irregolarità: ma al contrario avevano per massima costante di trascurarla, per non alterare le proporzioni delle altre parti del tempio.

Quantunque queste proporzioni non combinino tutte esattamente con quelle, che ci dà Vitruvio per li tempj: nientedimeno possono ammettersi quanto le sue, alle quali anzi oserei dire, che siano da preferirsi; poichè coli’ accrescere la lunghezza del tempio mettendovi tredici colonne nei lati, in vece delle undici prescritte da Vitruvio362, l’architetto di questo tempio ha saputo mantenere all’interno della cella la stessa proporzione, che dà Vitruvio, di due volte la sua larghezza; e si è procacciata la maniera di situarvi doppj portici, doppj vestiboli, e scale necessarie in ogni edificio.

Si può anche dire, che la proporzione della lunghezza di due volte e un terzo la larghezza del tempio appaga più l’occhio di quella di due volte solamente la larghezza; ossia che si consideri il tempio sopra la faccia del luogo in un punto di vista, in cui se ne possa scoprire insieme la larghezza, e la lunghezza, ossia che ci contentiamo di riguardarne la [p. 498 modifica]pianta, oltre l’aver di già provato, che riunisce maggiori vantaggi. Sembra ancora, che gli architetti di que’ tempi seguissero costantemente lo stesso principio. Il tempio di Giunone Lucina, che è vicino al nostro tempio, ha tredici colonne ne’ lati: quello di Segeste ne ha quattordici: il tempio più grande di Pesto ne’ lati ha parimenti quattordici colonne, ed il minore ne ha tredici. Tutti questi tempj hanno le scale per comodo del servizio. Al tempio di Giunone Lucina, mentovato pocanzi, si vede che vi era sotto il peristilio, e i portici un sotterraneo, che girava tutt’intorno del tempio, come quelli, ai quali è quasi uguale in larghezza, ed al quale sotterraneo si andava sicuramente dalle scale.

Oltre i due portici, di cui è ornato il nostro tempio, l’uno anteriore, che si volge all’oriente, e l’altro posteriore nella parte opposta, vi sono ancora due vestiboli aperti, che vengono divisi dai portici per mezzo di due colonne, e due pilastri attaccati ai muri della cella del tempio: dopo il vestibolo dalla parte dell’oriente vi è un certo spazio lasciatovi da ricavarvi di qua e di là una scala. Il mezzo di questo spazio forma un andito, o vano, che termina da questa parte la cella del tempio: questo vano ha una volta a botte, e al di sopra vi è una camera stata ricavata fra la volta, ed il tetto, che ha le stesse dimensioni del vano sotto, ed alla quale vengono a terminare le scale.

Questo tempio aveva due porte, che corrispondono ai due vestiboli, e dalle quali la cella riceveva il lume. Non può vedersi come il vano delle porte potesse essere chiuso; essendovi presentemente un muro moderno fabbricato fra gli stipiti d’una delle porte, che è la sola esistente attualmente: si vede non ostante, che gli stipiti sono dritti, e vengono a, piombo, e che la porta non è rastremata, offra più stretta nell’alto, che nel basso, come osservasi praticato in altre porte antiche, secondo le regole di Vitruvio.

Nel vestibolo, che riguarda l’occidente, vi era solamente un muro, che separava il vestibolo dalla cella. Questo muro più non esiste, ma se vede l’indizio nei muri laterali.

[p. 499 modifica] S’inalza questo tempio sopra quattro gradini, che girano tutto intorno ad esso: sotto di questi quattro gradini vi è un basamento, che si stende per tutto il tempio, ed i gradini; e che dalla parte dell’oriente viene più avanti de’ gradini ventun piede. Bisogna notare, che dalla parte dell’oriente il quarto gradino invece di mantenere la larghezza di quattordici pollici, come ha tutto attorno al tempio, diviene più largo avanti le quattro colonne di mezzo, e viene avanti sette piedi, e due pollici. Vi è ancora un quinto gradino, che viene più avanti del quarto nove piedi, e cinque pollici; e finalmente il basamento viene più avanti del quinto gradino quattro piedi, e sei pollici. Siccome il quinto gradino, ed il basamento sono un poco rovinati nella parte d’avanti, e coperti di terra, io ho sospettato, che nello spazio di quattro piedi e mezzo vi fossero d’avanti quattro scalini, che uniti al quinto gradino salissero all’altezza del basamento, che è di cinque piedi, dieci pollici, e sei linee.

Nel lato destro vi è una piccola scala, che porta parimente all’altezza del basamento.

Si potrebbe congetturare, che questi gradini venissero cosi avanti per dare al sacerdote, e a quei, che l’accompagnavano, un luogo eminente, e comodo per fare i sagrifizj allo scoperto avanti il popolo. Al tempio di Giunone Lucina già citato, dopo i quattro gradini, che girano tutto intorno del tempio, vi è dalla parte dell’oriente uno spiazzo allo stesso piano dell’altezza del basamento, che ha la larghezza del tempio coi gradini, e che viene in avanti quarantadue piedi, e nove pollici. Questo spiazzo è terminato d’avanti da tre gradi di quelli usati negli anfiteatri, che hanno due piedi di larghezza, e sono distanti l’uno dall’altro tre piedi. Siccome dicesi, che questo tempio fosse consagrato a Giunone Lucina, si pretende perciò, che questi gradini servissero per sedere alle donne, e alle giovani, che venivano a pregare la dea.

Gli archi, che sono nei muri laterali, sono stati aperti ne’ tempi posteriori; come può vedersi nella Tavola XIX. lettera G. figura I., che dà la veduta del muro laterale, ed in cui vedesi, che non vi è taglio, che vada al centro [p. 500 modifica]dell’arco: ed il motivo si è, che per aprirli non hanno fatto altro, che tagliare dalle pietre; poichè rimettendo i corri di pietre, come se il muro fosse pieno, le pietre si trovano egualmente divise, e le commessure delle pietre della prima fila vengono esattamente a cadere sopra il mezzo delle pietre della seconda fila, e così seguitando fin all’alto.

Di più la storia fa menzione, che un vescovo di Girgenti aveva convertito quello tempio in chiesa cristiana, e allora furono aperti quelli archi, furono pure murati gl’intercolonni laterali (di che vi resta ancora qualche indizio), in maniera tale, che così formossene una chiesa a tre navate, una grande, e due piccole. Presentemente non vi resta che una cappelletta costruita in una parte della cella dell’antico tempio.

La figura seconda della Tavola XIX. lettera A. fa vedere il prospetto laterale come era anticamente: giacchè attualmente delli due fianchi laterali del tempio non ne esiste che le colonne, l’architrave, e qualche pezzo del fregio: il recante del fregio, la cornice, ed il tetto farà caduto, o farà flato gettato per terra. Vi si vede ancora il muro laterale del tempio, che è comporto di uno zoccolo alto, e di dieci corsi di pietra fino a tutta l’altezza della colonna. Quello muro è benissimo appareggiato, e formato di corsi di pietre di una stetta altezza, e lunghezza, ed ugualmente scompartite. Queste pietre vengono unite l’una accanto all’altra senza calcina, e con una esattezza sorprendente, che fa vedere, che sono state squadrate, e poste in opera con la maggior attenzione.

Le colonne, ed i muri del tempio sono della stessa pietra, che le mura dell’antica città, e della montagna, su cui essa era situata. Questa pietra è, come dice il signor Bridon viaggiatore inglese, vol. 2. pag. 12. traduzione francese, una immensa concrezione di conchiglie di mare riunite, e impasrate con una specie di sabbia, o arena, tanto dura al presente, quanto lo stesso marmo. Questa pietra è bianca prima di essere esposta all’aria; ma nei tempj, e nelle altre fabbriche è diventata di un color rossigno, e colorito.

[p. 501 modifica]Si vede ancora in quella figura la maniera, con cui sporgono i gradini gli uni avanti agli altri dalla parte orientale.

XIX. B. La figura I. dà l’elevazione principale del tempio dalla parte orientale, che è la fletta, dell’altra dalla parte opposta: quella facciata del tempio è ancora intiera, e ben conservata a riserva della pietra della cornice nell’angolo della parte destra, e l’altra sotto del fregio.

Questo tempio dà un piacere estremo a guardarlo, e par che imponga per una certa aria di grandezza, e di maestà: le proporzioni generali sono bellissime, e benissimo s’accordano con i rapporti particolari dei differenti membri.

Forse qualcuno troverà, che questo tempio è di una proporzione troppo bassa; che le colonne sono troppo corte, ed il cornicione troppo pesante, ma deve riflettere, che essendo stato l’architetto tutto intento alla proporzione generale, che dar voleva al suo tempio, doveva risultarne l’aspetto dell’edifizio tale, quale noi lo vediamo: altrimenti giammai egli non farebbe riufciuto a dargli il gran carattere, che ha in effetto, se ne avesse allungate le colonne, fatto più leggero il cornicione, e più alto il frontone; mentre allora sarebbesi incontrato nelle proporzioni, che i Greci posteriori, e i Romani in appresso hanno dato all’ordine dorico, e che i moderni hanno seguito; proporzioni, che intanto ci sembrano da preferirsi, in quanto siamo più avvezzi a vederle: e perciò io sono di parere, che queste due differenti proporzioni debbano impiegarsi, e preferirsi l’una all’altra secondo il giudizio dell’architetto. Poichè il vero bello nell’architettura non consiste a trovare delle proporzioni più leggere a preferenza di quelle più pesanti; ma a seguire esttamente il sistema di proporzione, che si è giudicato a proposito di dare all’edifizio, e mettere un accordo perfetto fra le proporzioni generali, e le particolari di ciascun membro; ne avviene, che se si adotti un sistema di proporzione leggera, la massa totale essendo leggera, le colonne, i cornicioni, ed i frontoni saranno parimente di una proporzione leggera: ma se si adotti un sistema di proporzione più pesante, la massa totale essendo più pesante, le colonne, i cornicioni, ed i [p. 502 modifica]frontoni dovranno essere di una proporzione più pesante. E questo è il principio, che ha seguitato l’architetto nelle masse, e nelle parti del nostro tempio, e nella semplicità delle modinature, con cui ha ornato la cornice.

La proporzione generale del tempio è tale, che dal piantato delle colonne alla punta del frontespizio è un tantino più dei due terzi della larghezza del tempio; avendo solamente l’altezza della cornice del frontone di più: altrimenti farebbe i due terzi giusti. Le colonne sono alte quattro volte e tre quarti il lor diametro maggiore, e diminuiscono da capo il quarto del loro diametro: il cornicione ha poco meno di due diametri: il timpano del frontone, e la cornice, che lo corona, hanno poco più del terzo dell’altezza della colonna, e questa cornice ha il terzo dell’architrave. I quattro gradini, che fono fotto le colonne, hanno poco più di un diametro e mezzo. Quanto al basamento non può determinarsene l’altezza giusta, che aveva, perchè è difficile di ritrovare l’antico piano del terreno, fu cui s’inalzava; se almeno non si facesse scavare, essendo ricoperto di terra. Io l’ho fatto intanto di un diametro e un quarto, perchè questa è l’altezza, che io ho potuto vedere nei siti dove la terra è più bassa. Le colonne vanno sempre diminuendo dal basso fino all’alto: sono scanalate con venti scanalature a canto vivo; non hanno base, il loro capitello è alto un mezzo diametro, ed ha un diametro e un quarto di larghezza.

La diminuzione in cima di quelle colonne, che è di un quarto del diametro inferiore, è di una conveniente proporzione; e diminuiscono un poco meno di quelle del tempio maggiore di Pesto, e molto meno di quelle degli altri due edifizj, de’ quali la soverchia diminuzione delle colonne portata fino al terzo del diametro dispiace all’occhio, dà una forma senza garbo alle colonne, e sembra nuocere alla solidità dell’edifizio.

Le colonne sono composte di cinque fila di pietre, o tamburi, uno de’ quali forma il capitello.

L’architrave è uguale in altezza al diametro superiore delle colonne, ed ha una falcia, che lo corona, con [p. 503 modifica]un’altra più piccola, ed una fila di sei gocce al di fotto: questi ultimi due membri hanno la stessa larghezza dei triglifi. Le pietre, che formano l’architrave, si estendono dal mezzo di una colonna all’altro, e nella grossezza sono composte di due pezzi medi l’uno accanto all’altro, e che hanno tutta l’altezza dell’architrave.

Il fregio è alto un pollice più dell’architrave nel sito de’ triglifi: ma alle metope vi è una fascia compresa nel fregio, e che forma una parte della cornice, dal di lotto della qual fascia partendo le metope sono quadrate363. I triglifi non hanno capitello, vale a dire una fascia, che li coroni.

I triglifi dell’estremità sono posti nell’angolo del fregio, e gli altri sono divisi ad egual distanza fra loro. Sopra il mezzo di ciascuna colonna corrisponde un triglifo, ed un altro in mezzo: le metope sono tutte di una grandezza, e diventano quadrate. Per trovare questa distribuzione eguale l’architetto ha ristretto un tantino li due intercolonnj vicini a quello di mezzo, ed ha ristretto un poco più gli ultimi due; ma siccome sono ristretti di una quantità insensibile gli uni per rapporto agli altri; perciò l’occhio non può accorgersene, e non ne resta disgustato.

I due primi intercolonnj dalle parti laterali sono ristretti della stessa quantità, che gli ultimi due delle facciate per avere ancora nel prospetto laterale la distribuzione eguale dei triglifi, e delle metope. Questa operazione tende ancora alla maggior durata dell’edifizio; aumentandone le forze, e la solidità nelle cantonate.

La proporzione del triglifo alfa metopa, è come uno ad uno e mezzo; ed è la stessa, che in tutti gli altri ordini dorici.

I triglifi non sono già incastrati nel fregio; ma ciascuno vi forma una pietra, e le metope un’altra. Quelle pietre per verità hanno una grossezza minore, che le prime [p. 504 modifica]dell’architrave; ma sono state fatte così per meglio concatenare le pietre le une colle altre, come può osservarsi nella Tavola XIX. lettera D. figura I.

L’altezza della cornice è la metà dell’architrave: perpendicolarmente al di sopra di ogni triglifo in questa cornice vi è un modiglione in pendenza, che è uguale in larghezza al triglifo; e fra quelli modiglioni ve ne è un altro, che corrisponde nel mezzo di ciascuna metopa, e che è della grandezza degli altri modiglioni, di maniera, che nel soffitto vi restano degli spazj bislunghi fra ciascun modiglione. Il di sotto di ogni modiglione è ornato con tre fila di gocce, e ve ne sono sei per ogni fila.

Le altre parti del cornicione si capiranno meglio col dare un’occhiata alle Tavole XIX. lettera C., e XIX. lettera D.

La cornice, che corona il frontone, è più liscia che quella di sotto; e non vi sono modiglioni come nell’altra; il che si accorda con ciò, che dice Vitruvio, che gli antichi non mettevano mutoli nelle cornici in pendenza dei frontoni.

La figura seconda della Tavola XIX. lettera B. fa vedere due sezioni differenti della larghezza del tempio; quella a destra è presa sotto il portico, e fa vedere la facciata, che adorna il vestibolo. Quella facciata è ornata da due colonne, e due pilastri, che reggono un architrave, ed un fregio, in cui sono distribuiti de’ triglifi: due di quelli sono agli angoli, due sono a piombo delle colonne, e gli altri tre sono in mezzo a quelli. Quello architrave, e quello fregio sono più piccoli di quelli, che sono nella facciata d’avanti.

La sezione a destra è presa più addentro sopra il vestibolo stesso, e fa vedere il muro in fondo con la porta, che entrava nella cella del tempio.

XIX. C. La prima figura di questa Tavola fa vedere la sezione nel mezzo della lunghezza del tempio, in cui si vede lo spaccato del portico, quello del vestibolo, lo fiaccamente del muro, che separava il vestibolo dalla cella; il muro laterale di questa, con le arcate, che vi sono state aperte, e delle quali si è parlato nella Tavola XIX. lettera A.

Vi si vede ancora il muro moderno, che chiude la cappella, [p. 505 modifica]la parte della cella, in cui è la cappella attualmente, e la cameretta al di sopra, che comunica con le scale.

La figura seconda della Tavola XIX. lettera C. dà le parti in grande del cornicione veduto di facciata, e preso sopra l’intercolonnio di mezzo: vi si vede lo scompartimento de’ mutuli, e le gocce nella cornice, con le differenti modinature, che la compongono: vi si vede ancora la distribuzione de’ triglifi, e delle metope nel fregio, e la distribuzione delle gocce nell’architrave corrispondente ai triglifi.

XIX. D. La figura prima fa vedere la sezione del cornicione, e del frontone prefa nel mezzo del tempio: vi si vede il profilo dell’architrave, fregio, e cornice; quanto siano in pendio i modiglioni nella cornice, il profilo del timpano del frontone, e della cornice al di sopra; e la maniera, con cui le pietre fono disposte per la costruzione in tutti i differenti membri, che ora noi abbiamo descritti.

La figura seconda fa vedere la pianta del soffitto della cornice, la pianta dei mutuli con le loro gocce, e l’intervallo, che li separa, la maniera con cui fono disposti nell’angolo: vi si vede ancora la pianta de’ triglifi di mezzo, e di quelli dell’angolo.

La figura terza dà il capitello veduto in grande, con un disegno più in grande delle piccole modinature, che sono sotto l’ovolo, e la maniera, con cui quest’ovolo diviene compresso. Sotto si è posta la pianta del capitello, con le sue scanalature„.

Fin qui è la descrizione del signor Barbier. Noi abbiamo già osservato qui avanti alla pag. 121. segg., coll’autorità di Diodoro, che questo tempio, e quello di Giove Olimpico sono stati inalzati prima dell’olimpiade xciii., in cui gli Agrigentini furono soggiogati dai Cartaginesi. Prima di questa olimpiade, in cui furono prese dai Cartaginefi anche altre città dell’sfola, Agrigento, e tutte le altre generalmente erano città floridissime, e potentissime, e dello stesso trasporto per le belle arti, e i monumenti, che gli altri Greci. Le monete sono per lo più d’una bellezza inarrivabile. I Cartaginesi portarono secoloro da Agrigento coll’immensa preda una [p. 506 modifica]gran quantità di pitture, e di statue, come scrive Diodoro, riportatevi da Scipione Africano il secondo quando prese Cartagine. Cicerone, da cui abbiamo questa notizia364, parla anche di un famoso tempio d’Ercole in quella città, e di molti monumenti di Segesta, Siracusa, Enna, ed altre città dell’isola. La popolazione d’Agrigento ascendeva, secondo Potamilla presso Diogene Laerzio365, a ottocentomila abitanti, che dovette ridursi a molto meno dopo i Cartaginesi, come può arguirsi da Platone366 per tutta la Sicilia. E per verità queste fabbriche, e quella in ispecie del tempio di Giove Olimpico, come scrive Diodoro, ci danno una grande idea della ricchezza, e magnificenza di quel popolo. Del tempio di Giove Olimpico se ne è parlato a lungo qui avanti alla p. 126. seg. per ispiegare il passo, in cui Diodoro lo descrive. Ma qui dopo aver meglio esaminate le proporzioni del tempio detto della Concordia, vorrei farvi qualche altra riflessione. La maniera di parlare di Diodoro non può negarsi, che sia equivoca. Sopra tutto fa equivoco il portico avanti, e dietro, ch’egli vi mette. Questo a prima vista pare che debba intendersi di un portico con colonne: eppure non dovrebbe aver avuto colonne; ma dovrebbe essere stato un portico interno a modo di un vestibolo, chiuso dalle mezze colonne, e dal muro come ai lati: e ciò primieramente, perchè Diodoro nomina i portici; ma non parla di colonne isolate, o intiere: in secondo luogo, perchè se ben si riflette, pare impossibile, che si fossero potuti trovare pezzi di pietra così lunghi da servire per architrave, e regger il peso di sopra. Supponendo gl’intercolonnj di un semplice diametro, o grossezza di colonna, che era di dodici piedi, dovevano essere lunghi i pezzi di pietra ventiquattro piedi, ossia due diametri per arrivare al mezzo delle due colonne. Da questa difficoltà forse nacque, che l’architetto volendo fare un tempio sì vasto, e di colonne tanto grosse, si vide costretto a scegliere quella forma di falso-alato per far reggere gli architravi dai muri fra le colonne. Così supponendo, che Diodoro abbia [p. 507 modifica]anche preso la misura dell’altezza del tempio da una delle due fronti, comprendendovi tutta l’altezza del frontispizio, troveremo, che dovea essere di proporzioni più balle degli otto diametri della colonna, che noi motivammo al luogo citato per una congettura; e probabilmente dovea essere di lei. Nel tempio della Concordia l’architrave non è più grande del fregio, come nei tempj di Posidonia: ma più basso di un’oncia. Non so se anche nel tempio di Giove sarà stato così. Quello, se era fatto in quello che si poteva, ad imitazione del tempio di Giove Olimpico, da cui avea tratto il nome, sarà stato ipetro, o scoperto dentro, come dicemmo pocanzi367 essere stato quello d’Atene, simile forse all’altro Olimpico, e come richiedeva la gran distanza delle fue parti interne. Più altre cose potrebbero dirsi intorno al passo di Diodoro; ma si lasciano ad altro tempo, aspettandosi migliori esami, e ricerche sulle rovine, e sulla pianta dell’edifizio.

XX. Lettera A. In questa, e nella seguente Tavola si danno le figure di tre stufe prese dall’opera dello Schoepflin, della quale si è parlato qui avanti pag. 85. Nella prima segnata qui lettera A al numero I. A si vede la fornace, ossia il luogo, in cui si accendeva il fuoco, per far passare il calore nel sotterraneo, o ipocausto segnato B, circondato da tubi in tre lati nella maniera, che sono indicati in grande al numero III. C Tepidario. D Eleotesio, o stanza per ungersi. E Apoditerio, o stanza da spogliarsi, o piuttosto frigidario. F Passaggio de’ tubi dall’ipocausto al tepidario. G Tubo, o condotto per introdurre l’aria esterna. Il numero II. dà l’elevazione della suddetta pianta. B Calidario, che resta immediatamente sopra l’ipocausto, il di cui pavimento formato di cinque grandi tavolozze di terra cotta, vien retto da quattro fila di pilastri, dell’altezza di due piedi. C Tepidario. D Eleotesio, o stanza per ungerli. F Passaggio de’ tubi del calidario a quelli del tepidario. G Tubo, o condotto da introdurre l’aria esterna mediante una chiave, la quale doveva servire per regolare i gradi del calore del tepidario. Al numero III. si sono fatti alcuni tubi in grande, [p. 508 modifica]per poterne vedere la maniera, con cui comunicavano gli uni cogli altri.

XX. Lettera B. Veduta d’altra stufa, nella quale, a differenza della passata, si vedono i tubi da una parte solamente. I pilastrini, che reggono il pavimento, sono dell’altezza di due piedi, e sono della grossezza di un piede per ogni lato: la grossezza de’ muri in ogni lato è di piedi due e mezzo: la larghezza della stufa è di 25. piedi per lunghezza, e di 22. e mezzo per larghezza. Il numero IV. fa vedere in grande i condotti, e la maniera, con cui in questa stufa hanno la comunicazione. Il numero VI. di questa Tavola è la pianta di una terza stufa. In questa osservanfi in tutte le quattro parti i tubi distanti fra loro un mezzo piede: il pavimento vien retto da dieci pilastrini, della larghezza di un piede in circa, ed alti due piedi. Vi sono ancora due altri pilastrini più grossi de’ precedenti, e della stessa altezza. Sotto, il numero VII. dà l’elevazione di questa stufa, dove si vede l’apertura della porta di tre piedi e mezzo. Si può credere, che il fuoco per questa stufa si facesse nello spazio, che resta fra la porta, e li dieci pilastrini.

XX. Lettera C. Per dare una più compita idea delle stufe antiche, nella parte superiore di questa Tavola si è dato il disegno di una stufa trovata in un casino di campagna a Pompeja, riportato nel i. volume del Viaggio pittoresco del regno di Napoli368. Il numero I. è il piano geometrico. L’acqua entrava per un tubo B, e arrivava dentro il muro fino alle caldare C, per esser portata nella bagnerola F. D era il fornello da far la cucina. E un forno. G indica li tubi dentro il muro, per li quali circolava il calore, e la forma del mattone a coltello dalla parte del muro dentro della stufa, come in quella di Scrofano, di cui appresso, e forse in tutte le altre. I la porta. K una piccola apertura nel muro, ove si metteva una lampada, che rischiarava in una volta ambedue le parti, e riceveva l’aria della parte Z. Un cristallo, come si crede, dalla parte della stufa impediva all’aria umida d’estinguere la lampada. M e 9. indica una tazza, che riceveva [p. 509 modifica]dell’acqua fredda, la quale veniva dal serbatojo, per mezzo del condotto N H, e 10. Una piccola finestra di vetri illuminava la stufa. Lo spaccato di quella nicchia al numero III. ne fa veder la forma, e la decorazione. Un altro spaccato num. II. della parte laterale deve compire di far conoscere la stufa, come anco il fornello, dove l’acqua si scaldava, e si distribuiva nella maniera la più ingegnosa. Arrivava l’acqua nella caldaja 1., e non si scaricava nella seconda numero 2. per mezzo di un condotto, o tubo, se non che a misura, che si levava l’acqua da questa stessa. Quelle due caldare, che ricevevano l’azione del fuoco in una maniera ben differente, modificavano i gradi del calore. L’acqua tepida, che rientrava gradatamente nell’acqua bollente, la rimpiazzava lenza raffreddarla, e somministrava nella bagnerola per mezzo dei canali 7. e 8. l’acqua tepida, e l’acqua fredda. Allorchè nel fornello 3. le legna eran consumate, si spingeva il carbone sotto l’atrio della camera, il pavimento della quale era sostenuto per mezzo di piccoli pilastri di terra cotta vuoti, e sbucati, come sono rappresentati al num. IV. Mattoni larghi posano sopra quelli pilastri, e sopra i mattoni vi è un lastrico d’alcuni pollici di grossezza, e sopra un mosaico, che moderava l’azione di un calore troppo immediato alla stanza, o calidario di sopra. 5 Il muro maestro. 6 L’elevazione di mattoni nel muro, entro cui saliva l’aria calda, com’è indicato alla lettera G, e finalmente ii. un’apertura per lasciare svaporar l’aria. Al numero V. si è dato un pezzo della pianta della casa, ove era la stufa.

La parte inferiore di quella Tavola è una pittura delle Terme di Tito, in cui si rappresentano le varie parti di un bagno, colli nomi sopra, che molto servono per intendere anche Vitruvio369, al qual effetto l’ha ripetuta dopo essere stata pubblicata da altri, il Galiani nella sua traduzione370. Si ha notizia di varie altre stufe antiche, fra le quali è quella di Pisa, descritta dal Robertelli371. Flaminio Vacca nelle sue Memorie372 parla di una da lui trovata nella sua casa dietro [p. 510 modifica]il Panteon nelle rovine delle Terme d’Agrippa. Nelle Novelle letterarie di Firenze per l’anno 1741.373 se ne descrive una trovata pure in Roma nel demolire la chiesa vecchia di s. Stefano in Piscinola, di cui parla anche il Galiani374. Si vede ancora al presente una parte di quella dei sotterranei della chiesa di s. Cecilia in Trastevere. Di una delle Terme Antoniniane ne dà la figura il Piranesi375. Il nostro Autore al luogo citato ha descritto quella trovata alla Ruffinella sopra Frascati; intorno alla quale, e a tutto il resto del bagno, che v’era, con molte antichità scopertevisi allora, può vedersi il Giornale de’ Letterati stampato in Roma l’anno 1746.376. Un’altra ne è stata trovata l’anno scorso 1784. nel territorio di Scrofano in una tenuta detta Filatica, spettante ai sig. cav. Niccola, e Marco Pagliarini, lontana da Roma 15. miglia. Le colonnette di terra cotta, alte sopra due palmi, e del diametro di più, d’un palmo, erano tutte di un pezzo, e vuote dentro. I tubi, che salivano dentro ai due muri laterali, erano quadrilunghi, lunghi mezzo palmo, alti un palmo e mezzo, e venivano fermati al muro a due a due con una spranga di ferro in forma di un T tra mezzo di essi. Il pavimento era fatto al solito di gran tegoloni, che arrivavano al mezzo di due colonnette, colla marca sopra in alcuni di essi VIMATI RESTITVTI OP DOL EX FIG FA VS AVGVS EX. Sopra quelli era un lastrico fortissimo, coperto poi di lastre quadrate di marmi di varj colori, come quella descritta dal Vacca, e dal Robertelli. Era formato degli stessi tegoloni anche il pavimento, ove posavano le colonnette. Quella stufa, come tutte le altre antecedenti, avea dalla parte avanti una fornacetta, o luogo, dove si faceva il fuoco, trovato con degli avanzi di roba arsa. Il citato Vacca, e Winkelmann, i quali non hanno badato a quella fornacetta, di una sufficiente grandezza, mentovata anche da Vitruvio, si sono figurati, che il fuoco si facesse sotto al pavimento fra i pilastrini: cosa impossibile per l’angustia del luogo, e perchè il pavimento, e gli stessi pilastrini non avrebbero retto all’impeto del fuoco. Nella detta pittura si vedono [p. 511 modifica]chiaramente tre fornacette, dalle quali la fiamma s’insinuava fra i pilastrini; ove perciò dovea farsi fuoco di legna piuttosto che di carbone, come si vede nella pittura. Dei tubi, ne’ quali s’insinuava la fiamma, o il calore, ne parla il giureconsulto Procolo377; e il sotterraneo della stufa, o l’ipocausto è descritto da Stazio378:

Quid nunc strata solo referam tabulata, crepantes
Auditura pilas, ubi languidus ignis inerrat
Ædibus, & tenuem volvunt hypocausta vaporem?

Nell’uno, fuorchè il Robertelli, ha fatto osservazione nelle citate, o altre stufe, nell’ultima delle quali non si potè osservare per le rovine, se il pavimento dell’ipocausto, o sotterraneo, ove erano i pilastrini, fosse inclinato verso la parte della fornace, che era la più bassa, come ordina Vitruvio, affinchè la fiamma, e il calore più diretto, e ristretto andasse alla bocca dei tubi. Secondo quella regola i pilastrini doveano avere un’altezza gradatamente minore, della quale nessuno dei citati scrittori fa parola, dicendoli anzi tutti uguali.

XXI. Statua in marmo bianco dell’altezza di palmi nove e mezzo, senza il plinto palmi nove once dieci, conservata nel Museo Pio-Clementino. L’iscrizione, che ha sull’orlo dell’ampio vestimento di sottilissimo panno, l’ha fatta credere immagine del Sardanapalo re d’Assiria tanto celebre per la sua vera, o supposta vita voluttuosa, ed effeminata: ma siccome a quello non sarebbe convenuta la lunga barba, che ha la statua, essendo stato solito radersela ogni giorno; fu pensato, che vi fosse piuttosto scolpita l’effigie di un più antico Sardanapalo, uomo guerriero, e commendabile per la sua vita, come a lungo ha disputato il nostro Autore nel Tom. iI. pag. 102. 103., e qui avanti pag. 253.; senza però riflettere, che quello Sardanapalo è appena noto nelle antiche memorie, d’onde apparisce, che la sua persona non poteva interessare nè i Greci, nè i Romani da farne tante immagini, quali sono oltre la statua, le due teste, che accennai alla detta pag. 253. not. d., e qualche altra cognita sotto [p. 512 modifica]il nome di Platone; e che oltracciò, se egli era uomo alieno dalla voluttà, non gli conveniva tutta l’acconciatura donnesca, e l’esser posto fra quattro donne, come fu trovato. Noi avvertimmo alla citata pag. 103. not. a., che rassomiglia alla figura creduta di Trimalcione in tanti bassirilievi, la quale altro non è che un Bacco: e per provarlo un Bacco orientale barbato379 ho fatto incidere nella Tavola il profilo della testa, che mostra dietro la capigliatura annodata, come l’ha quella, e tante figure credute sacerdoti di Bacco nei bassirilievi, e sui vasi detti etruschi. Ma poi avendo contemporaneamente osservata questa stessa opinione sostenuta, e molto bene provata colla solita sua squisita erudizione, e criterio dal tante volte lodato signor abate Visconti; per brevità manderemo il leggitore erudito alla di lui opera380. L’iscrizione appostavi sul lembo del vestimento può credersi o un equivoco, o un’impostura, come ce ne danno argomento altri esempj moltissimi.

XXII. Figura in bronzo venuta dalla Sardegna, ora custodita nel museo del Collegio Romano. La sua altezza è di un palmo e otto once, e la cesta è di due once e mezza. Rappresenta un soldato con uno scudo rotondo, che dovrebbe essere una specie di pelta, nella mano manca, e tre pili, o lunghi dardi. Nella destra dovea tenere l’arco, del quale pare abbia un avanzo; non mai la spada, di cui avrebbe dovuto avere il fodero; e altronde sarebbe stato senza l’arco. Winkelmann, che lo ha descritto nel Tom. I. pag. 23;., e qui avanti pag. 253. con qualche errore nelle suddette cose, crede che portasse in capo la cesta, come gli si vede al presente. Ma io crederei di no; e che piuttosto la portassero due soldati a mano per le salite, o luoghi incomodi, e altrove la strascinasse uno solo sul carretto. Questo, fuorchè un pezzetto del timone, e le ruote, è tutto moderno, fatto a capriccio; sebbene pare che fosse portato dietro alle spalle dal soldato o nelle salite, o in altre occasioni. Le corna, che questi ha in capo, non sono fatte per reggere la cesta, che neppur vi cape bene; ma devono figurare un cimiero di pelle, [p. 513 modifica]o muso di toro colle corna, portate cosi dai re d’Egitto, da Iside, e da tanti altri: e si conferma da un altro soldato consimile presso il Gori381, il quale non porta il carretto; ma in vece ha una lunga zappa, che può farlo credere un guastatore. Un cimiero colle corna si vede parimente a tre guerrieri in due vasi dei così detti etruschi riportati dal Passeri382. E’ stata pubblicata quell’orrida figura, incisa a rovescio, anche dal sig. abate Barthelemy383, il quale crede come Winkelmann, che tenga in una mano l’impugnatura della spada.

XXIII. Statua della villa Borghese in marmo bianco, di grandezza naturale, celebre più per la falsa denominazione di Belisario, sotto la quale è cognita, che per il nome di Diogene postole da taluno, e per qualche figura in rame finora pubblicatane. Winkelmann, a cui giustamente parve assurdo il nome di Belifario, nel Tom. iI. pag 421. propose varie nuove congetture, che nulla hanno da fare col soggetto di essa. Io crederei piuttosto, che fosse la statua del filosofo Crisippo, o almeno una copia di quella, statagli eretta nel Ceramico d’Atene384, descritta, precisamente come è questa, da Cicerone385, sedente in atto quali d’interrogare colla mano, o di discorrere con altri, o d’insegnare: At etiam Athenis, ut a patre audiebam, facete, & urbane Stoicos irridente, statua est in Ceramico Chrysippi, sedentis porrecta manu, quæ manus significat illum in hac esse rogatiuncula delectatum: Num quidnam manus tua sic affecta, quemadmodum affecta nunc est, desiderat? Nihil sane. &c. Anche Sidonio Apollinare, da noi riportato altrove386, parla di una pittura nel Ginnasio, o Pritaneo d’Atene, in cui Crisippo era rappresentato colla mano in atto di stringere le dita come per contare: Chrysippus digitis propter numerorum indicia constrictis: d’onde si argomenta, che tal positura di mano fosse un segno caratteristico per riconoscerlo. Nella nostra statua pare evidente, che vi sia rappresentato un filosofo sì per la fisonomia, che per [p. 514 modifica]il pallio, e la maniera, con cui ne è vestito. Si sono spacciate dagli scrittori, e ne’ musei altre immagini di questo principe della stoica filosofia; ma senza nessun giusto fondamento. Se di lui può veramente dirsi questa, avremo il piacere di avere scoperto un ritratto interessante, da unirsi a quello di tanti altri insigni personaggi dell’antichità riconosciuti, o scoperti da pochi anni a questa parte; e avremo anche la sorte di contemplare una statua celebre presso gli antichi, o almeno una copia di essa, che tale potrebbe crederli per la qualità del lavoro piuttosto mediocre.



Note

  1. num. 153.
  2. Tom. iiI. pag. 288.
  3. Epist. 64. ad Fabiolam, num. 13. op. Tom. I. col. 360.
  4. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 250.
  5. Omero, o altri che sia l’autore, Hymn. in Pana. Vedi Lilio Giraldo Histor. Deor. synt. 15. col. 451. segg. Lugd. Batav. 1606.
  6. Vedi il Giraldo l. cit. synt. 8. col. 276., Bodeo a Teofrasto Hist. plant. lib. 4. cap. 18. pag. 276., Buonarruoti Osserv. istor. sopra alc. med. Trionfo di Bacco, pag. 445.
  7. lib. 1. cap. 6.
  8. De præst. & usu num. diff. 7. n. 6. segg. pag. 43. Jegg. Tom. I. Vedi anche il Cupero De elephant. exercit. 1. cap. 7. in Suppl. Antiq. Rom. Saliengre, Tom. iiI.
  9. Vedi qui avanti pag. 50. not. b.
  10. Epist. lib. 7. op. pag. 191. Basilea 1544.
  11. Tom. iiI. par. 3. pag. 158. segg.
  12. Class. 3. sect. 1. num. 2. pag. 315.
  13. Tom. I. pl. 13.
  14. Œdip. Ægyptiac. Tom. iiI. pag. 512. synt. XVIII. cap. 2.
  15. Eusebio De præpar. evang. lib. 1. c. ult. pag. 40. segg. Vedi Jablonski Panth. Ægypt. lib. 1. cap. 4.
  16. lib. 2. cap. 36. pag. 120.
  17. Vedi Tom. I. pag. 91. not. a.
  18. num. 5.
  19. Tom. iI. Tav. 16. pag. 38., e nelle aggiunte allo stesso Tomo.
  20. Hist. Chron. lib. 2. pag. 21.
  21. Advers. llb. 4. cap. 17. pag. 192.
  22. Tom. iI. Tav. 2. pag. 7. not. b.
  23. Apollodoro lib. 2. cap. 2. §. 5. segg. pag. 73. segg.
  24. Inst. Orat. lib. 12. cap. 10.
  25. num. 184.
  26. Giugno, e luglio 1784.
  27. Winkelmann Mon. ant. ined. num. 71.
  28. Plutarco De liber. educ. op. Tom. iI. p. 4.
  29. De reg. theca calam. lib. 1. c. 7. n. 16. pag. 172. segg.
  30. Tom. iI. Tav. 12. pag. 21. not. a.
  31. Inst. orator. lib. 1. cap. 8.
  32. De legib. lib. 2. cap. 23.
  33. De orat. lib. 1. cap. 45. n. 195.
  34. Museo Pio-Clement. Tom. iI. Tav. 1. pag. 4.
  35. lib. 16. cap. 6. sect. 8.
  36. De diis german. cap. 29. pap. 369.
  37. Æneid. lib. 6. vers. 254.
  38. Osserv. istor. sopra alc. med. pag. 70.
  39. Tav. 37. num. 5. pag. 425.
  40. Cicerone De nat. deor. lib. 1. c. 36.
  41. Tom.I. pag. 101. dell’edizione inglese, e della traduzione francese, Tom. I. p. 290.
  42. De Memnone Græcorum, & Ægyptiorum, hujusque celeberrima in Thebaide statua, syntagmata III., cum figuris æncis. Francofurti ad Viadrum 1753. in 4.
  43. De re rust. lib. 2. cap. 4.
  44. Dempstero De Etr. reg. lib. 3. cap. 19. pag. 294, Kirchmanno De fun. Roman. lib. 4. cap. 1. pag. 484., Gori Mus. etrusc. Tom. iI. Tab. 165. pag. 323.
  45. Giacomo Filippo Tomasini De donar. vet. cap. 26. in Thes. Antiq. Rom. Grævii, Tom. XII. col. 847.
  46. Obel. Isæi interpr. pag. 127.
  47. lib. 1. §. 72. pag. 83.
  48. Iscriz. antiche delle ville, e de’ palazzi Albani, pag, 176.
  49. Ad nation. lib. 1.p. 55. C. Luttetia 1634.
  50. Pausania lib. 1. c. 41. pag. 98., lib. 2. cap. 4. pag. 121., cap. 13. pag. 142., lib. 10. c. 32. pag. 880.
  51. Vedi qui avanti pag. 234.
  52. Inscript. antiq. in Etr. urb. exist. par. 1. Tab. 18. n. 2.
  53. Tertulliano De anima, cap. 2. n. 4.
  54. Michele Apostolio Proverb. cent. 20. num. 20. pag. 255. Lugd. Bat. 1653.
  55. Mus. Etrusc. Tom. 1. Tab. 84. n. 2.
  56. Tab. 88.
  57. De Etr. reg. Tom. I. Tab. 54.
  58. Mus. Veron. pag. XI., e Tab. 3. n. 7.
  59. Eschine Orat. contra op. Demosth. pag. 458. C., Pausania lib. 1. cap. 25. pag. 37., cap. 32. pag. 79.
  60. lib. 1. cap. ult. §. 23. pag. 57. seg.
  61. Argon. lib. 3. v. 1285. segg.
  62. Inscr. ant. l. cit. n. 2.
  63. n. 56.
  64. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 182. segg.
  65. Vedi Tom. iI. pag. 47. not. b.
  66. cit. Tom. iI. pag. 47. not. b.
  67. Raccolta di statue, Tom. I. Tav. 18.
  68. Inst. Orat. lib. 12. cap. 10.
  69. Tom. iI. pag. 145.
  70. Inscriz. Albane, cl. 4. n. 105. pag. 96.
  71. Antiq. expl. Tom. iiI. par. 1. pl. 8.
  72. Mon. ant. ined. pag. 23. 71. 96. 152. 190. Vedi anche il Padre Belgrado nei Saggi della soc. lett. Rav. Tom. iI. diss. 2. p. 97, segg.
  73. Monum. ant. ined. n 94-96.
  74. Everardo Ottone Dissert. de Consul. qui extra Romam, ec., Noris Cen. Pis. dissert. 1. cap. 3.
  75. Petronio Satyr. pag. 272.
  76. cap. 14. vers. 15.
  77. Epist. lib. 4. epist. 7.
  78. Vedi il Noris loc. cit. diss. 3. cap. 1.
  79. Vedi il Kirchmanno De funer. Roman. lib. 4, cap, 11. pag, 550., Chimentello Marmor Pisan. de hon. bisellii, cap. 22. in Thes. Antiq. Rom. Grævii, Tom. VII. col. 2099. seg. edit. ven. 1735.
  80. pag. 67. E. oper. Tom. I.
  81. Consol. ad uxor. in fine, op.Tom. iI. pag. 612,
  82. De anima, cap. 39. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 190. not. c.
  83. lib. 6. cap. 19. in Biblioth. Patrum, Lugd. 1677. Tom. XII. pag. 136. H.
  84. Vedasi Giacomo Filippo Tomasini De donariis vet. cap. 10., in Thes. Antiq. Rom. Grævii, Tom. XII. col. 799. seg.
  85. Sat. 7. vers. 237.
  86. Aristofane in Vesp. vers. 95. seg.
  87. Vedi qui avanti pag. 53. col. 2.
  88. l. i. Cod. Si serv. aut libert. ec.
  89. cl. 6. num. 134. pag. 465.
  90. Inscr. ant. par. 3. lab. 17.
  91. Igino Fab. 242.
  92. Theog. vers. 572.
  93. Prometh. & Jov. §. 1. op. Tom. I. p. 204.
  94. Catalogue rais. d’une coll. de medaill. pag. 44.
  95. Sicil. &c. vet. nummi, Tab. 75. segg.
  96. num. 161. par. iI. cap. 33. pag. 217.
  97. Omero Odiss. lib. 22. v. 405. e segg., Igino Fab. 125.
  98. Lo stesso lib. 17. v. 291. segg.
  99. Inscript. ant. par.3. Tab. 39., e pag. CXXX seg.
  100. Stefano De urbib. v. Ἄγκυρα, pag. 21. Lugd. Bat. 1688.
  101. Vedi lo Spanhemio De præst. & usu numism. diss. 7. pag. 406. Tom. I.
  102. Giustino lib. 15. in fine.
  103. Græcia, Tab. 32.
  104. Melang. des medaill. Tom. I pag. 111. segg., Medaill. des rois, pl. 2.
  105. Numi veter. anecd. par. 1. pag. 70. segg.
  106. Tom. iI. pag. 673. seg.
  107. Explic. de quelq. med. grecq., ec. pl. 2. n. 7., pl. 4. n. 1.
  108. Numi vet. ined. Tab. 5. n. 4. 5.
  109. Them. lib. 2. them. 2. presso il Bandurio Imp. orient. Tom. 1. pag. 22.
  110. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 253. col. 2.
  111. Deipnosoph. lib. 12. cap. 9. pag. 537.
  112. Plutarco nella di lui vita, in principio, oper. Tom. I. pag. 665., e Tertulliano De anima, cap. 46.
  113. pag. 156.
  114. Tom. I. pag. 102. col. 1.
  115. Dissert. 7. pag. 379. Tom. I.
  116. num. 97.
  117. Libanio Progymn. in laud. bovis, op. Tom. I. pag. 96. D.
  118. Descr. ec. cl. 3. sect. 1. n. 69. pag. 326.
  119. Mem. degli antichi incis. ec. Tom. I. Tav. 48. pag. 271. segg.
  120. Pausania lib. 1. cap. 19. pag. 44. Vedi avanti Tom. I. pag. 311.
  121. in Hippol. act. 2. v. 644. seg.
  122. lib. 16. cap. ult. sect. 87.
  123. lib. 35. cap. 10. sect. 37.
  124. Annal. lib. 11. cap. 14.
  125. lib. 7. cap. 38. sect. 58.
  126. De præst. & usu numis. diss. 2. n. 4. Tom. I. pag. 85.
  127. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 192.
  128. Sicil. numism. Tab. 144. segg.
  129. Sicil. ec. numi veter. Tab. 97. segg. Veda si anche lo Spanhemio Diss. 8. Tom. I. pag. 545. segg.
  130. in Neæram, oper. pag. 873.
  131. in Theseo, oper. Tom. I. pag. 11.
  132. Veræ hist. lib. 1. §.7. oper. Tom. iI. pag. 75.
  133. In reg. Herculanen. mus. æneas Tab. par. 1. prodr. diatr. 3. c. 3. sect. 3. pag. 137. n. 1.
  134. num. 10
  135. Iliad. lib. 7. vers. 445. 445., lib. 20. vers. 63.
  136. Longino De subl. sect. 9., Luciano in Philopatr. §. 6. oper. Tom. iiI. pag. 591.
  137. Muratori Nov. thes. inscript. Tom. iI. pag. 1084. n. 3., Belgrado loc. cit. pag. 137., Carducci nelle note all’opera di Niccolò d’Aquino Delle delizie Tarent. lib. i., Nuovo Giornale de’ letterati d’Italia Tom. iI. Modena 1773. pag. 314.
  138. Omero Iliad. lib. 20. v. 57., Erodoto Hist. Græcor. lib. 4. pag. 533. in fine, Senofonte lib. 7. cap. 129. pag. 561.
  139. Pausania lib. 7. cap. 24. pag. 585.
  140. Vedansene molte presso il ch. P. Paoli Rov. della città di Pesto, Tav. 58. segg.
  141. Omero Odyss. lib. 3, verf. 6., Virgilio Æneid. lib. 3. vers. 119.
  142. Hist. eccles. lib. 3. cap. 17. pag. 194.
  143. Vedi d’Orville Sicula, &c. Tab. 8. num. 7. pag. 348., e ivi Pietro Burmanno il secondo.
  144. Tom. IV. cap. 21. pag. 18. n. 9.
  145. num. ult.
  146. Vedi Plutarco nella di lui vita, oper. Tom. I. pag. 833. E.
  147. lib. 1. cap. 34. pag. 84. in fine.
  148. Miscell. lib.3. cap. 31.
  149. lib. 7. vers. 85 segg.
  150. Osservaz. istor. sopra alcuni medagl. Tav. 1. num. 4. pag. 13.
  151. Ricerche sopra un Apoll. della villa Albani, §. 9. segg. pag. 9. segg.
  152. num. 174. par. iiI. cap. 9. pag. 229.
  153. cl. 4. sect. 1. num. 84-88. pag. 423.
  154. Gemme, Tav. 127.
  155. Miscell., erud. antiq. cl. 4. pag. 225.
  156. Mem. degli ant. inc. Tom. I. Tav. 12. pag. 111.
  157. lib. 4. cap. 33. pag. 362., lib. 5. c. ult. pag. 449., lib. 9. cap. 22. pag. 752.
  158. Vedi Tom. 1. pag. 185., Foggini Mus. Capit. Tom. IV. Tav. 21. 22.
  159. cl. 2. sect. X. num. 400 - 402. pag. 92.
  160. Antiq. expl. Tom. I. pl. 72. 73.
  161. Alsat. illustr. Tom. I. lib. 2. sect. 6. §. 35. Fig. 453.
  162. Tom. iI. pag. 339. not. a.
  163. Appione presso Plinio lib. 30. cap. 11. sect. 30. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 14.
  164. loc. cit. pag. 15.
  165. lib. 29. cap. 6. sect. 38.
  166. Numismat. ec. Tom. I. Tab. 25. n. 2.
  167. Numism. ec. Tom. iiI. pag. 145.
  168. Apollon. lib. 2. princ., Valerio Flacco lib. 4. v. 275. segg., Apollod. lib. 1. cap. ult. §. 20. pag. 53.
  169. Tom. I. pag. lxxviij. not. a.
  170. lib. 39. cap. 8. segg. Vedi anche Matteo Egizio nella illustrazione del senatusconsulto fatto in quella occasione.
  171. Vedi Tom. iI. pag. 203.
  172. pag. 114. D.
  173. Vedi loc. cit. nota A.
  174. lib. 4. cap. 2. n. 4.
  175. Epigr. Anthol. græcor. selecta, pag. 2.
  176. Gemmæ ant. litt. pag. 126.
  177. Seneca De morte Claudii, Grassero De antiq. Nemaus. in suppl. Sallengre, Tomo I. col. 1080. D., Gori Columbar. ec. in suppl. Poleni, Tom. iiI. col. 289.
  178. Pausania lib. 2. cap. 16. pag. 146.
  179. Vedi Tom. iI. pag. 211. col. 1.
  180. De divin. lib. 1. cap. 36.
  181. Vedi cit. pag. 225. not. a.
  182. Vedi ivi not. *.
  183. lib. 33. cap. 9. sect. 45.
  184. Catal. archit. ec. pag.176.
  185. Iscr. Albane, cl. 5. n. 147. pag. 173.
  186. lib. 36. cap. 5. sect. 4. §. 12.
  187. Virgilio Æneid. lib. 2. vers. 201. segg.
  188. Tom. iI. Tav. 39.
  189. Vedi Tom. I. pag. 85.
  190. lib. 36. cap. 5. sect. 4. §. 11.
  191. lib. 2. cap. 28. pag. 175.
  192. lib. 12. vers. 441. segg.
  193. Gotha numism., seu Thes. Frideric. num. cap. 4. §. 3. pag. 101.
  194. Popul. & reg. numi vet. ined. p. 156.
  195. Monum. ant. ined. n. 175.
  196. Nella vita d’Alessandro, oper. Tom. I. pag. 666. B., e De fort. Alexandr. orat. 1. Tom. iI. pag. 225. B.
  197. Dione Grisostomo Orat. 37. pag. 466.
  198. Strabone lib. 9. pag. 667. seg., lib. 10. pag. 684., Plinio lib. 36. cap. 6. sect. 8., Eustazio a Omero Iliad. lib. 2. §. 27. Tom. iI. pag. 586. della edizione del P. Politi.
  199. in Troade, vers. 837.
  200. Descr. templi s. Sophiæ, par. 2. v. 203.
  201. Orig. lib. 16. cap. 5.
  202. Sylv. lib. 1. cap. 5. vers. 34., lib. 2. cap. 2. vers. 93.
  203. De ant. marmor. pag. 18. seg.
  204. Roma ant. lib. 2. cap. 12. pag. 108.
  205. Sylv. lib. 3. cap. 5. vers. 36. segg.
  206. loc. cit. lib. 2. cap. 2. v. 87. segg.
  207. Carm. 22. vers. 137.
  208. in Eutrop. lib. 2. vers. 271.
  209. loc. cit. par. 2. v. 205. pag. 505.
  210. Misopog. oper. s. Cyrilli Alex. Tom. I. pag. 341. B.
  211. Quella del Campidoglio era data da Bottari nel Tom. I. Tav. 32. per Pittagora.
  212. De divin. lib. 2. cap. 46. n. 96.
  213. lib. 8. cap. 7. n. 1. il extern.
  214. Nella di lui vita, op. Tom. I. p. 850.
  215. lib. 2. segm. 108. Tom. I. pag. 143.
  216. Orat. in Timarch. oper. pag. 264. C.
  217. Orat. de falsà legat. pag. 332. C.
  218. Vedi la nota al Nardini lib. 7. cap. 6.
  219. Pellerin Mel. des medaill. Tom. I. pl. t. num. 4.
  220. Mazzoleni Num. ærea max. mod. musæi Pisani, Tom. I. Tab. 39. n. 6.
  221. oper. Tom. iI. pag. 707.
  222. Framm. di lett. op. Tom. iI. pag. 20.
  223. Paruta Sicil. num. Tab. 113. n. 1. 6., Castelli principe di Torre Muzza Sicil. ec. vet. numi, Tab. 67. n. 2. 5.
  224. Vedi Tom. iI. pag. 271. seg.
  225. Numi vet. anecd. Tab. 8. num. 7. 9. pag. 117.
  226. Orat. 65. pag. 605. B.
  227. Presso l’imperator Giuliano l’apostata Epist. 24. oper. s. Cyrilli Alexandr. Tom. I. Pag. 395. D.
  228. Teocrito Idyll. 1. v. 18. Vedi Tom. iI. pag. 357. not. a.
  229. Vedi Tom. I. pag. 374.
  230. De bello Trojano, lib. 4. cap, 20. pag. 99. edit. Amstel. 1702.
  231. Goltzio Græcia, Tab. 18.
  232. Erodoto lib. 7. c. 220. segg. pag. 608. segg., Diodoro lib. 11. §. 9. Tom. I. p. 410. segg. Strabone lib. 1. pag. 20.
  233. Cicerone De fin. lib. 2. cap. 30. n. 97., Seneca De benef. lib. 6. cap. 31. j Epist. 82., e l’altro Seneca Suas. 2., Aulo Gellio Noct. att. lib. 3. cap. 7.
  234. lib. 3. cap. 14. pag. 240.
  235. par. 2. pag. 38.
  236. lib. 15. §. 32. Tom. iI. pag. 27.
  237. Strat. lib. 2. cap, 1. n. 2.
  238. Vedasi il Bandurio Num. imper. rom. Tom. iI. pag. 676. seg.
  239. Tom. iI. pag. 265.
  240. Tom. XXXIX. pag. 1. segg.
  241. Mus. Capit. Tom. iiI. Tav. 48., Sponio Miscell. erud. antiq. sect. 4. pag. 139., Avercampo nelle aggiunte al Paruta Sic. numism. Tab. 157.
  242. Le costume, ec. pl. 14. num. 31.
  243. Mus. Florent. Gemmæ ant. Tab. 25. num. 4. 5. 6.
  244. Lucan. num. Tom. I. Tab.10., Tom. iI. Tab. 4- 10., Tom. iiI. Tab. 10.
  245. Mem. degli antichi incisori, Tom. 1. Tav. 8.
  246. Tom. iI. pag. 1104. seg.
  247. Tom. I. pl. 22. e 91.
  248. (Mus. etr. Tom. I. Tav. 28.
  249. lib. 35. cap. 10. sect. 37.
  250. Tom. I. par. I. §. XII.
  251. lib. 5. cap. 59. 60. pag. 400.
  252. oper. Tom. I. pag. 11.
  253. lib. 1. cap. 7. $. 9. pag. 28.
  254. cap. 6. §. ult. pag. 20.
  255. Veræ hist. lib. 1. §. 18. oper. Tom. iI. pag. 84.
  256. in Critia, oper. Tom. iiI. pag. 116.
  257. Vedi il Bulengero De equis, cap. 2. in Thes. Ant. Rom. Grævii, Tom. IX. col. 729.
  258. Thes. Brandeb. Tom. I. pag. 71.
  259. Tom. VII. pl. 14.. n. 5.
  260. Olymp. ode 1. vers. 141.
  261. Tom. I Tab. 47.
  262. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 175.
  263. Vedi Montfaucon Antiq. expl. Tom. I. pl. 40., Winkelmann Mon. ant. ined. n. 91.
  264. Frontino De colon. pag. 141.
  265. Ecl. 1. vers. 71.
  266. Igin. De limit. constit. pag. 156. edit. Goesii 1674.
  267. Vittor. pag. 162.
  268. num. 84.
  269. Pausania lib, 8. c. 48. pag. 697. Vedi il P. Corsini Agonist. diss. 3. Nemea, pag. 51. segg.
  270. Thes. Antiq. Græc. Tom. iI. Tab. 37.
  271. lib. 5. n. 62.
  272. Vedi Freret Recherch. sur Pythagore, Academ. des Inscr.Tom. XIV. Mém. p. 482.
  273. Dissert. 2. num. 30. pag. 89.
  274. Paoli Dissertaz. 2. num. 29. pag. 43., Dissert. 3. n. 7. pag. 70., e vedi qui avanti pag. 186.
  275. In reg. Hercul. mus. æn. Tab. Collect. de Pæsti origin. pag. 499.
  276. lib. 5. in fine, pag. 384.
  277. loc. cit. n. 8. segg. pag. 26. segg.
  278. Vedi qui avanti pag. 146. seg.
  279. pag. 10. Aug. Vindel. 1600.
  280. Polyhistor. cap. 2.
  281. lib. 6. pag. 403.
  282. Platone De legib. lib. 3. oper. Tom. iI. pag. 682. D.
  283. loc. cit.
  284. De Republ. lib. 5. c. 3. oper. Tom. iII. pag. 520.
  285. Pausania lib. 2. cap. 30. pag. 183.
  286. lib. 6. pag. 388. C.
  287. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 90., e lo Scaligero a! luogo citato d’Eusebio.
  288. Strabone lib. 5. in fine, pag. 384., Plinio lib. 3. cap. 5. sect. 10.
  289. Plin. exerc. in Solin. c. 2. pag. 47. D.
  290. Tav. 58. segg.
  291. Vedi l’Eckhel Numi vet. anecd. par. I. pag. 40.
  292. loc. cit. num. 29. pag. 44.
  293. Vedasi il P. Corsini nella serie dei vincitori ai giuochi della Grecia in fine delle dissertazioni agonistiche. Il Padre Paoli loc. cit. num. 33. pag. 47. ricorda Parmenide vincitore nell’olimpiade lxxviii. agli olimpici.
  294. Olynth. 3. oper. pag.38., e de Republ. ord. pag. 127.
  295. Odyss. lib. 6. vers. 263. segg.
  296. lib. 1. cap. 163. pag. 78.
  297. Pausania lib. 10. cap. 5. pag. 811.
  298. Di quella pietra dovea essere la statua di Sileno, mentovata da Winkelmann nel Tom. I. pag. 30.; perchè il passo di Plutarco da lui citato deve emendarsi πωρίνου Σειλήνου, in vece di πωρίνου σελίνου, come osservò il Taylor Lection. Lysiaca, Orat. Græc. Tom. VI. pag. 254. Lipsia 1772., e prima di lui il Salmasio loc. cit. cap. 11. pag. 129. B.
  299. Pausania lib. 5. cap. 10. pag. 397.
  300. Erodoto lib. 2. cap. 180. pag. 191., lib. 5. cap. 62. pag. 401.
  301. lib. 36. cap. 12. sect. 51.
  302. lib. 2. cap. 8.
  303. Strabone lib. 6. pag. 403.
  304. Ateneo lib. 12. cap. 3. pag. 518. segg. Vedasi anche il Barri De antiq. & situ Calabr. lib. 4. cap. 7. segg. pag. 377: segg. Roma 1737. A comprovare la perizia dei Posidoniati nell’architettura io non addurrò l’osservazione del P. Paoli Diss. 2. n. 7. pag. 25., cioè che i Focesi per ben fondare la città di Jela si servirono d’un uomo ai Pesto, e sotto la direzione sua fu l’opera perfezionata: perocchè Erodoto, da cui il P. Paoli cava questa notizia, lib. 1. cap. 167. parla molto diversamente, non dicendo altro se non che, quando i Focesi venuti in Italia volevano fondare la città di Jela, un uomo di Posidonia loro spiegò la risposta dell’oracolo di Delfo, il quale diceva, che essi doveano fondare una città da chiamarsi Cirno, non già che andassero contro l’isola di Cirno, detta poi Corsica, come essi lo aveano interpretato. Ecco l’intiero passo: (Φωκαιέες) ἐκτήσαντο πόλιν γῆς τῆς Οἰνωτρίης ἥτις νῦν Ὑέλη καλέεται· ἔκτισαν δὲ ταύτην, πρὸς ἀνδρὸς Ποσειδωνιήτεω μαθόντες ὡς τὸν Κύρνον σφι ἡ Πυθίη ἔχρησε κτίσαι ἥρων ἐόντα, ἀλλ᾽ οὐ τὴν νῆσον. Civitatem possederunt in agro Oenotriæ (Phocæentes), qua nunc appellatur Hyela, eam autem condiderunt, a viro Poseidoniate edocti, Pythiæ oraculo jussos fuisse Cyrnum tondere, qui heros esset, non insulam. Neppure mi sembra, che regga l’altro argomento, che ricava il P. Paoli da quello passo, della grande antichità di Pesto, anteriore a tutte le colonie de’ Greci in Italia, fondato nel dire di Erodoto, che quei Focesi, a’ quali insegnò il cittadino di Posidonia, furono i primi Greci, che tentata una lunga navigazione, approdarono nell’Adria, nella Tirrenia, a Tartesso, e nell’Iberia. Da ciò io non posso inferire, che i Focesi fossero i primi a sbarcare in Italia; ma bensì che furono i primi più coraggiosi fra i Greci, che scorsero tante Provincie, arrivando fin nella Iberia, ossia nella Spagna; e che prima di questo viaggio la città di Posidonia era già fondata. Il dire altrimenti sarebbe il massimo degli errori cronologici; perocchè il viaggio di questi Focesi fu, secondo le stesso Erodoto poco prima, al tempo di Arpago, e di Ciro, vale a dire 580. anni circa prima dell’era cristiana. E chi potrà negare, che avanti a quest’epoca non siano venute in Italia moltissime colonie de’ Greci, contestate dallo stesso Erodoto, da Diodoro, da Strabone, e da tutti gli scrittori greci e latini. Lo stesso P. Paoli n. 13. pag. 29. riporta Tucidide sapientissimo fra’ Greci, il quale narra, che i passaggi della sua nazione in Italia accaddero ottant’anni dopo la distruzione di Troja . Non farà quindi maraviglia, che prima della venuta dei Focesi fosse stabilita la città di Posidonia dai Sibariti di tanto più antichi: molto meno con tutte le ragioni da noi addotte per provarla fondata dai Greci, non dagli Etruschi . E non dà ragione alcuna il Padre Paoli loc. cìt. num. 37. pag. 50. per dirla posseduta dai Sibariti quasi cent’anni dopo, vale a dire cinque secoli avanti l’era cristiana, e nel secolo III. di Roma inoltrato . Ma se ciò si dovesse anche ammettere, crescerebbe il nostro argomenti. Egli al num. 35. pag. 49. scrive, che il nome di Posidonia fu dato alla città, e Posidoniati furon detti i suoi abitanti quando ne entrarono in possesso i Sibariti. Erodoto chiama Posidoniate quel cittadino, che spiegò l’oracolo ai Focesi. Dunque parla di un Greco: parla di un tempo molto più recente. Notisi però l’origine dell’equivoco, da cui nasce questa disputa, che è di tradurre Pestani per Posidoniati, e far così, con manifesta contradizione, parlar; gli scrittori di una città antichissima, o almeno del suo primo preteso nome di Pesto, quando non v’hanno mai pensato.
  305. Strabone lib. 6. pag. 391.
  306. loc. cit. pag. 107.
  307. lib. 1. cap. 14.
  308. lib. 8. cap. 15. num. 17.
  309. Lælius, sive de Amic. cap. 4. n. 14.
  310. lib. 5. pag. 373. segg., lib. 6. p. 385.
  311. loc. cit. pag. 508.
  312. lib. 14. cap. 7. pag. 62. princ.
  313. Dissert. 3. n. 24. segg. pag. 86. segg.
  314. Dissert. 4. n. 7. segg. pag. 115. segg.
  315. Così pare che pensi anche il P. Paoli Dissert. 3. num. 35. pag. 93. come dopo avere scritte quelle osservazioni leggo con piacere, che tale è il sentimento del Piranesi Della magnif. de’ Rom. n. 87. pag. CXLIX. Tav. 27 segg.
  316. lib. 4. cap. 7. pag. 156. not. 4.
  317. Vedasi qui avanti pag. 47.
  318. lib. 4. cap. 2.
  319. Vedi qui avanti pag. 46. not. b
  320. lib. 4. cap. 1.
  321. Vedi qui avanti pag. 46. not. c.
  322. Così viene a dire anche il P. Paoli Dissert. 4. num. 2. pag, 112.
  323. Dissert. 3. num. 51. pag. 105.
  324. loc. cit.
  325. Paoli Dissert. 3. n. 51. pag. 105.
  326. Lo stesso loc. cit. num. 4. pag. 68.
  327. Vedi pag. 45. 50. 122. col. 2., 241.
  328. Vedi pag. 25 col. 1.
  329. Vedi pag. 9. not. a.
  330. Qui avanti pag. 121. not. e.
  331. Dissert. 3. n. 13. segg. pag. 77. segg.
  332. lib. 4. cap. 1.
  333. Epist. 90.
  334. lib. 3. cap. 1.
  335. Dissert. 5. num. 19. pag. 143.
  336. In mut. Camp. Amph. tit. pag. 158. Neapoii 1727.
  337. Vedi lo Spanhemio De præst. & usu num. dissert. 4. pag. 221., e le Pitt. d’Ercol. Tom. I. Tav. 38. pag. 203. n. 17.
  338. lib. 10. cap. 9.
  339. lib. 4. vers. 903.
  340. Tom. VIII. n. 32. 33. pag. 249. 257. anno 1782.
  341. lib. 6. pag. 392. Vedi anche il P. Paoli Dissert. 1. princ.
  342. lib. 5. pag. 336.
  343. lib. 35. cap. 3. sect. 5., c. 12. sect. 43.
  344. Non sarebbe improbabile, che i sepolcri trovati in quei contorni, de’ quali fu parlato nel Tom. I. pag. 192., siano di questo tempo, o posteriori. Gl’intendenti, che hanno esaminate le pitture, vi trovano miglior gusto, che nelle cose etrusche.
  345. Livio lib. 1. cap. 15. num. 35.
  346. Lo stesso cap. 21. num. 55. seg.
  347. Livio lib. cit. cap. 17. num. 45. Vedi qui avanti pag. 54. seg.
  348. Dissert. 3. num 6. pag. 70.
  349. Hist. lib. 4. cap. 53.
  350. Antiq. Roman, lib. 4. cap. 61. Tom. I. pag. 248.
  351. lib. 36. cap. 6. sect. 5. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 297.
  352. Diss. 5. de Templis, sect. 2., in Suppl. Ant. Rom. Sallengre, Tom. 1. col. 124.
  353. Del cittad. rom. lib. 2. c. 4. p. 277. segg.
  354. Vedi qui avanti pag. 46. not. b.
  355. Vedi Tom. I. pag. 451.
  356. Mus. Pio-Clement. Tom. iI. Tav. 16. pag. 36. segg.
  357. Vedi lo Spanhemio De præst. & ufo num. dissert. 2. num. 3. pag. 95. seg.
  358. Inscriptiones græcæ, & romana, edita anno 1752., pag. 95. seg.
  359. lib. 4. cap. 7.
  360. Della magnif. de’ Romani, num, 216. pag. CXCV. Nella Tav. 38. dà anche la figura di questo bassorilievo.
  361. Vedi qui avanti pag. 5. not. a.
  362. lib. 3. cap. 3.
  363. Pare che l’intenzione dell’architetto fosse di far comparire il fregio uguale all’architrave; mentre il pollice d: differenza, che ha di più il fregio doveva restar coperto dall’aggetto della fascia dell’architrave. Lo stesso è per la metopa, alla quale restano due pollici di più nell’altezza, per essere un giusto quadrato, cioè il doppio di ciò, che ha aggiunto al fregio, perchè appunto il doppio va in dentro la metopa del triglifo.
  364. in Verr. act. 2. lib. 4. edit. Olivet.
  365. lib. 8. segm. 63. Tom. I. pag. 532.
  366. Epist. 8, oper. Tom, iiI. pag. 353. in fine.
  367. pag. 485.
  368. dix. & onz. livrais. pl. 79.
  369. lib. 5 cap. 10.
  370. lib. 5. in fine, pag. 214.
  371. Presso il Grevio Thes. Antiquit. Rom. Tom. XII. col. 385. segg.
  372. num. 54.
  373. pag. 180.
  374. pag. 204.
  375. Antich. Rom. Tom. I. Tav. 19. fig. 2.
  376. Art. XIX. pag. 117.
  377. l. Quidam Hiberus 13. ff. De servit. præd. urban.
  378. Sylvar. lib. 1. cap. 5. in fine.
  379. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 301.
  380. Mus. Pio-Clem. Tom. iI. Tav. 41.
  381. Mus. Etrusc. Tom. I. Tab. 104.
  382. Pict. Etr. in vasc. Tom. iI. Tab. 108., Tom. iiI. Tab. 295.
  383. Mem. sur les anc. monum. de Rome, Acad. des Inscr. T. XXVIII. Mèm. p. 579.
  384. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 21. n. a.
  385. De finib. lib. 1. cap. 11.
  386. Tom. iI. pag. 419. col. 2.