<dc:title> Storia della letteratura italiana </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Girolamo Tiraboschi</dc:creator><dc:date>1822</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VI, parte 2, Classici italiani, 1824, VIII.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Storia_della_letteratura_italiana_(Tiraboschi,_1822-1826)/Tomo_VII/Libro_III/Capo_II&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20190303234548</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Storia_della_letteratura_italiana_(Tiraboschi,_1822-1826)/Tomo_VII/Libro_III/Capo_II&oldid=-20190303234548
Storia della letteratura italiana - Capo II – Lingue straniere Girolamo Tiraboschi1822Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VI, parte 2, Classici italiani, 1824, VIII.djvu
[p. 1553modifica][p. 1554modifica]non mancarono all Italia uomini d’ingegno instancabile e laborioso, che si accinsero a coltivare e a promuovere questo studio. Già abbiamo osservato (l. 1, c. 5) che il primo saggio di Bibblia poliglotta, che si vedesse in Europa, fu il Salterio quadrilingue, stampato in Genova nel 1515 (a), e abbiamo ancora parlato della stamperia arabica aperta in Fano nel 1514, e dell’edizione dell’Alcorano fatta in Brescia, e della celebre stamperia di lingue
orientali che il Cardinal Ferdinando de’ Medici aprì in Roma verso la fine del secolo. Or qui dobbiamo ricercar di coloro che in questi
difficili studi occuparonsi con maggior lode, e segnarono agli altri la via per cui giungere alla cognizione di quelle lingue.
II. Agostino Giustiniani, nel capo precedente
mentovato già tra gli storici, fu l’editore del
Salterio quadrilingue poc'anzi accennato. Anzi
avea egli intrapresa una somigliante fatica riguardo a tutta la sacra Scrittura (V. Script.
Ord. Praed. t. 2, p. 96, ec.); ma sol quella
parte ne venne a luce. La fama che con quelopera egli ottenne, fece che verso il 151 *7
il re Francesco I chiamollo a Parigi per esservi
(a) II primo a ideare una specie di Bibblia poliglotti»
fu Aldo Manuzio il vecchio, come ci mostra una lettera da lui scritta l'anno i5o3, e riportata dal Maittaire (Ann. typogr. t. 2, p. 4)- s°l° “’el>t>e l’idea,
ma ne pubblicò ancora un saggio in un foglio volante, di cui ha copia il più voite da me lodato abate
Mercier, stampato in tre colonne, cioè in ebraico, in
greco e in latino (V. Esprit des Joimiaux, 1 -qo, srpt.
p.). [p. 1555modifica]TERZO 1555
professore di lingue orientali in quella università, impiego da lui sostenuto per lo spazio di
circa cinque anni; e mi maraviglio perciò, che
nè il du Boulay, nè il Crevier abbian di lui
fatta menzione. Ben ce ne ha lasciata memoria,
oltre altri scrittori, Erasmo, che in una lettera
scritta da Lovanio a" 19 di ottobre del! 1518,
Invisit nos, dice (Epist t. 2, App. ep. 288),
Episcopus Nebiensis Octapli Esalti’rii auctor,
cujus in Apologia ad Fabrum honorificam facio mentionem. Est homo gloriosus magis quam
virulentus, condì ictus est a Erge Galli arimi
oifingentis francis. Di più altre opere da lui
composte, o tradotte dal greco, si può vedere il catalogo presso i pp. Quetif ed Echard.
Mentre il Giustiniani dava i primi saggi delle
lingue orientali all Europa, un altro in esse
dottissimo ne stava scrivendo prima di ogni
altro le leggi grammaticali. Parlo di Teseo Ambrogio pavese, della nobil famiglia de conti
d'Albonese nella Lomellina e canonico regolare
della Congregazione di S. Giovanni Lai erano.
Era egli nato nel 1469 (<*)• u U conte Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 2, p. 609), sull autorità del Rosini, afferma che compiuti appena
i quindici mesi, parlava con somma prontezza;
che attese agli studi delle umane lettere in Milano, donde poscia passò a Pavia allo studio
(<7) Nella prima edizione di questa Storia io uvea parlato assai più in breve di Teseo, e qualche errore
ancora era corso in questo articolo, cui perciò mi è sembralo opportuno il rifare internmenie, e il dargli maggior estensione colf aiuto singolarmente de’ lumi somministratimi dai eli. P. don Andrea Mazza abate casinese. [p. 1556modifica]1556 i.ibro
della giurisprudenza, c che in età di quindici
anni scriveva in italiano, in latino e in greco
con eleganza uguale a quella dei’ più dotti nelle
lingue medesime. Del che però io non so se
possa addursi testimonianza o pruova sicura,
giacchè quella del P. Rosini sembra che a ciò
non basti. Certo è che quanto al latino ei non
fu mai elegante scrittore; che dai' suoi maestri
ei non apprese del greco che i primi elementi
e che nelle lingue orientali ei fu maestro a se
stesso: Potuimus enim, dic egli stesso (Introduct. in Chald. Ling. p. 177), in multis deci pi,
quandoquidem Latinus dumtaxat praeceptionibus, in quibus tantum profecimus, ut ad hunc
gradum veniremus, atque Graecarum primis lite*
rarum rudìmentis cocceptis, in rcliquis omnibus,
de quibus in hac nostra variarum literarum harmonia locuti sumus, ego ipse (no e il Deus, quia
non numtior) okredièay.rei coditi. Ch'egli apprendesse la giurisprudenza in Pavia, che vi avesse
a maestri Stefano Ottone e Andrea Bassignana,
e che ricevesse la laurea, è certo dai’ passi dell opera di Teseo citati dal conte. Mazzucchelli,
e dal titolo della medesima, in cui s intitola
J. V. D., e innoltre console del collegio de’
giudici di Pavia. Ma che si pensasse di conferirgli una cattedra, e che il duca di Milano
lo avesse destinato suo ambasciadore, quando
egli entrò tra canonici regolari lateranensi, non
parmi ugualmente provato. Ciò ch è certo, per
testimonianza dello stesso Teseo (ib. p. 14) si'
è, ch egli, già canonico regolare, era in Roma,
quando Giulio II nel 1512 diede incominciamento al general concilio lateranense, che fu [p. 1557modifica]TERZO ‘ r>57
poi continuato da Leon X. Erano ad esso venuti alcuni Etiopi e alcuni Siro-Caldei, e volendo il sacerdote di questi, detto Giuseppe,
celebrare la Messa nella sua lingua e nella sua
liturgia, ciò non gli fu permesso, se prima essa
non fosse diligentemente esaminata, e ne fu
dato l’incarico a Teseo. Egli confessa che allora appena sapeva i primi elementi delle lingue ebraica, caldaica e arabica, e che perciò
si diede a studiarle con più attenzione, valendosi singolarmente dell’opera di un certo Giuseppe Gallo ebreo, figlio di un rabino medico
di Giulio II (cioè di Samuele Sarfadi, di cui
e del figliuolo ancora detto da altri Giosifonte
parla il ch. ab. Marini (Ai, p. 290, ec.) nella
sua opera degli Archiatri pontifici), e tanto
in esse si avanzò, che potè esaminare la Liturgia, e avendola giudicata ortodossa, fu permesso l usarne. Questo è ciò solo che dice
FAmbrogio; non già che da quegli Etiopi e
Caldei egli imparasse le loro lingue, come affermano il conte Mazzucchelli e il Vidmanstadio da lui citato. Ben ei racconta che prese
per comando di Leon X ad istruire nella lingua latina uno di quegli Orientali, cioè Elia
mandato da Pietro patriarca de’ Maroniti (l. c.
p. 78). Quanto ad Abramo de Balmes, che il
Vidmanstadio pure gli dà a maestro, io veggo
ch’egli il loda (ib. p. 15, 98), ma non veggo
che il dica mai suo maestro. Aggiugne il conte
Mazzucchelli, citando l autorità del Ghilini, che
Teseo ebbe da Lon X in premio de’ suoi studi
la cattedra di lingue orientali in Bologna, e [p. 1558modifica]l558 LIBRO
clic fu egli il primo clic ne fosse in quella
università professore. Ma di ciò niuna memoria
trovasi nei' monumenti dell’ università stessa,
come mi ha assicurato il ch. sig. conte Fantuzzi che diligentemente gli ha esaminati. Di
fatto lo stesso Teseo racconta (l. c p, 15)
che, lasciata finalmente Roma, forse dopo la
morte di Leon X, e tornato a Pavia, diedesi
tosto a disporre l’edizione da molto tempo da
lui meditata del Salterio in lingua caldaica. a
cui voleva aggiugnere alcune notizie di quella
e di altre lingue orientali; e già avea fatti fondere i caratteri perciò necessarii; quando costretto nel 1527 a passare a Ravenna pel capitolo del suo Ordine, accadde in quel tempo
il funesto e orribil sacco della città di Pavia,
nella qual occasione il suo Salterio caldaico, e
quanto egli avea di codici caldei, siriaci, armeni, ebraici e greci, e di altre lingue a gran
prezzo da lui comperati in Roma, e gli apparecchi già fatti per la mentovata edizione andarono dissipati e dispersi. Quanto ei fosse per
ciò turbato ed afflitto, nol può immaginare se
non chi ha sperimentato in se stesso il dolore
di vedere le sue fatiche e i suoi studi di molti
e molti anni andare inutilmente perduti. Pare
ch’ ei non avesse coraggio di tornare alla sua
patria. Certo nel 1529) egli era in Reggio, come
ci mostra un passo del Vidmanstadio riportato dal conte Mazzucchelli. Indi passò a Ferrara, della qual città, come della più tranquilla
e sicura che fosse in Italia, e del duca Ercole II
che nel 1534 cominciò ad esserne signore, così [p. 1559modifica]TERZO 155(J
egli nella dedicatoria della sua Introduzione,
come Francesco Scevola in una lettera ad essa
premessa, fanno grandi elogi. Frattanto avvenne
che nel 1534 trovossi presso di un pizzicagnolo,
ma mezzo lacero, il Salterio caldaico ch ei già
credeva smarrito, e tosto pensò di nuovo a renderlo pubblico. Ma volle prima dare alla luce
quelle Istruzioni sulle lingue orientali che avea
già altre volte apparecchiate. Comincionne egli
la stampa in Ferrara, e poscia chiamato a reggere la sua canonica di S. Pietro in Ciel d’oro
in Pavia, ivi continuolla, come raccogliesi da
un passo singolarmente della stessa sua Introduzione (p. 14°); ov'e indica e nomina i molti
letterati italiani non meno che oltramontani, i
quali prima in Ferrara, poi in Pavia venivano
a vedere in qual modo ei facesse eseguire la
stampa di questa sua opera, la quale essendo
la prima in cui si vedesse sì gran copia di caratteri orientali, eccitava giustamente raminirazione e riscoteva l’applauso di tutti. Terminossi finalmente la stampa dell’opera nella stessa
canonica di S. Pietro il primo di marzo del 1539
Ed è probabile che Teseo pensasse a pubblicare in seguito il suo Salterio. Ma la morte,
da cui fu rapito l anno seguente, non gliel
permise. L’opera di Teseo ha per titolo: Introducilo in Chaldaicam Linguani, Syriacani, at*
que jtrmcnicam et decem alias linguas, duini eternai dìffercntium alphabeta circiler quadragin fa, et eorumdem invicem conformatio, ec.;
e l’ autore accenna di essere ancor pronto a
pubblicare più altri alfabeti, se la sua fatica
fosse stata approvata. Ei dedicolla ad Afranio [p. 1560modifica]l56o LIBRO
suo zio paterno, e allora canonico in Ferrara (a)} e che fin dalla fanciullezza era stato
(a) 11 canonico Afranio de’ conti d’Albonese, benchè
non possa annoverarsi fra’ letterati, ha però qualche
diritto ad aver luogo in questa Storia, perchè egli fu,
se non l'inventore, certo il perfezionatore di uno strumento musicale, cioè del fagotto. In tre passi della sua
opera ne parla Teseo di lui nipote; e in primo luogo
ei ne descrive a lungo e con somma esattezza tutte le
parti interne ed esterne (p. 33, ec.) e la grande varietà di voci ch’ esso rendeva, e aggiugne che questo
strumento era stato prima lavorato in Ungheria, ma
così imperfetto e mancante, che non rendeva che dodici voci, e che con troppa facilità si scordava; che
Afranio avea tentato per mezzo di diversi artefici dell’Allemagna e dell’Ungheria (ove probabilmente si era
recato col Cardinal Ippolito d’Este il vecchio) di renderlo più perfetto, ma inutilmente; e che disperato
dell’esito, erasene tornato in Italia, lasciando in Ungheria quell’infelice strumento; che poscia, dopo l espugnazione di Belgrado fatta dal Sultano ottomano, lo strumento medesimo era stato portato in Italia, e a Ferrara,
ove per mezzo di Giambattista Ravilio artefice ferrarese era riuscito ad Afranio di perfezionarlo, aggiungendovi due lingue o cannucce, una d’argento, l’altra di
bronzo, e'col mezzo di dieci nuovi forami conducendolo ad avere ventidue voci. Siegue poscia dicendo che
Afranio possiede molti altri musicali segreti, per mezzo
de’ (quali si può imitar l'armonia di tutti gli strumenti; e ch' egli, benchè abbia la casa piena de detti strumenti d'ogni maniera, a tutti però antipone il fagotto, e di esso singolarmente si compiace di usare.
Quindi in altro luogo (p. 53) risponde ad uno che avea lo
ripreso di avere inserita nella sua opera una sì lunga
digression sul fagotto, corregge alcune cose che nel
descriverle avea detta, ed aggiugne che non in Ungheria, ma in Ferrara, e nella casa del detto Cardinal Ippolito, esso era stato la prima volta fabbricato. E finalmente in altro luogo p. 178, ec.) porta la figura dello
strumento medesimo, e rende ragione del non averla
portata, ove ne avea data la descrizione. [p. 1561modifica]TERZO 1561
allevato nella corte Estense. Ed è certo che
opera di più vasta estensione riguardo alle lingue orientali non erasi ancor veduta, e ch’essa
fa conoscere quale studio avesse in quella fatto
il laborioso scrittore, di cui di fatto racconta
Isiodoro Clario, in una lettera citata dal Mazzucchelli. che più di dodici ne possedeva perfettamente. Così non avesse egli imbrattata
quest’opera con alcune cose cabalistiche, e con
qualche superstiziosa credulità, come quella de’
caratteri de’ quali usa il Demonio, che gli furon
mostrati da un furbo, e ch’ egli inserì nel suo
libro (p. 212). Ma ciò non gli toglie la gloria
di essere stato il primo in Europa ad illustrar
tante lingue. Questa gloria però gli si volle contrastare dal celebre Guglielmo Postello. Mentre
Teseo era in Ferrara, trasferitosi per qualche
affare a Venezia, vi trovò il Postello tornato
di fresco da Costantinopoli (p. 17, 192, ec.), e
n ebbe qualche lume intorno alle lingue, e per
gratitudine gli diede copia dell’Orazione dominicale che aveva fatta stampare in caldaico ed
in armeno. Tornato poscia a Ferrara Teseo,
mandò al Postello a Venezia alcuni alfabeti
orientali da lui richiestigli; e il Postello tornato
in Francia, ivi pubblicò nel 1538 gli alfabeti
di dodici lingue: intorno a che scherzando Teseo dice che il Postello fece con lui ciò che
Giovanni fece con Pietro, quando andò al Sepolcro. cioè che Giovanni come più giovane
vi giunse prima, ma lasciò che Pietro come più
vecchio prima di lui vi entrasse: Juvenis ipse,
conchiude Teseo, in Gallias profectus, alias
mihi epistolas scripsit, et cium, eptod postulai,
Tiraboscjii, Voi XII. 36 [p. 1562modifica]l50i LIBRO
qua possimi dilige itila procuro, ut consequi valeat, duodecim linguarum libellum edidit. Edebat et Ambrosius, et licet tarili us a<l propositam
metam senex pervenerit, prior tamen incepit,
et pi ara, quae viderat, communicavit Del che
ei reca in pruova le lettere che tra lui e il Postello erano corse, e che si leggono verso il
fine dell’opera stessa. È certo dunque che Teseo prima del Postello cominciò a stampare il
suo libro; e che, se questi il prevenne nel pubblicarlo, ei ne fu debitore al medesimo Teseo
che gli somministrò molte notizie a ciò necessarie. E oltre ciò, assai più che il Postello innoltrossi Teseo, che tanto maggior numero di alfabeti inserì nella sua opera. A Teseo ancora
dobbiamo la pubblicazione de’ Sermoni di d
Callisto piacentino sulla Profezia di Aggeo, stampati in Pavia l’an 1540 e in una lettera,
che lor va innanzi, ei si sottoscrive: D. Ambrosio di li Conti d Albonecio da Pavia Prevosto.
Ili. Io ho voluto stendermi alquanto a rischiarar la memoria di questo canonico regolare, perchè mi è sembrato che ciò si dovesse
al primo illustratore di tante lingue orientali
che avesse l’Italia. Dopo questi due religiosi,
che si possono considerare come i primi ristoratori dello studio di queste lingue, più altri
ce ne offre questo secolo stesso, che in molte
o in alcune di esse posero diligente studio,
e ne dieder pruove co’ libri dati alla luce. Giuseppe Tramezzino veneziano, nipote del celebre
stampatore Michele, vien lodato da Paolo Manuzio come uom dotto non sol nel latino e [p. 1563modifica]TERZO i 563
nel greco, ma nell’arabico ancora, nel turchesco, e in altri linguaggi (Lettere, p. 127). Un
Breve di Leon X, inserito tra le Lettere del
cardinal Sadoleto (Sadoleti Epist. Pontjf, p. 68),
sembra indicarci che Francesco Rosi ravennate
avendo viaggiato nell Oriente, e avendo scoperto in una assai copiosa biblioteca, che vide
in Damasco, un’ opera scritta in arabico e intitolata la Filosofia mistica d’Aristotele, l’avesse
recata in latino. Ma veramente, come osserva il
P. abate Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2, p. 292, ec.),
ei fu il ritrovatore del codice, ma non ne fu
il traduttore; e l’opera fu tradotta in latino
da un certo Mosè Rova, ch’era allora in Damasco, corretta da Pier Niccolò Castellani faentino, e stampata poi a spese del Rosi e col
privilegio di Leone X in Roma nel 1519. Un
certo Pietro Abate natio dell’ Etiopia, uomo
assai dotto, e ricevuto in sua corte da quel
gran protettor delle lettere il cardinal Marcello
Cervini, indusse due eruditi Italiani, ch’ erano
alla corte medesima, a studiar quella lingua.
Il primo fu Mariano Vittorio da Rieti, che fu
poi vescovo della sua patria, e che, oltre l’edizione dell Opere di S. Girolamo, fu il primo
a darci una Grammatica di quella lingua, stampata in Roma. L’altro fu Pier Paolo Gualtieri
aretino che recò in lingua latina la Messa ed
altre cose rituali degli Etiopi; intorno a che
veggasi la Vita di Marcello II scritta dal Pollidori (p. 60, ec.). Il Gualtieri fu ancor segretario del detto pontefice; e se ne può legger
l’iscrizion sepolcrale presso il ch. monsignor
Buonamici (De cl. Pontif. Epist. Script, p. 246). [p. 1564modifica]i564 Lmno
Angiolo Canini natio di Anghiari in Toscana fu
forse l’uomo il più dotto nelle lingue orientali, che in questo secol vivesse. Nel breve elogio
che ne ha fatto il de Thou (Hist ad an. 1557),
si afferma ch egli andò, per così dire, vagabondo per molto tempo insegnando le lingue
orientali in Venezia, in Padova, in Bologna e
in (Ispagna. Io però non trovo menzione alcuna
di esso nella Storia delle due suddette università di Bologna e di Padova, e non parmi perciò probabile che fosse in quelle pubblico professore. Aggiugne il de Thou che il Canini fu
poscia presso Andrea Dudizio, il quale ebbe
gran nome e pel suo sapere e per le ambasciate da lui sostenute, e che allora studiava
in Parigi; che ivi il Canini tenne pubblica scuola, e che ricevuto finalmente tra’ suoi domestici
da Guglielmo du Prat vescovo di Clermont,
finì di vivere nell’Auvergne nel 1557. In fatti
dalla prefazione dal Canini premessa a suoi
Ellenismi, stampati in Parigi nel 1555, raccogliesi che in quella città era allora il Dudizio,
e dava in età giovanile grande aspettazione di
se medesimo. Della scuola da lui tenuta in Parigi non fan parola i due storici di quella università. In ciò nondimeno l' autorità del de
Thou sembra superiore ad ogni eccezione. Del
soggiorno fatto dal Canini in quella città ci ha
lasciata un altra memoria egli stesso nella dedica indirizzata al suddetto vescovo di Clermont della sua Gramatica della lingua siriaca
che ha per titolo Institutiones Linguae Sj’riacae, Assirnicac, atquc Thalmudìeae, una
cum Ethiopicae atque Arabicae collationc, [p. 1565modifica]renzo 1565
stampata in Parigi nel i55 j Racconta in essa
che tornando dalla Spagna in Francia insieme
con Simone Guichard religioso Minimo, erasi
per qualche tempo trattenuto in Belriguardo
luogo della diocesi del detto vescovo, e che
ivi avendo dal Guichard risaputi i meriti e le
virtù non ordinarie di esso, ed essendosi perciò invogliato di sempre meglio conoscerlo,
avea presto avuta l’occasione di provarne la
bontà e la cortesia. Perciocchè essendo caduto
infermo nel Viaggio dall’Auvergne a Parigi, ed
essendo perciò entrato in quella città in assai
povero stato, al mostrar ch’ egli fece una lettera di raccomandazion di quel vescovo, fu
tosto provveduto di alloggio e di qualunque
altra cosa gli bisognava. Questa lettera è scritta
in Parigi nel 1553 dal Collegio degl Italiani.
Due anni appresso pubblicò nella stessa città
di Parigi i suoi Hellenismi ossia osservazioni
sulla lingua greca, e li dedicò a Matteo Prioli
giovane patrizio veneto ch'era allora in Parigi,
ove pure trovavansi Mariano Savelli eruditissimo giovane, Fabrizio Brancacci e il suddetto
Dudizio, co’ quali egli dice di aver tenuto discorso su quell’ argomento. Questa lettera ancora è scritta da Parigi a’ 29 d’agosto del 1555,
non più però dal Collegio degl' Italiani, ma da
quello di Cambray. Amendue queste opere son
pregiatissime, e Tanaquillo le Fevre dice il
Canivi il primo tra" gramatici greci (Nota. in 1
Scnliger.). Al fin della prima si aggiugne la
spiegazione di alcuni passi del Nuovo Testamento. ch è inserita ancora nella raccolta de
Critici Sacri (t. 7). Gli viene inoltre attribuita [p. 1566modifica]l5G6 LIBRO
una traduzione latina del Comento di Simplicio
sul Manuale di Epitteto, da me non veduta {a).
, IV. Fra tutte però le lingue orientali l ebraica
fu la più coltivata, a cagion del vantaggio che
da essa si trae per lo studio della sacra Scrittura. Nel parlar degl’ interpreti e de’ traduttori
di essa, molti ne abbiam! già accennati che
furono in quella assai dotti, e altri ancora ad
altre occasioni abbiam nominati che ne fecero
attento studio, e si è detto fra l altre cose
della Gramatica di questa lingua pubblicata dal
Bellarmino. Alcuni altri ne dobbiam qui indicare, che per questa ragion medesima ottennero molta fama. E io comincerò da un celebre cardinale che, benchè niun opera in questo
genere pubblicasse, fu nondimeno nell’ ebraica
lingua assai dotto, e per molti titoli è degno
(a) Uno «le* più versali nelle lingue orientali, che
vivessero sulla fine del secolo xvi, e sul principio del xvn,
fu il celebre Bernardino Baldi. Nulla di tale argomento
si ha di lui alle stampe. Ma quanto fosse in esse versato, cel mostrano le opere mss. originali che se ne
conservano nella libreria Albani in Roma, e delle quali
ci ha data contezza il eh. P. A fio (Vita tiri Baldi,
p. ao5, ai4, ec.). Degna è d'osservarsi singolarmente
la traduzione dal caldaico in latino della parafrasi d'Onhclò sul Pentateuco di Mose, da lui fatta in un anno,
e illustrala con sue note, e divisa in cinque tomi in
folio, la quale dall’ eru lilo danese sig Jacopo Giorgio
Cristiano Adler, che l’ebbe sott‘occhio, fu detta per
il mio tempo un capo tV opera. Ivi ancora si conserva
parte de' Salmi da lui nuovamente tradotta dall"arabo
in latino, due Dizionari e «ina Gramatica della lingua
arabica con più altre cose alla medesima appartenenti,
una imitazione della lingua persiana, e una raccolta di
parole turchesche, gotiche e ungariche. [p. 1567modifica]TERZO I *>67
di a\mi luogo distinto nella Storia della
Letteratura italiana, cioè del Cardinal Federigo
Fregoso. Fu egli figlio di Agostino I* regoso e
di Gentile da Montefeltro sorella di Guidubaldo
duca d i rbino, e fu fratello di Ottaviano doge
di Genova sì celebre nelle Storie di quella Repubblica. In età ancor giovanile fu fatto arcivescovo di Salerno nel 1507, e abbiamo una
lettera scritta agli 8 di maggio dell’ anno stesso
dal suddetto duca d’Urbino al re Cattolico,
perchè dia al suo nipote Federigo il possesso
di quell’ arcivescovado Lettere de’ Principi, t. 2).
Ma!la parzialità de’ Fregosi pel re di Francia
fece che Federigo non potesse per lungo tempo
ottenerlo; e fu probabilmente per ciò, che il
pontefice Giulio II concedettegli nel 1508 l’amministrazione del vescovado di Gubbio (Sarti
de Episc. Eugub. p. 216). In quest’ anno era
il Fregoso presso il detto pontefice, il! quale
avendo udita la grave malattia del duca Guidubaldo, colà tosto inviollo. Ma egli giunse
quando il duca era morto, e di là scrisse al
pontefice quella bellissima ed elegantissima relazione della morte di esso, che il Bembo inserì poi in quel suo libro scritto in quell’occasione in lode di Guidubaldo e di Lisabetta
di lui moglie. E ivi del medesimo Federigo fa
il Bembo un magnifico elogio, introducendo
Sigismondo da Foligno a così ragionarne: Nullo
cum homine profecto totos dies quam cum illo
libentius conficio. Nam cum est perhumanus,
lenis. comis, blandus, salibus etiam et lepore
omni ac facetiis scatens, tum a gravitate atque
prudentia, et miro quodam vocis, ac \>erborimi, [p. 1568modifica]l568 LIBRO
anirnique multo magis temperamento tran quiilitateque numquam discendit semper etiam et
doctrinae studiis aliquid affert, quo delectere, ec. Negli anni seguenti troviamo il Fregoso
ora in Bologna, ora in Roma, ora inUrbino,
ora in Genova (Bembi Epist. fam. l. 4, ep. 23,
27); ed ei li passò nel coltivare gli ameni studi, benchè avvolto, mentr era in Genova, fra
i tumulti delle discordie, pe’ quali anche sembra da una lettera del Bembo che egli e Ottaviano nel 1510 fossero esposti a gran pericoli, e ricevesser gran danno nelle loro sostanze
(ib. ep. 25). Oltre l’ amicizia col Bembo, contrassela egli nella corte d’Urbino anche con
Baldassar Castiglione, e ne abbiam pruova in
una lettera a lui scritta da Federigo nel 1512
(Castigl. Lett. t. 2, p. 321). È probabile che
verso questo tempo medesimo egli scrivesse la
sua parafrasi dell Orazione domenicale in terza
rima, che si ha alle stampe, e ch è riferita
anche dal Crescimbeni (Coment, della volg.
Poes. t. 2, p. 220), ed essa ci mostra che
se il Fregoso avesse continuato ad esercitarsi
nella poesia, sarebbe divenuto un de’ migliori
e de più eleganti rimatori. Nel detto anno 1512
era il Fregoso in Roma, ove abitando in una
casa medesima col Bembo, col Sadoleto e con
Camnullo Paieoi ti, si vennero vicendevolmente
animando ed aiutando ne più utili e ne’ più
dilettevoli studi. Il Bembo scrivendo da Roma
nel 1 di gennaio del 1513 a Ottaviano Fregoso, e parlandogli di Federico di lui fratello,
Ita, gli dice (Famil. l. 5, ep. 7), jam mores
instituit suos ut nihil profecto vel ad studia [p. 1569modifica]TERZO v *^69
liierarttm ardentius, vel ad sui compositionem
sedatius, vel ad aliorum usum atque consuetudinem mitius esse atque suavius illo possit,
a quo cum discesseris, nihil est fere laerius
nobis tribus Sadoleto, Palaeoto, me, qui ei
conturbernales sumus. Quamquam et Caballus
tuus nos saepissime invisit, et Mutius Arellius, ec. Ma gli studi di Federigo furono per
qualche tempo interrotti dalle civili dissensioni
della sua patria, e da’ guerreschi tumulti. Nello
stesso anno 1513, essendo stato fatto doge di
Genova Ottaviano, Federigo colà recossi per
aver parte e negli onori e negli affari, e quella
Repubblica si resse per qualche tempo all arbitrio di questi due fratelli, de’ quali, come
osserva il Foglietta (in Elog. ill. Ligur.), quanto
era di tranquilla e pacifica indole Ottaviano,
altrettanto era Federigo di genio ardente e *
d’indole coraggiosa, anzi tacciato da alcuni
come uomo trasportato e impetuoso. Ei diè
pruova de suoi militari talenti, e in alcuni incontri nella guerra civile tra ’l partito de’ suoi
e quello degli Adorni e de’Fieschi, e nel condurre egli stesso una flotta contro i corsari
dell Africa, di che oltre gli storici di quell'età
(Foliett. Hist genuens. ad an. 1513, 1516)
ci ha lasciata menzion l’Ariosto in quelle tre
stanze che cominciano:
Qui de la Istoria mia che non sia vera
Federico Fulgoso è in dubbio alquanto,
Che con l armata avendo la riviera
Di Barbi 'liti trascorsa in ogni canto,
Capitò quivi, ec.
Orl. c. 42, st. 20, ec. [p. 1570modifica]i5~o Linno
(losì egli visse lutto rivolto a' pubblici affari,
nel qual tempo se non potè coltivar molto gli
studi, mostrossi per amico e protettore de
dotti, come raccogliesi da alcune lettere del
cardinal Cortese allora monaco, che venuto
da Francia a Genova circa il 1520, fu da lui
onorevolmente accolto, e regalato ancor di una
mula per fare il viaggio di Roma (Cortesii
Op. t. 2, p. ~S)y e da una di Benedetto Teocreno, che fu poi maestro de’figli di Francesco I, e che allor sembra che fosse famigliare
di Federigo (ib. p. 81). In un altra lettera
che il Cortese gli scrisse, poichè fu giunto a
Roma, rallegrasi col Fregoso di un pingue beneficio, o, com egli dice, de amplissimo maximoque Sacerdotio (ib), p. 84) ch eragli stato
conceduto, il quale io non saprei qual si fosse.
'Certo non fu allora la badia di S. Benigno di
Dijon, che dal re Francesco I gli fu conferita
sol quando fu costretto a fuggir dall’ Italia
(Bembo, Lettere, t. 1, l. 5 j Op. t. 3, p. 38).
Perciocchè espugnata Genova dagl Imperiali
nel 1522, e fatto prigione il doge Ottaviano,
Federigo a gran pena fuggitone, e postosi in
mare, poco mancò che non vi rimanesse sommerso ‘7 e rifugiatosi in Francia, visse per qualche tempo nella suddetta badia. Abbiam molte
lettere che in questa occasione si scrisser l’ un
l altro il Fregoso e il Cortese (p. 88, ec.),
e alcune altre a lui scritte dal Bembo (Lettere,
t 1, l. 5 y Op. t. 3, p. 37), le quali ci mostrano la fortezza e il coraggio con cui l arcivescovo sostenne le sue avverse vicende. Rechiamo un sol passo di una di quelle del Fregoso [p. 1571modifica]TERZO 1.r»7 I
ni Coriose, che ci scuopre al tempo medesimo
e l’eleganza di stile che gli era propria, e la
costanza di cui era dotato: Quis enim, dic
egli (p. 91), tam ferus ac ferreus, qui non
patriae suae direptionem ac prope excidium
deploret; quam ego ipse quasi inter ulnas meas
confodi atque trucidari ab immanissimis hostibus vidi? Non possum equidem, etfatcor, in
tam acerbo casu non dolere. Quamvis duae
praeter hanc communem cladem insignes ac
peculiares fortunae injuriae me pepulerunt. Tot
scilicet amicorum, tot clientum, tot familiarium
e.iril:uni atque interitus; deinde Octaviani fratris mei innocentissimi captivitas atque duris
simus carcer. Ista quia numquam praevideram,
quis enim tam lynceus? modo me excruciant,
atque exanimant; ita tamen. ut non omimo
me his curis atque solicitudinibus obrui sinam,
quin et ad te et ad eos amicos, quos nihil
molle de me, nihil demissum opinari volo, non
semper respiciam. Ille vero, quae ad me tantum pertinent ex patria ejectio, eversio imperii
nostri, fortunarum dissipatio atque rapina, nihil fere nos tangunt; tamtumque (abest, un pro
his dolere, ac lamentari velim, ut etiam illis
gratias habiturus sim non minimas, qui me,
quamvis non amico animo, attamen una cum
illis multis molestiis, multis laboribus, multi sque pcriculis liberavi runt, atque huc conjecerunt, ubi collectis atque. compositis hujus
naufragii reliquiis, ed ea studia, a quibus di- •
scedere minime oportebat. aliquando reverti
posse non diffido. Queste lettere ci additano
insieme alcune particolarità di quelle rivoluzioni [p. 1572modifica]i5"2 Linno
i*
poco note agli storici, ma che non appartengono al mio argomento. Una sola ne accennerò io, cioè che il doge Ottaviano, dopo
essere caduto nelle mani degl’Imperiali, e condotto non so dove, da essi fu ricondotto nel
dicembre dell’ anno stesso a Genova, per poi
trasportarlo, come avvenne, nel regno di Napoli. In Genova lo vide il Cortese, che dopo
il sacco di quella città era colà tornato, e ne
diè avviso a Federigo; e la descrizione ch’ ei
fa dell invitta costanza di questo sventurato
doge, è troppo bella, per non essere qui riferita: Proximis diebus (p. 98) cum Octavianus Princeps noster Genuam perductus esset
deinceps Neapolim deducendus, aegre quidem
impetrato aditu, bis ad ipsum accessi, fuique
cum eo diutius. Mirum quanta animi constantia acrerbissimum hunc fortunae icrum tolerare
mihi visus fuerit Perseverat adhuc pristina illa
hilaritas in congres su, comitas in sermone, et
(quod maxime mirum est) in vultu non tranquillitas modo, sed mira etiam serenitas. Qua
vero ratione se ipsiun con sole tur, bine facile
conjectura assequi potes, quod cum me paulo
subtristiorem (nec enim mihi in ea parte imperare potueram l cognnvisset, prior ipse me
consolari coepit Bone Deus! quarti in frac to,
qtiam celso, quam erecto animo, commemorare coepit clarissimos Imperatores, qui immutata fortuna eamdem calamitatens subierant,
quorum tantum abesset. ut se minorem in adversa fortuna haberi vellet, ut Jonge etiam omnibus illis magnitudine animi et constantia superiorem se esse arbitraretur. Et ea potissinium
l [p. 1573modifica]TERZO 1^7 vi
de causa, quod cum Christianus esset, cons tanti ss ime confilerelur omnia Dei Optimi Max.
disponi sapientia, et provi dentiti adminis trari,
scirctipie, nihil sibi praeter ejusdem divinitatis
decreta uccidere poti asse, et iccirco parunt prudentis (ore, ni si ea omnia aequissimo animo
tolerasset. Itaque qui consolandi gratia accesseram, non parum ab eo solatii reportavi. Debbo
però qui avvertire che nelle accennate lettere
del Cortese, nelle quali trattasi de Fregosi, è
corso un errore, per cui di due diverse lettere, e scritte in diversi tempi, se n è fatta
una sola, ch è la 63. Questa è scritta da Genova al monaco Dionigi Faucher (p. 102, ec.),
a cui il Cortese scrive dapprima che Federigo
avealo fin allora trattenuto in Genova, dicendo
di volersi giovare dei’ suoi consigli nel rimetter la calma e la tranquillità nella patria, disegno da lui formato, e per cui eseguire era
pronto a sagrificare ogni cosa, e anche ad andarsene in esilio se l esito non avesse alle intenzioni sue corrisposto. Questa lettera dunque
fu scritta certamente innanzi a 31 di maggio,
nel qual giorno, saccheggiata Genova, Federigo se ne fuggì, nè più vi fece ritorno. Siegue poi il Cortese ragguagliando Dionigi della
morte del Longolio, di cui aveagli scritto il
Bembo. Or questa è certo che avvenne nel settembre dell anno stesso. Come dunque potè il
Cortese scriver nel maggio ciò che sol nel settembre accadde? Egli è evidente che due lettere sono state insieme accozzate. E in fatti
la prima parte si congiunge colla seconda con
un praeterea, che nulla vi ha che fare, e che [p. 1574modifica]«5^4 LIBRO
11011 è proprio della elegante maniera di scrivere del Cortese. Ma torniamo al Fregoso.
V. Il più dolce conforto ch egli ebbe nelle
sue sventure, fu il ricuperare i suoi libri, tra
quali or nella sua badia, ora in Lione, passò
soavemente alcuni anni. Le molte lettere che
in quel tempo corsero tra lui e l suo amicissimo Sadoleto (Sadolet Epist famil. t. 1,p. 2.3o,
a34; 253, 299, ec., ec.), ci fan vedere com
essi fossero congiunti insieme non solo per
unione di sentimenti, ma per somiglianza ancora di studi. Più distinta menzione di questo
soggiorno fatto dal Fregoso in quel monastero
ci ha lasciata il Sadoleto medesimo nell’ orazion funebre con cui ne onorò la morte: Cum
is, dic egli (Op. t. 3, p. 26, ed. veron). ortus familia nobilissima.... cupidus vitae quietioris in Gallicanum Coenobium, quod Christianissimi Regis dono regendum tuendumque
susceperat, se contulisset, atque inibi cum Religiosis fratribus nonnullis nocturnam diurnamque operam sacris literis impendens, conciones
saepe ad Fratres hortandi, docendi, monendi,
consolandique causa more majorum sancissimo rum quideni Patri un et eriuiitissimorum fiabe re t. In questo tempo dovette egli attendere
principalmente allo studio delle lingue greca ed
ebraica, che in lui loda il Sadoleto nella stessa
orazione, e quello della seconda singolarmente
ch’egli sopra le altre amava, come raccogliesi
da una delle Lettere a lui scritte dal Sadoleto
medesimo (l. c. p. 232, ec.). Ivi ancora è
probabile ch egli scrivesse gli opuscoli che gli
vengono attribuiti, de quali però, oltre le [p. 1575modifica]TERZO IO75
accennale Lettere, e la parafrasi già mentovata
dell Orazione domenicale, non abbiamo alle
stampe che un trattato dell Orazione, stampato nel.1543, e che per essere stato in una
ristampa maliziosamente unito ad alcuni trattati di Martino Lutero, fu con essi proibito
(Zeno, Note al Fon fan. t. 2, p. 10, ec.). Le
meditazioni sui Salmi i3o ei45, delle quali
egli scrive in una sua lettera al Sadoleto (Sa(lole/i Epist. t. 1, p. 363, ec.), e un orazione
a’ Genovesi della quale ragiona con molta lode
il Cortese in una sua lettera (l. c. p. t)3),
non credo che abbian veduta la luce. Questi
opuscoli sono generalmente accennati dal Sadoleto nella citata Orazion funebre: An mens
ejus et sermo, et incredibilis in eo Graccontili,
La ti nani rn, tìt braearwnque Literarum scentia,
(quae vivit in scriptis, et vie tura est? Plura
enim ille confecit sui quidem praesentis ingenii, sed multo magis pietatis et religionis monimenta, ex quibus nos ali qua legimus. Lo
studio che della lingua ebraica fece il Fregoso,
viene ancor confermato dalla dedica della Gramatica ebraica a lui fatta da Sante Pagnini,
di cui diremo tra poco. Nel 1529 tornò in Italia (Sadol. Epist. t 1, p. 275), e per più anni
andò a risedere nel suo vescovado di Gubbio,
di cui dopo essere stato lungamente amministratore, fu poi veramente vescovo, dacchè
nel 1533 rinunciata ebbe la chiesa arcivescovil di Salerno, di cui solo tre anni addietro
avea cominciato a godere le rendite. Delle cose
da lui operate a pro della diocesi di Gubbio,
delle fabbriche da lui innalzate, delle copiose [p. 1576modifica]l576 LIBRO
li in osine da lui profuse, per cui ottenne il glorioso nome di padre de’ poveri e di rifugio
degl’ infelici, parla il dottissimo P. Sarti (De
Epist. Eugub. p. 216). Abbiam molte lettere
in quegli anni a lui scritte dal Bembo (Lettere,
t 1, l. 5; Op. t. 3, p. 39, ec.), le quali ci
mostrano quanto stretta amicizia continuasse
a esser tra loro, e come il Fregoso inviasse
al Bembo diversi presenti, e quello singolarmente di alcune medaglie che a lui furon carissime. Le virtù e; i meriti del Fregoso erano
troppo luminosi, perchè potessero essere dimenticati da un pontefice di cui non v’ ebbe
forse il più saggio nel conferire ad uomini illustri l onor della porpora. A 19 di dicembre
del 1539 Paolo III, che avea in addietro impiegato il Fregoso nella congregazione per la
riforma della Chiesa, di cui altrove abbiamo
parlato a lungo, il dichiarò cardinale; e il
Bembo dandogliene la nuova con sua lettera
de 20 di dicembre, Jeri, gli scrive (ivi, p. 34),
N. S. creò V. S. Cardinale, con 10 altri, ma
primo di ciascuno, con tanto favore primieramente di S. S. e poi di tutto il Collegio, e con
tante laudi vostre, che io stimo, che già molti
e molti anni non ne sia stato nominato alcuno
sì onoratamente, e con tanta soddisfazione universi amplissimi Ordinis. Siegue indi il Bembo
pregandolo a non ricusare, come temevasi, e
come infatti bramò il Fregoso, la profertagli
dignità; e in altra lettera degli 1 1 di gennaio
dell’ anno seguente gli significa il desiderio che
il papa avea di vederlo in Roma pel tempo
della Quaresima, dopo il quale gli avrebbe [p. 1577modifica]TERZO 1577
permesso di ritornare alla sua diocesi. La lettera
che il Sadoleto gli scrisse, congratulandosi della
dignità conferitagli (l. c. t. 3, p. 207), è un
bel monumento e dell’ alta stima ch’ egli faceane, e della costante amicizia che con lui
avea sempre serbata. Ma poco tempo potè godere il Fregoso del nuovo onore, e finì di vivete in Gubbio a’ 13 di luglio del 1541 onorato dal Sadoleto medesimo dell’ orazion funebre
già da noi accennata, da lui detta in Carpentras. e degli elogi che ne fece in diverse sue
lettere (ib. p. 281, 288, 290), fra le quali
è memorabile quella da lui scritta al pontefice
Paolo III, in cui a riempiere il luogo vacante
nel sacro collegio per la morte del Cardinal
Fregoso, propone il Cortese, come il più degno di occuparlo, testimonianza ugualmente
onorevole ad amendue que grand’ uomini, e al
Sadoleto che il lor merito sì saggiamente conobbe. Bella ancora è la lettera che il Bembo
scrisse a Leonora duchessa d’Urbino per consolarla nel grave rammarico che la morte del
cardinal Fregoso le avea recato (l. c p. 330).
Dopo le quali cose non vi sarà, io credo, chi
non si maravigli della franchezza con cui. il
Gerdesio ha ardito di annoverare il Fregoso
tra quegl’italiani che si mostraron favorevoli
alla pretesa riforma (Specimen Ital, reform.
p. 2<)2). Ala abbiam già veduto altre volte,
qual fede debbasi in ciò a questo scrittore.
VI. Benchè il Cardinal Fregoso niun frutto ci
abbia lasciato degli studi da lui fatti nella lingua ebraica, ei dovea però esser qui rammentato con distinzione pe’ molti vantaggi che da
Tiraboschi, Voi. XII. 27 [p. 1578modifica]i5;tí lib:.o
lui ebber le scienze e le lettere, e pel lustro che
loro accrebbe col coltivarle. Ora più brevemente,
diremo di altri che coll opere loro promossero
e agevolaron non poco lo studio delle lingue
medesime. E un de primi fu Felice da Prato
religioso agostiniano, e non già domenicano,
come hanno creduto Sisto da Siena e l Altamura, confutati da’PP. Quetifed Echard (Script.
Ord. Praed. t. 2, p. 340). Egli era natio di
Prato in Toscana, ed era stato da’ genitori
ebrei allevato nella lor religione. Convinto della
verità della Religion cristiana, l abbracciò, e
nella stessa sua patria entrò nelTOrdin suddetto prima del 1506, nel qual anno fu inviato
agli studi in Padova, come pruova il P. Gandolfi (De CC. Script Augustin.). Da Padova
passò Felice a Venezia, ove nel 1515 pubblicò
il Salterio da lui tradotto dall originale ebraico
nella lingua latina; la qual versione fu la prima
tra le moderne che venisse alla luce; e fu all'interprete di onor tanto più grande, quanto
più breve fu il tempo in essa impiegato; perciocchè in quindici giorni ei l’ebbe compiuta,
come si raccoglie da un distico ad essa premesso. Venuto frattanto a Venezia il celebre
stampatore Daniello Bomberg, si diè a scolaro
nella lingua ebraica a Felice, e con tale aiuto
potè nel 1518 pubblicare la sacra Scrittura in
quella lingua insiem co’ Comenti ebraici sulla
medesima riveduti e corretti dallo stesso Felice, che fu il primo a confrontare con parecchi codici il testo, e a notarne le varianti; la
qual edizione fu la prima di quella stamperia
(Wolf. Bibl. Hebr. t. 2, p. 365, 366) elio [p. 1579modifica]TERZO ^7^
divenne poi sì famosa -, e dalla prefazione che le
va innanzi, si trae che sol dopo il 1515 prese
il Bomberg sotto la direzione di Felice a studiar quella lingua, come osserva il ch. signor
dott Giambernardo Derossi (De hebr. Typograph. Orig. p. 78). Alcuni Rabbini si sollevarono contro di questa edizion della Bibbia, cercando di screditarla nè è a stupirne, perchè
dovette loro spiacere di vedere scoperti e confutati gli errori di cui essi aveano imbrattati
co’ lor comenti quei sacri libri. Felice passò
poscia a Roma, ov ebbe l’incarico di predicare agli Ebrei, e fu anche dalla sua Religione
inviato l’an 1522 in Ispagna al pontefice
Adriano VI, e morì finalmente in età di circa
cento anni nel 1558. Di altre versioni o di
tutta la Bibblia, o di parte della medesima, e
de’ dotti Italiani che ne furono autori, come
di Agostino Steuco, d’Isidoro Clario, di Sisto
da Siena, di Pietro Quirini, di Antonio Agellio, e di più altri, si è detto altrove e si è
ancor mentovata quella di Sante Pagnini, della
quale abbiam veduto quanto diversi sieno i giudizii degli eruditi. Ma di questo scrittore dobbiam qui ragionare di nuovo, perchè oltre quella
versione, ei ci diede e un ampio Lessico e
una diffusa Gramatica di quella lingua, il primo
in Lione nell an’1529, la seconda ivi nel 1526.
E di amendue si son poscia fatte altre edizioni. Egli era lucchese di patria, nato circa
il *47°j e ìn di sedici anni entrato nell'Ordine de’ Predicatori. Visse lungamente in
Lione, ove anche finì di vivere nel 1541 a 24
di agosto: e in quale stima egli vi fosse, quanto [p. 1580modifica]l58o LIBRO
piamente si adoperasse a giovamento spirituale
dei’ Fiorentini ch erano in quella città, e a tener da essa lontane le recenti eresie, con qual
onore gli fossero celebrate da que' cittadini solenni esequie, si può veder nelle testimonianze
degli scrittori di que' tempi, recate da’ PP. Quetif ed Echard (Script Ord. Praed. t 2, p. 1 1 \) y
i quali ancora ci danno più distinte notizie di
questo dottissimo uomo, e accennan la Vita
che ne scrisse Guglielmo Pagnini di lui parente,
stampata in Roma nel 1653, e annoverano esattamente tutte le opere da esso composte, eie
diverse loro edizioni. Tra più benemeriti della
lingua santa, fu ancora D. Marco Marini bresciano canonico regolare della Congregazione
di S. Salvadore, di cui non mi farò a scrivere
stesamente la Vita, poichè già l’abbiamo scritta
con molta esattezza ed eleganza dal P. abate
Gianluigi Mingarelli dello stesso Ordine, e premessa a’ Comenti letterali su i Salmi dello stesso
Marini, da lui la prima volta pubblicati in Bologna nel 1748 Del Marini abbiamo una Grammatica ebraica stampata in Basilea nel 1:180,
e un copioso Lessico, ch è in molta stima
presso gl'intendenti di quella lingua, intitolato
Arca Noe, pubblicato nel 1593, Il concetto con
cui egli era d'uomo in essa dottissimo, il fè
chiamare a Roma da Gregorio XIII che gli diè
rincarico di emendare i libri de’Rabbini, gli
assegnò un'annua pensione, e gli proferì ancora più vescovadi da lui sempre rifiutati; e
altre opere si apparecchiava egli a scrivere,
quando fu dalla morte rapito in Brescia nel 15<)4
in età di circa cinquanlatrè anni. A questi più [p. 1581modifica]TERZO 1581
illustri coltivatori della lingua ebraica possiamo
aggiugnerne alcuni altri men celebri, come Benedetto Falco, che nel 1520 pubblicò in Napoli un opuscolo De Origine hebraicarum, graecarum latinarumque Linguarum; Guglielmo de
Franchi, di cui si ha una Gramatica ebraica
stampata in Bergamo nel 1591; David de Pomis ebreo, che oltra la traduzione dell Ecclesiaste in lingua italiana, e qualche altra operetta spettante a medicina, diè ancora in luce
un Dizionario ebraico, latino e italiano stampato in Venezia nel 1587, e da lui dedicato
al pontefice Sisto V; Pellegrino degli Erri modenese, di cui si ha una traduzion dall’ebreo
in prosa italiana de Salmi di Davide con alcuni
comenti stampata in Venezia nel 1573, e dal
traduttor dedicata al conte Fulvio Raugone (a))
Francesco Giorgio dell' Ordine de’ Minori Osservanti, di cui parlato abbiam tra’filosofi, e
Arcangelo di Borgonuovo di lui scolaro dell'Ordine stesso, il quale però dal suo maestro
apprese più ad andare perduto dietro alle inutili cabalistiche speculazioni, che a giovarsi
con vantaggio del pubblico dello studio di quella
lingua (Mazzucch. Scritt. ital. t. 2, par. 3,
p. 1773, ec.); Fortunio Spira, il cui studio
della lingua medesima viene accennato in una
sua lettera ad esso scritta da Claudio Tolommei (Tolom. Lett. Ven. 1565, p. G5)j Niccolò
Scutelli agostiniano, di cui si ha alla stampa
una dissertazione De Masora sive Critica Hc(o) I)i Pellegrino degli Erri si posson veder notìzie
nelU biblioteca modenese (l. a, p. 264, ec.). [p. 1582modifica]158:5 unno
braeorum sacra, olire una traduzione dell’opera di Jamblico su’ Misterii egiziani stampata
in Roma nel 1556, e qualche altro lavoro di
somigliante argomento; e più altri che si potrebbono rammentare, se il già detto non provasse abbastanza che non furon lenti gl’ingegni italiani nel volgersi a coltivare quel difficil
linguaggio.
VII. Come nelle altre scienze, così ancor nelle
lingue orientali, e nell’ebraica principalmente,
ebbero gli Oltramontani alle loro università alcuni professori italiani colà rifugiatisi per seguire impunemente le nuove eresie. E due furon tra essi di più chiaro nome, Francesco
Stancati ed Emanuello Tremellio. Del primo,
che fu mantovano di patria, parla a lungo il
Bayle (Dict. art. Stancari), e dopo tutti gli altri scrittori della Storia ecclesiastica de’ Protestanti, anche il Gerdesio (Specimen Ital. re forni,
p. 337), il qual ne rammenta un trattato della
Riformazione da lui composto in lingua italiana,
mentr era ancora in Italia, dedicato a’ magistrati veneti, e stampato in Basilea nel 1547,
di cui non veggo che i nostri scrittori faccian
menzione. Egli era allora probabilmente nella
terra di Spilimbergo nel Friuli, ove sappiamo
che circa questo tempo ei fu professore di lingua ebraica nell’accademia che a coltivamento
di essa e della greca e della latina avea istituita Bernardino Partenio (Liruti, Notiz. de Letter. del Friuli, t. 2, p. 116). Lo scoprirsi, che
con ciò egli fece, seguace degli errori di Lutero, lo costrinse a prender la fuga, e andossene dapprima in Cracovia, ove fu professore [p. 1583modifica]TERZO i583
di lingua ebraica, quindi passò a Konigsberg
nella Prussia, indi di nuovo in Polonia. La sua
apostasia avrebbelo renduto caro a Protestanti,
sei non si fosse mostrato troppo amante di
novità, e non avesse sostenute tali opinioni,
E er cui da tutti gli eretici fu come eretico abborrito e confutato, e parecchi sinodi contro
di lui si raccolsero; ma inutilmente quanto a
farlo ravvedere dei suoi errori, ne’ quali, ostinato c odialo ugualmente da’ Cattolici e da
Protestanti, morì nel Le opere teologiche da lui composte si annoverano da’ sopraddetti scrittori. A me basterà fadditare la Gramática della lingua ebraica da lui scritta, e
stampata fin dal 1525, e poscia più altre volte. Più dotto ancora nella medesima lingua fu
Emanuello Tremellio ferrarese, di cui pure parla
stesamente il Gerdesio (l. c. p. 341). Egli era
figlio di padre ebreo, e per opera del cardinal
Polo e di Marcantonio Flaminio avea abbracciata la Religion cristiana. Il conversar ch'egli
fece in Ferrara e in Lucca con alcuni imbevuti delle recenti eresie, lo indusse a seguire
le loro opinioni: ed ei fu singolarmente sedotto
da Pier Martire Vermiglio, con cui trattennesi
per qualche tempo in Lucca nella canonica di
S. Fridiano, ove quegli era priore, e donde il
Tremellio gli tenne dietro, e fissò prima la sua
dimora in Argentina, indi a’ tempi di Edoardo VI
tragittò in Inghilterra; tornò poscia in Allemagna, e in Hornbach e in Heidelberga fu professore di lingua ebraica; passò poscia nel medesimo impiego a Metz, e di là a Sedan, ove
nel 1580, in età di circa scttanf anni, fio» di [p. 1584modifica]l584 LIBRO
vivere. Tulle le opere da lui pubblicate appartengono allo studio delle lingue orientali; e ne
abbiamo la Gramatica ebraica, e in oltre la
caldaica e la siriaca, un Catechismo in ebraico,
i Comenti sulla Profezia di Osea, la traduzione
latina della Versione siriaca del nuovo Testamento, che da’ teologi di Lovanio, fatto qualche leggier cambiamento, fu giudicata degna
della lor pubblica approvazione, e una nuova
versione del Testamento Vecchio sugli originali
ebraici da lui cominciata insieme con Francesco Giunio, da cui fu poi pubblicata nel 1584 5
intorno alle quali opere, oltre il Gerdesio, si
posson vedere le osservazioni delTeissier (Elog.
des Homm. sav. t. 1, p. 497; ec-)> e degli altri
scrittori da lui citati.
Vili. Più utile e più glorioso all’Italia fu l’imm piego de’ loro talenti nello studio di questa lingua, che fecero due altri Italiani chiamati dal
re Francesco I a Parigi, perchè ivi ne fossero
professori. Il primo fu Paolo Paradisi soprannomato Canossa, di patria veneziano (Sansovino, Venez. p. 592, ed. Ven. 1663), ebreo
di nascita, ma poi fatto cristiano. Non sappiam
quando passasse in Francia. Sappiamo solo ch’ei
fu in Parigi professore di lingua ebraica, e
che in essa istruì Margherita reina di Navarra
(V. Gaillard. Hist. de Francois 7, t. *j,p. 308 ec.).
Abbiamo di lui un Dialogo latino sul modo di
leggere in quella lingua, stampato in Parigi
nel 1534, innanzi al qual si trovano alcuni
versi latini da lui composti in lode della suddetta reina. L’altro fu Agacio Guidacerio calabrese, di cui parlano gli scrittori napoletani, [p. 1585modifica]TERZO 130J
e singolarmente il Tafuri (Scritt del Regno di
Nap. t 3, par. i, p. 653, ec.). A’tempi di
Leon X fu professore di lingua ebraica in 1 ionia,
ove avea raccolta una scelta e copiosa biblioteca di codici e di libri a quello studio opportuni. Il sacco di Roma fu a lui ancora,
come a tanti altri dotti, fatale, e fra mille pericoli a gran pena si rifugiò in Avignone, ove
dal vicelegato Giovanni Niccolai fu amorevolmente accolto. Passò indi a Parigi, ove si acquistò in stima de’ più dotti uomini di quella
città, e fu destinato pubblico professore della
lingua medesima (Gaillard. l. c p. 310, ec.).
Fin da quando egli era in Roma, avea ivi pubblicata una Gramatica ebraica dedicata a Leon X,
cui poscia migliorò ed accrebbe, e una nuova
edizione ne fece in Parigi nel 1539 Parecchi
Comenti innoltre pubblicò sulla sacra Scrittura,
de quali ci dà il catalogo, oltre i sopraccitati
scrittori, il P. de Long (Bibl. sacra, t. 2, p. 757).
Egli venne a morte in Parigi nel 1542, in età
di sessantacinque anni (Barrius, de Antiq. et
situ Calabr. l. 3, c. 20).
IX. Ma fra le lingue straniere quella che eccitò maggiormente l’ entusiasmo degl’ ingegni
italiani di questo secolo, fu la greca. Il soggiorno in Italia di tanti Greci tra noi rifugiati
dopo la rovina della lor patria, le cattedre di
quella lingua in tante città erette e ad essi assegnate, le opere dei loro antichi scrittori da
essi recate in Italia, pubblicate, comentate,
tradotte, ne stesero e propagarono talmente
lo studio, che era anzi disonor d ignorarla,
che onore il saperla. Si scorrano tutti i copi [p. 1586modifica]1586, LIBRO
di questo tomo, e appena s’incontrerà uom
celebre nella letteratura, che non fosse ben
istruito nel greco, e che non ne desse la pruova
col recare o in italiano o in latino qualche
scrittore di quella lingua. Anzi la cosa giunse
a tal segno, che parve quasi che la lingua latina fosse per soffrirne gran danno, e che corresse pericolo di venire dimenticata: Quoque
te veritas, scrive Bartolommeo Ricci in una sua
lettera a Giambattista Pigna (Riccii Op. t. 2,!
p. 377), parlando della lingua greca, cam lin~
guani altius radices egisse videbis. Haec enim
jampridem in Germaniam, in Galliam, atque
usque ad ultimas Gades penetravit In Italia
vero ita dominati ir, ut pene Latinam linguam
inde quoque dejecisse videatur. Si quidem in
ea complures reperiantur, qui ne verbum quidem Latinum proferre sciunt, cum Grucce op»
tirne scire existimentur. Non solo nelle più celebri università, ma in quelle città ancora che
non aveano un pubblico studio generale, erano
nondimeno maestri di quella lingua \ c noi già
ne abbiam veduto altrove, e ne vedremo in
questo capo medesimo diversi esempii. Qui basti accennare Venezia, ov era una cattedra di
lingua greca, e ove venendo a mancare chi
la occupava, solevasi bandire pubblicamente
che chi volea sottentrarvi, venisse a dar pubblico saggio del suo sapere. E una bella testimonianza di ciò abbiamo in una lettera di
Ambrogio Leone ad Erasmo, scritta in Venezia a’ 19 di luglio del 1518, la quale ci dà
una sì gloriosa idea dell universale fervore in
questo studi, ch’ ella merita di esser qui [p. 1587modifica]•l’Enzo ^ N
riferita: Scias, gli scriv egli (Erasmi Epist. t. 1,
ep. 3a4) » Senati 1 Eencto sancitimi esse,
atque etiam praeconio publicatum, eligendum
esse successorem Marco Musuro 1 qui pub lice
Graecas literas auditores doceat, stipendiumque centenorum atireorum decretimi. JS amque
statutum est tempus duorum mensium, quo competitores et nomina dent, et legendo et aperi ern lo Graecos auctores ostendant, qui viri
sint, et quantum lingua et ingenio polleant
Si quis ergo forte fuerit, qui per ista eli mata
nomine et scienlia Graerarum lite ramni claresceret, huic ipsi significato memoratum decretum... Ah haec nosti magnam auditorum
turbam, qui veluti pullicini sub glociente Musuro pipiebant: illorum non pauci jam pullastri
magni evaserunt, nec pipiunt, sed pipant et
cantillant; iidem magno animo sunt etiam adscendendi suggestum praeceptoris. Anche ne’
monasteri s’introdusse e si coltivò questo studio, e in quei’ singolarmente dell’ Ordine di
S. Benedetto, ove l’esempio e l’opera del Cortese, del Clario, del Borghini, del Folengo,
e di altri dottissimi uomini ne accese un gran
desiderio. Basti qui accennare ciò che della
Badia fiorentina racconta l’eruditissimo P. abate
Galletti, il quale co’ monumenti di essa dimostra che nel j 53*^, e ne' due anni seguenti
furono ad essa chiamati Francesco Zeffi, o
Zeffiro, e Francesco Verini, affinchè insegnassero a monaci quella lingua, com’ essi fecero
felicemente (Ragion, della Badia fiorent, p. 200).
Non è dunque a stupire se sì grande fu in
Italia la copia degli uomini in questa lingua [p. 1588modifica]1583 LIBRO
dottissimi, e se de’ loro studi sì gran frutti raccolser!' le lettere e le scienze. Chiunque prenderà
a scorrere la Biblioteca greca di Giannalberto
Fabrizio, ove si annoverano le versioni di tutti
gli antichi scrittori greci, vedrà che assai poche
furono le loro opere che in questo secolo non
fossero da qualche Italiano tradotte o in italiano, o in latino; e quanto alle versioni italiane, più ampie notizie ce ne somministrano
le Biblioteche de’ Volgarizzatori del P. Paitoni
e dell Argelati. Ma io invece di trattenermi nel
fare una stucchevole numerazione di traduzioni
e di edizioni, mi ristringerò a dire primieramente di alcuni Greci, che accolti e onorati
in Italia sul principio del secolo, molto contribuirono a promuover lo studio della lor lingua; quindi di alcuni tra' moltissimi Italiani
che o nell insegnarla nelle pubbliche scuole,
o co’ libri a illustrazione di essa dati alla luce,
si renderon più celebri.
Il.più rinomato per avventura fra Greci
fu Giovanni, o Giano, Lascari, che pel suo
sapere ugualmente che pe suoi onesti costumi, e pel suo raro senno fu a dotti non meno
che a’ grandi caro ed accetto. Di lui ha parlato
a lungo il Boernero (De doctis homin. graec.
p. 199, ec.), ma non in modo che molte cose
non si possano aggiugnere da lui ommesse. La
nobiltà della famiglia dalla quale egli scendeva, e le speranze che in età ancor giovanile
dava del suo ingegno, il fecero amorevolmente
accogliere dal Cardinal Bessarione, quando con
Teodoro suo padre, fuggendo dalle rovine
della patria, fu trasportato in Italia. Mandato [p. 1589modifica]TERZO 1:>fy)
all' università ili Padova, vi coltivò felicemente
con molta sua lode gli studi; passò indi presso
Lorenzo de’ Medici, da cui, come abbiamo
altrove veduto (t. 6, par. 1, p. 124), fu inviato in Grecia, affin di raccogliere gran copia
di codici per la celebre biblioteca da lui formata. Morto Lorenzo, e venuta a terra la potenza de’Medici, il Lascari fu dal re Carlo \ III
condotto in Francia, e vi stette più anni, favorito da quel monarca non meno che da Luigi XII
di lui successore. Guglielmo Budeo ebbe ivi la
sorte di conoscerlo, e ne ricevette non poco
aiuto per avanzarsi nello studio della lingua
greca da lui intrapreso, benchè il trovarsi il
Lascari quasi sempre col re lontan da Parigi,
ove il Budeo abitava, non gli permettesse Tesser
con lui sì sovente, come avrebbe bramato:
Praecipue colui, scriv egli stesso a Cutberto
Ti insta Ilo (Erasmi Epist. t. 1, ep. 249)« Joannem Lascarim vi rum Graecurn utraque lingua
pereruditum... Is quum omnia caussa mea
cuperet, non tamen magnopere juvare me potuit, quum ageret fere in comitatu Regis, multis
ab hac urbe, millibus distractus, et ego frequens
in urbe, raro in comitatu fuerim; fecit libens
id demum quod potuit, ut et nonnumquam
praesens mihi aliquid praelegeret, id quod vicies non contigit, et absens librorum scrinia
concederet, et penes me deponeret. Luigi XII
inviollo nel 1503 suo ambasciatore alla Repubblica veneta, nel qual impiego egli durò fino
al 1508; ed è probabile che la guerra che
l anno seguente si accese contro quella Repubblica, fosse il motivo per cui il Lascari dovette [p. 1590modifica]iSyO LIBRO
deporlo. Mentre egli era ambasciatore in Venezia
Giano Parrasio gli scrisse una lettera piena di
elogi, consultandolo sulla interpretazione di un
passo di Virgilio, nella quale egli allontanavasi
dal sentimento del Poliziano (Parrhas. de Quaesit. per Epist. ep. 1). Dal 1509 sino al 1513
non abbiamo sicuri riscontri di ciò che avvenisse del Lascari 5 ma è verisimile ch’ei si trattenesse privatamente in Venezia insegnando la
lingua greca. E forse a questo tempo appartiene ciò che scrive Germano Brissio ad Erasmo:
Memoriam refricemus consuetudinis illius atque
amicitiae veteris, quae nobiscum olmi Venetiis
intercessit dum ego sub Jano Lascare meo
(cum dico meo, praeceptorem et veluti parentem optimum intelligo) vix dum Latinis litteris
initiatus Graecis operam navate susciperem,
tu in aedibus Aldi, ec. (Erasmi Epist. l. c.
ep. 212). Appena Leone X fu eletto pontefice,
Giovanni che avealo già conosciuto quand’ era
presso Lorenzo de’ Medici, e che sapeva di
esserne amato, gli scrisse tosto per rallegrarsi
con lui, e al tempo medesimo si pose in viaggio per Roma, e la lettera che il Sadoleto in
nome di Leone gli scrisse (Sadol. Epist. Pontific. p. 2), fa ben conoscere che il Lascari
non era nelle sue speranze ingannato. In fatti
di lui si valse il pontefice per eseguire un disegno proprio della regia sua magnificenza j
perciocché, fatti venire a Roma molti giovani
nobili dalla Grecia, e aperto loro un collegio,
gli affidò al Lascari perchè li venisse istruendo
nella greca e nella latina letteratura, nel qual
tempo il Lascari, che già in Firenze avea fatta [p. 1591modifica]TERZO * 1
la magnifica edizione dell’Antologia greca, fece
in Roma venire in luce gli Scolii sull Iliade
d’Omero, le Quistioni Omeriche di Porfirio,
e altri Scolii antichi su sette Tragedie di Sofocle. Se non è corso errore in una data delle
Lettere dal) Bembo scritte a nome di Leon X,
il Lascari nell’ottobre del 1515 fece un viaggio
in Francia; e il pontefice accompagnollo con
sua lettera al re Francesco I, la quale contiene
un sì bell elogio di esso, ch’ io non posso
dispensarmi dal qui riportarla: Venit ad Te,
dic egli (Re rubi Epist pontif. l. 11, ep. 1),
Joannes Lascaris Constantinopolitanus observantissimus et stiuliosissirnus 'fui, w'r et genere
apud Graecos admodum illustri, et doctrinae
oplirnarum arti um ac literarum praestantia, et
agendis rebus experientia, et morum probitate, omnisque vitae comitate plane insignis. Eum
his tot tantisque de causis et amavi omni tempore, et in Pontificatu prope quotidie ita ejus
virtute sum usus, ut nemo illo mihi carior
sit, nemo jucundior. Neque solum nos, sed
universa domus nostra, atque in 'primis Laurentius pater meus, quotidiano prope in convictu illum habuit; hominisque familiaritate et
consuetudine mirifice est delectatus. Quarc grati ssi mum mihifece ris, ec. L'anno seguente però
era il Lascari di nuovo. in Roma, come ci
mostra una lettera dal Bembo scritta a nome
dello stesso Leone al procuratore del Cardinal
di Sion, in cui il prega a permettere, mentre
il cardinale è assente, che il Lascari abiti la
casa ch esso avea in Roma, ut ipse istic et
pulchcrrimarurn aedi um elegantia, et horlorutn [p. 1592modifica]l5t)2 LIBRO
amoenitate, et sylva viridissima suis cum libris
oblectare se se possit (ib. l. 13, ep. 19). L’an 1518, non si sa per qual ragione, il Lascari, abbandonata Roma, andossene in Francia
invitato da Francesco I; di che maravigliossi
in una sua lettera de’ 13 di dicembre dell’anno
stesso Erasmo (Erasmi Epist. t. 1, ep. 347),
il quale ancora scrivendo circa il tempo medesimo ad Arrigo Glareano, con lui si rallegra
che goda dell’amicizia del Lascari, di cui fa
grandi elogi (ib. ep. 361). Fu ivi carissimo al
re Francesco, da cui insiem col Budeo fu adoperato a formare la magnifica biblioteca ch’ egli
raccolse in Fontaineblau. Dal re medesimo fu
poscia di nuovo mandato suo ambasciatore a
Venezia, come afferma il Giraldi (De Poet.
suor. temp. dial. 2; Op. t. 2, p. 552), il quale
aggiugne che Paolo III essendo succeduto a
Clemente VII, invitò il Lascari con larghe promesse in Roma, ove infatti recossi, e ove poi
morì di podagra, alla quale era stato continuamente soggetto (Valer, de infeL Lit. p. 59),
non molto dopo, lasciando erede un suo figlio
di nome Angelo, il che ci mostra ch’egli morì
verso il 1535, essendo in età di presso a 110vant’ anni, secondo il Giovio (E log. Vir. liter.
ill. p. 21). Delle opere da lui pubblicate ci
dà in breve notizia il suddetto Giraldi, dicendo: Janus ergo, ut scitis, cum Graece et Latine doctus esset, reliquit epigrammata permulta
in utraque lingua, quorum pars minima Basileae excusa est cum libello excerpto ex Polybii historiis de mili da Romanorum, atque in
primis de Castrorum meratione, quam ipse ex [p. 1593modifica]I
TERZO
i5y3
Gracco in Latinum scrnioneni converte rat; edititi et Fiorenti ae primus Graecorum Epigrammatum Volumen literis antiquis excusum una
cum sua epistola eruditissima ad Petrum Medicen Laurentii filium; e soggiugne poscia che
il Lascari in ciò solo fu poco saggio, che un
epigramma scrisse e pubblicò contro Virgilio,
per cui molti in Roma scrisser contro di lui,
e scemaron la stima che ne avean formata.
Il Giovio riflettendo alle pochissime opere che
il Lascari pubblicò, lo accusa come uom pigro
e troppo amante dell’ozio; ma i viaggi e i
pubblici impieghi ne’ quali fu occupato, impedirono probabilmente il Lascari dal lasciarci
più copiosi monumenti del suo studio e del
suo ingegno. l)i alcune altre cose che di esso
ci son rimaste, e di qualche altra circostanza
della sua vita, ch’ io ho per brevità tralasciata, si potranno trovare più minute notizie presso
il Boernero; a cui io aggiugnerò che una lettera italiana se ne ha nella Raccolta del l’ino
(t. 2, p. 145).
XI. Scolaro del! Lascari fu Marco Musuro,
natio di Creta, di cui pure ha diligentemente
scritto il Boernero (l. c. p. 219, ec.). Da lui
fu istruito nella greca e latina letteratura, poichè in amendue era eccellente il Lascari, e in
amendue forse ancora più che il maestro si segnalò il Musuro. Dal 1503 fino al 1509 fu
professore di lingua greca nella università di Padova, ma con assai tenue stipendio, che non
giunse sul fine che a 140 ducati (Facciol. Fasti; pars 1, p. 55); e Erasmo, che di quel
tempo fu in Padova, e da cui il Musuro è detto
ilHABOSCHI, Voi. XII. 28 [p. 1594modifica]Latinae linguae usque ad miraculum doctus, quod vix ulli Graeco contigit... deinde totius Philosophiae non tantum studiosissimus (Epist. t. 1, ep. 671), afferma che in tutto il corso dell'anno, appena quattro giorni passavano in cui egli non tenesse scuola. Quando
la guerra costrinse quella università a disciogliersi, il Musuro tornò a Venezia, ove tenne
per più anni pubblica, scuola di lingua greca
con grande concorso e con gran Frutto de suoi
uditori, come abbiam poc’ anzi osservato, e
come si afferma ancor dal Giraldi (l. c.p. 553,
al qual dice ch era ammirabile l’erudizion del
Musuro nel confrontare tra loro gli autori greci
e latini, e che molti dottissimi uomini uscirono da quella scuola. Al tempo medesimo ei
fu di grande ajuto ad Aldo Manuzio nelle belle
edizioni che questi andava pubblicando de'
greci scrittori, molti de’quali corretti furono
dal Musuro, a molti aggiunse o prefazione o
epigrammi, come si può vedere dall’ enumerazione che ne fa il Boernero. Verso il 1517
Leone X, per opera di Alberto Pio e del La»
scari, chiamollo a Roma, e gli conferì l’ arcivescovado di Malvasia) e abbiamo una lettera scrittagli da Londra da Niccolò Sagondino
a 22 di aprile del 1517, nella quale con lui rallegrasi di questa sua dignità (Erasmi Epist.
t. 2, Append. ep. 130). Ma poco tempo ne
potè egli godere, perciocchè nell autunno deianno stesso, in età ancor immatura, venne
a morte. Il Valeriano (De Literat. infel. l. 1,
p. 11) e il Giovio (l. c. p. 20), troppo facili nell’ adottare i rumor popolari, affermano [p. 1595modifica]TERZO 15()5
clic il doloro di non vedersi onorato della porpora, a cui aspirava, lo condusse al sepolcro.
Ma il Giraldi ci assicura che fu questa una
voce calunniosamente sparsa dagli emuli del
Musuro, che nulla trovando in lui a riprendere, vollero oscurarne la gloria col dipingerlo
stranamente ambizioso. Questi ci ha ancor lasciata memoria delle poche opere da esso composte: Scripsit Epigrammata multa, quorum aliqua sunt edita; legitur et libeUus scu Encomiati
in Platone m Graece elegiaco cannine t/oc fissitue
concinnatum. Delle quali cose più minutamente
ragiona il Boernero, il quale ancora rammenta
gli onorevoli elogi che ne han fatto i più eruditi uomini di quell’ età; a quali si può aggiugnere quello di Bartolommeo Ricci che in una
sua lettera narra quanto amorevolmente lo accogliesse in Venezia nel 1513 il Musuro, a cui
Andrea Navagero avealo raccomandato (Riccii
Op. t 2, p. 229). Di lui ancora si ha una
lettera italiana nella Raccolta del Pino (l. c.),
ove però si dee corregger la data, perciocchè
essa è segnata i5oi, c il Musuro vi si sottoscrive col titolo di arcivescovo, il che non
accadde che sedici anni appresso.
X1T. Di molti altri Greci che negli ultimi anni
del secol precedente fin verso alla metà di quello \
di cui scriv ¡amo, furono pel lor sapere onorevolmente accolti in Italia, fa menzione il suddetto
Giraldi (l. c. p. 551), e io ridurrò in breve le
notizie ch’ ei ce ne somministra. Demetrio Mosco figliuol di Giovanni fu lungamente in Ferrara
presso i Rangoni, e alla Mirandola presso i Pichi, e in Mantova ancora e in Venezia ebbe [p. 1596modifica]15<j6 LIBRO
parecchi discepoli, scrisse molte poesie ed alcune orazioni, e pubblicò un poema sopra Elena
di cui il Giraldi dice gran lodi. Arsenio vescovo
di Monembasia, dice il Giraldi, ossia Malvasia
fu in Venezia e in Roma a’ tempi di Leone X
coltivò la poesia latina, e offri al pontefice un
libro da lui intrecciato co’ detti di varii autori
in prosa e in verso. Giorgio Balsamone, greco
egli ancora, visse lungamente e fino alla morte
tra’ famigliari del Cardinal Salviati, e se ne
leggono alcune poesie ed altre cose in prosa
Soggiugne poscia il Giraldi alcuni che ancor viveano j cioè Antonio Ipparco dell isola di Corfù, che dopo essere stato per qualche tempo
professore di lingua greca in Venezia, era tornato alla patria; Matteo Avario natio della
stessa isola, scolaro del Lascari, uomo assai
letterato, che insieme con un altro Greco detto
Costantino stava in corte del Cardinal Niccolò
Ridolfi; Niccolò Nesiota, che stava in Italia
studiando la lingua latina e la filosofia, e in
cui il Giraldi desiderava pietà e religione alquanto maggiore che non mostrava finalmente
Antonio e Zaccaria Colloergi, e Giovanni Casimatio giovane di grandi speranze, e nipote
di Francesco Porto, di cui tra poco diremo.
A questi possiamo aggiungnere Michele Sofia no,
figlio forse o nipote di quel Sofiano di cui abbiamo detto altrove, che o alla fine del secolo precedente, o al principio di questo teneva scuola
di greco in Roma (t. 6, par. 2, p. 749). Tra
le lettere italiane di Paolo Manuzio una ne abbiamo a lui scritta nel 1555, nella qual gli dà
avviso che il Pantagato aveagli chiesto ove [p. 1597modifica]TEltfO li>97
fosse, e che parea disposto a cercargli qualche
utile impiego, ma che gli avea risposto che
Michele voleva allora continuare i suoi filosofici
studi (Lett. p. 80). A lui ancor più onorevole
è una lettera latina, scrittagli dallo stesso Manuzio, in cui, dopo avergli spiegato il dispiacer
che gli avea recato l’udire che un zio materno
di esso era caduto in man de corsari, lo esorta
a moderare alquanto il troppo fervido studio,
per cui era poc’anzi caduto infermo, e quindi
soggiugne: Cui porro ignota est vcl ingeriii fui,
vel memorine prue stantia, qui bus non modo ut
emineres in lingua Graeca, id quod omnesfatentar, sed ut quacumque re proposita peritissime disputes, facile consecutus es? Itaque
jure expetitur a nobilissimis viris amicitia et.
consuetudo tua, jure te dilingunt ac laudant,
quicumque Patavino Gymnasio doctrinis liberalibus excellunt (Epist punii. I. \, cp. \ \).
Paolo Gualdo della Vita del celebre Gianvincenzo
Pinelli annovera Michele Sofiano come il primo
tra letterati ch’egli si tenne in casa, e da lui
dice che apprese la singolar perizia ch'ebbe
nel greco. Io credo perciò, che questo Michele
sia lo stesso che quel Giovanni Sofiano di
cui Pier Vettori in una sua lettera scrive di
aver intesa la morte dal suddetto Pinelli, lo
dice nato in Grecia, ne loda altamente i costumi, il sapere, l'ingegno, per cui gran perdita nella morte di esso avean fatta le lettere;
e aggiugne ch’era stato pregato Benedetto Varchi a scriver qualche cosa in lode del Sofiano,
ma ch'egli ancora circa quel tempo stesso era
morto d apoplesia (Victor. Epist. l. 5. p. 127). [p. 1598modifica]1598 libro
La lettera non ha data. Ma come il Varchi
morì nel i5(>5, così deesi credere che nell’anno
stesso morisse il Soliano.
XIII. I due ultimi Greci de quali dobbiam
far menzione, se ebber fama d’uomini dotti
la oscuraron non poco colla loro incostanza
riguardo alla religione e co’ loro non troppo
saggi costumi. Parlo di Francesco Porto e di
Massimo Margnnio, amen due cretesi, e tali
amendue che confermarono colla lor condotta
la taccia anticamente data a quell’isola. Da alcune lettere del Margunio e dai’ monumenti dell università di Padova raccoglie il Papadopoli
(Hist. Gymn. patav. t. 2, p. 238) che Francesco Porto, rimasto orfano e povero in età
fanciullesca, fu da Giorgio Calloergo condotto
a Venezia, e indi mandato a Padova, ove
per sei anni attese agli studi dell’ amena letteratura, e che tornato poscia a Venezia, nella
scuola de’ Greci, che era allora a S. Antonio,
nella lor lingua fece sì felici progressi, che
dallo stesso Margunio, il quale ivi a quel tempo
vivea, fu creduto il più dotto tra tutti i Greci.
Siegue poscia il Papadopoli raccontando che il
Porto, dopo essere stato un anno direttore di
quella scuola, non potè ottenere di esser confermato in quell’onorevole impiego, perchè essendo uomo mordace e pungente nel favellare,
ardiva di deridere ancora le cose sacre, e non
vivea con quella onestà che in lui si bramava:
che perciò determinossi ad andarsene in Francia, e che giunto nel viaggio a Ferrara, fu ivi
onorevolmente trattenuto dalla duchessa Renata.
Ma qualunque fosse il motivo per cui il Porlo [p. 1599modifica]TERZO * 5‘)9
uscì da Venezia, è certo ch'egli prima che in
Ferrara, fu per alcuni anni in Modena. Era questa città amantissima della greca letteratura, e
abbiamo altrove veduto (l. 1, c. 4- n- 1 ^) c^,e
Giovanni Grillenzone avea operato in modo che
un certo Marcantonio da Crotone ne tenesse
ivi pubblica scuola: e che poscia pel medesimo
fine fu qua condotto il Porto, il che, secondo
il Muratori (Vita del Castelvetro, p. 6), accadde verso il 1537, e più precisamente nella
Cronaca ms. del Lancellotto si fissa la prima
lezione da lui tenuta nel palazzo della Comunità al primo di febbraio del 1536. Il medesimo
Muratori racconta che quando fu proposta a
sottoscriversi la Formola della Fede, di cui abbiamo a suo luogo parlato, il Porto era assente,
e che sospettossi ch ei fosse partito per 110:1
sottoscriverla; che volendo poscia tornare, si
ebbe qualche difficoltà in riceverlo: ma che
avendo egli ancor sottoscritto, ottenne di rientrare nel suo impiego. Noi abbiamo già avvertito che tra’ sottoscritti a quella Formola nel
primo di settembre del 1542, in cui celebrossi
quell’ adunanza, trovasi sottoscritto Francesco
Greco, e che perciò può nascere qualche dubbio su questa assenza del Porto. Ma l accennata Cronaca ci ha poi fatto conoscere che il
Porto assentossi veramente da Modena per non
sottoscrivere; e che solo alcuni giorni dopo la
sottoscrizione degli altri, tornato a Modena,
fu non senza difficoltà ammesso a sottoscrivere
esso ancora, e riabilitato a ripigliare le sue
lezioni. Da Modena passò il Porto a Ferrara
nel 1546, nel qual anno abbiamo nel precedente [p. 1600modifica]l6oO LIBRO
capo osservato che qui gli fu dato a successore il Sigonio. In Ferrara ottenne il Porto
la grazia e il favore della duchessa Renata, da
cui fu dichiarato suo domestico e famigliare
(Girald. de Poetis suor. temp. dial 1; Op. t. 2,1
p. 521), e dato per maestro alle sue figlie,J
come ci narra Ortensio Landi (Cataloghi, p. 563) ]
e fu insieme in altissima stima presso gli uomini
dotti eli*erano allora in quella città, come raccogliesi e dall’introdurlo che fa il Giraldi tra
gl’interlocutori ne’Dialoghi de’Poeti de tempi
suoi, e dagli onorevoli elogi con cui molti ne
parlano, tra quali abbiamo un’ Oda in onor
di esso composta da Giambattista Pigna (Carmin. l. 1, p. 8). Fu ivi ascritto all Accademia
de Filareti, e il Lollio accenna (Oraz. della
Lingua tosc.) un orazione da lui recitata in
lode della lingua greca. Abbiamo una lettera a
lui scritta da Paolo Manuzio, in cui gli dice
che procurerà, come il Porto bramava, di
trovar maestri opportuni a istruirne i figliuoli
(Manuz. Lett. p. 43); e tra essi uno n ebbe
infatti Francesco, cioè Emilio Porto, che fu
uomo assai dotto, professore di greco in Losanna e in Heidelberga, e autore della traduzion
di Suida e di alcuni altri scrittori greci. Un’altra
lettera del Manuzio allo stesso Porto ci mostra
che nel maggio del 1554 era il Porto passato
a soggiornare nel Friuli, ove con lui si congratula che sia per trovare stanza più tranquilla
a suoi studi (ivi, p. 70). Ed è probabile che
la ragione di tal partenza fosse il dichiararsi che
il Porto avea fatto, seguace dell’eresia di Calvino, incautamente abbracciata dalla duchessa [p. 1601modifica]TERZO 1 60 1
Renata, alla quale appunto in quell’anno il duca
Ercole II di lei marito tolse dal fianco tutti coloro che ne fomentavan gli errori. Quando questa principessa, morto nel 1559 il marito, tornossene in Francia, anche il Porto uscì dall Italia,
e per ritirarsi in luogo ove non potesse essere
molestato, fissò la sua stanza in Ginevra, ove
visse fino al 1581, nel qual anno morì contandone egli settanta di età (Thuani Hist
ad an. 1581). Il Papadopoli e più altri scrittori riferiscono l’epitafio in versi elegiaci in
onor di esso composto da Teodoro Beza, e
annoverano le opere da lui date alla luce, che
sono per lo più traduzioni in lingua latina, e
Comenti di autori greci, oltre alcuni epigrammi
ed alcune orazioni. In questa biblioteca Estense
conservansi innoltre altre opere mss. del Porto,
cioè Comenti sull Olintiache e su alcune delle
Filippiche ed altre orazioni di Demostene, su
due Tragedie di Sofocle, ec. (*). Quando egli
partì da Modena, non s'intermise perciò lo
studio della lingua greca; e oltre il Sigonio,
che gli succedette, pochi anni appresso essendo
stato chiamato a questa città dal conte Ercole Rangone Lazzaro Labadino natio di Piacenza {a), perchè istruisse nelle lettere greche
(*) Due lettere di Francesco Porto allo storico iiasparo Sardi, scritte da Consamlolo nel Ferrarese a’ 17
e a’ a? d agosto del i54p, conservami in questo ducale archivio, le quali però nou ci ofTrono alcuna particolar circostanza della vita di esso.
(a) Di Lazzaro Labadino, che fu poscia per più anni
professore rinomatissimo di belle lettere in Modena, si
è parlato lungamente nella Biblioteca modenese (t. 3,
p. 54, ec.). [p. 1602modifica]i (>02 Lir.no
c- latine i conti Alessandro, Venceslao ed Ugo
suoi figli, egli a più altri nobili giovani ne tenne
scuola, e fra essi annovera il Panini, dalla cui
Cronaca ms. io ho tratte queste notizie, Aurelio
figlio di Agostino Bellincini, Giulio Monlecuc*
coli, Paolo e Servilio Grillenzoni fratelli. Ercole
e Giambattista Pazzani, a’ quali deesi aggiugnere
il celebre Alessandro Tassoni, che di questo suo
maestro fece menzione nella sua Secchia rapita
(c. 3, st. 3o).
XIV. Di Massimo Margunio, dopo altri scrittori, ci ha date assai esatte notizie il ch. dott Giovanni Lami, il quale molte Epistole inedite ne ha pubblicate nel 1740 Manuello fu il
nome ch’ egli ebbe al battesimo. Dall’ isola di
Creta, ov era nato, venne circa il 1547 a Venezia, e indi a Padova, ove per quattro anni si
venne istruendo nella letteratura, nella filosofia
e anche nella teologia di Scoto. Tornato a Venezia, e trovandosi ricco per l’eredità paterna
allora raccolta, vi aprì una stamperia greca, e
vi pubblicò molti libri. Ma l’incendio che consumò e distrusse la celebre libreria di S. Antonio, fu anche alla stamperia del Margunio
fatale; ed egli si vide ridotto a una strema
povertà. Cercò ad essa sollievo col tornarsene
in Grecia, e farsi monaco, nella qual occasione
cambiò il nome di Manuello in quello di Alassimo, c ciò avvenne tra l 1575 e ’l 1578. Ivi
occupossi negli studi teologici, e lusingandosi
di conciliare la Chiesa greca colla latina, o, a
dir meglio, sperando con tal pretesto di ottenere qualche onorevole stabilimento in Roma,
scrisse alcuni libri sulla Processione dello Spirito [p. 1603modifica]TERZO l6o3
Santo, ih*1 quali pretendeva di additare una
via con cui soddisfare ad amendue le parti.
Venuto con essi a Roma negli ultimi anni di
Gregorio XIII, i libri furono soggettati all’esame
de’ cardinali Santorio, Laureo e Vallero; e il
Margunio frattanto verso il 1585 fu fatto vescovo di Citera, ed ebbe dallo stesso pontefice
una annual provvisione. L'esame andò prolungandosi fino a’ tempi di Sisto V. Questi cominciò a sospettar nel Margunio animo poco sincero, e gli ordinò che innanzi a ogni cosa facesse
la profession della Fede, minacciandogli altrimente la prigionia, e privandolo frattanto dello
stipendio da Gregorio assegnatogli. Il Margunio, che non volea venire a quest’atto, fuggissene segretamente, e giunto a Venezia, navigò
in Grecia, ove ora in Costantinopoli, ora nel
suo vescovado, ora in patria, passò più anni,
benchè pur tornasse per qualche tempo di
nuovo a Venezia e a Padova. Finì di vivere in
patria nel i(»o2, in età di presso a ottani anni.
Il catalogo delle opere da lui composte si ha
presso il sopraccitato dott Lami e presso il
Papadopoli (Hist Gymn. patav. t. 2, p. a(>4),
e presso il Bayle (Dict. art. Margunius), nè
io debbo trattenermi in parlarne a lungo, trattandosi d’ uomo che solo pel soggiorno di alcuni anni appartiene all' Italia, e perciò ancora
io non ho fatte più minute ricerche sulla vita
e sulle vicende di questo Greco. Troppo grande
è il numero de’nostri Italiani, de’quali io debbo
parlare, perchè mi sia lecito l’occuparmi molto
nel favellare degli stranieri. [p. 1604modifica]l6o4 LIBRO
XV. Al tempo medesimo in fatti in cui i
Greci già mentovati andavano sempre più felicemente propagando in Italia lo studio della
greca letteratura, molti Italiani e col pubblicar
le opere con cui facilitare la cognizione di quella
lingua, e coll insegnarla dalle pubbliche cattedre, gareggiarono in ciò co’medesimi Greci, e
talvolta ancora li superarono. Tra essi fu un de’
primi Guarino natio di Favera presso Camerino
il quale perciò, secondo l’uso introdotto a que’
tempi da Pomponio Leto, si appellò Varino
Favorino, e talvolta Varino Camerte. Fu scolaro in Firenze del Poliziano e di Giovanni Lascari; e il primo singolarmente lo amò assai
pel raro) talento che in lui scorse, e ne parlò
con onorevoli elogi in più occasioni, e principalmente in una lettera a Maccario Muzio concittadino del Favorino: Varinus Ci vis tana,
auditor meus, ad summum linguae utriusque
fastigi tini pieno gradu contendit, sic ut inter
doctos jam conspicuus digito monstretur (Op.
ed. Ltigd. i53(}, t. 1, p. 198). Conosciuto da
Lorenzo de’ Medici il valore del Favorino, il
diè per maestro a Giovanni suo figlio, che fu
poi Leon X; ed egli ebbe ancora la soprantendenza alla biblioteca di quella illustre famiglia.
Entrò nella Congregazione silvestrina nell' Ordine di S. Benedetto, e fra la quiete del chiostro attese a scrivere le sue opere. La prima
di esse fu quella intitolata Thesaurus Cornucopiae et Horti Adonidis, stampata da Aldo
nel i4()f>> opera nella quale egli fu ajutato da
Carlo Antinori fiorentino, uomo assai dotto [p. 1605modifica]TERZO i6o5
nel ìjicco, «lai Poliziano suo maestro, e da quel
frate Urbano di cui ora diremo, e nella quale
ei raccolse in ordine alfabetico tutti i precetti
grammaticali tratti dagli antichi gramatici greci,
e che perciò fu lodata da tutti i più eruditi
nella greca letteratura, molti de’ quali ancora
ne fecero uso ne' libri loro. La seconda fu una
traduzione di Apoftegmi da lui raccolti da molti
scrittori greci, e stampata la prima volta in
Roma nel 1517, e poscia altre volte. L'ultima
e la più celebre fu il suo copiosissimo Dizionario
greco, pubblicato dapprima in Roma nel 1523,
e indi molte altre volte dato di nuovo alla luce,
e anche in questo secolo, cioè nel 17 1 a? ristampato, della (qual edizione si parla nel Giornale de’ Letterati d’Italia (t 19, p. 89), e a
questa occasione si danno ivi esatte notizie
della vita e dell’opere del Favorino da me qui
compendiosamente ristrette. Il primo Lessico
greco che si fosse veduto in Italia, era stato
quello di Giovanni Crestone, di cui si è detto
a suo luogo (t. 6, par. 3). Ma esso, come suole
avvenire de primi saggi, era scarso e mancante, e perciò quello del Favorino fu avuto in
conto del primo che uscisse in pubblico, e lodato molto da’ dotti, come si può vedere dalle
loro testimonianze raccolte nel suddetto Giornale, benchè pure sia vero che anche in questo Dizionario sien corsi non pochi errori, nè
era allor possibile Pevitarli nell'immensa fatica
che una tal opera seco portava. Il Favorino in
premio di questi suoi studi fu prima fatto arciprete di Caldarola nel ducato di Camerino,
poscia nel 1514 vescovo di Nocera, la qual [p. 1606modifica]iGoG LIBRO
chiesa egli resse con molto zelo e con molto
vantaggio di essa fino alla morte, da cui (fu,
rapito in età molto avanzata verso l aprile
del 15H7.
XVI. Circa il medesimo tempo in cui il Favorino stavasi compilando il primo copioso Lessico della lingua greca, f Urbano Valeriano
Bolzano da Belluno diede alla luce la prima
grama dea di quella lingua che si vedesse scritta
in latino (a). Era egli zio paterno di Giampierio Valeriano, di cui si è detto nel primo capo
di questo libro, e al nipote siam debitori delle
notizie rimasteci del dotto zio, perché io non
lio veduta l’orazion funebre recitatagli nel
clic si accenna dal P. degli Agostini (Scritt.
venez. t. i, pref. p. 44)- Ei nacque verso il 144° j
perciocché vedremo che avea circa ottanlaquuttro anni quando finì di vivere nel detto auno,
(a) Monsig. Lucio Doglioni canonico di Belluno, noto
già per altre erudite sue opere, ci ha data nel 1784
una nuova ed esatta Vita di Urbano Bolzano. In essa
egli mostra che, benchè con questo cognome ancora
egli venga talvolta nelle carte segnato, fu veramente
della famiglia delle Fosse; e ch’ei nacque nel 14 f > »
poiché f iscnzion sepolcrale che ne segna esattamente
non sol gli anni, ma i mesi ancora e i giorni di vita,
lo dice morto in età di ottantun anni, e non di ottantaquattro, come altrove all'erma Giampierio di lui nipote; esamina diligentemente l epoche di tutti i viaggi
da Urbano fatti, in un solo de’ quali fu compagno di
Andrea Gritti; osserva che Urbano dopo la seconda edizione della sua gramatica, l’ampliò assai più, conducendola a nove libri, benchè ei non avesse il contento
di vederla così pubblicata, poichè non uscì alla luce
che nel e ei dà altre pregevoli notizie intorno a
questo benemerito illustratore della lingua greca. [p. 1607modifica]TERZO 1G07
e,l entrò essendo ancor giovinetto nell’Ordine
,de Minori. Ei si può annoverare tra’ più celebri viaggiatori che avesse l'Italia. Perciocchè
egli corse tutto l’Egitto, la Palestina, la Soria,
l’Arabia, la Grecia, la Tracia; e ciò sempre a
piedi; i quali viaggi probabilmente furon da lui
intrapresi all’occasione dell’accompagnar ch’egli fece a Costantinopoli Andrea Gritti (Valerian. de infelic. Litterat t. 2, p. 100, ec.), che
fu poi doge. Nè era già egli un viaggiator frettoloso e spensierato che non traesse frutto alcun dai’suoi viaggi; anzi ogni cosa diligentemente osservava, non perdonando a fatica, e
superando qualunque difficoltà. Due volte salì
fin sulla più erta cima del Mongibello in Sicilia, e dall’orlo di quella vasta voragine ne osservò la profonda apertura (ib.). Benchè in età
già avanzata, faceva ogni anno qualche viaggio or per Tuna or per l’altra provincia d*Ilalia, e senza mai salire a cavallo, trattone per
alcune miglia, quando andossene a Roma per
la sassosa via di Assisi, affin di baciare i piedi
al pontefice Leon X (ib). Di questi suoi viaggi
fa menzione egli stesso nella prefazione all'edizione della sua Gramatica greca, fatta nel 1512.
Anzi aveane egli scritto l’Itinerario, in cui avea
esattamente notate le cose più memorabili da
sè vedute, e singolarmente i monumenti antichi: Opportune vero, dice Giampierio (Antiq.
bellun. serm. 4, p. 107), mihi prae manibus est
Urbani U alenarli palmi tnei Itinerarium. qui
quocumque se contulen't totius antiquitatis vir
studiosissimus, nihil usquam quod ad rerum memoriam faceret, quin cxcerperei, describerctque, [p. 1608modifica]1608 Linno
practcrmisìt; e reca un1 iscrizione da lui copiata in Milano. A lui dedicò il nipote il li.
bro trentesimoterzo de’suoi Geroglifici, e nella
dedica fa di nuovo menzione de’ lunghi viaggi
del zio, e dell’osservare che sempre avea fatto
con diligenza tutte le antichità; e ricorda un
erudito colloquio da lui tenuto su queste materie con Daniello Rainieri, con Niccolò Leoniceno, con Leonico Tomeo, e con lui egli confessa ancora di avere ereditato da questo suo
zio l’amore e lo studio delle antiche medaglie,
del quale parlando, Idem propemodum studi ut
dice (in Nuncup. l. 46 Hierog.), ab Urbano
patruo meo erat mihi quodammodo haereditarium, qui cum magnam orbis partem pererrasset, multorumque nosset ho mimmi mores, de
peregrinationibus suis /.Egyptiis, Arabicis, Palaestinis semper habebat novi aliquid, quod
scitu dignum et utile communicaret mecum.
Molte altre memorie ci ha lasciate Giampierio
delle religiose virtù di cui era adorno F. Urbano, dicendo (De Literat. infel. l. c) ch’ei
non volle serbar mai un soldo a suo uso; che
nè chiedeva mai alcuna mercede da’ suoi discepoli, nè mai l’accettava, offertagli spontaneamente, se non in rarissime occasioni; che
fu sempre amantissimo della regolare osservanza, e sofferente di que’ non lievi disagi ch’essa
seco portava; che ricusò sempre le dignità e
gli onori che pur avrebbe potuto avere, singolarmente da Leon X, e che a grande stento
accettò una volta di esser guardiano del suo convento, e presto ancora depose volontariamente
quel carico a lui troppo grave; che sostenne [p. 1609modifica]TERZO 1 (KH)
c0n ammirabile alacrità gl*incomodi della vecchiezza, e la mancanza di molte cose che gli
sarebbono state allor necessarie j e finalmente
così ne descrive la morte: Quin et moriens
vultu ridibundo verbisque pie u tuli s, quasi placidissimo somno se dederet occubuit quartum
circiter et octogesimum annum natus, Pontificatus Clementis VII anno primo. Inoffensa per
tot labores valetudine semper usus est, nisi
quod superioribus annis, dum hortuli sui arbores ipsemet reconcinnabat, fallente scalarum
lubricitate cor me rat, et crure aliquantulum laeso ad longinquas illas peregri nati otte s non ampli us idoneus fuit. In Venezia avea passato Urbano quasi tutto il tempo della sua vita istruendo
nel greco tutti coloro che in gran numero a
lui venivano: e quasi tutti quelli che ivi erano
in quella lingua ben istruiti, erano stati di lui
discepoli (ib.). Egli ebbe tra suoi scolari anche Giannantonio Flaminio, come questi confessa in una sua lettera del 1495 a Jacopo
Antiquario (J. A. Flamin. Epist. l. 3, ep. 4),
ove Urbano è da lui detto Urbanus Bellunensis vir optimus, vitae. ac inorimi integri tate inter Minoritas venerali i lis, latine graeceque doctissimus. Ei fu ancora per qualche tempo
maestro di Giovanni de Medici, che fu poi
Leon X, come afferma il nipote nei passi da
me citati, e anche nella dedica delle sue poesie latine alla reina Caterina dei.Medici. Il desiderio di promuovere non sol colla voce, ma
ancor colla penna lo studio del greco, gli fece
formar l’idea di scrivere latinamente una Gramatica greca, cosa da niuno ancora tentata,
Tirabo.sem, Voi. XII.. ac) [p. 1610modifica]Itili» LI BllO
perciocché quella di Costantino Lascari, slam,
pata in Milano nel 1476, era scritta in greco.
Ei ne fece la prima edizione nel 1496, ed ella
divenne presto sì rara, che Erasmo sin da que
tempi si dolse di non poterne ritrovar copia
(V. Maitt. Ann. typ. t. 1). Ei poscia la accrebbe di molto, e nel 1512 ne diè una seconda edizione, dietro alla quale ne vennero
altre; e benchè ora ella non sia più in uso,
non è però un leggier pregio l esser questa
stata la prima Gramatica che venisse alla luce,
e l’avere servito di norma a quelle che furon
poi pubblicate, tra le quali in questo secolo
veggo annoverarsi quella di Cornelio Donzellini bresciano, stampata in Basilea nel 1551
(Quirin, de Liter. brix. t. 2, p. 71), e io ad
essa aggiungeronne un’altra stampata in Venezia nel 1549, per istruire non solo nella lingua
greca antica, ma ancora nella volgare moderna, intitolata: Corona preziosa, la (quale insegna la lingua volgare et li iterale, et la lingua
Latina, et il volgare Italico, ec.
XVII. Assai diverso è il carattere che di un
altro professore di lingua greca ci fanno gli
scrittori di que’ tempi, cioè di Pietro Alcionio,
di cui sarebbe necessario il dir lungamente,
se già non ne avesse con molta esattezza parlato il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 1,
p. 376, ec.), delle cui notizie ci varremo qui
in breve, aggiugnendo sol qualche cosa a lui
per avventura sfuggita. Ebbe a patria Venezia,
ove da ignobili e poveri genitori nacque sulla
fine del secolo xv. E io sospetto che il cognome di Alcionio non fosse quello di sua [p. 1611modifica]TERZO l6ll
famiglia, ma da lui preso per affettazione di
antichità. Lo studio delle lingue latina e greca
formò la principale occupazione degli anni suoi
giovanili; che quanto a quello dell’arte medica, che il conte. Mazzucchelli vi aggiugne, esso
non ha altra testimonianza che un racconto di
Paolo Manuzio, a cui accenneremo tra poco
(qual fede si debba. La povertà lo costrinse a
prender l’impiego di correttor delle stampe j
ina sperò di averne un altro più utile e più
onorevole, quando vacata nel i5iy la cattedra
di lingua greca, sostenuta finallor dal Musuro,
l’Alcionio fu tra coloro che concorsero per ottenerla. Ma ei non fu il trascelto. Era però
egli, benchè assai giovane, avuto in conto di
uno de più dotti che fossero in amendue le
lingue. Ecco come ne scrive Ambrogio Leone
in una lettera ad Erasmo de’ 19 di luglio
del 1518: Inter eorum elegantiores unus Alcyonius multa e Graeco in Romanum sermonem elegantissime vertit. Nam Orationes pierasque Isocratis ac Demosthenis tanta Argivitate ex
expressit ut Ciceronem ipsum nihilominus legere videaris. Aristotelisque nini tu vertit tam
candide, ut Lati uni gloriabundum di cere possit:
En Aristotelem nostrum habemus. Idem ipse
juvenis, ut est Literarum utrarumque maximus
alumnus, ita tui quoque amantissimus, et studi orimi inorimi laudator summus (Erasmi Epist.
t. 1, ep. 324). Le traduzioni delle accennate
orazioni non sono mai state stampate j ma
quelle di molte opere d’Aristotele han veduta
la luce, ed esse si annoverano distintamente
dal conte. Mazzucchelli, insieme con alcune altre [p. 1612modifica]lfiia LIBRO
che furon parimenti da lui iradotte, ma u0ll
pubblicate. Queste traduzioni sono le più eleganti fra tutte, ma non sono le più fedeli
come avverte ancora Pietro Vettori, il quale
però dell’Alcionio ragiona con molta lode (praef
ad Poetic. Arist). Quindi Giovanni Genesio
Sepulveda, che allora era in Bologna, prese
ad impugnarlo, e in un libro, che fu dato alle
stampe, raccolse gli errori tutti dalPAlcionio
commessi, e accusollo ancora di plagio. Questi
se ne sdegnò altamente, e perchè non si spargesse il libro del Sepulveda, tutti ne comperò
gli esemplari; sicchè il Sepulveda pensava di
farne una nuova edizione, il che poi non so
se accadesse. Una lettera scritta in questa occasione da Cristoforo Longolio a Ottavio Grimaldi ci scuopre quanto fosse sensibile l’Alcionio alla critica delle sue traduzioni; perciocchè
egli parlando del libro pubblicato dal Sepulveda, Hoc, gli dice (Longol. Epist.. et Orat
p. 386, ed. Lugd. 1542), si tibi videbitur, Alcj onio significabis, aut per alios certe denunciandum ei curabis. Sed, si bene te novi. ipse
tu denunciabis ut hominis ad tantae contumeliae nuntium vultum videas, quod unum spectaculum tibi magnopere invideo. Numquam
enim is ex oculis laborabit, qui tum ejus fontem spectarit. Un’altra lettera del Longolio a
Marcantonio Flaminio ci scuopre un viaggio
che l’Alcionio fece a Genova, non so,in qual
anno, ma certo innanzi al settembre del 1522,
in cui il Longolio morì. Questi in essa racconta
che l Alcionio passando da Padova avea ad
ogni modo voluto che gli desse una lettera a [p. 1613modifica]TERZO 1G13
jtlj c a Stefano Sauli; ma che poscia dimentico
e di una lauta cena che avea ivi ricevuta, e
delle lodi di cui era stato onorato, e della lettera che avea sì istantemente richiesta, se n
era ito villanamente (ib. p. 302). Nel 1521 passò
da Venezia a Firenze, ove per favore del Cardinal Giulio de Medici ebbe la cattedra di lingua greca con assai onorevoli privilegi, e con
una pensione di dieci scudi al mese dal cardinale assegnatagli, perchè recasse in latino il
libro di Galeno De Partibus Animalium. Poichè
fu eletto pontefice col nome di Clemente VII
il detto cardinale, l’Alcionio, malgrado il divieto avutone dalla signoria di Firenze, gonfio
di grandi speranze volò a Roma. Ma egli trovossi deluso; perciocchè, comunque avesse la
cattedra d eloquenza, par nondimeno che per
le calamità di que' tempi non ottenesse stipendio alcuno. Nel 1525 recitò innanzi al pontefice un’orazione dello Spirito Santo, per cui
fu beffeggiato solennemente in una sua lettera
da Girolamo Negri (Ciucili, Bibliot. volante,
scans. 21, p. 81, ec.), il qual pure in più altre lettere ne parla con disprezzo (Lettere (de
Principi t 1, p. 112, ec., 118, ec.; t.
p. 66, ec.), benchè prima gli si fosse mostrato
amico (H. Nigri Epist. et Orat. p. 25, ed.
rom. 1767). Più funesto ancora fu all’Alcionio
il soggiorno di Roma nel 1526, quando nel tumulto de' Colonnesi gli fu saccheggiata la stanza
che avea in palazzo, e nel 1527" quando nel
famoso sacco di Roma,, mentre ritiravasi col
pontefice in Castel S. Angelo, fu ferito di una
moschetta in un braccio. Rimessa la calma [p. 1614modifica]I G l 4 LIBRO
in Roma, l’Alcionio sdegnato contro il ponte
fice, da cui pareagli di essere trascurato,
gittossi nel partito de’ Colonnesi; ma poco an.
presso, in età ancor fresca, diè fine a’ suoi
giorni: uom che sarebbe stato forse uno dei’
più illustri nella repubblica delle lettere, se il
difetto di disprezzare e di mordere molti de’
più eruditi, non gli avesse eccitato contro l’odio loro comune, e se co’ vizii, da quali non
seppe difendersi, non avesse oscurate le glorie al suo ingegno e al suo sapere dovute. Di
essi parla il conte. Mazzucchelli, e ne reca le testimonianze degli scrittori di que’ tempi, alle
quali deesi aggiugnere quella di Pierio Valeriano che un’altra taccia gli oppone troppo più
grave delle altre, dicendo ch’ egli morì con
quella irreligione medesima con cui era vissuto: Atque ut in am de pietate nostra melius
sensisset nec vi tao Jìneniy quod indignissimum
et homine literato, infidelitatis labe contaminas set (De infelicit Liter. t. 2, p. 63). Oltre
le traduzioni già mentovate, abbiamo dell’Alcionio il celebre Dialogo de Exilio scritto con
molta eleganza, ma che ha data occasione al
Giovio, e più chiaramente a Paolo Manuzio,
di accusarlo qual plagiario, come s egli avesse
in esso rifusi i libri de Gloria di Cicerone da
lui trovati in un monastero di monache, di
cui era medico, e da lui poscia soppressi,
perchè non rimanesse memoria e monumento
di questo suo furto. Noi abbiam esaminata a
lungo cotale accusa, e abbiamo dimostrato
ch’essa non ha alcun probabile fondamento
(t. 1). Più inverisimile ancora ne sembra 1111 [p. 1615modifica]TERZO I6I5
.jjro somigliante delitto apposto all’Alcionio da
pierio Valeriano, il quale racconta che Pietro
Martelli fiorentino, uomo nella latina, nella
greca e nella ebraica lingua assai erudito, ma
(di sanità si infelice, che poco potea occuparsi
negli studi, avea nondimeno con gran fatica
distesi quattro libri dottissimi sulla Matematica: che questi dopo la morte di Pietro vennero alle mani di Braccio di lui figliuolo, che
fu poi vescovo di Fiesole, il quale essendo in
Roma in tempo del sacco, li sottrasse dalle
mani de’ rapitori chiudendogli in Castel S. Angelo, ma ch essendo poi caduti in potere dell’Alcionio, questi li soppresse per modo, che
più non si videro (l. c p. 26). A me pare
che a smentir cotale accusa basti il rammentare con Tullio il celebre detto di Cassio: Cui
bono? Perciocchè a qual fine potea YAlcionio
voler soppressi tai libri? Ei non avea fatto studio alcuno di matematica, nè scriveva opere
di tale argomento. Che giovavagli dunque il
fare che l opere del Martelli fossero dimenticate? Io finirò di ragionare dell Alcionio col
recare il giudizio che ne dà il Giraldi, il quale
ne biasima i costumi, ma insieme ne loda l'eleganza nello scriver latino, per cui certo l Alcionio è inferiore a pochi scrittori di quel tempo, e accenna ancora le poesie latine da lui
composte, niuna però delle quali, ch'io sappia, ha veduta la luce: Diversae naturae est,
dice il Giraldi, dopo aver parlato del \ alenano
(De Poet. suor. temp. dial. 1, Op. t. a, p. 54 a),
Peirus Alcyonius Venetus mordajc et maledir
ms, nec pudens rnngis quarti prndrns. Nujus [p. 1616modifica]1 6 1 G LIBRO
fatimi Gratin, si saperci, magis Arpinatern
ertimi redolct. Quaedam Alcyond jarabica in*
legi digna laude; tum Lyricos quosdam sane
castos et eruditos. Solet ille vulgo jactare se
se Tragoediam de Christi nece in manus!habere, omnibus, ut ipse dicere solitus est, serva tis numerisi id licet ego minus credam, non
nullos tamen, ut id illi crederent, effecit. Quindi
il Giraldi si fa interrompere da Giulio Sadoleto, uno degl’interlocutori del Dialogo, il quale
Mitte, dice, de hoc nebulone plura, qui bel
Irmi honis omnibus indixit, jlagris etJiiste coercendus.
XVIII. Un celebre professore di lingua greca
ebbe anche l’università di Ferrara in Marco
Antonio Antimaco, il quale non solo l insegnò colla voce, ma scrisse ancora in quella
lingua con molta eleganza. Da Mantova sua
patria, ove nacque circa il 1473, ad insinuazione di Matteo suo padre, uomo esso ancora
assai dotto, passò in età giovanile in Grecia,
ove trattenutosi cinque anni, acquistò gran cognizione del greco linguaggio alla scuola di
Giovanni Mosco spartano padre di quel Demetrio di cui si è detto poc’anzi. Egli confessa
di averlo amato qual padre (Girald. l. c.p. 551),
e aggiugne ch essendo stato da que’ di Salonichi invitato Giovanni ad andare a tenere
scuola tra essi, avea egli pensato di seguirlo
in quel viaggio, affin di vedere le librerie del
Monte Athos; ma che mentre si disponeva a
partire, Giovanni era morto. Tornato in Italia
l’Antimaco, aprì in Mantova scuola di belle
lettere, e singolarmente di lingua greca. Da
/ [p. 1617modifica]TERZO 1G17
Mantova passò nello stesso impiego a Ferrara;
e il conte. Mazzucchelli osservando che nell’iscrizion sepolcrale da lui riferita si dice che insegnò per venti anni, e ch era già morto al
principio del 1552, ne inferisce (Seriti. ital.
[,, par. 2, p. 843) che colà si recasse verso
il 1532. Ma una lettera di Francesco Davanzati
a Pier Vettori, scritta al primo d'aprile del 1547
(Cl Viror. Epist ad P. Victor, t. 1, p. 58),
ci scuopre che in quell’anno avea l’Antimaco
già deposto l'impiego d’insegnare pubblicamente.
Quindi se per venti anni il sostenne, convien
fissarne il passaggio a Ferrara circa il 1527.
Ei giunse all’ età di scttantanove anni, e finì
di vivere nella stessa città di Ferrara. Il conte
MaZzucchelli annovera le traduzioni da lui fatte
dal greco della Storia di Gemisto Pletone, e
di alcuni opuscoli di Dionigi rPAIicarnasso, di
Demetrio Falereo e di Polieno, che furon congiuntamente stampate in Basilea nel 1540, con
un’orazione deirAnlimaco in lode della greca
Letteratura. Aggiugne ch’ei pensava ancora di
tradurre in latino il trattato intero dell' Interpretazione del suddetto Demetrio. E in fatti il
Davanzo ti, nella lettera sopraccitata, prega il
Vettori a nome dell'Antimaco d’inviargli copia
dell’edizione ch’esso aveane fatta e illustrata con
note, e di aggiugnervi altre note che per sorte
vi avesse poi fatte, e che non fossero ancor
pubblicate. Ma il Vettori risposegli (Victor. Epist.
l. 1,p. 22) che avrebb’egli bensì mandato il libro
stampato, ma che delle nuove annotazioni non
ancor pubblicate pensava di far uso egli stesso
in una nuova edizione che stava apparecchiando. [p. 1618modifica]l6l8 LIBRO
Il clic forse ridusse l’Antimaco a deporne il
pensiero. Il conte Mazzucchelli accenna alcune
Poesie latine dell’Antimaco, altre stampate, aU
tre inedite; al che deesi aggiugnere che molti
Epigrammi, altri greci, altri latini, di esso in
lode di Pier Vettori sono stati dati alla luce
dopo le Lettere degli uomini dotti allo stesso
Vettori, pubblicate dal chiarissimo sig. canonico
Bandini; che una lettera dell*Antimaco al medesimo Vettori si ha nella stessa raccolta (t. 1,
p. 15), e che tra le Orazioni di Alberto Lollio
una ne abbiamo in lode di questo dotto interprete, il quale dal Davanzati, poc’anzi nominato, e detto uomo sì ben versato nella greca
lingua, che pareva che di essa solo avesse fatto
il suo studio. Più altre testimonianze all Antimaco assai onorevoli si posson vedere accennate dal conte. Mazzucchelli. Il ch. sig. abate Bettinelli osserva (Belle Lettere ed Arti mantov.
p. 115) che in Mantova vedesi ancora la casa
da lui abitata, la cui facciata è assai vagamente
dipinta, e sulla porta si leggono queste parole:
Antimachum ne longius quaeras. Egli ebbe un
figlio di nome Fabio, il quale, come raccogliesi da tre lettere a lui scritte dal Ricci (Op.
t. 2, pars 2, p. 422, ec.), era in Ferrara medico di professione, e clic dal Giraldi è lodato
come uomo al par di ogni altro istruito nella
greca e nella latina letteratura (l. c. p. 5~6).
XIX. Quando il Musuro lasciò la cattedra di
lingua greca, che sosteneva in Venezia, e fu
proposto il concorso de’ successori, come poc’anzi si è detto, fu a tutti antiposto Vittore
Fausto veneziano, uomo di bassi natali, e nato [p. 1619modifica]TERZO l6iy
Jopo il 148o. A dispetto della sua povertà,
applicossi agli studi in patria sotto Girolamo
Maserio forlivese; e poscia viaggiò lungamente
per l Europa, valendosi dei’ viaggi medesimi
per sempre meglio istruirsi. Fu poi costretto
per vivere ad arrolarsi tra le truppe della Repubblica; e finalmente conosciuto per uomo
più atto alle scienze che alle armi, nel 1518
fu dato successore al Musuro collo stipendio
di cento scudi, di cui egli cercò poscia l accrescimento, valendosi delle più ampie offerte
ch’ei dicea venirgli fatte da diverse città; ma
non sappiamo di certo se fottenesse. Più assai però che per questa sua cattedra, si rendette il Fausto famoso per la celebre sua invenzione della Quinquereme, vascello di grandissima
mole da lui ideato, e a spese della Repubblica
fabbricato, con cui egli volle rinnovare le galee degli antichi. Il solenne combattimento che
con essa sostenne il Fausto, e il riportar che
fece sopra altre leggiere navi una compiuta vittoria, superandole tutte nel corso, viene esattamente descritto, colla scorta de più autorevoli monumenti, dall’ eruditissimo Padre degli
Agostini (Scritt. venez. t. 2, p. 455), il quale
della vita del Fausto ci somministra le più
esatte notizie. Egli esamina ancora qu.'il fosse
la forma di questa nave; e benchè confessi che
non ce n’è rimasto nè disegno, nè idea alcuna, si sforza nondimeno d’investigare come
potesse essere costruita; e io rimetto a lui chi
brami di averne notizia. Visse fin verso il 1551,
e oltre alcune orazioni, tre epistole latine
e qualche altro opuscolo, di cui ragiona il [p. 1620modifica]1620 LIBRO
suddetto scrittore, ci lasciò per saggio del suo
sapere nel greco la traduzione della Meccanica
d’Aristotele, stampata a Parigi nel 1517. Anzi
una nuova più esatta versione stavane egli apparecchiando, e illustrandola con comenti e con
figure, quando venne a morire: Leguntur Aristote lis Medianica, dice Paolo Ramusio nella
prefazione premessa alle cinque Orazioni del
Fausto, stampate, poichè egli fu morto, multo
diligentius ac verius quam ab ullo vel ante
eum vel post eum translata: quae proxime ita
rursum vertere aggressus fuerat, ut et alios
prorsus omnes et seipsum vinceret. Quod opus
commentationibus et pulcherrimis machinarum
omnium schematibus locupleta rat, et tum habebat in manibus jam jam editurus; quum immatura morte praereptus est. Quod tamen qualecumque est, si, ut speramus, in lucem
protrahere aliquando poterimus, nihil dubitamus, qui 11 ornnes intelligant, illum, si diutius
vixisset, plurima ac longe maxima architectonicae disciplinae adjumenta allaturum fuisse.
Ma questa seconda edizione non è mai, ch’io
sappia, venuta alla luce.
X\ Lunga cosa sarebbe l’annoverare i professori tutti di qualche nome, che nelle università italiane tennero scuola di lingua greca.
Spesso fu questo impiego congiunto a quello
di professor d’eloquenza, e di alcuni di essi
perciò ci riserbiamo a dire altrove, come di
Romolo Amaseo, di Lazzaro Buonamici, di
Sebastiano Corrado, di Mario Nizzoli, e di
più altri; di alcuni si è detto ad altra occasione, come del Sigonio, del Robortcllo, del
1 [p. 1621modifica]TEIlZO | (>'i [
Poiifadio, cc. Padova ebbe tra gli altri Bernardino Donato veronese, o anzi da Zano castello
di quel territorio, come afferma il marchese Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 318). Nel 1526 fu
scelto a professore di greco in quella università (Facciol. Fasti, pars 1, p. 57), e il Bembo. scrivendo in quell’anno al Cardinal Cibo,
ne fa menzione, e il loda come dotto e modesto uomo (Lett. t. 1, l. 3; Op. t. 'ò^p. 3i).
.Ma l anno seguente ei partì congedato da Mario Giorgio uno de’ riformatori di quello Studio, e andò a tenere scuola in Capo d’ Istria,
come ci mostra un'altra lettera del medesimo
Bembo scritta al Giorgio a 2 di novembre
del 1527, in cui si duole della perdita che
quell’università avea fatta, e propone ch’ei vi
sia richiamato (ivi, p. 143). Ciò però non avvenne, e il Donato, secondo il Facciolati, fu
professore in Venezia nel 1522. Ma il marchese
Maffei col testimonio di un’orazione in lode di
Parma e delle Lettere umane, da lui detta e
stampata nell’anno stesso, dimostra che in questa città, non in Venezia, ei teneva allora pubblica scuola. Aggiugne lo stesso scrittore che
il Donato fu poscia al servigio del duca di
Ferrara, e lesse per ultimo con pubblico stipendio in Verona. Del soggiorno però da lui
fatto in Ferrara, io non trovo alcun cenno
negli scrittori della Storia di quella università.
Ben trovo, ciò che da niuno è stato avvertito,
che circa il principio del secolo ei fu maestro
in Carpi, ed ivi ebbe a suo scolaro Gianfrancesco Bini, che di ciò fa menzione in una sua
lettera citata dal conte Mazzucchelli, e lo dice [p. 1622modifica]IÌÌ22 LIBRO
Maestro Bernardino Danato Bonturello pur
Veronese molto dotto uomo in Greco e in l(U
tino, qual fu mio Maestro a Carpi (Scritt. it
t. 2, par. 2, p. 1238), ove forse si dee intendere il luogo di questo nome nel Veronese. Fu
egli uno de’ più celebri traduttori di questo
secolo, e pregevole è principalmente la vur_
sione latina della Dimostrazione Evangelica di
Eusebio, da lui fatta per ordine di Giammatteo Giberti suo vescovo, e più volte data alla
luce, benchè, come osserva il marchese Maffei, nelle più recenti edizioni d’Oltramonti siasi
ommesso il nome del traduttore italiano. Ne
abbiamo ancora le traduzioni latine di alcune
opere di Galeno, di Senofonte, di Aristotele;
ed avea ancora volgarizzato Vitruvio, il qual
lavoro però non fu pubblicato. Ei fu innoltre il
primo editore del Comento greco di S. Giovanni Grisostomo sulle Lettere di S. Paolo,
del testo greco di Ecumenio, del Comento di
Areta sopra l Apocalisse, de’ libri di S. Giovanni Damasceno della retta Fede; delle quali
edizioni ragiona il sopraccitato marchese Maffei, il quale accenna ancora qualche altra fatica del Donato, e soggiugne le notizie d’altri
Veronesi di questi tempi studiosi del greco,
come di Giambattista Gabbia, di Matteo dal
Bue, o Bovio, di Girolamo Bagolino, di Domenico Monteloro, di Girolamo Li orsi, di Pier
Francesco Zino e del conte Lodovico Nogarola, uomo in tutte le scienze dottissimo; e
accenna le molte traduzioni di greci scrittori
da essi fatte, e altre opere da lor composte;
fra le quali debbono avvertirsi le Tavole delle [p. 1623modifica]r
terzo jG::3
Istituzioni grammaticali della lingua greca, pubblicate dal Zini a uso del Seminario di Verona.
XXI. In Milano, al principio di questo secolo, fioriva felicemente la greca letteratura, j
introdottavi principalmente da Costantino La-,
scari e da Demetrio Calcondila, de’ quali si è
detto nel precedente volume. Fra quelli che
più la promossero, deesi annoverare Stefano
Negri, nato in Casalmaggiore nella diocesi di
Cremona. Ei fu lungamente professore di belle
lettere in Milano; e bramò poscia di esser destinato alla cattedra di lingua greca, e ne fece
istanza non solo egli, ma per lui molti de’ più
ragguardevoli cittadini a Gianfrancesco Marliani
senatore e uomo di grande autorità; ma quegli
che a quella cattedra avrebbe voluto Basilio
Calcondila figliuol di Demetrio, che allor trovavasi in Roma, si oppose dapprima al Negri
(Niger. praef. ad Muson. Collect. de Princ. opt.);
il qual però ottenne dappoi ciò che bramava;
e ne son pruova le orazioni da lui recitate innanzi alla spiegazione di Omero e di Pindaro,
che abbiamo alle stampe. Il Negri era stato
già scolaro di Demetrio, di cui egli parla con
molta lode nel suo Dialogo, in cui introduce
tre fratelli, Giovanni, Girolamo e Lodovico
Botti, encomiati dal Negri, che pur era stato
loro maestro, come giovani amantissimi dello
studio e di tutti gli uomini dotti, a ragionare
insiem con Demetrio sulle cose più notabili
nella Grecia, delle quali tratta Pausania. Le
altre opere del Negri, che sono per lo più traduzioni di varii opuscoli di Musonio, di Filostrato, di Plutarco, d’Isocrate e d’altri scrittori [p. 1624modifica]1624 LIBRO
greci, e clic furono stampale in Milano nel i5r-,
e nel i52i, si annoverano dall’Arisi (Crem
liter. t. 1, p. 397) e dall' Argelati (Bibl. Script,
mediol t. 2, pars 2, p. 2137)} e benché il l0p
catalogo non sia troppo esatto, a me però non
è lecito il trattenermi in esaminare minutamente
ogni cosa. Il Negri vivea in Milano, mentre questa città era in poter de Francesi; e perciò
molte delle sue opere ei dedicò a Giovanni
Grollier segretario del re Francesco I, al cancelliero Antonio du Prat, e a figliuoli di esso.
Ma questo attaccamento alla Francia gli fu fatale; perciocchè caduto finalmente quello Stato
in mano degli Spagnuoli, il Negri si vide privo
del suo stipendio, e abbandonato da tutti; talchè in breve tempo fra le miserie di un' estrema
povertà venne a morte, come raccontasi da Pierio Valeriano (De infelic. Litterat. l. 2, p. 66).
A questo professore di lingua greca in Milano
un altro possiamo aggiugnerne, che in Pavia
e in Venezia ebbe la medesima cattedra, cioè
Giambattista Rasario novarese. Il P. Giannantonio Gabuzio barnabita, scrittor di que’ tempi, ne ha steso un lungo elogio, inserito dal
(Cotta nel suo Museo novarese (p. i64)- Narrasi in esso che il Rasario, dopo avere studiato
in Milano, passò a Pavia, ed ivi nel tempo
stesso che teneva scuola di lingua greca, fu
onorato di amendue le lauree della medicina e
della giurisprudenza; che fu indi chiamato a
Venezia, ove per venlidue anni fu professore
di lettere greche e latine con gran concorso di
uditori, e con fama di non ordinaria eloquenza,
di cui diede una pruova fra le altre nell’orazione [p. 1625modifica]TERZO 162.*)
clie disse nel 1571 per la vittoria di Lepanto,
la;, qual fu data alle stampe; che il re Filippo II
lo invitò all' università di Coimbra; ma che
essendosi il Rasario scusato, quel monarca
volle almeno ch’ ei tornasse a Pavia, ove fu
per quattro altri anni professor di eloquenza,
finchè nel novembre del 1074 > essendo venuto
a mancare, fu con onorevoli esequie sepolto
in S. Agostino, e pianto da tutti quelli c!»e ne
conoscevano e ne ammiravano non solo il sapere, ma ancora le rare virtù delle quali egli
era adorno. Il Cotta accenna altre testimonianze
degli scrittori di que’ tempi, che del Rasario
favellano con grandi encomii, e ci dà poi il
catalogo delle opere da lui pubblicate, che, trattane la mentovata orazione e qualche epistola,
son traduzioni dal greco in latino di molte opere
di Oribasio, di Giorgio Pachimere, di Giovanni
Filopono, di Galeno e di altri.
XXII. Men conosciuto è un professore di lingua greca, ch’ebbe in questo secolo l'università di Bologna, perchè morto infelicemente nel
fior degli anni, non ebbe tempo a produrre
que’ frutti che se ne speravano copiosissimi. Ei
fu Bartolomrneo Faustini modenese, che dopo
essere stato per più anni in Bologna scolaro
di Romolo Amaseo, e al suo maestro carissimo,
fu in quella medesima università destinato alla
cattedra di lingua greca, e la tenne dal 1530
al 1533, nel qual anno a' 21 di maggio fu da
incogniti sicarii crudelmente ucciso. Di questo
fatto si ha memoria negli Atti di quella università citati dal ch. abate Flaminio Scarselli:
fiartholomaeiis Faustinus... XI Kal. Junii
TlllABOSCUl, Voi XII. 3o [p. 1626modifica]jfvj(j li uno
bora notti* < irci ter seconda, (tdoL'scens optimus et litteratissimus, ac summae earspectatioiiis
sicariorum insidiis oppressus, ac miserabili ter
cocsns (/Ita Boni. Amas. p. 155). Ma più bel
monumento ancora de;' rari talenti del Faustini
è Torazion dairAmaseo medesimo detta in lode
di esso e di Teodoro Garisendi bolognese
morto esso pure in et;i immatura circa quel
tempo, nel quale egli sfoga il dolore che per la
morte di questi due suoi scolari amatissimi avea
provato, e mostra quanto gran cose si potesser
da essi sperare (Boni. A mas. Oratìon. p. a 21).
Di Romolo, come abbiam detto, ci riserbiamo
a parlare altrove. Ma questo è il luogo opportuno a dir di Pompilio di lui figliuolo. Di esso
ha parlato il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1,
par. 1, p. 578); ma alcune più esatte notizie
possiamo trarne dalla Vita di Romolo, data non
ha molto alla luce dal soprallodato abate Scarselli Egli era nato in Bologna, come si pruova
da monumenti in quella Vita prodotti (l. c.
p. 105, ec.), da Romolo e da Violante Guastavillani di lui moglie. In certe Memorie della sua
famiglia da lui stesso distese (lib. p. 167) egli
narra di essere stato in sua gioventù segretario
de cardinali Paolo Emilio Cesis e Francesco
Quignoni. Nel 1543, a’ 29 di agosto, essendo
in Bologna vacante la cattedra di lingua greca
per la partenza di Ciriaco Strozzi r fu destinato
ad essa Pompilio coll’annuo stipendio di 100
lire (ib. p. 116), il quale nel 1572 fu accresciuto fino a 850, ad istanza principalmente
del Cardinal Filippo Guastavillani nipote di Gregorio XIII e cugino di Pompilio (ib. p. 121). [p. 1627modifica]TERZO • 1627
frattanto egli era slato inviato da Giulio III
nel 1551 suo nuncio apostolico a Ferdinando re
de’ Romani, e avea ancora ottenuta la grazia
del re Cattolico Filippo II (ib. p. 167). L’an,,0 ¡582 essendo egli gravemente e da lungo
tempo infermo, il senato sollevollo dal peso
delle lezioni, che quasi per quarant’ anni avea
sostenuto, conservandogli però intero il fissato
stipendio (ib. p. 122). Pompilio visse sin verso
il 1585; ma io non trovo sicuro riscontro del
tempo in cui diè fine a’ suoi giorni. Delle opere
ad esso composte si può vedere il catalogo
presso il conte Mazzucchelli, il quale innoltre
difende Pompilio dall’ingiusta taccia d’ignorante
del greco, che alcuni gli han data per riguardo
alla version da lui fatta di due frammenti di Polibio. Più esatto ancora e più copioso è l’indice
delle opere di Pompilio, che va aggiunto alla
più volte citata Vita di Romolo (ib. p. 233),
ove fra esse si dà un distinto ragguaglio della
traduzione italiana da lui fatta de' libri del Sacerdozio di S. Giovanni Grisostomo, la qual
conservasi in Roma nella biblioteca che già fu
del Cardinal Ottobuoni.
XXIII. Di professori italiani che uscissero
dall’ Italia per promuovere fra le straniere nazioni lo studio della lingua greca, io non trovo
in questo secolo altri che Girolamo Aleandro,
che ne fu professore in Parigi, come altrove
si è detto, e quel Paolo Lacize veronese apostata dalla cattolica Fede, e professore di greco
in Strasburgo, di cui pure si è già ragionato,
e un certo Pietro Illicino, che ne tenne scuola
in Cracovia, e che oltre alcune Poesie latine, [p. 1628modifica]iGaS * libro
pubblicò nel i5j8 una versione di un Idillio
di Mosco (a). Ma come io non ne ho altra notizia che il cenno che se ne fa nelle romane
Efemeridi, nel riferire un opera di Storia polacca (1776; p 88), così non posso dirne più
oltre, e da’ professori passo a parlare per ultimo di alcuni altri che senza salir le cattedre
giovarono co loro studi al coltivamento di questa lingua. Nel che però ancora non farò che
accennarne pochissimi, poichè di un gran numero di essi si è fatta già, o si farà altrove
menzione. Due monaci celebri amendue nella
greca letteratura veggiam lodati fra gli altri nelle
Opere del Cardinal Cortese. Il primo è Luciano
degli Ottoni mantovano, o anzi da Goito, monaco casinese nel monastero di Polirone, e
poscia abate del monastero della Pomposa, e
morto nel primo monastero nel 1528, come
ci mostra una lettera d'Isidoro Clario (Epi.sK
p. 79). Ei tradusse dal greco in latino le Omelie di S. Giovanni Grisostomo sulla Lettera a’
Romani, e vi aggiunse un’apologia del santo
dottore per riguardo all accusa da alcuni datagli di avere stenuata la forza della grazia divina per innalzar quella del libero arbitrio j opera
che, benchè approvata e difesa da molti dotti
teologi di quell età, fu nondimeno dalla Chiesa
posta nell Indice dei libri proibiti. Due lettere
(a) Quel Pietro llliciuo qui nominato fu anche professor pubblico in Vienna, poscia canonico di Strigonia, e in occasione di diversi sinodi tenuti nell' LJn*
gheria recitò molte orazioni polemiche, che si hanno
stampate nella Raccolta de1 Concili! ungarici del P. Praj
(Pars a, p. 444), [p. 1629modifica]TERZO iGaj)
a Irti scritte dal Cortese allor monaco (Op. t. 2,
p. 185, 194), e la stima in cui lo avea il celebre
Isidoro Clario, che lo appella suo maestro (l. c).
bastano a farci l’elogio di questo dotto monaco,
più celebre ancor fu l’altro, cioè Severo Varino,
di patria piacentino, o da Firenzuola, come udiremo affermarsi dal Fornari, e monaco cisterciense (rt). Il Libanori, citato dal Borsetti (Hist.
Gymn. Ferr. t. 2, p. 82, ec.), racconta che
innanzi ch’ egli abbracciasse la vita monastica,
era stato primario professore di giurisprudenza
in Ferrara. Ma ciò non par verisimile al Baruffaldi (Guarini Supplem. ad Hist. Gymn. Ferrar. pars 2, p. 26), e veramente non se ne
trova indizio negli atti di quella università.
Abbiam bensì monumenti della profession da
lui fatta nel monastero di S. Bartolomeo presso
Ferrara a’ 26 di maggio del 14<)3, c del soggiorno ch’ egli vi ebbe ancora per alcuni anni
appresso, i quali sono stati pubblicati dal suddetto Borsetti. La fama che d Severo avea
d’uomo dottissimo, gli conciliò la stima e l'amicizia di molti, e principalmente dell’Ariosto,
che di lui ancor tra gli altri poeti suoi amici
fece menzione:
E l Lascari, e Musuro, e Navagero,
R Atulrea Ma rane, r 7 Monaco Sc\cin.
Canto 4^ 5 st. 13.
Simon Fornari comentando questo passo dell Ariosto, Don Severo da Firenzuola, dice,
(a) Del monaco Severo ha poi trattato con molta
cviUcm.i anche il sig. proposto Poggiali (Mrtnor. per la
òlor. Ictlcr. di Piar. i. 9., p. ti, ec.).
/ [p. 1630modifica]l63o LIBRO
di Lombardia Monaco di Ci stello, e dotto nelle
buone Lettere, delle quali ne facea professione, visse alcun tempo in Corte del Cardinal
Sauli. Il quale essendo condennato per la congiura contra Leon X, questo Monaco come
consapevole si fuggì incognito, et ricoverò in
Lamagna, dove ultimamente morì. Il Porcacchi
al contrario, nelle sue note al medesimo passo
crede che l’ Ariosto non parli già del^nionaco
di Cistello, di cui ripete le cose che ne narra
il Fornari, ma di un altro Severo monaco camaldolese. Contro questa asserzion del Porcacchi ha scritto a lungo il P. Niccolò Baccetti
cisterciense nella sua Storia latina della Badia
di Settimo (p. 228, ec.), stampata in Roma
nel 1724 il quale dimostra con assai forti argomenti che l Ariosto parla del monaco di Cistello, non di quel di Camaldoli, e si fa ancora a difenderlo dalla taccia appostagli di
essere stato consapevole della congiura del Cardinal Bendinello Sauli, alla qual voce diè forse
ancora occasione l essere stato Severo maestro
nelle lingue latina e greca del Cardinal Alfonso
Petrucci, che di quella congiura fu il capo
(Valerian. De infel. Literat l. 1, p. 12). Le
pruove ch’egli ne arreca, sono assai conchiudenti; ma una ancor più luminosa ce ne somministran le Lettere del Cardinal Cortese allor
monaco. Questi essendo ancor giovinetto, e scolare in Roma tra 'l 1500 e ’l 1504, avea ivi
conosciuto Severo; e io credo che gli desse
occasione a conoscerlo la stretta amicizia che
questo monaco avea con Paolo Cortese. Questi, nella sua opera da noi altrove lodata De [p. 1631modifica]TERZO lG3I
Cardinalati/, fa spesso menzione di Severo,
di cui esalta con molti encomii e il molto sapere e l'indole amabile e dolce, e ne rammenta un’ambasciata da lui sostenuta per la
città di Siena al re Luigi XII, quando questi
era in Italia; e dice fra le altre cose che di
Severo ei solea valersi ogni giorno per esercitarsi nel tradurre di greco in latino; il che ci
mostra quanto ei fosse in quelle lingue versato: Ut si ego quotidie Severo Cisterciensi Graeco
paraphraste. utar, quo societas vitae sit studiorum conjunctione laetior (De Card. l. 2,
p. 64)• E Severo mostrossi grato alla stima
che per lui avea Paolo, premettendo all’opera
mentovata una sua lettera latina e un distico
in lode dell’ autore allora defunto. È dunque
probabile che Gregorio, detto allor Giannandrea, Cortese, trattando spesso con Paolo che
gli era parente, si stringesse ivi in amicizia
con questo monaco. In fatti in una lettera che
Gregorio poscia gli scrisse, rammenta con sentimento di gratitudine quanto ei debba a Severo, per l’ esortarlo e scorgerlo ch’ egli allor
facea allo studio delle lettere greche e latine.
Mi si permetta il recar questo passo che forma
un troppo bell’ elogio a Severo, perchè possa
essere tralasciato: Et quidem, dic egli (Op.
t. 2, p. 1 {6), quantum memoria repetere possum, nemo te mihi est amicus antiquior nemo
magis conjunctus, nemo, cui acque omnes
studiorum meorum qualescumque fructus acceptos re/erre delie ani. Non enim memoria nohis ex cidi t, ncc excidet. prof ceto aliquando.
cum tu jam princeps Ordinis fui, atquc adeo [p. 1632modifica]i<53a libro
maxima ilignitate praeditus, me adolescentulum
adhuc in literis balbutientem, tantum aberat
ut sperneres, ut ultro vocares, cum noctes
diesque me quietem studiorum tuorum interpellantem, non modo non repellebas, sed ne
vultu quidem subtristiore moleste id ferre unquam mihi visus fueris. Resonant adhuc in
auribus meis sanctissimae illae adhortationes,
et gravissima praecepta, quibus me assidue et
ad bonarum litterarum studia et ad Christianam pietatem hortabare, cum ea ordinis gravitate, qua tunc eras, etiam circa incunabula
mea, curri latina rum, tu/n graecarum lite ramni,
me curii, ut ita dicam, repuerascere non gravareris, ut ad ea, ad quae verbis me hortabare, te ipsum ducem et praevium nobis exhiberes. Questa lettera è quella che ci somministra, come ho accennato poc’anzi, il più
forte argomento a provare che Severo non fuggì
dall’Italia perchè fosse consapevole della congiura del Cardinal Sauli. Aveagli Severo scritto
dalle Fiandre, ove allor si trovava, e ove parimente era allora l imperadore, che avendo
egli stese alcune correzioni delle Orazioni di
Tullio, pensava, quando gli fosse stato necessario lo star lungo tempo fuor dell'Italia, d’inviarle a lui, perchè le desse a stampare ad
Aldo Manuzio (ib. p. 145). Il Cortese nella
sopraccitata lettera di risposta si offre pronto
a servirlo; ma lo avvisa che Aldo pochi mesi
innanzi era morto: Id auteni l& laiei'e nolo,
paucis antea mensibus Aldum ipsum immatura
et sibi et rei literariae morte ereplum tris fissininni nobis sui desideri uni rcliquisse. Ora Aldo [p. 1633modifica]TERZO J G33
Malizio il vecchio, come si è detto a suo
luogo, morì verso l’aprile del 1515, e perciò
nel corso dell’anno stesso si debbon supporre
scritte le lettere sopraccennate, ed era perciò
fin d’ allora assente dall’ Italia Severo. La congiura contro di Leon X fu ordita solo nel 15 j *(Marat. Ann. d[tal. ad h. an.), nè potè perciò
avere in essa parte alcuna Severo. Nè può dirsi
che questi tornasse forse in Italia e alla corte
del Cardinal Sauli, e che involto nella procella
della detta congiura, fosse costretto a partirne
di nuovo. Un’ altra lettera a lui scritta dallo
stesso Cortese ci pruova che almeno fino al 1520
era sempre stato Severo lontan dall Italia. Gli
ricorda in essa il Cortese (l. c. p. 178) le
correzioni suddette che quegli avea promesso
d’inviargli, e la risposta ch’egli fatto gli avea.
Quindi soggiugne che non avendone più avuto
riscontro alcuno, temeva che quella sua lettera
si fosse smarrita; che ora Ercole Gonzaga vescovo di Mantova, avendo da lui udita tal
cosa, avea gli ingiunto di scrivergli nuovamente, e di fargli, istanza, poichè mandasse quell’opera in Italia, la cui stampa avrebbe procurata egli stesso. Or Ercole Gonzaga, che qui
è nominato come vescovo di Mantova, fu a
quella sede innalzato nel 1520 (Ughell, Ital.
sacra, t. 1 in Episc. mantuan.), e perciò non
prima di quell anno dovette questa lettera essere scritta. Finallora dunque era stato lontan
dall Italia Severo, e quindi non è possibile che
fosse complice in alcun modo dell' accennata
congiura. Non sappiamo però bene qual fosse
il motivo di sì lunga assenza; ed è certo [p. 1634modifica]i G34 Limo
soltanto ch’egli continuò a starne lontano. Il Cortese in una sua lettera italiana al Cardinal Contarini, scritta nel 1536: Mi occorre, gli dice
(l c. t. 1, p. 101), avanti tutte le altre cose
raccordare a Vostra Signoria del nostro Don
Severo, qui si adhuc in humanis agit, è persona che merita, che si faccia ogni opera per
revocarlo in Italia, e del quale in ogni buona
opera, che si abbia a fare, penso che debbia
essere accomodato istrumento quanto alcun altro, che al presente si trovi, considerando
in lui la letteratura, e la indole e i di lui costumi. Sicchè prego assai V. S. sii contenta
fra le sue gravissime cure fare, che questa
non 'sii la postrema, essendo tanto utile e proficua, quanto alcun altra. Ma qualunque ragion se ne fosse, Severo continuò a star lontan
dall’Italia, e, come abbiamo udito narrarsi dal
Fornari, morì in Allemagna; e se questo scrittore colla voce ultimamente intende poc'anzi,
convien dire che ciò avvenisse verso il 1549),
nel qual anno egli stampò la sua sposizione.
Le due lettere e il distico mentovato sono il
solo saggio del sapere di Severo, che abbia
veduta la luce; e l’opera da lui scritta sulle
Orazioni di Tullio dovette andare smarrita, o
giacersi inedita.
XXIV. Io mi son trattenuto nel ragionar delle
cose di questo monaco alquanto a lungo, perchè esse non erano state rischiarate abbastanza.
Di altri basterà il dire più in breve, benchè
alcuni tra essi ci abbian date più pruove del
lor valore. Zenobio Acciaiuoli fiorentino dell’Ordine de’ Predicatori, amicissimo di Angiolo [p. 1635modifica]TERZO l635
Poliziano c di Marsilio Ficino, dichiarato poscia da Leon X suo famigliare, onorato della
carica di prefetto della biblioteca Vaticana,
destinato a trasportar da essa in Castel S. Angelo le più antiche pergamene, delle quali ancora compilò l Indice pubblicato dal P. Montfaucon (Bibl. Biblioth. t. 1, p. 202), e morto
in età di cinquant’ otto anni a’ 27 di luglio
del 1519, tradusse in latino e diè alle stampe
più opere di Eusebio di Cesarea, di Olimpiodoro, di Teodoreto e di altri, delle quali versioni e di altre opere di questo dotto scrittore
si ha un esatto catalogo presso il conte. Mazzucchelli, il quale diligentemente ancora ne ha
tessuta la Vita (Scritt. ital. t. 1, par. 1, p. 50, ec.).
Le Storie di Tucidide e di Senofonte vennero
in lingua italiana tradotte da Francesco di Soldo
Strozzi, e stampate la prima nel 1545, la seconda nel 1550. In questa seconda egli aggiunse
la nota di 144 passi ne’ quali la traduzione
fattane dal Domenichi dovea esser corretta.
Nella prima ei dice di essere stato aiutato da
M. Sylvestro Macchia da Fuligno, huomo non
meno esercitato negli studi della Lingua Greca,
che della Latina, e dal dotto M. Jacopo Laureo
da Udine, giovane gentilissimo, nutrito et allevato del continuo negli esercizi della lingua
Greca, nella quale egli è così pronto, come
si sia ciascheduno nella sua materna. Di questo
Jacopo Laureo abbiam tre lettere a Pier Vettori, scritte da Venezia nel 1549 e nel 1550
(Cl Viror. Epist. ad P. Victor, t. 1, p. G(*,
77, 79); nella prima delle quali gli scrive di
aver tutta la sua puerizia e la gioventù trapassata [p. 1636modifica]if>36 LIRTtO
nello studio degli scrittori greci e latini, di
aver poscia dovuto per dieci anni interi ompere queste sue piacevoli occupazioni, essendo
stato impiegato nell istruire i fanciulli, di averle
indi ripigliate, e di aver tradotta di greco in
italiano la Storia Varia di Eliano e un Oda di
Pindaro; e la prima di queste versioni, stampata in Venezia nell’ anno i.*>5o, egli manda
colla seconda lettera allo stesso Vettori, il qual
rispondendogli, ne dice gran lodi (Victor.
Epist. l. 2, p. 36). Di Tommaso Aldobrandini
figliuolo di quel Silvestro di cui abbiam parlato tra professori di legge, e fratello del pontefice Clemente VIII, scarse notizie ci ha date
il conte. Mazzucchelli (l. c p. 396, ec.) per
mancanza di monumenti. Noi possiam darne
qualche più distinta contezza, valendoci singolarmente delle Lettere degli Uomini eruditi
a Pier Vettori, e di quelle di Giulio Poggiano,
e di qualche altro scrittore. Il primo saggio
che Tommaso diede del suo sapere, fu una
lettera scritta a Bernardo Salviati nella morte
del Cardinal Giovanni di lui fratello, accaduta
nel 1553, la qual conservasi ms. nella Magliabechiana (Negri, Scritt. fior. p. 511); e abbiamo una lettera dello stesso Tommaso al
Vettori, in cui il ringrazia delle lodi che a
quel suo componimento avea date (Cl. I Ir.
Epist. ad P. Victor, t. 3, p. 176); e il Vettori rispondendogli, esalta il molto studio e
il profondo ingegno di Tommaso (Victor, ep.
l. 3, p. 54). Molto parimente il loda il Poggiano in due lettere al medesimo scritte che non
han data, ma che sembrano appartenere al i56o [p. 1637modifica]TERZO 163*7
(Poggiati. Epist. t. 2, p. 98, 100). Ma in
,un’ altra scritta a Francesco Davanzati a 21
di dicembre del detto anno: Aldobrandinus
noster, dice (ib. p. i8.{)» (iestatcm egit in
t e/enti solitudine. Nunc ubi terrarum sit,
ignoro. De quo quidem vehementer doleo, illud
ingenium, illam virtutem et humanitatem in
haec tempora incidisse. Nostri puto caetera. Tuas
ad eum literas dedi Petro ejus fratri. A che
cosa alluda qui il Poggiano, e quali fossero le
vicende a cui fu soggetto Tommaso, noi l ignoriamo, se pure ei non fu avvolto nella rovina de’ Carafi, che avvenne in quell’anno
stesso. Un’ altra lettera del Poggiano a Tommaso de’ 26 aprile del 1561, ci mostra che
questi era allora tranquillo in Padova, e che
sperava che fosse presto per tornarsene a Roma
(ib. p. 264)} ed egli vi tornò in fatti, c fanno i568, morto il Poggiano,.fu dal S. Pontefice Pio V nominato segretario de’ Brevi (Bonamici de Cl. Pontif. Epist. Script. p. 91, 254,
ed. 1770) (a). Non sappiamo quando ei morisse, e solo dalle testimonianze addotte dal
conte. Mazzucchelli raccogliesi ch' ei fu rapito in
età ancor fresca, e prima di poter dare l’ ultima mano alla sua versione delle Vite de’
(a) Quattro tomi di Lettere, o di Brevi, scritte dall'Aldobrandini in nome del papa, conservami nell’archivio V aticano da’ 17 di gennaio del 1 ‘"»67 lino a' 10
d'aprile 1 (Marini (Irgli Archiatri pontìf. I. 2, p. 3i3).
Quindi dee dirsi che circa due anni prima della morte
del Poggiano, e non dopo essa, come io ho scritto,
ci fosse eletto a segretario pontificio. [p. 1638modifica]»638 LIBRO
Filosofi di Diogene Laerzio da lui illustrata con
erudite annotazioni. Essa fu poi data alla luce
in Roma nel dal cardinal Pietro di lui
nipote; e le fatiche di Tommaso sì nel tradurre che nel comentare Laerzio sono state
assai lodate da’dotti, e singolarmente da Isacco
e da Merico Casauboni, le testimonianze de’
quali si adducono dal suddetto scrittore. Abbiamo ancora un’altra lettera di Tommaso al
Vettori, dalla quale caviam le notizie di un’altra opera di esso, cioè della Parafrasi sull’ ultimo libro di Aristotile De physico auditu #
ch’ egli inviò al Vettori, perchè vi facesse le
correzioni che avesse credute opportune (Cl.
Vir. Epist. ad P. Vict. t. 3, p. 180); e il Vettori, rispondendogli nel febbraio del 1568,
celebra quel lavoro con molte lodi (Victor.
Epist. l. 3, p. 71). Di Tommaso fa onorevol
menzione anche Francesco Patrizi, dedicando
al cardinal Ippolito Aldobrandini di lui fratello,
che fu poi Clemente VIII, la sua Pancosmia:
In memoriam venti, T/iomae fralris tai humaniorihus litc.ris et Graecis et Latinis, et Philosophiae ornatissimi me satis diu Patavii amicitia
familiarissime esse usum. Pregevole è ancora
la traduzione italiana delle Meccaniche di Aristotele, fatta da Antonio Guarino modenese,
e stampata in Modena nel 1573 colle dichiarazioni del medesimo traduttore, il quale, dedicando l’opera a Cornelio Bentivoglio, dice
che avendo dovuto pel rigore del freddo interrompere il lavoro delle fortificazioni della
cittadella di Modena, erasi in quel frattempo [p. 1639modifica]TERZO 163«)
occupato in questo lavoro (<*). Nel breve elogio
di Antonio Àngelio da Barga Iratello del celebre poeta Pietro, che ci ba dato il co. Muzzucclielli (l. cit t. 1, par. 2, p.?33), non
si dice eh’ ci fosse dotto nel greco. Ma questa
lode gli vien data dal medesimo Pietro nell orazion funebre del gran duca Francesco de’
Medici, di cui Antonio era maestro, e da Pietro Vettori in una lettera al medesimo Pietro
(l. c. l 2, p. 41)• Alle poche operette di
Antonio che dal detto scrittore si accennano,
deesi aggiugnere una lettera da lui scritta allo
stesso Vettori (Cl. Vir. Epist. ad P. Victor,
t. 3, p. 185) e un endecasillado in lode del
medesimo (ib. ad calc. t. 4)• Due Dialoghi di
Platone furono in lingua italiana tradotti da
Ottaviano Maggi veneziano, e stampati in Venezia nel 1558, ove due anni prima avea ei
pubblicata la traduzione dell’Epistole di Cicerone a M. Bruto. Una lettera a lui scritta nel 1555
da Agostino Valerio, che fu poi cardinale, ci
mostra che Ottaviano era allora scolaro di Marziano Rota, e ch erasi singolarmente prefisso
(a) Molto dotto nel greco fu anpora Giancarlo Bovio
nato in Brindisi, ma oriondo della nobil famiglia bolognese di questo nome, prima vescovo d; Ostuni, poi
arcivescovo di Brindisi e d’Oria, e morto mi 1570.
I)i lui abbiamo la traduzione di grero in latino delle
Costituzioni apostoliche, stampala in Venezia nel i563j
e vuoisi eh' ei traducesse ancora le c pere di S. Gregorio Nisseoo; la qual versione però non fu pubblicala.
Più copiose notizie di questo vescovo si posson vedere
presso il co. Mazzucchclb (Scnlt. itaL t. 1, par. 3,
P• »9*6). [p. 1640modifica]l6/fo LIBRO
«rimitare scrivendo Cicerone tra’ Latini, e Isocrate tra’Greci (Epist. Cl. Vir.; Ven. 1568,
p. 126). Nel 1558 passò a Roma, come ci
mostra una lettera a lui scritta da Jacopo Griffolio (ib., p. 133). Nel 1560 fu richiamato a
Venezia alla carica di segretario del senato;
e abbiam le lettere di Giambattista Rasario e
di Pietro Giustiniani, nelle quali con lui si
congratulano (ib., p. 131, 134), e quella con
cui lo stesso Maggi scrive al Poggiano di esser
giunto a Venezia lieto per l onor conferitogli
ma afflitto per la perdita de’ molti amici che
in Roma aveva (ib.. p. 137), tra" quali era un
de’ principali il Poggiano, fra le cui Lettere
una ne abbiamo a lui scritta (Pogia.fi. EpisL
t 2, p. 87). Nel 1562 egli andossene per la
Repubblica in Francia, donde scrivendo a Matteo Pizzamani, gli dà ragguaglio della stima
che ivi avea ottenuta presso i dotti, e del
piacere che in quel soggiorno proverebbe, se
le guerre civili non gliel rendesser men caro
(ib., p. 138). Alcune altre opere ne accenna
il Sansovino, delle quali io non ho più distinta
notizia (Venezia, p. G18) (*). Giambatista
C") Fra quelli che più. si adoperaron nel tradurre in
lingua italiana gli autori greci, deesi anche annoverare
Marcantonio Gandino trivigiano, di cui abbiamo, oltre
gli Stratagemmi di Frontino tradotti dal latino (Argr.~
lati, Bibl. de’ Volgarizz. t. 2, p. 105)), gli Opuscoli morali di Plutarco in gran parte (ivi, t. 3, p. 266, ec.), e
tutte l Opere di Senofonte recate in lingua italiana (ivi,
p. 372, ec.). Ei fu ancora matematico e meccanico
valoroso, come ci mostra l iscrizione a lui posta dal
Burchelati, e da questo medesimo storico (CommenL [p. 1641modifica]TERZO l041
Canaozzi asolano fu uom versato nelle lingue
orientali, ma nella greca principalmente, come
afferma lo storico de Thou ad an. 1581), il
quale narra che il Camozzi, studiata prima la
medicina, fu poi a’ tempi di Giulio III professore in Bologna nel collegio di Spagna \ che
sotto Paolo IV ebbe la medesima cattedra in
Macerata j che da Pio IV fu poscia chiamato
a Roma, perchè si occupasse nel tradurre in
latino le Opere dei SS. Padri \ che mori a’ 25
di marzo del 1581, in età di sessantasei anni,
lasciando un figlio detto Timoteo. Aggiugne
che molte opere avea egli scritte, ma che non
erano venute a luce che alcune orazioni in diverse occasioni da lui recitate (delle quali una
sola ho io veduta De Antiquitate literarum,
stampata in Roma nel i5~5), il Co mento greco
della Metafisica di Teofrasto, di cui questa
biblioteca Estense ha la bella edizione fatta
nella stamperia Aldina nel 1550, e alcune altre
traduzioni dal greco; e che molte altre opere
ne eran rimaste inedite, delle quali dall Italia
gli era stato trasmesso il catalogo, che troppo
Jlift. Tarvis. p. 4> i). E benché Ottavio Fahri sembri a
«è attribuire r invenzione della squadra mobile nel libro
deli Uso di essa, stampato la prima volta in Padova
nell’auno i6i5, nell’iscrizione suddetta però si attribuisce ni Gandino questo qual ehe siasi onore, e lo
stesso Fahri in una lettera diretta a Francesco figliuolo
di Marcantonio, e die va innanzi a quel libro, contessa di ilo ver ogni cosa al padre di esso, Matematico
eccellentissimo e di acutissimo ingegno.
1 IRA BOSCHI, Voi XII. 3l
\ [p. 1642modifica]164 ^ LIBRO
lungo e inutile, dice egli, sarebbe [' inserir nella
Storia (a).
XXV. Ma io mi avveggo di esser quasi mio
malgrado entrato in un argomento di sterminata estensione, prendendo ad annoverare coloro che della perizia nel greco ci dieder pruova
colle lor traduzioni, o con altre opere somiglianti, de’quali io potrei continuar ragionando
per lungo tratto. Diam dunque fine a questo
capo col ragionare di un vescovo che fu in
questa lingua dottissimo, e che ne promosse
lo studio col raccogliere una copiosissima biblioteca di libri greci. Parlo di Filippo Sauli
genovese, vescovo di Brugnate, cugino di Stefano da noi mentovato altrove, e del celebre
Cardinal Bendinello. In età di soli ventun anni
fu da Giulio II sollevato alla vescovil dignità
nel 1512, e fu ancora più d’una volta inviato
dalla sua patria all’imperador Carlo V. Lo studio
della lingua greca fu la principale occupazione
di cui si compiacque, e ne diè saggio nel
pubblicare la traduzione de’ Comenti di Eutimio Zigabeno su’ Salmi, della qual opera, e
insieme della gran copia di libri greci da lui
raccolti, fa menzione con somma lode il Cortese in una sua lettera a Dionigi Fauclier: Sa alio
(a) Intorno alla vita e alle opere di Giainbatisla Ca»
mozzi più copiose notizie si posson vedere nel Saggio
di Memorie degli Uomini illustri di Asolo del sig. conte
Pietro Trieste (p. 32, e«-.); a cui però deesi aggiu*
gnere che due altre opere di esso trovatisi nella biblioteca
Barberini, cioè un Fomento da Ini scritto in Alcibi<idem
Platonis, e l Olimpiodoro stille Meteore d Aristotile da
lui tradotto dal greco. [p. 1643modifica]TERZO l643
Episcopo, gli scriv egli (Op. t. 2, p. 77)? a U
salutem plurimam dixi, qui te vehementis siine
amat, tuique visendi est cupidissimus. Is nuper commentarios Euthymii Monachi in omnes
Psalmos e Graeco in Latinum convertit, opus
elegans, ingeniosum, eruditum, et in quod fere
omnia, quae a maximis illis viris Origene, Didymo, Eusebio, Basilio, Chrysostomo in eo
genere scripta fuerant, breviter et miro cum
artificio sunt conjecta. In eo elimando, atque
expoliendo nunc assiduus est, egoque illi minister assideo. Maximam praeterea graecorum librorum copiam, et eorum antiquorum incredibili sump tu ì atque industria nactus est, partim
Roma, Florentia, atque Venetiis, parti/n e ti am
e media Graecia allatorum, miraque diligentia
operam dat, ut ejus generis ornamenta, non
jam ex languenti, ut ille ait sed pene J'unditus deleta Graecia, Genuam transferantur. La
traduzione accennata venne a luce in Verona
nel 1530. Un bell’elogio del Sauli ci ha lasciato
ancora il Bandello, il quale a lui dedicando
la prima novella del tomo II, così ne ragiona:
Io direi, che tra gli altri voi sete uno di quelli
che sino dalla vostra fanciullezza sete stato nemicissimo degli avari; e che dopo che sete beneficiato, vivete splendidamente e largamente ai
poveri e virtuosi; e poco appresso: Quella ho
voluto mandarvi, acciò che dopo gli studi vostri de le Civili e Canoniche leggi, ne le quali
sete eminentissimo (come l opere vostre stampate fanno ferma fede) possiate quella leggendo gli spiriti vostri ricreare, ec. Quai sien
quest' opere, dalle quali dice il Bandello che [p. 1644modifica]
raccoglievasi il saper legale del Sauli, non è agevole a definire. Il P. Oldoini dice (Athen. ligust p. 473) ch’ egli credesi autor de’ Comenti su’
tre ultimi libri del Codice che dall’ Alciati furono pubblicati, e che ciò affermasi dall’Alciati
medesimo nella lettera dedicatoria al Sauli, che
lor va innanzi. Ma, a dir vero, l'Alciati in
quella lettera loda bensì lo studio di questa
scienza fatto dal Sauli, e dice che molto lume a
scrivere que' Comenti gli avea dato un libro
dal Sauli stesso prestatogli, ma di Comenti
da esso scritti non dice motto. Forse il Bandello intende di parlare di un libro che dice
l’Oldoini avere il Sauli fatto stampare, non so
in qual anno, in Milano ad uso de’ sacerdoti
che hanno cura di anime, da lui indirizzato
al clero della sua diocesi. Ei rinunciò al vescovado nel 1528, e ritirossi a viver privato in
Genova, ove venne a morte nel 1531, e fu
sepolto nella chiesa dell’Assunta in Carignano,
che dalla sua nobil famiglia fu magnificamente
innalzata. Più altri elogi del Sauli si posson
vedere presso i molti scrittori dall' Oldoini accennati.