Storia della rivoluzione piemontese del 1821 (Santarosa)/Cenni biografici sopra Santorre di Santarosa
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dal francese di Anonimo (1850)
Storia della rivoluzione piemontese | ► |
Santorre Santarosa governò la rivoluzione militare scoppiata in Piemonte nel 1821, poi ramingò per l’Europa, menando miserissima vita, e alla fine morì in Grecia, combattendo per quella libertà che vanamente aveva tentato di dare alla sua patria.
Era nato di nobil famiglia a Savigliano in Piemonte, il 18 novembre dell’anno 1783. Il padre aveva il grado di ufficiale superiore nell’esercito piemontese quando si accese la maravigliosa rivoluzione di Francia; e recandosi alle prime guerre delle Alpi condusse seco Santorre che avea solamente nove anni. Se il padre viveva, il figlio certamente sarebbe andato innanzi per la via delle armi: ma morto alla battaglia di Mondovì, alla quale prese parte come colonnello del reggimento di Sardegna, il giovinetto se ne tornò a Savigliano in famiglia, e, parte in questa città, parte a Torino, attese agli studii. All’età di 24 anni godea singolare stima di integrità e di senno, e i suoi concittadini lo elessero maire della patria città: esercitò questo ufficio assai tempo, e vi acquistò esperienza degli affari civili. In appresso entrò nell’amministrazione francese che allora governava il Piemonte, e negli anni 1812-13-14 fu sotto prefetto alla Spezia. Caduto poi e risorto per brevi istanti Napoleone, il Santarosa nei cento giorni tornò soldato, e fece la piccolissima campagna nel 1815 come capitano dei granatieri della guardia reale. Dopo prese la carriera dell’amministrazione militare: entrò nel ministero della guerra e vi fu incaricato di importanti faccende.
Mentre era in questo ufficio, l’esercito piemontese con Carlo Alberto si sollevò per sottrarre la patria dalla dipendenza dell’Austria. La pubblica fama chiamò il Santarosa alla testa di questo moto, che ebbe fine infelicissimo per le ragioni che a tutti sono note. Per ordine di Carlo Alberto sedè reggente del ministero di guerra e marina. Dapprima parteggiava pel sistema parlamentario inglese, e voleva per la sua patria un governo costituzionale e due camere: poi, quando l’esempio dei Napoletani e l’adozione della costituzione spagnola ebbero trascinati tutti gli spiriti, egli non intese più che ad una sola cosa, alla direzione militare della rivoluzione: e portato dagli eventi ad una vera dittatura, fece prova di una energia che fu ammirata dai suoi stessi nemici, e adoprò ogni sforzo per salvare la patria. Bello e animato da nobilissimo amore è il proclama del 23 marzo con cui faceva appello agli uffiziali, alle guardie nazionali e ai soldati, perchè forti di loro concordia allontanassero la servitù forestiera e la guerra civile, perchè si rannodassero intorno alle loro bandiere, e volassero al Ticino e al Po in soccorso dei popoli di Lombardia, i quali al loro comparire si leverebbero unanimi contro l’abborrito Tedesco. Fece appello all’onore piemontese, mostrò la patria in pericolo: ma le cose precipitavano senza riparo. Quando vide ogni speranza fallire, tentò anche di salvare il paese coi negoziati e di liberare dall’esilio e dalla forca i suoi infelici compagni, offrendosi di andare egli ramingo per tutti, onde meglio assicurare la pace e la prosperità della patria. Ogni tentativo fu vano. Fu una storia di turpitudini e di tradimenti: gli Austriaci ebbero facil vittoria, e riportarono il loro impero feroce su tutta l’Italia. Sui rivoltati piovvero le sentenze di morte e di esilio. Carlo Alberto andò a combattere al Trocadero contro i liberali di Spagna. I più valenti e onorati ufficiali dell’esercito piemontese, Giflenga, San Marsano, Lisio e Collegno furono ridotti a spezzare la loro spada, o ad andare a combattere per la libertà in Spagna e in Grecia. Santarosa, che avea fatto la parte principale, e che, colla sua anima eroica e col suo ingegno avrebbe potuto essere uno dei più validi sostegni della libertà italiana, fu costretto a mendicare per l’Europa un pezzo di pane, e a morire in terra lontana.
Quando vide andar tutto a precipizio, cercò scampo nella fuga. I carabinieri reali lo arrestarono mentre fuggiva, e lo avrebbero messo nelle mani del boia, se da essi non lo salvava il colonnello Schultz, polacco, che gli venne in soccorso con trenta studenti. Errò dapprima per le Alpi e per la Svizzera, e compose il libro sulla rivoluzione piemontese a cui messe per epigrafe quel verso di Alfieri:
Sta la forza per lui, per me sta il vero.
Qui si rivela tutta la nobilissima anima dell’uomo, che fu lo scrittore e l’attore principale del dramma. Difendendo una rivoluzione sventurata, non si lascia governare da umori di parte: è leale e magnanimo: rende giustizia a ogni intenzione: e nelle amarezze dell’esilio non si lascia sfuggire nè risentimenti nè accuse. Ha l’entusiasmo d’una nobile causa portato fino alla generosità più sublime.
Quanto più si allontanava dalla patria, più si aumentavano i suoi dolori. Aveva lasciato donna e figli carissimamente diletti: e sopratutto lo pungeva acerbo il pensiero di non potere da sè stesso educarli al vero. Questo gli fu tormento per tutta la vita. “Temo (scriveva d’Inghilterra nel 1824) che se il re rende i miei beni alla mia moglie e ai miei figli, non voglia incaricarsi dell’educazione di questi. Io fremo all’idea che i miei figli siano allevati dai gesuiti. Questo è gran causa di pena al mio cuore.”
I suoi beni erano stati confiscati. I figli vivevano della piccola dote materna, e con questa mandavano qualche soccorso all’esule padre. Ma egli non voleva esser grave ai suoi cari, e sceglieva piuttosto di vivere misera vita, e quasi senza pane.
Si riparò a Parigi, ove per non esser travagliato dalla sospettosa polizia prese altro nome. Chiamavasi Conti. Abitava una povera camera a tetto nel Quartiere Latino insieme con un amico di Torino, il quale senza essersi compromesso nella rivoluzione, avea abbandonato volontariamente la patria per essergli compagno nella sventura. Il che torna a gran lode di ambedue, e mostra quale uomo era quello col quale si preferiva l’esilio alle dolcezze della patria e della famiglia. Quelli che lo conobbero riferiscono cose maravigliose sulla bontà dell’animo suo, che sforzava tutti ad amarlo. E il Cousin, che lungamente lo conobbe e lo consolò di cure amorose, asserisce che è impossibile ritrarre la grandezza e l’amabilità di quell’anima. Accoppiava la forza alla bontà, l’energia alla tenerezza. Il suo cuore era un tesoro di affetti. Se incontrava per la via un disgraziato, divideva con lui il soldo del povero. Se si ammalava la sua vecchia donna di casa, l’assisteva amorosamente come avrebbe fatto alla sua moglie, ai suoi figli. Se alcuno lo richiedeva de’ suoi consigli, ei gliene era largamente cortese, e ciò per un istinto irresistibile di cui non aveva neppur la coscienza. Perciò era impossibile conoscerlo e non amarlo. A Torino aveva un amico cui potè lasciare la moglie e i figli. Un altro amico lo seguì nell’esilio. Quando fanciullo era col padre nell’armata delle Alpi, gli fu dato per camerata un giovinetto del suo paese, di nome Bossi, che poi abbandonò l’esercito e il Piemonte e andò in Francia ove guadagnava coll’industria la vita. Egli perdè di vista il Santarosa, ma ne conservò memoria affettuosa nel cuore. Un giorno il nobile conte, caduto nella miseria, vide comparirsi davanti nella sua cameruccia del Quartiere Latino il povero Bossi, sorbettaio a Parigi, che avendo sentito dai giornali le avventure del suo giovane uffiziale, non cessò di cercarlo finchè non ebbe trovata la sua casa, e finalmente ora tutto lieto veniva a offrirgli i suoi poveri risparmi. Più tardi, quando il Santarosa fu imprigionato, il povero Bossi ogni mattina andava alla carcere con un paniere di frutte, e lasciava la sua offerta al prigioniero, col rispetto di un antico servitore e con la tenerezza di un vero amico.
Per qualche tempo il Santarosa visse tranquillo a Parigi, consolando cogli studii la sua miseria e l’affanno della patria lontana. Era tutto pieno dell’idea di giovare all’Italia, preparando scritture morali e politiche che rigenerassero ed educassero i popoli italiani. Chiamava ciò una cospirazione letteraria, e si confortava di poterla efficacemente intraprendere. Aveva ingegno, studii e cuore da ciò. Se la fortuna gli fosse stata meno nemica, noi avremmo avuto in lui un insigne scrittore di cose politiche. Ma questo non vollero le triste sorti dei tempi, che uccidevano gli ingegni, che consumavano in lunghe angoscie le più energiche vite: questo impedì l’italiana miseria, resa più amara dal dispotismo di Francia, che congiurava con le polizie di tutti i paesi a perseguitare gli uomini di libero cuore.
Mentre il Santarosa se ne viveva quieto e inoffensivo a Parigi, i suoi nemici lo andarono a tormentare anche nella innocente sua solitudine.
La fazione che in Francia pervenne al governo col ministro Villèle, mentre studiavasi di uccidere tutte le libertà interne, stringeva vieppiù le sue alleanze coi despoti esterni: e d’allora in poi le polizie di Piemonte e di Francia si strinsero amicamente la mano, e fecero il loro piano di persecuzione contro i rifugiati. Parecchi Piemontesi si erano ricoverati a Parigi, ove viveano senza intromettersi in faccende politiche. La polizia sapeva o doveva sapere che nessun pericolo veniva alla Francia dalla loro presenza: ma essa, dalle paure della polizia di Torino e dell’Austria era eccitata a infierire, e quindi, invece di contentarsi a sorvegliare, perseguitò apertamente.
Il Santarosa fu avvertito che lo cercavano, che lo avrebbero arrestato, e forse restituito al Piemonte, ove era sicuro che lo manderebbero al patibolo. Perciò studiò di sottrarsi alle ricerche: e il suo amico Cousin gli procurò un rifugio in una casa di campagna ad Auteil, vicino a Parigi. Ivi vissero qualche tempo ambedue, consolandosi a vicenda dell’avversa fortuna, e intrattenendosi in ragionamenti di filosofia e di politica. Era il marzo del 1822, quando un giorno il Cousin fu talmente oppresso dal male, che il Santarosa lo scongiurò ad andare a cercare qualche soccorso a Parigi. Quegli cedè e partì subito. L’altro, pensoso più dell’amico che di sè stesso non potè rimanere ad Auteil, e la sera stessa lo seguitò a Parigi per confortarlo con le sue cure. Poscia, a notte avanzata, volle recarsi al suo antico alloggio, e mentre se ne tornava, sulla piazza dell’Odeon fu da otto sbirri arrestato e condotto in prigione.
Nella notte medesima il prefetto di polizia lo tormentò con interrogatorio lunghissimo, e apertamente gli disse che lo avevano arrestato come reo di macchinazioni contro il governo francese. Questa accusa scempiata gettavano in faccia ad un uomo che non praticava nessuno! Egli protestò sdegnosamente contro l’accusa: dichiarò che era assolutamente estraneo a tutto quello che facevasi in Francia, e disse che il suo unico e involontario torto era quello di essere a Parigi sotto nome diverso dal suo. Interrogato sulle sue relazioni, disse che conosceva solamente il Cousin, e istantemente pregò non lo tormentassero ora che giaceva gravemente ammalato. Ma le preghiere furono vane. La mattina appresso per tempissimo cinque gendarmi e un commissario di polizia perquisirono la casa, e vi fecero maravigliose scoperte: vi trovarono alcune note su Proclo e Platone. Il Cousin, sebbene gravemente ammalato, si recò immediatamente dal prefetto di polizia e gli disse: se voi accusate di complotto un uomo che a Parigi non pratica altri che me, me pure dovevate arrestare, se poi non osate accusar me di cospirazione, perchè pigliarvela contro di un uomo, il quale non potè far nulla che per mezzo mio e con me? E se non si tratta di macchinazioni contro la Francia, è cosa indegna perseguitare un proscritto per la sola ragione che porta un nome supposto, quando questo proscritto è un uomo dabbene. Il prefetto rispose che il sospetto di cospirazione contro il governo francese sembrava privo di fondamento, ma che rimanendo dei dubbi si farebbe processo.
Questo affare durò per due mesi. Il Santarosa se ne stava in prigione tranquillo sotto l’usbergo della buona coscienza. La parola di estradizione era stata pronunziata: non era lungi il caso di essere restituito al Piemonte, cioè mandato al patibolo. Egli con forte animo si preparò ad ogni evento. Tutti quelli che lo videro erano compresi di riverenza per lui: e il carceriere gli pose grandissimo affetto.
Dopo due mesi di un processo ridicolo, fu concluso, che non vi era luogo a procedere sulla prevenzione del complotto, e fu fatta lode all’imputato della lealtà e della franchezza delle sue confessioni. Pareva quindi che si dovesse lasciar vivere tranquillamente a Parigi. Ma la polizia si oppose energicamente, e non volle neppure che subito fosse scarcerato. Allora la corte regia intervenne, e pronunziò formalmente la liberazione del prigioniero, se non vi era altra causa di arresto. Vi furono ostacoli anche alla pronta esecuzione di questo secondo giudizio: e dopochè il Santarosa fu dichiarato dalla giustizia superiore a qualunque prevenzione, e per conseguenza libero, un decreto ministeriale ordinò che fosse rilegato in provincia, sotto la vigilanza della polizia. Gli destinarono a prigione Alansone, piccola città nel Dipartimento dell’Orne. Contro questo atto vile e malvagio egli protestò con tutto il suo sdegno, e chiese di rimanere a Parigi o di avere un passaporto per l’Inghilterra. Non gli fecero niuna risposta, e lo condussero immediatamente ad Alansone con altri Piemontesi arrestati con lui. Dovea ogni giorno presentarsi alla polizia a render conto di sè, altrimenti era minacciato di trattamenti durissimi. Questa ingiustizia della rilegazione in un luogo dove non poteva avere nè libri, nè il conforto della presenza di un amico, gli appariva sulle prime una spaventosa disgrazia. Ma non si lasciò togliere la quiete che le anime forti conservano sempre. Cedè alla necessità, quantunque sentisse, secondochè egli scriveva il 12 giugno, che Alansone era per lui una delle più triste necessità, degli 84 Dipartimenti di Francia. Nella sua solitudine meditò un’opera che dovea intitolarsi: Della libertà e de’ suoi rapporti colle forme di governo.
Sebbene vivesse ritiratissimo, e a tutti apparisse inoffensivo il suo contegno, e non pigliasse parte nessuna alle cose di Francia, pure la polizia non gli dava un momento di pace. Un suo amico, il colonnello Fabvier, gli fece sapere che si pensava ad arrestarlo di nuovo e a restituirlo al Piemonte: quindi lo consigliava a fuggire in Inghilterra, e si offriva di fornirgliene i modi. Fuggire per Santarosa era quasi un confessare che dubitava del proprio diritto: reputava che adoperando così avrebbe dato la ragione contro di sè a quelli che avevano il torto: per conseguenza ricusò le offerte amichevoli e rimase al suo posto.
In questo mezzo alla Camera dei Deputati si agitò la questione degli esuli. Molti membri dell’opposizione ne difesero eloquentemente la causa, e mossero gravi lamenti contro le indegne maniere tenute dalla polizia coi rifugiati italiani. Il ministro Corbière, mentendo impudentemente come ai tempi nostri usava il Guizot, rispose che i refugiati italiani non erano dell’avviso dei loro difensori, e che tutti concordemente si lodavano dei modi tenuti dal governo francese a loro riguardo. Queste parole slealissime parvero al Santarosa un incomportabile insulto, e credè che l’onor suo e quello de’ suoi compagni di sventura l’obbligassero a protestare altamente. La qual cosa egli fece pubblicando una lettera di nobile e fiero linguaggio. La polizia ne rimase stizzita. Egli, contento di aver fatto il proprio dovere, e di avere resa testimonianza alla verità, si apparecchiò a tutte le conseguenze con animo fortemente tranquillo. Un ordine del ministro lo fece trasportare da Alansone a Bourges, insieme con altri quattro fuorusciti piemontesi: Sammichele, De Baronis, Palma, e Garda.
A Bourges era più che mai sorvegliato e angustiato con strane sevizie. Pure si dava pace sperando, che la Provvidenza metterebbe fine ai suoi mali. Di là scriveva all’amico Cousin: “La cattedrale di Bourges è una grande e bellissima chiesa gotica. Ma il Santuario riserbato ai preti non lascia avvicinare all’altare. I nostri preti francesi tengono i Cristiani troppo lungi da Dio: un giorno se ne pentiranno!” — Studiava e filosofava sopra materie religiose, morali e politiche, e s’indignava con gli scrittori moderni che mettono in mala voce gli antichi. “Il Bonald e il Tracy, egli diceva, son d’accordo per iscreditare gli antichi, questi antichi a cui siamo debitori di tanto, e le cui venerabili reliquie hanno rinnovellato la civiltà che era perita.”
Il 21 settembre scriveva: “Oggi il prefetto mi ha fatto chiamare, e mi ha domandato se ero sempre nell’intenzione di andare in Inghilterra, e in questo caso, se preferivo di imbarcarmi a Calais o a Boulogne. Ho risposto, che non potevo desiderare di rimanere in Francia senza avervi piena libertà; e che quando mi fosse negata, accetterei subito i passaporti per l’Inghilterra. Io non potevo fare altra risposta onorevole che questa. Dirò dunque addio alla Francia, ma non vi rinunzio. La società europea avrà qualche anno di calma. Forse cesserà l’inquietudine che la mia persona ispira ad alcuni male a proposito. Allora ritornerò... Ho bisogno di questa speranza.” — Partì da Bourges, accompagnato da gendarmi come un malfattore. Traversò Parigi, e gli fu appena concesso di fermarvisi quanto era necessario per passare da una diligenza ad un’altra. Sebbene il governo lo avesse maltrattato, si allontanava dalla Francia con dolore perchè vi lasciava un amico affettuosissimo. Partì con l’animo conturbato, quasi fosse presago che lo attendevano sorti più triste. Il desiderio della patria si faceva più amaro quanto più essa rimaneva lontana. Il pensiero di non rivedere la famiglia, e di non potere da sè stesso educare a un’idea generosa i diletti figliuoli, empiva di malinconia il suo povero cuore.
Toccò le spiaggie inglesi ai primi di ottobre del 1822, e quindi si recò a Londra, che era per lui un vasto deserto. Senza amici, senza fortune, visse giorni di malinconia amarissima. Le sciagure presenti lo riconducevano naturalmente a pensare al passato. Scrivendo un saggio sulla letteratura italiana, ammirava la forte educazione che fece la valente e generosa gioventù fiorentina, la quale nel secolo XVI avrebbe salvato la patria, se poteva salvarsi, ma che salvò almeno l’onore. “Noi uomini del secolo XIX, diceva, non abbiamo potuto neppure consolarci di questo. Quanti rimproveri io debbo fare a me stesso dei tanti errori commessi in trenta giorni di carriera politica!... Il mio cuore avanti l’epoca della nostra rivoluzione era stato crudelmente straziato; non so quel che sarebbe divenuto se la febbre italiana non mi avesse preso. Io renderò giustizia a me stesso; non ho conosciuto un momento nè l’interesse, nè la paura, nè alcuna brutta passione; ma restai al di sotto delle circostanze. A misura che gli avvenimenti si allontanano da me, la rimembranza de’ miei errori si presenta più viva alla mia immaginazione. Io penso sempre fremendo allo sciagurato affare di Novara, in cui l’armata costituzionale fu messa in rotta sì presto. Questa è la seconda ferita, che sanguinerà sempre e che mi fa miseramente languire.... Ho quarant’anni: ho molto desiderato la felicità, ed aveva un’immensa facoltà per sentirla: ma il mio amaro destino si è posto a traverso.”
A Londra vide Giovanni Berchet, che allora cantava sdegnosamente l’infamia inglese nel mercato di Parga: e lo confortò a continuare a comporre poesie di quella tempra. Nel 1823 visse qualche tempo col conte Porro all’estremo di Londra in una casetta del Foscolo. Ivi cercava quiete a studii gravi, meditò un’opera sul Congresso di Verona, ma non trovò nè il tempo nè la calma necessaria a compirla. Per fuggire la miseria era costretto a scrivere articoli per i giornali, lavoro che gli era sommamente antipatico. Ora era scoraggiato, ora esaltato; spesso lottò colla miseria. Nel 1824 si trovò agli estremi e mancava assolutamente di pane. Bisognò pigliare un partito: e stabilì di andare a Nottingham nella speranza di provvedere alle sue necessità, dando lezioni di lingua italiana e francese.
Questo stato era gravissimo a lui, che sentivasi anima capace a fare qualche cosa di grande. Quindi desiderava l’occasione di uscire da queste angustie micidiali. “I miei sogni, i sogni della mia vivissima fantasia, scriveva al Cousin, si sono svaniti. Anco le mie speranze mi si sono estinte nell’anima: vuolsi ella omai svincolare da questo terrestre suo carcere.” A un altro amico scriveva: Quando si ha un’anima forte conviene operare, scrivere o morire. L’occasione di operare e morire gliela offrirono i fatti di Grecia. Non avendo potuto combattere per l’Italia, desiderò di adoprare il suo braccio per la patria di Socrate e di Platone. E coll’amico suo Giacinto Collegno partì per la Grecia il dì 1 novembre 1824. L’amico, che gli fu compagno di viaggio e lo vide fino quasi agli ultimi giorni, raccolse tutte le notizie che potè avere di lui in questa spedizione infelice.
Il 4 dicembre scoprirono le montagne del Peloponneso. Mentre i passeggieri che erano a bordo alla nave provavano la gioia naturale ad ogni uomo che è presso al termine di un lungo viaggio di mare, e mentre i più anelavano di toccare il suolo di Grecia, il Santarosa solo appoggiato a un cannone contemplava mestamente il paese che si offriva sempre più distinto allo sguardo, e diceva al Collegno: “Io non so perchè mi dispiaccia che sia finito il viaggio: la Grecia non risponderà forse alla idea che me ne ero formata: chi sa quali accoglienze, chi sa qual fine ci attende!”
I suoi tristi presentimenti sciaguratamente furono veri. Ad onta delle larghe promesse dei deputati greci a Londra, fu ricevuto freddamente dal governo greco a Napoli di Romania, il 10 dicembre. Domandò lo impiegassero in un ufficio qualunque: gli risposero: si vedrà!
Il 2 di gennaio 1825 lasciò Napoli di Romania, avvisando il governo che ad Atene aspettava i suoi ordini. Visitò Epidauro, l’isola di Egina e il tempio di Giove Panellenico, e il 6 giunse ad Atene e di là fece un’escursione per l’Attica, e cercò Maratona e il capo Sunio. Sopra una colonna del tempio di Minerva Suniade scrisse il suo nome e quello dei due amici Provana e Ornato, come monumento della loro amicizia. Mentre era ad Atene, essendo venute minacce di assalto dal traditore Odisseo, egli contribuì a ordinare la difesa: e tutti i giornali di Atene lodarono la sua operosità e il suo entusiasmo.
Intanto si facevano i preparativi dell’assedio di Patrasso. Santarosa, che ancora non aveva avuta dal governo nessuna risposta, fece nuove istanze e chiese di aver parte all’impresa. Gli risposero, che il suo nome troppo conosciuto poteva compromettere il governo greco colla Santa Alleanza, e che se voleva rimanere in Grecia, il facesse, ma cambiandosi nome. È facile immaginare quale impressione facesse al suo cuore questa indegna risposta. Ma egli ardeva del desiderio di veder da vicino i Turchi, di provarsi con essi e di fare qualche cosa per la causa della libertà. Invano i suoi amici gli dimostrarono che egli avea pienamente soddisfatto agli obblighi contratti coi deputati greci di Londra, con gli amici e con la propria coscienza, e che non era più debitore di nulla a una nazione che non osava di confessare apertamente i suoi servigi.
Rimase fermo nel suo proposito. Si vestì e si armò da semplice soldato, e col nome di Derossi raggiunse il quartier generale a Tripolitza. Poi le forze destinate ad assediare Patrasso essendosi recate a Navarrino minacciata dagli Egiziani, egli si diresse a quella volta con Maurocordato, e dopo aver presa parte al fatto del 19 aprile contro le truppe di Ibrahim Pascià, entrò in Navarrino il dì 21.
Portava sempre addosso il ritratto dei suoi figli. Il 20 aprile, accortosi che alcune goccie di acqua erano penetrate fra il vetro e la miniatura, l’aprì: e volendola asciugare, cancellò a metà la faccia di Teodoro suo primogenito. Questo caso lo afflisse amaramente. Confessò al Collegno che non poteva fare a meno di considerar questo fatto come un presagio funesto; e a un amico a Londra scriveva: Tu ne riderai, ma sento dopo di ciò ch’io non devo più rivedere i miei figli.
Il presidio greco di Navarrino era debole, e non permetteva di pigliar l’offensiva. Nei quindici giorni cui tacque il rumore delle armi, il Santarosa riprese l’uso dei suoi studii. Recitava i canti di Tirteo, meditava Platone e Tacito. Assorto in quella profonda malinconia (scrive il Ciampolini), l’avresti giudicato Bruto nei campi di Filippi, o Catone in quella notte che fu l’estrema di sua vita.
Gli Egiziani strinsero la città ai primi di maggio, quando furono sbandate le forze greche destinate a far levare l’assedio. Dapprima minacciarono l’isola di Sfacteria, che è a bocca del porto e lo domina. La difendevano mille Greci con quindici pezzi d’artiglieria. La sera del 7 maggio vi furono mandati cento soldati in rinforzo, e il Santarosa era con questi. La mattina del dì 8 parlando col Grasset, segretario di Maurocordato, gli disse che era andato nell’isola perchè stimava che dalla difesa di essa dipendesse la salute della fortezza: ma aggiunse, che i disordini dell’armata greca non gli permettevano di sperare nulla di bene. Allora l’altro soggiunse: Venite alla batteria con noi. E il Santarosa: No, io resterò qui, voglio vedere i Turchi più da vicino. Queste furono le sue estreme parole raccolte da amiche orecchie. Poco appresso l’isola era assalita gagliardamente, e dopo un’ora di combattimento cadeva in mano dei Turchi. Alcuni dei difensori si salvarono nelle navi del porto: ma il Santarosa non era tra questi. È noto come il presidio di Navarrino, straziato dalla fame e dalla sete, dopo belle prove di valore si arrese al nemico. Il Collegno, che si era distinto in quella difesa come capo delle artiglierie, ne uscì libero il 16 maggio. Suo primo pensiero fu di ricercare l’amico tra i prigionieri e con grande dolore sentì che più non era tra i vivi. Ne ricercò allora il cadavere per rendergli gli estremi ufficii: ma fu vano anche questo sforzo del pio desiderio.
L’Amico della Legge, giornale di Napoli di Romania, dopo aver narrato la battaglia di Navarrino, così si esprimeva sul conto del Santarosa. “L’amico zelante del Greci, il conte di Santarosa è caduto da valoroso in questa battaglia. La Grecia perde in lui un amico sincero della sua indipendenza e un ufficiale sperimentato che con le sue cognizioni e con la sua attività le sarebbe stato di gran vantaggio nella lotta presente.”
Il Cousin, quando gli giunse in Francia la trista novella, per rendere un qualche ufficio alla cara memoria dell’eroe, si diresse a Maurocordato, per indurre il governo greco a innalzargli un modesto sepolcro nel luogo ove cadde; e si offrì di farne egli la spesa. Non fu fatta nessuna risposta a questa domanda. Si rivolse allora al colonnello Fabvier, il quale era stato amico del Santarosa. Egli accolse con affetto l’idea, e appena l’armata francese ebbe liberato il Peloponneso e l’isola di Sfacteria dall’invasione egiziana, compì il pio uffizio. Per opera di lui un modesto monumento al martire italiano sorse alla bocca di una grotta ove fu fama che rimanesse ucciso da un rinnegato maltese. Vi poneva questa iscrizione: Al Conte Santorre di Santarosa ucciso il 9 maggio 1825.
Così i liberi Italiani che toccano il sacro suolo di Grecia possono recarsi a visitare con religione di patria il luogo dove questo nostro generoso concittadino versava per la libertà il suo sangue, dopo avere per essa patito lunghe miserie e lunghi dolori.