Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VII/Libro III/Capo II

Capo II – Lingue straniere

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[p. 1553 modifica] [p. 1554 modifica]non mancarono all Italia uomini d’ingegno instancabile e laborioso, che si accinsero a coltivare e a promuovere questo studio. Già abbiamo osservato (l. 1, c. 5) che il primo saggio di Bibblia poliglotta, che si vedesse in Europa, fu il Salterio quadrilingue, stampato in Genova nel 1515 (a), e abbiamo ancora parlato della stamperia arabica aperta in Fano nel 1514, e dell’edizione dell’Alcorano fatta in Brescia, e della celebre stamperia di lingue orientali che il Cardinal Ferdinando de’ Medici aprì in Roma verso la fine del secolo. Or qui dobbiamo ricercar di coloro che in questi difficili studi occuparonsi con maggior lode, e segnarono agli altri la via per cui giungere alla cognizione di quelle lingue. II. Agostino Giustiniani, nel capo precedente mentovato già tra gli storici, fu l’editore del Salterio quadrilingue poc'anzi accennato. Anzi avea egli intrapresa una somigliante fatica riguardo a tutta la sacra Scrittura (V. Script. Ord. Praed. t. 2, p. 96, ec.); ma sol quella parte ne venne a luce. La fama che con quelopera egli ottenne, fece che verso il 151 *7 il re Francesco I chiamollo a Parigi per esservi (a) II primo a ideare una specie di Bibblia poliglotti» fu Aldo Manuzio il vecchio, come ci mostra una lettera da lui scritta l'anno i5o3, e riportata dal Maittaire (Ann. typogr. t. 2, p. 4)- s°l° “’el>t>e l’idea, ma ne pubblicò ancora un saggio in un foglio volante, di cui ha copia il più voite da me lodato abate Mercier, stampato in tre colonne, cioè in ebraico, in greco e in latino (V. Esprit des Joimiaux, 1 -qo, srpt. p.). [p. 1555 modifica]TERZO 1555 professore di lingue orientali in quella università, impiego da lui sostenuto per lo spazio di circa cinque anni; e mi maraviglio perciò, che nè il du Boulay, nè il Crevier abbian di lui fatta menzione. Ben ce ne ha lasciata memoria, oltre altri scrittori, Erasmo, che in una lettera scritta da Lovanio a" 19 di ottobre del! 1518, Invisit nos, dice (Epist t. 2, App. ep. 288), Episcopus Nebiensis Octapli Esalti’rii auctor, cujus in Apologia ad Fabrum honorificam facio mentionem. Est homo gloriosus magis quam virulentus, condì ictus est a Erge Galli arimi oifingentis francis. Di più altre opere da lui composte, o tradotte dal greco, si può vedere il catalogo presso i pp. Quetif ed Echard. Mentre il Giustiniani dava i primi saggi delle lingue orientali all Europa, un altro in esse dottissimo ne stava scrivendo prima di ogni altro le leggi grammaticali. Parlo di Teseo Ambrogio pavese, della nobil famiglia de conti d'Albonese nella Lomellina e canonico regolare della Congregazione di S. Giovanni Lai erano. Era egli nato nel 1469 (<*)• u U conte Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 2, p. 609), sull autorità del Rosini, afferma che compiuti appena i quindici mesi, parlava con somma prontezza; che attese agli studi delle umane lettere in Milano, donde poscia passò a Pavia allo studio (<7) Nella prima edizione di questa Storia io uvea parlato assai più in breve di Teseo, e qualche errore ancora era corso in questo articolo, cui perciò mi è sembralo opportuno il rifare internmenie, e il dargli maggior estensione colf aiuto singolarmente de’ lumi somministratimi dai eli. P. don Andrea Mazza abate casinese. [p. 1556 modifica]1556 i.ibro della giurisprudenza, c che in età di quindici anni scriveva in italiano, in latino e in greco con eleganza uguale a quella dei’ più dotti nelle lingue medesime. Del che però io non so se possa addursi testimonianza o pruova sicura, giacchè quella del P. Rosini sembra che a ciò non basti. Certo è che quanto al latino ei non fu mai elegante scrittore; che dai' suoi maestri ei non apprese del greco che i primi elementi e che nelle lingue orientali ei fu maestro a se stesso: Potuimus enim, dic egli stesso (Introduct. in Chald. Ling. p. 177), in multis deci pi, quandoquidem Latinus dumtaxat praeceptionibus, in quibus tantum profecimus, ut ad hunc gradum veniremus, atque Graecarum primis lite* rarum rudìmentis cocceptis, in rcliquis omnibus, de quibus in hac nostra variarum literarum harmonia locuti sumus, ego ipse (no e il Deus, quia non numtior) okredièay.rei coditi. Ch'egli apprendesse la giurisprudenza in Pavia, che vi avesse a maestri Stefano Ottone e Andrea Bassignana, e che ricevesse la laurea, è certo dai’ passi dell opera di Teseo citati dal conte. Mazzucchelli, e dal titolo della medesima, in cui s intitola J. V. D., e innoltre console del collegio de’ giudici di Pavia. Ma che si pensasse di conferirgli una cattedra, e che il duca di Milano lo avesse destinato suo ambasciadore, quando egli entrò tra canonici regolari lateranensi, non parmi ugualmente provato. Ciò ch è certo, per testimonianza dello stesso Teseo (ib. p. 14) si' è, ch egli, già canonico regolare, era in Roma, quando Giulio II nel 1512 diede incominciamento al general concilio lateranense, che fu [p. 1557 modifica]TERZO ‘ r>57 poi continuato da Leon X. Erano ad esso venuti alcuni Etiopi e alcuni Siro-Caldei, e volendo il sacerdote di questi, detto Giuseppe, celebrare la Messa nella sua lingua e nella sua liturgia, ciò non gli fu permesso, se prima essa non fosse diligentemente esaminata, e ne fu dato l’incarico a Teseo. Egli confessa che allora appena sapeva i primi elementi delle lingue ebraica, caldaica e arabica, e che perciò si diede a studiarle con più attenzione, valendosi singolarmente dell’opera di un certo Giuseppe Gallo ebreo, figlio di un rabino medico di Giulio II (cioè di Samuele Sarfadi, di cui e del figliuolo ancora detto da altri Giosifonte parla il ch. ab. Marini (Ai, p. 290, ec.) nella sua opera degli Archiatri pontifici), e tanto in esse si avanzò, che potè esaminare la Liturgia, e avendola giudicata ortodossa, fu permesso l usarne. Questo è ciò solo che dice FAmbrogio; non già che da quegli Etiopi e Caldei egli imparasse le loro lingue, come affermano il conte Mazzucchelli e il Vidmanstadio da lui citato. Ben ei racconta che prese per comando di Leon X ad istruire nella lingua latina uno di quegli Orientali, cioè Elia mandato da Pietro patriarca de’ Maroniti (l. c. p. 78). Quanto ad Abramo de Balmes, che il Vidmanstadio pure gli dà a maestro, io veggo ch’egli il loda (ib. p. 15, 98), ma non veggo che il dica mai suo maestro. Aggiugne il conte Mazzucchelli, citando l autorità del Ghilini, che Teseo ebbe da Lon X in premio de’ suoi studi la cattedra di lingue orientali in Bologna, e [p. 1558 modifica]l558 LIBRO clic fu egli il primo clic ne fosse in quella università professore. Ma di ciò niuna memoria trovasi nei' monumenti dell’ università stessa, come mi ha assicurato il ch. sig. conte Fantuzzi che diligentemente gli ha esaminati. Di fatto lo stesso Teseo racconta (l. c p, 15) che, lasciata finalmente Roma, forse dopo la morte di Leon X, e tornato a Pavia, diedesi tosto a disporre l’edizione da molto tempo da lui meditata del Salterio in lingua caldaica. a cui voleva aggiugnere alcune notizie di quella e di altre lingue orientali; e già avea fatti fondere i caratteri perciò necessarii; quando costretto nel 1527 a passare a Ravenna pel capitolo del suo Ordine, accadde in quel tempo il funesto e orribil sacco della città di Pavia, nella qual occasione il suo Salterio caldaico, e quanto egli avea di codici caldei, siriaci, armeni, ebraici e greci, e di altre lingue a gran prezzo da lui comperati in Roma, e gli apparecchi già fatti per la mentovata edizione andarono dissipati e dispersi. Quanto ei fosse per ciò turbato ed afflitto, nol può immaginare se non chi ha sperimentato in se stesso il dolore di vedere le sue fatiche e i suoi studi di molti e molti anni andare inutilmente perduti. Pare ch’ ei non avesse coraggio di tornare alla sua patria. Certo nel 1529) egli era in Reggio, come ci mostra un passo del Vidmanstadio riportato dal conte Mazzucchelli. Indi passò a Ferrara, della qual città, come della più tranquilla e sicura che fosse in Italia, e del duca Ercole II che nel 1534 cominciò ad esserne signore, così [p. 1559 modifica]TERZO 155(J egli nella dedicatoria della sua Introduzione, come Francesco Scevola in una lettera ad essa premessa, fanno grandi elogi. Frattanto avvenne che nel 1534 trovossi presso di un pizzicagnolo, ma mezzo lacero, il Salterio caldaico ch ei già credeva smarrito, e tosto pensò di nuovo a renderlo pubblico. Ma volle prima dare alla luce quelle Istruzioni sulle lingue orientali che avea già altre volte apparecchiate. Comincionne egli la stampa in Ferrara, e poscia chiamato a reggere la sua canonica di S. Pietro in Ciel d’oro in Pavia, ivi continuolla, come raccogliesi da un passo singolarmente della stessa sua Introduzione (p. 14°); ov'e indica e nomina i molti letterati italiani non meno che oltramontani, i quali prima in Ferrara, poi in Pavia venivano a vedere in qual modo ei facesse eseguire la stampa di questa sua opera, la quale essendo la prima in cui si vedesse sì gran copia di caratteri orientali, eccitava giustamente raminirazione e riscoteva l’applauso di tutti. Terminossi finalmente la stampa dell’opera nella stessa canonica di S. Pietro il primo di marzo del 1539 Ed è probabile che Teseo pensasse a pubblicare in seguito il suo Salterio. Ma la morte, da cui fu rapito l anno seguente, non gliel permise. L’opera di Teseo ha per titolo: Introducilo in Chaldaicam Linguani, Syriacani, at* que jtrmcnicam et decem alias linguas, duini eternai dìffercntium alphabeta circiler quadragin fa, et eorumdem invicem conformatio, ec.; e l’ autore accenna di essere ancor pronto a pubblicare più altri alfabeti, se la sua fatica fosse stata approvata. Ei dedicolla ad Afranio [p. 1560 modifica]l56o LIBRO suo zio paterno, e allora canonico in Ferrara (a)} e che fin dalla fanciullezza era stato (a) 11 canonico Afranio de’ conti d’Albonese, benchè non possa annoverarsi fra’ letterati, ha però qualche diritto ad aver luogo in questa Storia, perchè egli fu, se non l'inventore, certo il perfezionatore di uno strumento musicale, cioè del fagotto. In tre passi della sua opera ne parla Teseo di lui nipote; e in primo luogo ei ne descrive a lungo e con somma esattezza tutte le parti interne ed esterne (p. 33, ec.) e la grande varietà di voci ch’ esso rendeva, e aggiugne che questo strumento era stato prima lavorato in Ungheria, ma così imperfetto e mancante, che non rendeva che dodici voci, e che con troppa facilità si scordava; che Afranio avea tentato per mezzo di diversi artefici dell’Allemagna e dell’Ungheria (ove probabilmente si era recato col Cardinal Ippolito d’Este il vecchio) di renderlo più perfetto, ma inutilmente; e che disperato dell’esito, erasene tornato in Italia, lasciando in Ungheria quell’infelice strumento; che poscia, dopo l espugnazione di Belgrado fatta dal Sultano ottomano, lo strumento medesimo era stato portato in Italia, e a Ferrara, ove per mezzo di Giambattista Ravilio artefice ferrarese era riuscito ad Afranio di perfezionarlo, aggiungendovi due lingue o cannucce, una d’argento, l’altra di bronzo, e'col mezzo di dieci nuovi forami conducendolo ad avere ventidue voci. Siegue poscia dicendo che Afranio possiede molti altri musicali segreti, per mezzo de’ (quali si può imitar l'armonia di tutti gli strumenti; e ch' egli, benchè abbia la casa piena de detti strumenti d'ogni maniera, a tutti però antipone il fagotto, e di esso singolarmente si compiace di usare. Quindi in altro luogo (p. 53) risponde ad uno che avea lo ripreso di avere inserita nella sua opera una sì lunga digression sul fagotto, corregge alcune cose che nel descriverle avea detta, ed aggiugne che non in Ungheria, ma in Ferrara, e nella casa del detto Cardinal Ippolito, esso era stato la prima volta fabbricato. E finalmente in altro luogo p. 178, ec.) porta la figura dello strumento medesimo, e rende ragione del non averla portata, ove ne avea data la descrizione. [p. 1561 modifica]TERZO 1561 allevato nella corte Estense. Ed è certo che opera di più vasta estensione riguardo alle lingue orientali non erasi ancor veduta, e ch’essa fa conoscere quale studio avesse in quella fatto il laborioso scrittore, di cui di fatto racconta Isiodoro Clario, in una lettera citata dal Mazzucchelli. che più di dodici ne possedeva perfettamente. Così non avesse egli imbrattata quest’opera con alcune cose cabalistiche, e con qualche superstiziosa credulità, come quella de’ caratteri de’ quali usa il Demonio, che gli furon mostrati da un furbo, e ch’ egli inserì nel suo libro (p. 212). Ma ciò non gli toglie la gloria di essere stato il primo in Europa ad illustrar tante lingue. Questa gloria però gli si volle contrastare dal celebre Guglielmo Postello. Mentre Teseo era in Ferrara, trasferitosi per qualche affare a Venezia, vi trovò il Postello tornato di fresco da Costantinopoli (p. 17, 192, ec.), e n ebbe qualche lume intorno alle lingue, e per gratitudine gli diede copia dell’Orazione dominicale che aveva fatta stampare in caldaico ed in armeno. Tornato poscia a Ferrara Teseo, mandò al Postello a Venezia alcuni alfabeti orientali da lui richiestigli; e il Postello tornato in Francia, ivi pubblicò nel 1538 gli alfabeti di dodici lingue: intorno a che scherzando Teseo dice che il Postello fece con lui ciò che Giovanni fece con Pietro, quando andò al Sepolcro. cioè che Giovanni come più giovane vi giunse prima, ma lasciò che Pietro come più vecchio prima di lui vi entrasse: Juvenis ipse, conchiude Teseo, in Gallias profectus, alias mihi epistolas scripsit, et cium, eptod postulai, Tiraboscjii, Voi XII. 36 [p. 1562 modifica]l50i LIBRO qua possimi dilige itila procuro, ut consequi valeat, duodecim linguarum libellum edidit. Edebat et Ambrosius, et licet tarili us a<l propositam metam senex pervenerit, prior tamen incepit, et pi ara, quae viderat, communicavit Del che ei reca in pruova le lettere che tra lui e il Postello erano corse, e che si leggono verso il fine dell’opera stessa. È certo dunque che Teseo prima del Postello cominciò a stampare il suo libro; e che, se questi il prevenne nel pubblicarlo, ei ne fu debitore al medesimo Teseo che gli somministrò molte notizie a ciò necessarie. E oltre ciò, assai più che il Postello innoltrossi Teseo, che tanto maggior numero di alfabeti inserì nella sua opera. A Teseo ancora dobbiamo la pubblicazione de’ Sermoni di d Callisto piacentino sulla Profezia di Aggeo, stampati in Pavia l’an 1540 e in una lettera, che lor va innanzi, ei si sottoscrive: D. Ambrosio di li Conti d Albonecio da Pavia Prevosto. Ili. Io ho voluto stendermi alquanto a rischiarar la memoria di questo canonico regolare, perchè mi è sembrato che ciò si dovesse al primo illustratore di tante lingue orientali che avesse l’Italia. Dopo questi due religiosi, che si possono considerare come i primi ristoratori dello studio di queste lingue, più altri ce ne offre questo secolo stesso, che in molte o in alcune di esse posero diligente studio, e ne dieder pruove co’ libri dati alla luce. Giuseppe Tramezzino veneziano, nipote del celebre stampatore Michele, vien lodato da Paolo Manuzio come uom dotto non sol nel latino e [p. 1563 modifica]TERZO i 563 nel greco, ma nell’arabico ancora, nel turchesco, e in altri linguaggi (Lettere, p. 127). Un Breve di Leon X, inserito tra le Lettere del cardinal Sadoleto (Sadoleti Epist. Pontjf, p. 68), sembra indicarci che Francesco Rosi ravennate avendo viaggiato nell Oriente, e avendo scoperto in una assai copiosa biblioteca, che vide in Damasco, un’ opera scritta in arabico e intitolata la Filosofia mistica d’Aristotele, l’avesse recata in latino. Ma veramente, come osserva il P. abate Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2, p. 292, ec.), ei fu il ritrovatore del codice, ma non ne fu il traduttore; e l’opera fu tradotta in latino da un certo Mosè Rova, ch’era allora in Damasco, corretta da Pier Niccolò Castellani faentino, e stampata poi a spese del Rosi e col privilegio di Leone X in Roma nel 1519. Un certo Pietro Abate natio dell’ Etiopia, uomo assai dotto, e ricevuto in sua corte da quel gran protettor delle lettere il cardinal Marcello Cervini, indusse due eruditi Italiani, ch’ erano alla corte medesima, a studiar quella lingua. Il primo fu Mariano Vittorio da Rieti, che fu poi vescovo della sua patria, e che, oltre l’edizione dell Opere di S. Girolamo, fu il primo a darci una Grammatica di quella lingua, stampata in Roma. L’altro fu Pier Paolo Gualtieri aretino che recò in lingua latina la Messa ed altre cose rituali degli Etiopi; intorno a che veggasi la Vita di Marcello II scritta dal Pollidori (p. 60, ec.). Il Gualtieri fu ancor segretario del detto pontefice; e se ne può legger l’iscrizion sepolcrale presso il ch. monsignor Buonamici (De cl. Pontif. Epist. Script, p. 246). [p. 1564 modifica]i564 Lmno Angiolo Canini natio di Anghiari in Toscana fu forse l’uomo il più dotto nelle lingue orientali, che in questo secol vivesse. Nel breve elogio che ne ha fatto il de Thou (Hist ad an. 1557), si afferma ch egli andò, per così dire, vagabondo per molto tempo insegnando le lingue orientali in Venezia, in Padova, in Bologna e in (Ispagna. Io però non trovo menzione alcuna di esso nella Storia delle due suddette università di Bologna e di Padova, e non parmi perciò probabile che fosse in quelle pubblico professore. Aggiugne il de Thou che il Canini fu poscia presso Andrea Dudizio, il quale ebbe gran nome e pel suo sapere e per le ambasciate da lui sostenute, e che allora studiava in Parigi; che ivi il Canini tenne pubblica scuola, e che ricevuto finalmente tra’ suoi domestici da Guglielmo du Prat vescovo di Clermont, finì di vivere nell’Auvergne nel 1557. In fatti dalla prefazione dal Canini premessa a suoi Ellenismi, stampati in Parigi nel 1555, raccogliesi che in quella città era allora il Dudizio, e dava in età giovanile grande aspettazione di se medesimo. Della scuola da lui tenuta in Parigi non fan parola i due storici di quella università. In ciò nondimeno l' autorità del de Thou sembra superiore ad ogni eccezione. Del soggiorno fatto dal Canini in quella città ci ha lasciata un altra memoria egli stesso nella dedica indirizzata al suddetto vescovo di Clermont della sua Gramatica della lingua siriaca che ha per titolo Institutiones Linguae Sj’riacae, Assirnicac, atquc Thalmudìeae, una cum Ethiopicae atque Arabicae collationc, [p. 1565 modifica]renzo 1565 stampata in Parigi nel i55 j Racconta in essa che tornando dalla Spagna in Francia insieme con Simone Guichard religioso Minimo, erasi per qualche tempo trattenuto in Belriguardo luogo della diocesi del detto vescovo, e che ivi avendo dal Guichard risaputi i meriti e le virtù non ordinarie di esso, ed essendosi perciò invogliato di sempre meglio conoscerlo, avea presto avuta l’occasione di provarne la bontà e la cortesia. Perciocchè essendo caduto infermo nel Viaggio dall’Auvergne a Parigi, ed essendo perciò entrato in quella città in assai povero stato, al mostrar ch’ egli fece una lettera di raccomandazion di quel vescovo, fu tosto provveduto di alloggio e di qualunque altra cosa gli bisognava. Questa lettera è scritta in Parigi nel 1553 dal Collegio degl Italiani. Due anni appresso pubblicò nella stessa città di Parigi i suoi Hellenismi ossia osservazioni sulla lingua greca, e li dedicò a Matteo Prioli giovane patrizio veneto ch'era allora in Parigi, ove pure trovavansi Mariano Savelli eruditissimo giovane, Fabrizio Brancacci e il suddetto Dudizio, co’ quali egli dice di aver tenuto discorso su quell’ argomento. Questa lettera ancora è scritta da Parigi a’ 29 d’agosto del 1555, non più però dal Collegio degl' Italiani, ma da quello di Cambray. Amendue queste opere son pregiatissime, e Tanaquillo le Fevre dice il Canivi il primo tra" gramatici greci (Nota. in 1 Scnliger.). Al fin della prima si aggiugne la spiegazione di alcuni passi del Nuovo Testamento. ch è inserita ancora nella raccolta de Critici Sacri (t. 7). Gli viene inoltre attribuita [p. 1566 modifica]l5G6 LIBRO una traduzione latina del Comento di Simplicio sul Manuale di Epitteto, da me non veduta {a). , IV. Fra tutte però le lingue orientali l ebraica fu la più coltivata, a cagion del vantaggio che da essa si trae per lo studio della sacra Scrittura. Nel parlar degl’ interpreti e de’ traduttori di essa, molti ne abbiam! già accennati che furono in quella assai dotti, e altri ancora ad altre occasioni abbiam nominati che ne fecero attento studio, e si è detto fra l altre cose della Gramatica di questa lingua pubblicata dal Bellarmino. Alcuni altri ne dobbiam qui indicare, che per questa ragion medesima ottennero molta fama. E io comincerò da un celebre cardinale che, benchè niun opera in questo genere pubblicasse, fu nondimeno nell’ ebraica lingua assai dotto, e per molti titoli è degno (a) Uno «le* più versali nelle lingue orientali, che vivessero sulla fine del secolo xvi, e sul principio del xvn, fu il celebre Bernardino Baldi. Nulla di tale argomento si ha di lui alle stampe. Ma quanto fosse in esse versato, cel mostrano le opere mss. originali che se ne conservano nella libreria Albani in Roma, e delle quali ci ha data contezza il eh. P. A fio (Vita tiri Baldi, p. ao5, ai4, ec.). Degna è d'osservarsi singolarmente la traduzione dal caldaico in latino della parafrasi d'Onhclò sul Pentateuco di Mose, da lui fatta in un anno, e illustrala con sue note, e divisa in cinque tomi in folio, la quale dall’ eru lilo danese sig Jacopo Giorgio Cristiano Adler, che l’ebbe sott‘occhio, fu detta per il mio tempo un capo tV opera. Ivi ancora si conserva parte de' Salmi da lui nuovamente tradotta dall"arabo in latino, due Dizionari e «ina Gramatica della lingua arabica con più altre cose alla medesima appartenenti, una imitazione della lingua persiana, e una raccolta di parole turchesche, gotiche e ungariche. [p. 1567 modifica]TERZO I *>67 di a\mi luogo distinto nella Storia della Letteratura italiana, cioè del Cardinal Federigo Fregoso. Fu egli figlio di Agostino I* regoso e di Gentile da Montefeltro sorella di Guidubaldo duca d i rbino, e fu fratello di Ottaviano doge di Genova sì celebre nelle Storie di quella Repubblica. In età ancor giovanile fu fatto arcivescovo di Salerno nel 1507, e abbiamo una lettera scritta agli 8 di maggio dell’ anno stesso dal suddetto duca d’Urbino al re Cattolico, perchè dia al suo nipote Federigo il possesso di quell’ arcivescovado Lettere de’ Principi, t. 2). Ma!la parzialità de’ Fregosi pel re di Francia fece che Federigo non potesse per lungo tempo ottenerlo; e fu probabilmente per ciò, che il pontefice Giulio II concedettegli nel 1508 l’amministrazione del vescovado di Gubbio (Sarti de Episc. Eugub. p. 216). In quest’ anno era il Fregoso presso il detto pontefice, il! quale avendo udita la grave malattia del duca Guidubaldo, colà tosto inviollo. Ma egli giunse quando il duca era morto, e di là scrisse al pontefice quella bellissima ed elegantissima relazione della morte di esso, che il Bembo inserì poi in quel suo libro scritto in quell’occasione in lode di Guidubaldo e di Lisabetta di lui moglie. E ivi del medesimo Federigo fa il Bembo un magnifico elogio, introducendo Sigismondo da Foligno a così ragionarne: Nullo cum homine profecto totos dies quam cum illo libentius conficio. Nam cum est perhumanus, lenis. comis, blandus, salibus etiam et lepore omni ac facetiis scatens, tum a gravitate atque prudentia, et miro quodam vocis, ac \>erborimi, [p. 1568 modifica]l568 LIBRO anirnique multo magis temperamento tran quiilitateque numquam discendit semper etiam et doctrinae studiis aliquid affert, quo delectere, ec. Negli anni seguenti troviamo il Fregoso ora in Bologna, ora in Roma, ora inUrbino, ora in Genova (Bembi Epist. fam. l. 4, ep. 23, 27); ed ei li passò nel coltivare gli ameni studi, benchè avvolto, mentr era in Genova, fra i tumulti delle discordie, pe’ quali anche sembra da una lettera del Bembo che egli e Ottaviano nel 1510 fossero esposti a gran pericoli, e ricevesser gran danno nelle loro sostanze (ib. ep. 25). Oltre l’ amicizia col Bembo, contrassela egli nella corte d’Urbino anche con Baldassar Castiglione, e ne abbiam pruova in una lettera a lui scritta da Federigo nel 1512 (Castigl. Lett. t. 2, p. 321). È probabile che verso questo tempo medesimo egli scrivesse la sua parafrasi dell Orazione domenicale in terza rima, che si ha alle stampe, e ch è riferita anche dal Crescimbeni (Coment, della volg. Poes. t. 2, p. 220), ed essa ci mostra che se il Fregoso avesse continuato ad esercitarsi nella poesia, sarebbe divenuto un de’ migliori e de più eleganti rimatori. Nel detto anno 1512 era il Fregoso in Roma, ove abitando in una casa medesima col Bembo, col Sadoleto e con Camnullo Paieoi ti, si vennero vicendevolmente animando ed aiutando ne più utili e ne’ più dilettevoli studi. Il Bembo scrivendo da Roma nel 1 di gennaio del 1513 a Ottaviano Fregoso, e parlandogli di Federico di lui fratello, Ita, gli dice (Famil. l. 5, ep. 7), jam mores instituit suos ut nihil profecto vel ad studia [p. 1569 modifica]TERZO v *^69 liierarttm ardentius, vel ad sui compositionem sedatius, vel ad aliorum usum atque consuetudinem mitius esse atque suavius illo possit, a quo cum discesseris, nihil est fere laerius nobis tribus Sadoleto, Palaeoto, me, qui ei conturbernales sumus. Quamquam et Caballus tuus nos saepissime invisit, et Mutius Arellius, ec. Ma gli studi di Federigo furono per qualche tempo interrotti dalle civili dissensioni della sua patria, e da’ guerreschi tumulti. Nello stesso anno 1513, essendo stato fatto doge di Genova Ottaviano, Federigo colà recossi per aver parte e negli onori e negli affari, e quella Repubblica si resse per qualche tempo all arbitrio di questi due fratelli, de’ quali, come osserva il Foglietta (in Elog. ill. Ligur.), quanto era di tranquilla e pacifica indole Ottaviano, altrettanto era Federigo di genio ardente e * d’indole coraggiosa, anzi tacciato da alcuni come uomo trasportato e impetuoso. Ei diè pruova de suoi militari talenti, e in alcuni incontri nella guerra civile tra ’l partito de’ suoi e quello degli Adorni e de’Fieschi, e nel condurre egli stesso una flotta contro i corsari dell Africa, di che oltre gli storici di quell'età (Foliett. Hist genuens. ad an. 1513, 1516) ci ha lasciata menzion l’Ariosto in quelle tre stanze che cominciano: Qui de la Istoria mia che non sia vera Federico Fulgoso è in dubbio alquanto, Che con l armata avendo la riviera Di Barbi 'liti trascorsa in ogni canto, Capitò quivi, ec. Orl. c. 42, st. 20, ec. [p. 1570 modifica]i5~o Linno (losì egli visse lutto rivolto a' pubblici affari, nel qual tempo se non potè coltivar molto gli studi, mostrossi per amico e protettore de dotti, come raccogliesi da alcune lettere del cardinal Cortese allora monaco, che venuto da Francia a Genova circa il 1520, fu da lui onorevolmente accolto, e regalato ancor di una mula per fare il viaggio di Roma (Cortesii Op. t. 2, p. ~S)y e da una di Benedetto Teocreno, che fu poi maestro de’figli di Francesco I, e che allor sembra che fosse famigliare di Federigo (ib. p. 81). In un altra lettera che il Cortese gli scrisse, poichè fu giunto a Roma, rallegrasi col Fregoso di un pingue beneficio, o, com egli dice, de amplissimo maximoque Sacerdotio (ib), p. 84) ch eragli stato conceduto, il quale io non saprei qual si fosse. 'Certo non fu allora la badia di S. Benigno di Dijon, che dal re Francesco I gli fu conferita sol quando fu costretto a fuggir dall’ Italia (Bembo, Lettere, t. 1, l. 5 j Op. t. 3, p. 38). Perciocchè espugnata Genova dagl Imperiali nel 1522, e fatto prigione il doge Ottaviano, Federigo a gran pena fuggitone, e postosi in mare, poco mancò che non vi rimanesse sommerso ‘7 e rifugiatosi in Francia, visse per qualche tempo nella suddetta badia. Abbiam molte lettere che in questa occasione si scrisser l’ un l altro il Fregoso e il Cortese (p. 88, ec.), e alcune altre a lui scritte dal Bembo (Lettere, t 1, l. 5 y Op. t. 3, p. 37), le quali ci mostrano la fortezza e il coraggio con cui l arcivescovo sostenne le sue avverse vicende. Rechiamo un sol passo di una di quelle del Fregoso [p. 1571 modifica]TERZO 1.r»7 I ni Coriose, che ci scuopre al tempo medesimo e l’eleganza di stile che gli era propria, e la costanza di cui era dotato: Quis enim, dic egli (p. 91), tam ferus ac ferreus, qui non patriae suae direptionem ac prope excidium deploret; quam ego ipse quasi inter ulnas meas confodi atque trucidari ab immanissimis hostibus vidi? Non possum equidem, etfatcor, in tam acerbo casu non dolere. Quamvis duae praeter hanc communem cladem insignes ac peculiares fortunae injuriae me pepulerunt. Tot scilicet amicorum, tot clientum, tot familiarium e.iril:uni atque interitus; deinde Octaviani fratris mei innocentissimi captivitas atque duris simus carcer. Ista quia numquam praevideram, quis enim tam lynceus? modo me excruciant, atque exanimant; ita tamen. ut non omimo me his curis atque solicitudinibus obrui sinam, quin et ad te et ad eos amicos, quos nihil molle de me, nihil demissum opinari volo, non semper respiciam. Ille vero, quae ad me tantum pertinent ex patria ejectio, eversio imperii nostri, fortunarum dissipatio atque rapina, nihil fere nos tangunt; tamtumque (abest, un pro his dolere, ac lamentari velim, ut etiam illis gratias habiturus sim non minimas, qui me, quamvis non amico animo, attamen una cum illis multis molestiis, multis laboribus, multi sque pcriculis liberavi runt, atque huc conjecerunt, ubi collectis atque. compositis hujus naufragii reliquiis, ed ea studia, a quibus di- • scedere minime oportebat. aliquando reverti posse non diffido. Queste lettere ci additano insieme alcune particolarità di quelle rivoluzioni [p. 1572 modifica]i5"2 Linno i* poco note agli storici, ma che non appartengono al mio argomento. Una sola ne accennerò io, cioè che il doge Ottaviano, dopo essere caduto nelle mani degl’Imperiali, e condotto non so dove, da essi fu ricondotto nel dicembre dell’ anno stesso a Genova, per poi trasportarlo, come avvenne, nel regno di Napoli. In Genova lo vide il Cortese, che dopo il sacco di quella città era colà tornato, e ne diè avviso a Federigo; e la descrizione ch’ ei fa dell invitta costanza di questo sventurato doge, è troppo bella, per non essere qui riferita: Proximis diebus (p. 98) cum Octavianus Princeps noster Genuam perductus esset deinceps Neapolim deducendus, aegre quidem impetrato aditu, bis ad ipsum accessi, fuique cum eo diutius. Mirum quanta animi constantia acrerbissimum hunc fortunae icrum tolerare mihi visus fuerit Perseverat adhuc pristina illa hilaritas in congres su, comitas in sermone, et (quod maxime mirum est) in vultu non tranquillitas modo, sed mira etiam serenitas. Qua vero ratione se ipsiun con sole tur, bine facile conjectura assequi potes, quod cum me paulo subtristiorem (nec enim mihi in ea parte imperare potueram l cognnvisset, prior ipse me consolari coepit Bone Deus! quarti in frac to, qtiam celso, quam erecto animo, commemorare coepit clarissimos Imperatores, qui immutata fortuna eamdem calamitatens subierant, quorum tantum abesset. ut se minorem in adversa fortuna haberi vellet, ut Jonge etiam omnibus illis magnitudine animi et constantia superiorem se esse arbitraretur. Et ea potissinium l [p. 1573 modifica]TERZO 1^7 vi de causa, quod cum Christianus esset, cons tanti ss ime confilerelur omnia Dei Optimi Max. disponi sapientia, et provi dentiti adminis trari, scirctipie, nihil sibi praeter ejusdem divinitatis decreta uccidere poti asse, et iccirco parunt prudentis (ore, ni si ea omnia aequissimo animo tolerasset. Itaque qui consolandi gratia accesseram, non parum ab eo solatii reportavi. Debbo però qui avvertire che nelle accennate lettere del Cortese, nelle quali trattasi de Fregosi, è corso un errore, per cui di due diverse lettere, e scritte in diversi tempi, se n è fatta una sola, ch è la 63. Questa è scritta da Genova al monaco Dionigi Faucher (p. 102, ec.), a cui il Cortese scrive dapprima che Federigo avealo fin allora trattenuto in Genova, dicendo di volersi giovare dei’ suoi consigli nel rimetter la calma e la tranquillità nella patria, disegno da lui formato, e per cui eseguire era pronto a sagrificare ogni cosa, e anche ad andarsene in esilio se l esito non avesse alle intenzioni sue corrisposto. Questa lettera dunque fu scritta certamente innanzi a 31 di maggio, nel qual giorno, saccheggiata Genova, Federigo se ne fuggì, nè più vi fece ritorno. Siegue poi il Cortese ragguagliando Dionigi della morte del Longolio, di cui aveagli scritto il Bembo. Or questa è certo che avvenne nel settembre dell anno stesso. Come dunque potè il Cortese scriver nel maggio ciò che sol nel settembre accadde? Egli è evidente che due lettere sono state insieme accozzate. E in fatti la prima parte si congiunge colla seconda con un praeterea, che nulla vi ha che fare, e che [p. 1574 modifica]«5^4 LIBRO 11011 è proprio della elegante maniera di scrivere del Cortese. Ma torniamo al Fregoso. V. Il più dolce conforto ch egli ebbe nelle sue sventure, fu il ricuperare i suoi libri, tra quali or nella sua badia, ora in Lione, passò soavemente alcuni anni. Le molte lettere che in quel tempo corsero tra lui e l suo amicissimo Sadoleto (Sadolet Epist famil. t. 1,p. 2.3o, a34; 253, 299, ec., ec.), ci fan vedere com essi fossero congiunti insieme non solo per unione di sentimenti, ma per somiglianza ancora di studi. Più distinta menzione di questo soggiorno fatto dal Fregoso in quel monastero ci ha lasciata il Sadoleto medesimo nell’ orazion funebre con cui ne onorò la morte: Cum is, dic egli (Op. t. 3, p. 26, ed. veron). ortus familia nobilissima.... cupidus vitae quietioris in Gallicanum Coenobium, quod Christianissimi Regis dono regendum tuendumque susceperat, se contulisset, atque inibi cum Religiosis fratribus nonnullis nocturnam diurnamque operam sacris literis impendens, conciones saepe ad Fratres hortandi, docendi, monendi, consolandique causa more majorum sancissimo rum quideni Patri un et eriuiitissimorum fiabe re t. In questo tempo dovette egli attendere principalmente allo studio delle lingue greca ed ebraica, che in lui loda il Sadoleto nella stessa orazione, e quello della seconda singolarmente ch’egli sopra le altre amava, come raccogliesi da una delle Lettere a lui scritte dal Sadoleto medesimo (l. c. p. 232, ec.). Ivi ancora è probabile ch egli scrivesse gli opuscoli che gli vengono attribuiti, de quali però, oltre le [p. 1575 modifica]TERZO IO75 accennale Lettere, e la parafrasi già mentovata dell Orazione domenicale, non abbiamo alle stampe che un trattato dell Orazione, stampato nel.1543, e che per essere stato in una ristampa maliziosamente unito ad alcuni trattati di Martino Lutero, fu con essi proibito (Zeno, Note al Fon fan. t. 2, p. 10, ec.). Le meditazioni sui Salmi i3o ei45, delle quali egli scrive in una sua lettera al Sadoleto (Sa(lole/i Epist. t. 1, p. 363, ec.), e un orazione a’ Genovesi della quale ragiona con molta lode il Cortese in una sua lettera (l. c. p. t)3), non credo che abbian veduta la luce. Questi opuscoli sono generalmente accennati dal Sadoleto nella citata Orazion funebre: An mens ejus et sermo, et incredibilis in eo Graccontili, La ti nani rn, tìt braearwnque Literarum scentia, (quae vivit in scriptis, et vie tura est? Plura enim ille confecit sui quidem praesentis ingenii, sed multo magis pietatis et religionis monimenta, ex quibus nos ali qua legimus. Lo studio che della lingua ebraica fece il Fregoso, viene ancor confermato dalla dedica della Gramatica ebraica a lui fatta da Sante Pagnini, di cui diremo tra poco. Nel 1529 tornò in Italia (Sadol. Epist. t 1, p. 275), e per più anni andò a risedere nel suo vescovado di Gubbio, di cui dopo essere stato lungamente amministratore, fu poi veramente vescovo, dacchè nel 1533 rinunciata ebbe la chiesa arcivescovil di Salerno, di cui solo tre anni addietro avea cominciato a godere le rendite. Delle cose da lui operate a pro della diocesi di Gubbio, delle fabbriche da lui innalzate, delle copiose [p. 1576 modifica]l576 LIBRO li in osine da lui profuse, per cui ottenne il glorioso nome di padre de’ poveri e di rifugio degl’ infelici, parla il dottissimo P. Sarti (De Epist. Eugub. p. 216). Abbiam molte lettere in quegli anni a lui scritte dal Bembo (Lettere, t 1, l. 5; Op. t. 3, p. 39, ec.), le quali ci mostrano quanto stretta amicizia continuasse a esser tra loro, e come il Fregoso inviasse al Bembo diversi presenti, e quello singolarmente di alcune medaglie che a lui furon carissime. Le virtù e; i meriti del Fregoso erano troppo luminosi, perchè potessero essere dimenticati da un pontefice di cui non v’ ebbe forse il più saggio nel conferire ad uomini illustri l onor della porpora. A 19 di dicembre del 1539 Paolo III, che avea in addietro impiegato il Fregoso nella congregazione per la riforma della Chiesa, di cui altrove abbiamo parlato a lungo, il dichiarò cardinale; e il Bembo dandogliene la nuova con sua lettera de 20 di dicembre, Jeri, gli scrive (ivi, p. 34), N. S. creò V. S. Cardinale, con 10 altri, ma primo di ciascuno, con tanto favore primieramente di S. S. e poi di tutto il Collegio, e con tante laudi vostre, che io stimo, che già molti e molti anni non ne sia stato nominato alcuno sì onoratamente, e con tanta soddisfazione universi amplissimi Ordinis. Siegue indi il Bembo pregandolo a non ricusare, come temevasi, e come infatti bramò il Fregoso, la profertagli dignità; e in altra lettera degli 1 1 di gennaio dell’ anno seguente gli significa il desiderio che il papa avea di vederlo in Roma pel tempo della Quaresima, dopo il quale gli avrebbe [p. 1577 modifica]TERZO 1577 permesso di ritornare alla sua diocesi. La lettera che il Sadoleto gli scrisse, congratulandosi della dignità conferitagli (l. c. t. 3, p. 207), è un bel monumento e dell’ alta stima ch’ egli faceane, e della costante amicizia che con lui avea sempre serbata. Ma poco tempo potè godere il Fregoso del nuovo onore, e finì di vivete in Gubbio a’ 13 di luglio del 1541 onorato dal Sadoleto medesimo dell’ orazion funebre già da noi accennata, da lui detta in Carpentras. e degli elogi che ne fece in diverse sue lettere (ib. p. 281, 288, 290), fra le quali è memorabile quella da lui scritta al pontefice Paolo III, in cui a riempiere il luogo vacante nel sacro collegio per la morte del Cardinal Fregoso, propone il Cortese, come il più degno di occuparlo, testimonianza ugualmente onorevole ad amendue que grand’ uomini, e al Sadoleto che il lor merito sì saggiamente conobbe. Bella ancora è la lettera che il Bembo scrisse a Leonora duchessa d’Urbino per consolarla nel grave rammarico che la morte del cardinal Fregoso le avea recato (l. c p. 330). Dopo le quali cose non vi sarà, io credo, chi non si maravigli della franchezza con cui. il Gerdesio ha ardito di annoverare il Fregoso tra quegl’italiani che si mostraron favorevoli alla pretesa riforma (Specimen Ital, reform. p. 2<)2). Ala abbiam già veduto altre volte, qual fede debbasi in ciò a questo scrittore. VI. Benchè il Cardinal Fregoso niun frutto ci abbia lasciato degli studi da lui fatti nella lingua ebraica, ei dovea però esser qui rammentato con distinzione pe’ molti vantaggi che da Tiraboschi, Voi. XII. 27 [p. 1578 modifica]i5;tí lib:.o lui ebber le scienze e le lettere, e pel lustro che loro accrebbe col coltivarle. Ora più brevemente, diremo di altri che coll opere loro promossero e agevolaron non poco lo studio delle lingue medesime. E un de primi fu Felice da Prato religioso agostiniano, e non già domenicano, come hanno creduto Sisto da Siena e l Altamura, confutati da’PP. Quetifed Echard (Script. Ord. Praed. t. 2, p. 340). Egli era natio di Prato in Toscana, ed era stato da’ genitori ebrei allevato nella lor religione. Convinto della verità della Religion cristiana, l abbracciò, e nella stessa sua patria entrò nelTOrdin suddetto prima del 1506, nel qual anno fu inviato agli studi in Padova, come pruova il P. Gandolfi (De CC. Script Augustin.). Da Padova passò Felice a Venezia, ove nel 1515 pubblicò il Salterio da lui tradotto dall originale ebraico nella lingua latina; la qual versione fu la prima tra le moderne che venisse alla luce; e fu all'interprete di onor tanto più grande, quanto più breve fu il tempo in essa impiegato; perciocchè in quindici giorni ei l’ebbe compiuta, come si raccoglie da un distico ad essa premesso. Venuto frattanto a Venezia il celebre stampatore Daniello Bomberg, si diè a scolaro nella lingua ebraica a Felice, e con tale aiuto potè nel 1518 pubblicare la sacra Scrittura in quella lingua insiem co’ Comenti ebraici sulla medesima riveduti e corretti dallo stesso Felice, che fu il primo a confrontare con parecchi codici il testo, e a notarne le varianti; la qual edizione fu la prima di quella stamperia (Wolf. Bibl. Hebr. t. 2, p. 365, 366) elio [p. 1579 modifica]TERZO ^7^ divenne poi sì famosa -, e dalla prefazione che le va innanzi, si trae che sol dopo il 1515 prese il Bomberg sotto la direzione di Felice a studiar quella lingua, come osserva il ch. signor dott Giambernardo Derossi (De hebr. Typograph. Orig. p. 78). Alcuni Rabbini si sollevarono contro di questa edizion della Bibbia, cercando di screditarla nè è a stupirne, perchè dovette loro spiacere di vedere scoperti e confutati gli errori di cui essi aveano imbrattati co’ lor comenti quei sacri libri. Felice passò poscia a Roma, ov ebbe l’incarico di predicare agli Ebrei, e fu anche dalla sua Religione inviato l’an 1522 in Ispagna al pontefice Adriano VI, e morì finalmente in età di circa cento anni nel 1558. Di altre versioni o di tutta la Bibblia, o di parte della medesima, e de’ dotti Italiani che ne furono autori, come di Agostino Steuco, d’Isidoro Clario, di Sisto da Siena, di Pietro Quirini, di Antonio Agellio, e di più altri, si è detto altrove e si è ancor mentovata quella di Sante Pagnini, della quale abbiam veduto quanto diversi sieno i giudizii degli eruditi. Ma di questo scrittore dobbiam qui ragionare di nuovo, perchè oltre quella versione, ei ci diede e un ampio Lessico e una diffusa Gramatica di quella lingua, il primo in Lione nell an’1529, la seconda ivi nel 1526. E di amendue si son poscia fatte altre edizioni. Egli era lucchese di patria, nato circa il *47°j e ìn di sedici anni entrato nell'Ordine de’ Predicatori. Visse lungamente in Lione, ove anche finì di vivere nel 1541 a 24 di agosto: e in quale stima egli vi fosse, quanto [p. 1580 modifica]l58o LIBRO piamente si adoperasse a giovamento spirituale dei’ Fiorentini ch erano in quella città, e a tener da essa lontane le recenti eresie, con qual onore gli fossero celebrate da que' cittadini solenni esequie, si può veder nelle testimonianze degli scrittori di que' tempi, recate da’ PP. Quetif ed Echard (Script Ord. Praed. t 2, p. 1 1 \) y i quali ancora ci danno più distinte notizie di questo dottissimo uomo, e accennan la Vita che ne scrisse Guglielmo Pagnini di lui parente, stampata in Roma nel 1653, e annoverano esattamente tutte le opere da esso composte, eie diverse loro edizioni. Tra più benemeriti della lingua santa, fu ancora D. Marco Marini bresciano canonico regolare della Congregazione di S. Salvadore, di cui non mi farò a scrivere stesamente la Vita, poichè già l’abbiamo scritta con molta esattezza ed eleganza dal P. abate Gianluigi Mingarelli dello stesso Ordine, e premessa a’ Comenti letterali su i Salmi dello stesso Marini, da lui la prima volta pubblicati in Bologna nel 1748 Del Marini abbiamo una Grammatica ebraica stampata in Basilea nel 1:180, e un copioso Lessico, ch è in molta stima presso gl'intendenti di quella lingua, intitolato Arca Noe, pubblicato nel 1593, Il concetto con cui egli era d'uomo in essa dottissimo, il fè chiamare a Roma da Gregorio XIII che gli diè rincarico di emendare i libri de’Rabbini, gli assegnò un'annua pensione, e gli proferì ancora più vescovadi da lui sempre rifiutati; e altre opere si apparecchiava egli a scrivere, quando fu dalla morte rapito in Brescia nel 15<)4 in età di circa cinquanlatrè anni. A questi più [p. 1581 modifica]TERZO 1581 illustri coltivatori della lingua ebraica possiamo aggiugnerne alcuni altri men celebri, come Benedetto Falco, che nel 1520 pubblicò in Napoli un opuscolo De Origine hebraicarum, graecarum latinarumque Linguarum; Guglielmo de Franchi, di cui si ha una Gramatica ebraica stampata in Bergamo nel 1591; David de Pomis ebreo, che oltra la traduzione dell Ecclesiaste in lingua italiana, e qualche altra operetta spettante a medicina, diè ancora in luce un Dizionario ebraico, latino e italiano stampato in Venezia nel 1587, e da lui dedicato al pontefice Sisto V; Pellegrino degli Erri modenese, di cui si ha una traduzion dall’ebreo in prosa italiana de Salmi di Davide con alcuni comenti stampata in Venezia nel 1573, e dal traduttor dedicata al conte Fulvio Raugone (a)) Francesco Giorgio dell' Ordine de’ Minori Osservanti, di cui parlato abbiam tra’filosofi, e Arcangelo di Borgonuovo di lui scolaro dell'Ordine stesso, il quale però dal suo maestro apprese più ad andare perduto dietro alle inutili cabalistiche speculazioni, che a giovarsi con vantaggio del pubblico dello studio di quella lingua (Mazzucch. Scritt. ital. t. 2, par. 3, p. 1773, ec.); Fortunio Spira, il cui studio della lingua medesima viene accennato in una sua lettera ad esso scritta da Claudio Tolommei (Tolom. Lett. Ven. 1565, p. G5)j Niccolò Scutelli agostiniano, di cui si ha alla stampa una dissertazione De Masora sive Critica Hc(o) I)i Pellegrino degli Erri si posson veder notìzie nelU biblioteca modenese (l. a, p. 264, ec.). [p. 1582 modifica]158:5 unno braeorum sacra, olire una traduzione dell’opera di Jamblico su’ Misterii egiziani stampata in Roma nel 1556, e qualche altro lavoro di somigliante argomento; e più altri che si potrebbono rammentare, se il già detto non provasse abbastanza che non furon lenti gl’ingegni italiani nel volgersi a coltivare quel difficil linguaggio. VII. Come nelle altre scienze, così ancor nelle lingue orientali, e nell’ebraica principalmente, ebbero gli Oltramontani alle loro università alcuni professori italiani colà rifugiatisi per seguire impunemente le nuove eresie. E due furon tra essi di più chiaro nome, Francesco Stancati ed Emanuello Tremellio. Del primo, che fu mantovano di patria, parla a lungo il Bayle (Dict. art. Stancari), e dopo tutti gli altri scrittori della Storia ecclesiastica de’ Protestanti, anche il Gerdesio (Specimen Ital. re forni, p. 337), il qual ne rammenta un trattato della Riformazione da lui composto in lingua italiana, mentr era ancora in Italia, dedicato a’ magistrati veneti, e stampato in Basilea nel 1547, di cui non veggo che i nostri scrittori faccian menzione. Egli era allora probabilmente nella terra di Spilimbergo nel Friuli, ove sappiamo che circa questo tempo ei fu professore di lingua ebraica nell’accademia che a coltivamento di essa e della greca e della latina avea istituita Bernardino Partenio (Liruti, Notiz. de Letter. del Friuli, t. 2, p. 116). Lo scoprirsi, che con ciò egli fece, seguace degli errori di Lutero, lo costrinse a prender la fuga, e andossene dapprima in Cracovia, ove fu professore [p. 1583 modifica]TERZO i583 di lingua ebraica, quindi passò a Konigsberg nella Prussia, indi di nuovo in Polonia. La sua apostasia avrebbelo renduto caro a Protestanti, sei non si fosse mostrato troppo amante di novità, e non avesse sostenute tali opinioni, E er cui da tutti gli eretici fu come eretico abborrito e confutato, e parecchi sinodi contro di lui si raccolsero; ma inutilmente quanto a farlo ravvedere dei suoi errori, ne’ quali, ostinato c odialo ugualmente da’ Cattolici e da Protestanti, morì nel Le opere teologiche da lui composte si annoverano da’ sopraddetti scrittori. A me basterà fadditare la Gramática della lingua ebraica da lui scritta, e stampata fin dal 1525, e poscia più altre volte. Più dotto ancora nella medesima lingua fu Emanuello Tremellio ferrarese, di cui pure parla stesamente il Gerdesio (l. c. p. 341). Egli era figlio di padre ebreo, e per opera del cardinal Polo e di Marcantonio Flaminio avea abbracciata la Religion cristiana. Il conversar ch'egli fece in Ferrara e in Lucca con alcuni imbevuti delle recenti eresie, lo indusse a seguire le loro opinioni: ed ei fu singolarmente sedotto da Pier Martire Vermiglio, con cui trattennesi per qualche tempo in Lucca nella canonica di S. Fridiano, ove quegli era priore, e donde il Tremellio gli tenne dietro, e fissò prima la sua dimora in Argentina, indi a’ tempi di Edoardo VI tragittò in Inghilterra; tornò poscia in Allemagna, e in Hornbach e in Heidelberga fu professore di lingua ebraica; passò poscia nel medesimo impiego a Metz, e di là a Sedan, ove nel 1580, in età di circa scttanf anni, fio» di [p. 1584 modifica]l584 LIBRO vivere. Tulle le opere da lui pubblicate appartengono allo studio delle lingue orientali; e ne abbiamo la Gramatica ebraica, e in oltre la caldaica e la siriaca, un Catechismo in ebraico, i Comenti sulla Profezia di Osea, la traduzione latina della Versione siriaca del nuovo Testamento, che da’ teologi di Lovanio, fatto qualche leggier cambiamento, fu giudicata degna della lor pubblica approvazione, e una nuova versione del Testamento Vecchio sugli originali ebraici da lui cominciata insieme con Francesco Giunio, da cui fu poi pubblicata nel 1584 5 intorno alle quali opere, oltre il Gerdesio, si posson vedere le osservazioni delTeissier (Elog. des Homm. sav. t. 1, p. 497; ec-)> e degli altri scrittori da lui citati. Vili. Più utile e più glorioso all’Italia fu l’imm piego de’ loro talenti nello studio di questa lingua, che fecero due altri Italiani chiamati dal re Francesco I a Parigi, perchè ivi ne fossero professori. Il primo fu Paolo Paradisi soprannomato Canossa, di patria veneziano (Sansovino, Venez. p. 592, ed. Ven. 1663), ebreo di nascita, ma poi fatto cristiano. Non sappiam quando passasse in Francia. Sappiamo solo ch’ei fu in Parigi professore di lingua ebraica, e che in essa istruì Margherita reina di Navarra (V. Gaillard. Hist. de Francois 7, t. *j,p. 308 ec.). Abbiamo di lui un Dialogo latino sul modo di leggere in quella lingua, stampato in Parigi nel 1534, innanzi al qual si trovano alcuni versi latini da lui composti in lode della suddetta reina. L’altro fu Agacio Guidacerio calabrese, di cui parlano gli scrittori napoletani, [p. 1585 modifica]TERZO 130J e singolarmente il Tafuri (Scritt del Regno di Nap. t 3, par. i, p. 653, ec.). A’tempi di Leon X fu professore di lingua ebraica in 1 ionia, ove avea raccolta una scelta e copiosa biblioteca di codici e di libri a quello studio opportuni. Il sacco di Roma fu a lui ancora, come a tanti altri dotti, fatale, e fra mille pericoli a gran pena si rifugiò in Avignone, ove dal vicelegato Giovanni Niccolai fu amorevolmente accolto. Passò indi a Parigi, ove si acquistò in stima de’ più dotti uomini di quella città, e fu destinato pubblico professore della lingua medesima (Gaillard. l. c p. 310, ec.). Fin da quando egli era in Roma, avea ivi pubblicata una Gramatica ebraica dedicata a Leon X, cui poscia migliorò ed accrebbe, e una nuova edizione ne fece in Parigi nel 1539 Parecchi Comenti innoltre pubblicò sulla sacra Scrittura, de quali ci dà il catalogo, oltre i sopraccitati scrittori, il P. de Long (Bibl. sacra, t. 2, p. 757). Egli venne a morte in Parigi nel 1542, in età di sessantacinque anni (Barrius, de Antiq. et situ Calabr. l. 3, c. 20). IX. Ma fra le lingue straniere quella che eccitò maggiormente l’ entusiasmo degl’ ingegni italiani di questo secolo, fu la greca. Il soggiorno in Italia di tanti Greci tra noi rifugiati dopo la rovina della lor patria, le cattedre di quella lingua in tante città erette e ad essi assegnate, le opere dei loro antichi scrittori da essi recate in Italia, pubblicate, comentate, tradotte, ne stesero e propagarono talmente lo studio, che era anzi disonor d ignorarla, che onore il saperla. Si scorrano tutti i copi [p. 1586 modifica]1586, LIBRO di questo tomo, e appena s’incontrerà uom celebre nella letteratura, che non fosse ben istruito nel greco, e che non ne desse la pruova col recare o in italiano o in latino qualche scrittore di quella lingua. Anzi la cosa giunse a tal segno, che parve quasi che la lingua latina fosse per soffrirne gran danno, e che corresse pericolo di venire dimenticata: Quoque te veritas, scrive Bartolommeo Ricci in una sua lettera a Giambattista Pigna (Riccii Op. t. 2,! p. 377), parlando della lingua greca, cam lin~ guani altius radices egisse videbis. Haec enim jampridem in Germaniam, in Galliam, atque usque ad ultimas Gades penetravit In Italia vero ita dominati ir, ut pene Latinam linguam inde quoque dejecisse videatur. Si quidem in ea complures reperiantur, qui ne verbum quidem Latinum proferre sciunt, cum Grucce op» tirne scire existimentur. Non solo nelle più celebri università, ma in quelle città ancora che non aveano un pubblico studio generale, erano nondimeno maestri di quella lingua \ c noi già ne abbiam veduto altrove, e ne vedremo in questo capo medesimo diversi esempii. Qui basti accennare Venezia, ov era una cattedra di lingua greca, e ove venendo a mancare chi la occupava, solevasi bandire pubblicamente che chi volea sottentrarvi, venisse a dar pubblico saggio del suo sapere. E una bella testimonianza di ciò abbiamo in una lettera di Ambrogio Leone ad Erasmo, scritta in Venezia a’ 19 di luglio del 1518, la quale ci dà una sì gloriosa idea dell universale fervore in questo studi, ch’ ella merita di esser qui [p. 1587 modifica]•l’Enzo ^ N riferita: Scias, gli scriv egli (Erasmi Epist. t. 1, ep. 3a4) » Senati 1 Eencto sancitimi esse, atque etiam praeconio publicatum, eligendum esse successorem Marco Musuro 1 qui pub lice Graecas literas auditores doceat, stipendiumque centenorum atireorum decretimi. JS amque statutum est tempus duorum mensium, quo competitores et nomina dent, et legendo et aperi ern lo Graecos auctores ostendant, qui viri sint, et quantum lingua et ingenio polleant Si quis ergo forte fuerit, qui per ista eli mata nomine et scienlia Graerarum lite ramni claresceret, huic ipsi significato memoratum decretum... Ah haec nosti magnam auditorum turbam, qui veluti pullicini sub glociente Musuro pipiebant: illorum non pauci jam pullastri magni evaserunt, nec pipiunt, sed pipant et cantillant; iidem magno animo sunt etiam adscendendi suggestum praeceptoris. Anche ne’ monasteri s’introdusse e si coltivò questo studio, e in quei’ singolarmente dell’ Ordine di S. Benedetto, ove l’esempio e l’opera del Cortese, del Clario, del Borghini, del Folengo, e di altri dottissimi uomini ne accese un gran desiderio. Basti qui accennare ciò che della Badia fiorentina racconta l’eruditissimo P. abate Galletti, il quale co’ monumenti di essa dimostra che nel j 53*^, e ne' due anni seguenti furono ad essa chiamati Francesco Zeffi, o Zeffiro, e Francesco Verini, affinchè insegnassero a monaci quella lingua, com’ essi fecero felicemente (Ragion, della Badia fiorent, p. 200). Non è dunque a stupire se sì grande fu in Italia la copia degli uomini in questa lingua [p. 1588 modifica]1583 LIBRO dottissimi, e se de’ loro studi sì gran frutti raccolser!' le lettere e le scienze. Chiunque prenderà a scorrere la Biblioteca greca di Giannalberto Fabrizio, ove si annoverano le versioni di tutti gli antichi scrittori greci, vedrà che assai poche furono le loro opere che in questo secolo non fossero da qualche Italiano tradotte o in italiano, o in latino; e quanto alle versioni italiane, più ampie notizie ce ne somministrano le Biblioteche de’ Volgarizzatori del P. Paitoni e dell Argelati. Ma io invece di trattenermi nel fare una stucchevole numerazione di traduzioni e di edizioni, mi ristringerò a dire primieramente di alcuni Greci, che accolti e onorati in Italia sul principio del secolo, molto contribuirono a promuover lo studio della lor lingua; quindi di alcuni tra' moltissimi Italiani che o nell insegnarla nelle pubbliche scuole, o co’ libri a illustrazione di essa dati alla luce, si renderon più celebri. Il.più rinomato per avventura fra Greci fu Giovanni, o Giano, Lascari, che pel suo sapere ugualmente che pe suoi onesti costumi, e pel suo raro senno fu a dotti non meno che a’ grandi caro ed accetto. Di lui ha parlato a lungo il Boernero (De doctis homin. graec. p. 199, ec.), ma non in modo che molte cose non si possano aggiugnere da lui ommesse. La nobiltà della famiglia dalla quale egli scendeva, e le speranze che in età ancor giovanile dava del suo ingegno, il fecero amorevolmente accogliere dal Cardinal Bessarione, quando con Teodoro suo padre, fuggendo dalle rovine della patria, fu trasportato in Italia. Mandato [p. 1589 modifica]TERZO 1:>fy) all' università ili Padova, vi coltivò felicemente con molta sua lode gli studi; passò indi presso Lorenzo de’ Medici, da cui, come abbiamo altrove veduto (t. 6, par. 1, p. 124), fu inviato in Grecia, affin di raccogliere gran copia di codici per la celebre biblioteca da lui formata. Morto Lorenzo, e venuta a terra la potenza de’Medici, il Lascari fu dal re Carlo \ III condotto in Francia, e vi stette più anni, favorito da quel monarca non meno che da Luigi XII di lui successore. Guglielmo Budeo ebbe ivi la sorte di conoscerlo, e ne ricevette non poco aiuto per avanzarsi nello studio della lingua greca da lui intrapreso, benchè il trovarsi il Lascari quasi sempre col re lontan da Parigi, ove il Budeo abitava, non gli permettesse Tesser con lui sì sovente, come avrebbe bramato: Praecipue colui, scriv egli stesso a Cutberto Ti insta Ilo (Erasmi Epist. t. 1, ep. 249)« Joannem Lascarim vi rum Graecurn utraque lingua pereruditum... Is quum omnia caussa mea cuperet, non tamen magnopere juvare me potuit, quum ageret fere in comitatu Regis, multis ab hac urbe, millibus distractus, et ego frequens in urbe, raro in comitatu fuerim; fecit libens id demum quod potuit, ut et nonnumquam praesens mihi aliquid praelegeret, id quod vicies non contigit, et absens librorum scrinia concederet, et penes me deponeret. Luigi XII inviollo nel 1503 suo ambasciatore alla Repubblica veneta, nel qual impiego egli durò fino al 1508; ed è probabile che la guerra che l anno seguente si accese contro quella Repubblica, fosse il motivo per cui il Lascari dovette [p. 1590 modifica]iSyO LIBRO deporlo. Mentre egli era ambasciatore in Venezia Giano Parrasio gli scrisse una lettera piena di elogi, consultandolo sulla interpretazione di un passo di Virgilio, nella quale egli allontanavasi dal sentimento del Poliziano (Parrhas. de Quaesit. per Epist. ep. 1). Dal 1509 sino al 1513 non abbiamo sicuri riscontri di ciò che avvenisse del Lascari 5 ma è verisimile ch’ei si trattenesse privatamente in Venezia insegnando la lingua greca. E forse a questo tempo appartiene ciò che scrive Germano Brissio ad Erasmo: Memoriam refricemus consuetudinis illius atque amicitiae veteris, quae nobiscum olmi Venetiis intercessit dum ego sub Jano Lascare meo (cum dico meo, praeceptorem et veluti parentem optimum intelligo) vix dum Latinis litteris initiatus Graecis operam navate susciperem, tu in aedibus Aldi, ec. (Erasmi Epist. l. c. ep. 212). Appena Leone X fu eletto pontefice, Giovanni che avealo già conosciuto quand’ era presso Lorenzo de’ Medici, e che sapeva di esserne amato, gli scrisse tosto per rallegrarsi con lui, e al tempo medesimo si pose in viaggio per Roma, e la lettera che il Sadoleto in nome di Leone gli scrisse (Sadol. Epist. Pontific. p. 2), fa ben conoscere che il Lascari non era nelle sue speranze ingannato. In fatti di lui si valse il pontefice per eseguire un disegno proprio della regia sua magnificenza j perciocché, fatti venire a Roma molti giovani nobili dalla Grecia, e aperto loro un collegio, gli affidò al Lascari perchè li venisse istruendo nella greca e nella latina letteratura, nel qual tempo il Lascari, che già in Firenze avea fatta [p. 1591 modifica]TERZO * 1 la magnifica edizione dell’Antologia greca, fece in Roma venire in luce gli Scolii sull Iliade d’Omero, le Quistioni Omeriche di Porfirio, e altri Scolii antichi su sette Tragedie di Sofocle. Se non è corso errore in una data delle Lettere dal) Bembo scritte a nome di Leon X, il Lascari nell’ottobre del 1515 fece un viaggio in Francia; e il pontefice accompagnollo con sua lettera al re Francesco I, la quale contiene un sì bell elogio di esso, ch’ io non posso dispensarmi dal qui riportarla: Venit ad Te, dic egli (Re rubi Epist pontif. l. 11, ep. 1), Joannes Lascaris Constantinopolitanus observantissimus et stiuliosissirnus 'fui, w'r et genere apud Graecos admodum illustri, et doctrinae oplirnarum arti um ac literarum praestantia, et agendis rebus experientia, et morum probitate, omnisque vitae comitate plane insignis. Eum his tot tantisque de causis et amavi omni tempore, et in Pontificatu prope quotidie ita ejus virtute sum usus, ut nemo illo mihi carior sit, nemo jucundior. Neque solum nos, sed universa domus nostra, atque in 'primis Laurentius pater meus, quotidiano prope in convictu illum habuit; hominisque familiaritate et consuetudine mirifice est delectatus. Quarc grati ssi mum mihifece ris, ec. L'anno seguente però era il Lascari di nuovo. in Roma, come ci mostra una lettera dal Bembo scritta a nome dello stesso Leone al procuratore del Cardinal di Sion, in cui il prega a permettere, mentre il cardinale è assente, che il Lascari abiti la casa ch esso avea in Roma, ut ipse istic et pulchcrrimarurn aedi um elegantia, et horlorutn [p. 1592 modifica]l5t)2 LIBRO amoenitate, et sylva viridissima suis cum libris oblectare se se possit (ib. l. 13, ep. 19). L’an 1518, non si sa per qual ragione, il Lascari, abbandonata Roma, andossene in Francia invitato da Francesco I; di che maravigliossi in una sua lettera de’ 13 di dicembre dell’anno stesso Erasmo (Erasmi Epist. t. 1, ep. 347), il quale ancora scrivendo circa il tempo medesimo ad Arrigo Glareano, con lui si rallegra che goda dell’amicizia del Lascari, di cui fa grandi elogi (ib. ep. 361). Fu ivi carissimo al re Francesco, da cui insiem col Budeo fu adoperato a formare la magnifica biblioteca ch’ egli raccolse in Fontaineblau. Dal re medesimo fu poscia di nuovo mandato suo ambasciatore a Venezia, come afferma il Giraldi (De Poet. suor. temp. dial. 2; Op. t. 2, p. 552), il quale aggiugne che Paolo III essendo succeduto a Clemente VII, invitò il Lascari con larghe promesse in Roma, ove infatti recossi, e ove poi morì di podagra, alla quale era stato continuamente soggetto (Valer, de infeL Lit. p. 59), non molto dopo, lasciando erede un suo figlio di nome Angelo, il che ci mostra ch’egli morì verso il 1535, essendo in età di presso a 110vant’ anni, secondo il Giovio (E log. Vir. liter. ill. p. 21). Delle opere da lui pubblicate ci dà in breve notizia il suddetto Giraldi, dicendo: Janus ergo, ut scitis, cum Graece et Latine doctus esset, reliquit epigrammata permulta in utraque lingua, quorum pars minima Basileae excusa est cum libello excerpto ex Polybii historiis de mili da Romanorum, atque in primis de Castrorum meratione, quam ipse ex [p. 1593 modifica]I TERZO i5y3 Gracco in Latinum scrnioneni converte rat; edititi et Fiorenti ae primus Graecorum Epigrammatum Volumen literis antiquis excusum una cum sua epistola eruditissima ad Petrum Medicen Laurentii filium; e soggiugne poscia che il Lascari in ciò solo fu poco saggio, che un epigramma scrisse e pubblicò contro Virgilio, per cui molti in Roma scrisser contro di lui, e scemaron la stima che ne avean formata. Il Giovio riflettendo alle pochissime opere che il Lascari pubblicò, lo accusa come uom pigro e troppo amante dell’ozio; ma i viaggi e i pubblici impieghi ne’ quali fu occupato, impedirono probabilmente il Lascari dal lasciarci più copiosi monumenti del suo studio e del suo ingegno. l)i alcune altre cose che di esso ci son rimaste, e di qualche altra circostanza della sua vita, ch’ io ho per brevità tralasciata, si potranno trovare più minute notizie presso il Boernero; a cui io aggiugnerò che una lettera italiana se ne ha nella Raccolta del l’ino (t. 2, p. 145). XI. Scolaro del! Lascari fu Marco Musuro, natio di Creta, di cui pure ha diligentemente scritto il Boernero (l. c. p. 219, ec.). Da lui fu istruito nella greca e latina letteratura, poichè in amendue era eccellente il Lascari, e in amendue forse ancora più che il maestro si segnalò il Musuro. Dal 1503 fino al 1509 fu professore di lingua greca nella università di Padova, ma con assai tenue stipendio, che non giunse sul fine che a 140 ducati (Facciol. Fasti; pars 1, p. 55); e Erasmo, che di quel tempo fu in Padova, e da cui il Musuro è detto ilHABOSCHI, Voi. XII. 28 [p. 1594 modifica]Latinae linguae usque ad miraculum doctus, quod vix ulli Graeco contigit... deinde totius Philosophiae non tantum studiosissimus (Epist. t. 1, ep. 671), afferma che in tutto il corso dell'anno, appena quattro giorni passavano in cui egli non tenesse scuola. Quando la guerra costrinse quella università a disciogliersi, il Musuro tornò a Venezia, ove tenne per più anni pubblica, scuola di lingua greca con grande concorso e con gran Frutto de suoi uditori, come abbiam poc’ anzi osservato, e come si afferma ancor dal Giraldi (l. c.p. 553, al qual dice ch era ammirabile l’erudizion del Musuro nel confrontare tra loro gli autori greci e latini, e che molti dottissimi uomini uscirono da quella scuola. Al tempo medesimo ei fu di grande ajuto ad Aldo Manuzio nelle belle edizioni che questi andava pubblicando de' greci scrittori, molti de’quali corretti furono dal Musuro, a molti aggiunse o prefazione o epigrammi, come si può vedere dall’ enumerazione che ne fa il Boernero. Verso il 1517 Leone X, per opera di Alberto Pio e del La» scari, chiamollo a Roma, e gli conferì l’ arcivescovado di Malvasia) e abbiamo una lettera scrittagli da Londra da Niccolò Sagondino a 22 di aprile del 1517, nella quale con lui rallegrasi di questa sua dignità (Erasmi Epist. t. 2, Append. ep. 130). Ma poco tempo ne potè egli godere, perciocchè nell autunno deianno stesso, in età ancor immatura, venne a morte. Il Valeriano (De Literat. infel. l. 1, p. 11) e il Giovio (l. c. p. 20), troppo facili nell’ adottare i rumor popolari, affermano [p. 1595 modifica]TERZO 15()5 clic il doloro di non vedersi onorato della porpora, a cui aspirava, lo condusse al sepolcro. Ma il Giraldi ci assicura che fu questa una voce calunniosamente sparsa dagli emuli del Musuro, che nulla trovando in lui a riprendere, vollero oscurarne la gloria col dipingerlo stranamente ambizioso. Questi ci ha ancor lasciata memoria delle poche opere da esso composte: Scripsit Epigrammata multa, quorum aliqua sunt edita; legitur et libeUus scu Encomiati in Platone m Graece elegiaco cannine t/oc fissitue concinnatum. Delle quali cose più minutamente ragiona il Boernero, il quale ancora rammenta gli onorevoli elogi che ne han fatto i più eruditi uomini di quell’ età; a quali si può aggiugnere quello di Bartolommeo Ricci che in una sua lettera narra quanto amorevolmente lo accogliesse in Venezia nel 1513 il Musuro, a cui Andrea Navagero avealo raccomandato (Riccii Op. t 2, p. 229). Di lui ancora si ha una lettera italiana nella Raccolta del Pino (l. c.), ove però si dee corregger la data, perciocchè essa è segnata i5oi, c il Musuro vi si sottoscrive col titolo di arcivescovo, il che non accadde che sedici anni appresso. X1T. Di molti altri Greci che negli ultimi anni del secol precedente fin verso alla metà di quello \ di cui scriv ¡amo, furono pel lor sapere onorevolmente accolti in Italia, fa menzione il suddetto Giraldi (l. c. p. 551), e io ridurrò in breve le notizie ch’ ei ce ne somministra. Demetrio Mosco figliuol di Giovanni fu lungamente in Ferrara presso i Rangoni, e alla Mirandola presso i Pichi, e in Mantova ancora e in Venezia ebbe [p. 1596 modifica]15<j6 LIBRO parecchi discepoli, scrisse molte poesie ed alcune orazioni, e pubblicò un poema sopra Elena di cui il Giraldi dice gran lodi. Arsenio vescovo di Monembasia, dice il Giraldi, ossia Malvasia fu in Venezia e in Roma a’ tempi di Leone X coltivò la poesia latina, e offri al pontefice un libro da lui intrecciato co’ detti di varii autori in prosa e in verso. Giorgio Balsamone, greco egli ancora, visse lungamente e fino alla morte tra’ famigliari del Cardinal Salviati, e se ne leggono alcune poesie ed altre cose in prosa Soggiugne poscia il Giraldi alcuni che ancor viveano j cioè Antonio Ipparco dell isola di Corfù, che dopo essere stato per qualche tempo professore di lingua greca in Venezia, era tornato alla patria; Matteo Avario natio della stessa isola, scolaro del Lascari, uomo assai letterato, che insieme con un altro Greco detto Costantino stava in corte del Cardinal Niccolò Ridolfi; Niccolò Nesiota, che stava in Italia studiando la lingua latina e la filosofia, e in cui il Giraldi desiderava pietà e religione alquanto maggiore che non mostrava finalmente Antonio e Zaccaria Colloergi, e Giovanni Casimatio giovane di grandi speranze, e nipote di Francesco Porto, di cui tra poco diremo. A questi possiamo aggiungnere Michele Sofia no, figlio forse o nipote di quel Sofiano di cui abbiamo detto altrove, che o alla fine del secolo precedente, o al principio di questo teneva scuola di greco in Roma (t. 6, par. 2, p. 749). Tra le lettere italiane di Paolo Manuzio una ne abbiamo a lui scritta nel 1555, nella qual gli dà avviso che il Pantagato aveagli chiesto ove [p. 1597 modifica]TEltfO li>97 fosse, e che parea disposto a cercargli qualche utile impiego, ma che gli avea risposto che Michele voleva allora continuare i suoi filosofici studi (Lett. p. 80). A lui ancor più onorevole è una lettera latina, scrittagli dallo stesso Manuzio, in cui, dopo avergli spiegato il dispiacer che gli avea recato l’udire che un zio materno di esso era caduto in man de corsari, lo esorta a moderare alquanto il troppo fervido studio, per cui era poc’anzi caduto infermo, e quindi soggiugne: Cui porro ignota est vcl ingeriii fui, vel memorine prue stantia, qui bus non modo ut emineres in lingua Graeca, id quod omnesfatentar, sed ut quacumque re proposita peritissime disputes, facile consecutus es? Itaque jure expetitur a nobilissimis viris amicitia et. consuetudo tua, jure te dilingunt ac laudant, quicumque Patavino Gymnasio doctrinis liberalibus excellunt (Epist punii. I. \, cp. \ \). Paolo Gualdo della Vita del celebre Gianvincenzo Pinelli annovera Michele Sofiano come il primo tra letterati ch’egli si tenne in casa, e da lui dice che apprese la singolar perizia ch'ebbe nel greco. Io credo perciò, che questo Michele sia lo stesso che quel Giovanni Sofiano di cui Pier Vettori in una sua lettera scrive di aver intesa la morte dal suddetto Pinelli, lo dice nato in Grecia, ne loda altamente i costumi, il sapere, l'ingegno, per cui gran perdita nella morte di esso avean fatta le lettere; e aggiugne ch’era stato pregato Benedetto Varchi a scriver qualche cosa in lode del Sofiano, ma ch'egli ancora circa quel tempo stesso era morto d apoplesia (Victor. Epist. l. 5. p. 127). [p. 1598 modifica]1598 libro La lettera non ha data. Ma come il Varchi morì nel i5(>5, così deesi credere che nell’anno stesso morisse il Soliano. XIII. I due ultimi Greci de quali dobbiam far menzione, se ebber fama d’uomini dotti la oscuraron non poco colla loro incostanza riguardo alla religione e co’ loro non troppo saggi costumi. Parlo di Francesco Porto e di Massimo Margnnio, amen due cretesi, e tali amendue che confermarono colla lor condotta la taccia anticamente data a quell’isola. Da alcune lettere del Margunio e dai’ monumenti dell università di Padova raccoglie il Papadopoli (Hist. Gymn. patav. t. 2, p. 238) che Francesco Porto, rimasto orfano e povero in età fanciullesca, fu da Giorgio Calloergo condotto a Venezia, e indi mandato a Padova, ove per sei anni attese agli studi dell’ amena letteratura, e che tornato poscia a Venezia, nella scuola de’ Greci, che era allora a S. Antonio, nella lor lingua fece sì felici progressi, che dallo stesso Margunio, il quale ivi a quel tempo vivea, fu creduto il più dotto tra tutti i Greci. Siegue poscia il Papadopoli raccontando che il Porto, dopo essere stato un anno direttore di quella scuola, non potè ottenere di esser confermato in quell’onorevole impiego, perchè essendo uomo mordace e pungente nel favellare, ardiva di deridere ancora le cose sacre, e non vivea con quella onestà che in lui si bramava: che perciò determinossi ad andarsene in Francia, e che giunto nel viaggio a Ferrara, fu ivi onorevolmente trattenuto dalla duchessa Renata. Ma qualunque fosse il motivo per cui il Porlo [p. 1599 modifica]TERZO * 5‘)9 uscì da Venezia, è certo ch'egli prima che in Ferrara, fu per alcuni anni in Modena. Era questa città amantissima della greca letteratura, e abbiamo altrove veduto (l. 1, c. 4- n- 1 ^) c^,e Giovanni Grillenzone avea operato in modo che un certo Marcantonio da Crotone ne tenesse ivi pubblica scuola: e che poscia pel medesimo fine fu qua condotto il Porto, il che, secondo il Muratori (Vita del Castelvetro, p. 6), accadde verso il 1537, e più precisamente nella Cronaca ms. del Lancellotto si fissa la prima lezione da lui tenuta nel palazzo della Comunità al primo di febbraio del 1536. Il medesimo Muratori racconta che quando fu proposta a sottoscriversi la Formola della Fede, di cui abbiamo a suo luogo parlato, il Porto era assente, e che sospettossi ch ei fosse partito per 110:1 sottoscriverla; che volendo poscia tornare, si ebbe qualche difficoltà in riceverlo: ma che avendo egli ancor sottoscritto, ottenne di rientrare nel suo impiego. Noi abbiamo già avvertito che tra’ sottoscritti a quella Formola nel primo di settembre del 1542, in cui celebrossi quell’ adunanza, trovasi sottoscritto Francesco Greco, e che perciò può nascere qualche dubbio su questa assenza del Porto. Ma l accennata Cronaca ci ha poi fatto conoscere che il Porto assentossi veramente da Modena per non sottoscrivere; e che solo alcuni giorni dopo la sottoscrizione degli altri, tornato a Modena, fu non senza difficoltà ammesso a sottoscrivere esso ancora, e riabilitato a ripigliare le sue lezioni. Da Modena passò il Porto a Ferrara nel 1546, nel qual anno abbiamo nel precedente [p. 1600 modifica]l6oO LIBRO capo osservato che qui gli fu dato a successore il Sigonio. In Ferrara ottenne il Porto la grazia e il favore della duchessa Renata, da cui fu dichiarato suo domestico e famigliare (Girald. de Poetis suor. temp. dial 1; Op. t. 2,1 p. 521), e dato per maestro alle sue figlie,J come ci narra Ortensio Landi (Cataloghi, p. 563) ] e fu insieme in altissima stima presso gli uomini dotti eli*erano allora in quella città, come raccogliesi e dall’introdurlo che fa il Giraldi tra gl’interlocutori ne’Dialoghi de’Poeti de tempi suoi, e dagli onorevoli elogi con cui molti ne parlano, tra quali abbiamo un’ Oda in onor di esso composta da Giambattista Pigna (Carmin. l. 1, p. 8). Fu ivi ascritto all Accademia de Filareti, e il Lollio accenna (Oraz. della Lingua tosc.) un orazione da lui recitata in lode della lingua greca. Abbiamo una lettera a lui scritta da Paolo Manuzio, in cui gli dice che procurerà, come il Porto bramava, di trovar maestri opportuni a istruirne i figliuoli (Manuz. Lett. p. 43); e tra essi uno n ebbe infatti Francesco, cioè Emilio Porto, che fu uomo assai dotto, professore di greco in Losanna e in Heidelberga, e autore della traduzion di Suida e di alcuni altri scrittori greci. Un’altra lettera del Manuzio allo stesso Porto ci mostra che nel maggio del 1554 era il Porto passato a soggiornare nel Friuli, ove con lui si congratula che sia per trovare stanza più tranquilla a suoi studi (ivi, p. 70). Ed è probabile che la ragione di tal partenza fosse il dichiararsi che il Porto avea fatto, seguace dell’eresia di Calvino, incautamente abbracciata dalla duchessa [p. 1601 modifica]TERZO 1 60 1 Renata, alla quale appunto in quell’anno il duca Ercole II di lei marito tolse dal fianco tutti coloro che ne fomentavan gli errori. Quando questa principessa, morto nel 1559 il marito, tornossene in Francia, anche il Porto uscì dall Italia, e per ritirarsi in luogo ove non potesse essere molestato, fissò la sua stanza in Ginevra, ove visse fino al 1581, nel qual anno morì contandone egli settanta di età (Thuani Hist ad an. 1581). Il Papadopoli e più altri scrittori riferiscono l’epitafio in versi elegiaci in onor di esso composto da Teodoro Beza, e annoverano le opere da lui date alla luce, che sono per lo più traduzioni in lingua latina, e Comenti di autori greci, oltre alcuni epigrammi ed alcune orazioni. In questa biblioteca Estense conservansi innoltre altre opere mss. del Porto, cioè Comenti sull Olintiache e su alcune delle Filippiche ed altre orazioni di Demostene, su due Tragedie di Sofocle, ec. (*). Quando egli partì da Modena, non s'intermise perciò lo studio della lingua greca; e oltre il Sigonio, che gli succedette, pochi anni appresso essendo stato chiamato a questa città dal conte Ercole Rangone Lazzaro Labadino natio di Piacenza {a), perchè istruisse nelle lettere greche (*) Due lettere di Francesco Porto allo storico iiasparo Sardi, scritte da Consamlolo nel Ferrarese a’ 17 e a’ a? d agosto del i54p, conservami in questo ducale archivio, le quali però nou ci ofTrono alcuna particolar circostanza della vita di esso. (a) Di Lazzaro Labadino, che fu poscia per più anni professore rinomatissimo di belle lettere in Modena, si è parlato lungamente nella Biblioteca modenese (t. 3, p. 54, ec.). [p. 1602 modifica]i (>02 Lir.no c- latine i conti Alessandro, Venceslao ed Ugo suoi figli, egli a più altri nobili giovani ne tenne scuola, e fra essi annovera il Panini, dalla cui Cronaca ms. io ho tratte queste notizie, Aurelio figlio di Agostino Bellincini, Giulio Monlecuc* coli, Paolo e Servilio Grillenzoni fratelli. Ercole e Giambattista Pazzani, a’ quali deesi aggiugnere il celebre Alessandro Tassoni, che di questo suo maestro fece menzione nella sua Secchia rapita (c. 3, st. 3o). XIV. Di Massimo Margunio, dopo altri scrittori, ci ha date assai esatte notizie il ch. dott Giovanni Lami, il quale molte Epistole inedite ne ha pubblicate nel 1740 Manuello fu il nome ch’ egli ebbe al battesimo. Dall’ isola di Creta, ov era nato, venne circa il 1547 a Venezia, e indi a Padova, ove per quattro anni si venne istruendo nella letteratura, nella filosofia e anche nella teologia di Scoto. Tornato a Venezia, e trovandosi ricco per l’eredità paterna allora raccolta, vi aprì una stamperia greca, e vi pubblicò molti libri. Ma l’incendio che consumò e distrusse la celebre libreria di S. Antonio, fu anche alla stamperia del Margunio fatale; ed egli si vide ridotto a una strema povertà. Cercò ad essa sollievo col tornarsene in Grecia, e farsi monaco, nella qual occasione cambiò il nome di Manuello in quello di Alassimo, c ciò avvenne tra l 1575 e ’l 1578. Ivi occupossi negli studi teologici, e lusingandosi di conciliare la Chiesa greca colla latina, o, a dir meglio, sperando con tal pretesto di ottenere qualche onorevole stabilimento in Roma, scrisse alcuni libri sulla Processione dello Spirito [p. 1603 modifica]TERZO l6o3 Santo, ih*1 quali pretendeva di additare una via con cui soddisfare ad amendue le parti. Venuto con essi a Roma negli ultimi anni di Gregorio XIII, i libri furono soggettati all’esame de’ cardinali Santorio, Laureo e Vallero; e il Margunio frattanto verso il 1585 fu fatto vescovo di Citera, ed ebbe dallo stesso pontefice una annual provvisione. L'esame andò prolungandosi fino a’ tempi di Sisto V. Questi cominciò a sospettar nel Margunio animo poco sincero, e gli ordinò che innanzi a ogni cosa facesse la profession della Fede, minacciandogli altrimente la prigionia, e privandolo frattanto dello stipendio da Gregorio assegnatogli. Il Margunio, che non volea venire a quest’atto, fuggissene segretamente, e giunto a Venezia, navigò in Grecia, ove ora in Costantinopoli, ora nel suo vescovado, ora in patria, passò più anni, benchè pur tornasse per qualche tempo di nuovo a Venezia e a Padova. Finì di vivere in patria nel i(»o2, in età di presso a ottani anni. Il catalogo delle opere da lui composte si ha presso il sopraccitato dott Lami e presso il Papadopoli (Hist Gymn. patav. t. 2, p. a(>4), e presso il Bayle (Dict. art. Margunius), nè io debbo trattenermi in parlarne a lungo, trattandosi d’ uomo che solo pel soggiorno di alcuni anni appartiene all' Italia, e perciò ancora io non ho fatte più minute ricerche sulla vita e sulle vicende di questo Greco. Troppo grande è il numero de’nostri Italiani, de’quali io debbo parlare, perchè mi sia lecito l’occuparmi molto nel favellare degli stranieri. [p. 1604 modifica]l6o4 LIBRO XV. Al tempo medesimo in fatti in cui i Greci già mentovati andavano sempre più felicemente propagando in Italia lo studio della greca letteratura, molti Italiani e col pubblicar le opere con cui facilitare la cognizione di quella lingua, e coll insegnarla dalle pubbliche cattedre, gareggiarono in ciò co’medesimi Greci, e talvolta ancora li superarono. Tra essi fu un de’ primi Guarino natio di Favera presso Camerino il quale perciò, secondo l’uso introdotto a que’ tempi da Pomponio Leto, si appellò Varino Favorino, e talvolta Varino Camerte. Fu scolaro in Firenze del Poliziano e di Giovanni Lascari; e il primo singolarmente lo amò assai pel raro) talento che in lui scorse, e ne parlò con onorevoli elogi in più occasioni, e principalmente in una lettera a Maccario Muzio concittadino del Favorino: Varinus Ci vis tana, auditor meus, ad summum linguae utriusque fastigi tini pieno gradu contendit, sic ut inter doctos jam conspicuus digito monstretur (Op. ed. Ltigd. i53(}, t. 1, p. 198). Conosciuto da Lorenzo de’ Medici il valore del Favorino, il diè per maestro a Giovanni suo figlio, che fu poi Leon X; ed egli ebbe ancora la soprantendenza alla biblioteca di quella illustre famiglia. Entrò nella Congregazione silvestrina nell' Ordine di S. Benedetto, e fra la quiete del chiostro attese a scrivere le sue opere. La prima di esse fu quella intitolata Thesaurus Cornucopiae et Horti Adonidis, stampata da Aldo nel i4()f>> opera nella quale egli fu ajutato da Carlo Antinori fiorentino, uomo assai dotto [p. 1605 modifica]TERZO i6o5 nel ìjicco, «lai Poliziano suo maestro, e da quel frate Urbano di cui ora diremo, e nella quale ei raccolse in ordine alfabetico tutti i precetti grammaticali tratti dagli antichi gramatici greci, e che perciò fu lodata da tutti i più eruditi nella greca letteratura, molti de’ quali ancora ne fecero uso ne' libri loro. La seconda fu una traduzione di Apoftegmi da lui raccolti da molti scrittori greci, e stampata la prima volta in Roma nel 1517, e poscia altre volte. L'ultima e la più celebre fu il suo copiosissimo Dizionario greco, pubblicato dapprima in Roma nel 1523, e indi molte altre volte dato di nuovo alla luce, e anche in questo secolo, cioè nel 17 1 a? ristampato, della (qual edizione si parla nel Giornale de’ Letterati d’Italia (t 19, p. 89), e a questa occasione si danno ivi esatte notizie della vita e dell’opere del Favorino da me qui compendiosamente ristrette. Il primo Lessico greco che si fosse veduto in Italia, era stato quello di Giovanni Crestone, di cui si è detto a suo luogo (t. 6, par. 3). Ma esso, come suole avvenire de primi saggi, era scarso e mancante, e perciò quello del Favorino fu avuto in conto del primo che uscisse in pubblico, e lodato molto da’ dotti, come si può vedere dalle loro testimonianze raccolte nel suddetto Giornale, benchè pure sia vero che anche in questo Dizionario sien corsi non pochi errori, nè era allor possibile Pevitarli nell'immensa fatica che una tal opera seco portava. Il Favorino in premio di questi suoi studi fu prima fatto arciprete di Caldarola nel ducato di Camerino, poscia nel 1514 vescovo di Nocera, la qual [p. 1606 modifica]iGoG LIBRO chiesa egli resse con molto zelo e con molto vantaggio di essa fino alla morte, da cui (fu, rapito in età molto avanzata verso l aprile del 15H7. XVI. Circa il medesimo tempo in cui il Favorino stavasi compilando il primo copioso Lessico della lingua greca, f Urbano Valeriano Bolzano da Belluno diede alla luce la prima grama dea di quella lingua che si vedesse scritta in latino (a). Era egli zio paterno di Giampierio Valeriano, di cui si è detto nel primo capo di questo libro, e al nipote siam debitori delle notizie rimasteci del dotto zio, perché io non lio veduta l’orazion funebre recitatagli nel clic si accenna dal P. degli Agostini (Scritt. venez. t. i, pref. p. 44)- Ei nacque verso il 144° j perciocché vedremo che avea circa ottanlaquuttro anni quando finì di vivere nel detto auno, (a) Monsig. Lucio Doglioni canonico di Belluno, noto già per altre erudite sue opere, ci ha data nel 1784 una nuova ed esatta Vita di Urbano Bolzano. In essa egli mostra che, benchè con questo cognome ancora egli venga talvolta nelle carte segnato, fu veramente della famiglia delle Fosse; e ch’ei nacque nel 14 f > » poiché f iscnzion sepolcrale che ne segna esattamente non sol gli anni, ma i mesi ancora e i giorni di vita, lo dice morto in età di ottantun anni, e non di ottantaquattro, come altrove all'erma Giampierio di lui nipote; esamina diligentemente l epoche di tutti i viaggi da Urbano fatti, in un solo de’ quali fu compagno di Andrea Gritti; osserva che Urbano dopo la seconda edizione della sua gramatica, l’ampliò assai più, conducendola a nove libri, benchè ei non avesse il contento di vederla così pubblicata, poichè non uscì alla luce che nel e ei dà altre pregevoli notizie intorno a questo benemerito illustratore della lingua greca. [p. 1607 modifica]TERZO 1G07 e,l entrò essendo ancor giovinetto nell’Ordine ,de Minori. Ei si può annoverare tra’ più celebri viaggiatori che avesse l'Italia. Perciocchè egli corse tutto l’Egitto, la Palestina, la Soria, l’Arabia, la Grecia, la Tracia; e ciò sempre a piedi; i quali viaggi probabilmente furon da lui intrapresi all’occasione dell’accompagnar ch’egli fece a Costantinopoli Andrea Gritti (Valerian. de infelic. Litterat t. 2, p. 100, ec.), che fu poi doge. Nè era già egli un viaggiator frettoloso e spensierato che non traesse frutto alcun dai’suoi viaggi; anzi ogni cosa diligentemente osservava, non perdonando a fatica, e superando qualunque difficoltà. Due volte salì fin sulla più erta cima del Mongibello in Sicilia, e dall’orlo di quella vasta voragine ne osservò la profonda apertura (ib.). Benchè in età già avanzata, faceva ogni anno qualche viaggio or per Tuna or per l’altra provincia d*Ilalia, e senza mai salire a cavallo, trattone per alcune miglia, quando andossene a Roma per la sassosa via di Assisi, affin di baciare i piedi al pontefice Leon X (ib). Di questi suoi viaggi fa menzione egli stesso nella prefazione all'edizione della sua Gramatica greca, fatta nel 1512. Anzi aveane egli scritto l’Itinerario, in cui avea esattamente notate le cose più memorabili da sè vedute, e singolarmente i monumenti antichi: Opportune vero, dice Giampierio (Antiq. bellun. serm. 4, p. 107), mihi prae manibus est Urbani U alenarli palmi tnei Itinerarium. qui quocumque se contulen't totius antiquitatis vir studiosissimus, nihil usquam quod ad rerum memoriam faceret, quin cxcerperei, describerctque, [p. 1608 modifica]1608 Linno practcrmisìt; e reca un1 iscrizione da lui copiata in Milano. A lui dedicò il nipote il li. bro trentesimoterzo de’suoi Geroglifici, e nella dedica fa di nuovo menzione de’ lunghi viaggi del zio, e dell’osservare che sempre avea fatto con diligenza tutte le antichità; e ricorda un erudito colloquio da lui tenuto su queste materie con Daniello Rainieri, con Niccolò Leoniceno, con Leonico Tomeo, e con lui egli confessa ancora di avere ereditato da questo suo zio l’amore e lo studio delle antiche medaglie, del quale parlando, Idem propemodum studi ut dice (in Nuncup. l. 46 Hierog.), ab Urbano patruo meo erat mihi quodammodo haereditarium, qui cum magnam orbis partem pererrasset, multorumque nosset ho mimmi mores, de peregrinationibus suis /.Egyptiis, Arabicis, Palaestinis semper habebat novi aliquid, quod scitu dignum et utile communicaret mecum. Molte altre memorie ci ha lasciate Giampierio delle religiose virtù di cui era adorno F. Urbano, dicendo (De Literat. infel. l. c) ch’ei non volle serbar mai un soldo a suo uso; che nè chiedeva mai alcuna mercede da’ suoi discepoli, nè mai l’accettava, offertagli spontaneamente, se non in rarissime occasioni; che fu sempre amantissimo della regolare osservanza, e sofferente di que’ non lievi disagi ch’essa seco portava; che ricusò sempre le dignità e gli onori che pur avrebbe potuto avere, singolarmente da Leon X, e che a grande stento accettò una volta di esser guardiano del suo convento, e presto ancora depose volontariamente quel carico a lui troppo grave; che sostenne [p. 1609 modifica]TERZO 1 (KH) c0n ammirabile alacrità gl*incomodi della vecchiezza, e la mancanza di molte cose che gli sarebbono state allor necessarie j e finalmente così ne descrive la morte: Quin et moriens vultu ridibundo verbisque pie u tuli s, quasi placidissimo somno se dederet occubuit quartum circiter et octogesimum annum natus, Pontificatus Clementis VII anno primo. Inoffensa per tot labores valetudine semper usus est, nisi quod superioribus annis, dum hortuli sui arbores ipsemet reconcinnabat, fallente scalarum lubricitate cor me rat, et crure aliquantulum laeso ad longinquas illas peregri nati otte s non ampli us idoneus fuit. In Venezia avea passato Urbano quasi tutto il tempo della sua vita istruendo nel greco tutti coloro che in gran numero a lui venivano: e quasi tutti quelli che ivi erano in quella lingua ben istruiti, erano stati di lui discepoli (ib.). Egli ebbe tra suoi scolari anche Giannantonio Flaminio, come questi confessa in una sua lettera del 1495 a Jacopo Antiquario (J. A. Flamin. Epist. l. 3, ep. 4), ove Urbano è da lui detto Urbanus Bellunensis vir optimus, vitae. ac inorimi integri tate inter Minoritas venerali i lis, latine graeceque doctissimus. Ei fu ancora per qualche tempo maestro di Giovanni de Medici, che fu poi Leon X, come afferma il nipote nei passi da me citati, e anche nella dedica delle sue poesie latine alla reina Caterina dei.Medici. Il desiderio di promuovere non sol colla voce, ma ancor colla penna lo studio del greco, gli fece formar l’idea di scrivere latinamente una Gramatica greca, cosa da niuno ancora tentata, Tirabo.sem, Voi. XII.. ac) [p. 1610 modifica]Itili» LI BllO perciocché quella di Costantino Lascari, slam, pata in Milano nel 1476, era scritta in greco. Ei ne fece la prima edizione nel 1496, ed ella divenne presto sì rara, che Erasmo sin da que tempi si dolse di non poterne ritrovar copia (V. Maitt. Ann. typ. t. 1). Ei poscia la accrebbe di molto, e nel 1512 ne diè una seconda edizione, dietro alla quale ne vennero altre; e benchè ora ella non sia più in uso, non è però un leggier pregio l esser questa stata la prima Gramatica che venisse alla luce, e l’avere servito di norma a quelle che furon poi pubblicate, tra le quali in questo secolo veggo annoverarsi quella di Cornelio Donzellini bresciano, stampata in Basilea nel 1551 (Quirin, de Liter. brix. t. 2, p. 71), e io ad essa aggiungeronne un’altra stampata in Venezia nel 1549, per istruire non solo nella lingua greca antica, ma ancora nella volgare moderna, intitolata: Corona preziosa, la (quale insegna la lingua volgare et li iterale, et la lingua Latina, et il volgare Italico, ec. XVII. Assai diverso è il carattere che di un altro professore di lingua greca ci fanno gli scrittori di que’ tempi, cioè di Pietro Alcionio, di cui sarebbe necessario il dir lungamente, se già non ne avesse con molta esattezza parlato il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 1, p. 376, ec.), delle cui notizie ci varremo qui in breve, aggiugnendo sol qualche cosa a lui per avventura sfuggita. Ebbe a patria Venezia, ove da ignobili e poveri genitori nacque sulla fine del secolo xv. E io sospetto che il cognome di Alcionio non fosse quello di sua [p. 1611 modifica]TERZO l6ll famiglia, ma da lui preso per affettazione di antichità. Lo studio delle lingue latina e greca formò la principale occupazione degli anni suoi giovanili; che quanto a quello dell’arte medica, che il conte. Mazzucchelli vi aggiugne, esso non ha altra testimonianza che un racconto di Paolo Manuzio, a cui accenneremo tra poco (qual fede si debba. La povertà lo costrinse a prender l’impiego di correttor delle stampe j ina sperò di averne un altro più utile e più onorevole, quando vacata nel i5iy la cattedra di lingua greca, sostenuta finallor dal Musuro, l’Alcionio fu tra coloro che concorsero per ottenerla. Ma ei non fu il trascelto. Era però egli, benchè assai giovane, avuto in conto di uno de più dotti che fossero in amendue le lingue. Ecco come ne scrive Ambrogio Leone in una lettera ad Erasmo de’ 19 di luglio del 1518: Inter eorum elegantiores unus Alcyonius multa e Graeco in Romanum sermonem elegantissime vertit. Nam Orationes pierasque Isocratis ac Demosthenis tanta Argivitate ex expressit ut Ciceronem ipsum nihilominus legere videaris. Aristotelisque nini tu vertit tam candide, ut Lati uni gloriabundum di cere possit: En Aristotelem nostrum habemus. Idem ipse juvenis, ut est Literarum utrarumque maximus alumnus, ita tui quoque amantissimus, et studi orimi inorimi laudator summus (Erasmi Epist. t. 1, ep. 324). Le traduzioni delle accennate orazioni non sono mai state stampate j ma quelle di molte opere d’Aristotele han veduta la luce, ed esse si annoverano distintamente dal conte. Mazzucchelli, insieme con alcune altre [p. 1612 modifica]lfiia LIBRO che furon parimenti da lui iradotte, ma u0ll pubblicate. Queste traduzioni sono le più eleganti fra tutte, ma non sono le più fedeli come avverte ancora Pietro Vettori, il quale però dell’Alcionio ragiona con molta lode (praef ad Poetic. Arist). Quindi Giovanni Genesio Sepulveda, che allora era in Bologna, prese ad impugnarlo, e in un libro, che fu dato alle stampe, raccolse gli errori tutti dalPAlcionio commessi, e accusollo ancora di plagio. Questi se ne sdegnò altamente, e perchè non si spargesse il libro del Sepulveda, tutti ne comperò gli esemplari; sicchè il Sepulveda pensava di farne una nuova edizione, il che poi non so se accadesse. Una lettera scritta in questa occasione da Cristoforo Longolio a Ottavio Grimaldi ci scuopre quanto fosse sensibile l’Alcionio alla critica delle sue traduzioni; perciocchè egli parlando del libro pubblicato dal Sepulveda, Hoc, gli dice (Longol. Epist.. et Orat p. 386, ed. Lugd. 1542), si tibi videbitur, Alcj onio significabis, aut per alios certe denunciandum ei curabis. Sed, si bene te novi. ipse tu denunciabis ut hominis ad tantae contumeliae nuntium vultum videas, quod unum spectaculum tibi magnopere invideo. Numquam enim is ex oculis laborabit, qui tum ejus fontem spectarit. Un’altra lettera del Longolio a Marcantonio Flaminio ci scuopre un viaggio che l’Alcionio fece a Genova, non so,in qual anno, ma certo innanzi al settembre del 1522, in cui il Longolio morì. Questi in essa racconta che l Alcionio passando da Padova avea ad ogni modo voluto che gli desse una lettera a [p. 1613 modifica]TERZO 1G13 jtlj c a Stefano Sauli; ma che poscia dimentico e di una lauta cena che avea ivi ricevuta, e delle lodi di cui era stato onorato, e della lettera che avea sì istantemente richiesta, se n era ito villanamente (ib. p. 302). Nel 1521 passò da Venezia a Firenze, ove per favore del Cardinal Giulio de Medici ebbe la cattedra di lingua greca con assai onorevoli privilegi, e con una pensione di dieci scudi al mese dal cardinale assegnatagli, perchè recasse in latino il libro di Galeno De Partibus Animalium. Poichè fu eletto pontefice col nome di Clemente VII il detto cardinale, l’Alcionio, malgrado il divieto avutone dalla signoria di Firenze, gonfio di grandi speranze volò a Roma. Ma egli trovossi deluso; perciocchè, comunque avesse la cattedra d eloquenza, par nondimeno che per le calamità di que' tempi non ottenesse stipendio alcuno. Nel 1525 recitò innanzi al pontefice un’orazione dello Spirito Santo, per cui fu beffeggiato solennemente in una sua lettera da Girolamo Negri (Ciucili, Bibliot. volante, scans. 21, p. 81, ec.), il qual pure in più altre lettere ne parla con disprezzo (Lettere (de Principi t 1, p. 112, ec., 118, ec.; t. p. 66, ec.), benchè prima gli si fosse mostrato amico (H. Nigri Epist. et Orat. p. 25, ed. rom. 1767). Più funesto ancora fu all’Alcionio il soggiorno di Roma nel 1526, quando nel tumulto de' Colonnesi gli fu saccheggiata la stanza che avea in palazzo, e nel 1527" quando nel famoso sacco di Roma,, mentre ritiravasi col pontefice in Castel S. Angelo, fu ferito di una moschetta in un braccio. Rimessa la calma [p. 1614 modifica]I G l 4 LIBRO in Roma, l’Alcionio sdegnato contro il ponte fice, da cui pareagli di essere trascurato, gittossi nel partito de’ Colonnesi; ma poco an. presso, in età ancor fresca, diè fine a’ suoi giorni: uom che sarebbe stato forse uno dei’ più illustri nella repubblica delle lettere, se il difetto di disprezzare e di mordere molti de’ più eruditi, non gli avesse eccitato contro l’odio loro comune, e se co’ vizii, da quali non seppe difendersi, non avesse oscurate le glorie al suo ingegno e al suo sapere dovute. Di essi parla il conte. Mazzucchelli, e ne reca le testimonianze degli scrittori di que’ tempi, alle quali deesi aggiugnere quella di Pierio Valeriano che un’altra taccia gli oppone troppo più grave delle altre, dicendo ch’ egli morì con quella irreligione medesima con cui era vissuto: Atque ut in am de pietate nostra melius sensisset nec vi tao Jìneniy quod indignissimum et homine literato, infidelitatis labe contaminas set (De infelicit Liter. t. 2, p. 63). Oltre le traduzioni già mentovate, abbiamo dell’Alcionio il celebre Dialogo de Exilio scritto con molta eleganza, ma che ha data occasione al Giovio, e più chiaramente a Paolo Manuzio, di accusarlo qual plagiario, come s egli avesse in esso rifusi i libri de Gloria di Cicerone da lui trovati in un monastero di monache, di cui era medico, e da lui poscia soppressi, perchè non rimanesse memoria e monumento di questo suo furto. Noi abbiam esaminata a lungo cotale accusa, e abbiamo dimostrato ch’essa non ha alcun probabile fondamento (t. 1). Più inverisimile ancora ne sembra 1111 [p. 1615 modifica]TERZO I6I5 .jjro somigliante delitto apposto all’Alcionio da pierio Valeriano, il quale racconta che Pietro Martelli fiorentino, uomo nella latina, nella greca e nella ebraica lingua assai erudito, ma (di sanità si infelice, che poco potea occuparsi negli studi, avea nondimeno con gran fatica distesi quattro libri dottissimi sulla Matematica: che questi dopo la morte di Pietro vennero alle mani di Braccio di lui figliuolo, che fu poi vescovo di Fiesole, il quale essendo in Roma in tempo del sacco, li sottrasse dalle mani de’ rapitori chiudendogli in Castel S. Angelo, ma ch essendo poi caduti in potere dell’Alcionio, questi li soppresse per modo, che più non si videro (l. c p. 26). A me pare che a smentir cotale accusa basti il rammentare con Tullio il celebre detto di Cassio: Cui bono? Perciocchè a qual fine potea YAlcionio voler soppressi tai libri? Ei non avea fatto studio alcuno di matematica, nè scriveva opere di tale argomento. Che giovavagli dunque il fare che l opere del Martelli fossero dimenticate? Io finirò di ragionare dell Alcionio col recare il giudizio che ne dà il Giraldi, il quale ne biasima i costumi, ma insieme ne loda l'eleganza nello scriver latino, per cui certo l Alcionio è inferiore a pochi scrittori di quel tempo, e accenna ancora le poesie latine da lui composte, niuna però delle quali, ch'io sappia, ha veduta la luce: Diversae naturae est, dice il Giraldi, dopo aver parlato del \ alenano (De Poet. suor. temp. dial. 1, Op. t. a, p. 54 a), Peirus Alcyonius Venetus mordajc et maledir ms, nec pudens rnngis quarti prndrns. Nujus [p. 1616 modifica]1 6 1 G LIBRO fatimi Gratin, si saperci, magis Arpinatern ertimi redolct. Quaedam Alcyond jarabica in* legi digna laude; tum Lyricos quosdam sane castos et eruditos. Solet ille vulgo jactare se se Tragoediam de Christi nece in manus!habere, omnibus, ut ipse dicere solitus est, serva tis numerisi id licet ego minus credam, non nullos tamen, ut id illi crederent, effecit. Quindi il Giraldi si fa interrompere da Giulio Sadoleto, uno degl’interlocutori del Dialogo, il quale Mitte, dice, de hoc nebulone plura, qui bel Irmi honis omnibus indixit, jlagris etJiiste coercendus. XVIII. Un celebre professore di lingua greca ebbe anche l’università di Ferrara in Marco Antonio Antimaco, il quale non solo l insegnò colla voce, ma scrisse ancora in quella lingua con molta eleganza. Da Mantova sua patria, ove nacque circa il 1473, ad insinuazione di Matteo suo padre, uomo esso ancora assai dotto, passò in età giovanile in Grecia, ove trattenutosi cinque anni, acquistò gran cognizione del greco linguaggio alla scuola di Giovanni Mosco spartano padre di quel Demetrio di cui si è detto poc’anzi. Egli confessa di averlo amato qual padre (Girald. l. c.p. 551), e aggiugne ch essendo stato da que’ di Salonichi invitato Giovanni ad andare a tenere scuola tra essi, avea egli pensato di seguirlo in quel viaggio, affin di vedere le librerie del Monte Athos; ma che mentre si disponeva a partire, Giovanni era morto. Tornato in Italia l’Antimaco, aprì in Mantova scuola di belle lettere, e singolarmente di lingua greca. Da / [p. 1617 modifica]TERZO 1G17 Mantova passò nello stesso impiego a Ferrara; e il conte. Mazzucchelli osservando che nell’iscrizion sepolcrale da lui riferita si dice che insegnò per venti anni, e ch era già morto al principio del 1552, ne inferisce (Seriti. ital. [,, par. 2, p. 843) che colà si recasse verso il 1532. Ma una lettera di Francesco Davanzati a Pier Vettori, scritta al primo d'aprile del 1547 (Cl Viror. Epist ad P. Victor, t. 1, p. 58), ci scuopre che in quell’anno avea l’Antimaco già deposto l'impiego d’insegnare pubblicamente. Quindi se per venti anni il sostenne, convien fissarne il passaggio a Ferrara circa il 1527. Ei giunse all’ età di scttantanove anni, e finì di vivere nella stessa città di Ferrara. Il conte MaZzucchelli annovera le traduzioni da lui fatte dal greco della Storia di Gemisto Pletone, e di alcuni opuscoli di Dionigi rPAIicarnasso, di Demetrio Falereo e di Polieno, che furon congiuntamente stampate in Basilea nel 1540, con un’orazione deirAnlimaco in lode della greca Letteratura. Aggiugne ch’ei pensava ancora di tradurre in latino il trattato intero dell' Interpretazione del suddetto Demetrio. E in fatti il Davanzo ti, nella lettera sopraccitata, prega il Vettori a nome dell'Antimaco d’inviargli copia dell’edizione ch’esso aveane fatta e illustrata con note, e di aggiugnervi altre note che per sorte vi avesse poi fatte, e che non fossero ancor pubblicate. Ma il Vettori risposegli (Victor. Epist. l. 1,p. 22) che avrebb’egli bensì mandato il libro stampato, ma che delle nuove annotazioni non ancor pubblicate pensava di far uso egli stesso in una nuova edizione che stava apparecchiando. [p. 1618 modifica]l6l8 LIBRO Il clic forse ridusse l’Antimaco a deporne il pensiero. Il conte Mazzucchelli accenna alcune Poesie latine dell’Antimaco, altre stampate, aU tre inedite; al che deesi aggiugnere che molti Epigrammi, altri greci, altri latini, di esso in lode di Pier Vettori sono stati dati alla luce dopo le Lettere degli uomini dotti allo stesso Vettori, pubblicate dal chiarissimo sig. canonico Bandini; che una lettera dell*Antimaco al medesimo Vettori si ha nella stessa raccolta (t. 1, p. 15), e che tra le Orazioni di Alberto Lollio una ne abbiamo in lode di questo dotto interprete, il quale dal Davanzati, poc’anzi nominato, e detto uomo sì ben versato nella greca lingua, che pareva che di essa solo avesse fatto il suo studio. Più altre testimonianze all Antimaco assai onorevoli si posson vedere accennate dal conte. Mazzucchelli. Il ch. sig. abate Bettinelli osserva (Belle Lettere ed Arti mantov. p. 115) che in Mantova vedesi ancora la casa da lui abitata, la cui facciata è assai vagamente dipinta, e sulla porta si leggono queste parole: Antimachum ne longius quaeras. Egli ebbe un figlio di nome Fabio, il quale, come raccogliesi da tre lettere a lui scritte dal Ricci (Op. t. 2, pars 2, p. 422, ec.), era in Ferrara medico di professione, e clic dal Giraldi è lodato come uomo al par di ogni altro istruito nella greca e nella latina letteratura (l. c. p. 5~6). XIX. Quando il Musuro lasciò la cattedra di lingua greca, che sosteneva in Venezia, e fu proposto il concorso de’ successori, come poc’anzi si è detto, fu a tutti antiposto Vittore Fausto veneziano, uomo di bassi natali, e nato [p. 1619 modifica]TERZO l6iy Jopo il 148o. A dispetto della sua povertà, applicossi agli studi in patria sotto Girolamo Maserio forlivese; e poscia viaggiò lungamente per l Europa, valendosi dei’ viaggi medesimi per sempre meglio istruirsi. Fu poi costretto per vivere ad arrolarsi tra le truppe della Repubblica; e finalmente conosciuto per uomo più atto alle scienze che alle armi, nel 1518 fu dato successore al Musuro collo stipendio di cento scudi, di cui egli cercò poscia l accrescimento, valendosi delle più ampie offerte ch’ei dicea venirgli fatte da diverse città; ma non sappiamo di certo se fottenesse. Più assai però che per questa sua cattedra, si rendette il Fausto famoso per la celebre sua invenzione della Quinquereme, vascello di grandissima mole da lui ideato, e a spese della Repubblica fabbricato, con cui egli volle rinnovare le galee degli antichi. Il solenne combattimento che con essa sostenne il Fausto, e il riportar che fece sopra altre leggiere navi una compiuta vittoria, superandole tutte nel corso, viene esattamente descritto, colla scorta de più autorevoli monumenti, dall’ eruditissimo Padre degli Agostini (Scritt. venez. t. 2, p. 455), il quale della vita del Fausto ci somministra le più esatte notizie. Egli esamina ancora qu.'il fosse la forma di questa nave; e benchè confessi che non ce n’è rimasto nè disegno, nè idea alcuna, si sforza nondimeno d’investigare come potesse essere costruita; e io rimetto a lui chi brami di averne notizia. Visse fin verso il 1551, e oltre alcune orazioni, tre epistole latine e qualche altro opuscolo, di cui ragiona il [p. 1620 modifica]1620 LIBRO suddetto scrittore, ci lasciò per saggio del suo sapere nel greco la traduzione della Meccanica d’Aristotele, stampata a Parigi nel 1517. Anzi una nuova più esatta versione stavane egli apparecchiando, e illustrandola con comenti e con figure, quando venne a morire: Leguntur Aristote lis Medianica, dice Paolo Ramusio nella prefazione premessa alle cinque Orazioni del Fausto, stampate, poichè egli fu morto, multo diligentius ac verius quam ab ullo vel ante eum vel post eum translata: quae proxime ita rursum vertere aggressus fuerat, ut et alios prorsus omnes et seipsum vinceret. Quod opus commentationibus et pulcherrimis machinarum omnium schematibus locupleta rat, et tum habebat in manibus jam jam editurus; quum immatura morte praereptus est. Quod tamen qualecumque est, si, ut speramus, in lucem protrahere aliquando poterimus, nihil dubitamus, qui 11 ornnes intelligant, illum, si diutius vixisset, plurima ac longe maxima architectonicae disciplinae adjumenta allaturum fuisse. Ma questa seconda edizione non è mai, ch’io sappia, venuta alla luce. X\ Lunga cosa sarebbe l’annoverare i professori tutti di qualche nome, che nelle università italiane tennero scuola di lingua greca. Spesso fu questo impiego congiunto a quello di professor d’eloquenza, e di alcuni di essi perciò ci riserbiamo a dire altrove, come di Romolo Amaseo, di Lazzaro Buonamici, di Sebastiano Corrado, di Mario Nizzoli, e di più altri; di alcuni si è detto ad altra occasione, come del Sigonio, del Robortcllo, del 1 [p. 1621 modifica]TEIlZO | (>'i [ Poiifadio, cc. Padova ebbe tra gli altri Bernardino Donato veronese, o anzi da Zano castello di quel territorio, come afferma il marchese Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 318). Nel 1526 fu scelto a professore di greco in quella università (Facciol. Fasti, pars 1, p. 57), e il Bembo. scrivendo in quell’anno al Cardinal Cibo, ne fa menzione, e il loda come dotto e modesto uomo (Lett. t. 1, l. 3; Op. t. 'ò^p. 3i). .Ma l anno seguente ei partì congedato da Mario Giorgio uno de’ riformatori di quello Studio, e andò a tenere scuola in Capo d’ Istria, come ci mostra un'altra lettera del medesimo Bembo scritta al Giorgio a 2 di novembre del 1527, in cui si duole della perdita che quell’università avea fatta, e propone ch’ei vi sia richiamato (ivi, p. 143). Ciò però non avvenne, e il Donato, secondo il Facciolati, fu professore in Venezia nel 1522. Ma il marchese Maffei col testimonio di un’orazione in lode di Parma e delle Lettere umane, da lui detta e stampata nell’anno stesso, dimostra che in questa città, non in Venezia, ei teneva allora pubblica scuola. Aggiugne lo stesso scrittore che il Donato fu poscia al servigio del duca di Ferrara, e lesse per ultimo con pubblico stipendio in Verona. Del soggiorno però da lui fatto in Ferrara, io non trovo alcun cenno negli scrittori della Storia di quella università. Ben trovo, ciò che da niuno è stato avvertito, che circa il principio del secolo ei fu maestro in Carpi, ed ivi ebbe a suo scolaro Gianfrancesco Bini, che di ciò fa menzione in una sua lettera citata dal conte Mazzucchelli, e lo dice [p. 1622 modifica]IÌÌ22 LIBRO Maestro Bernardino Danato Bonturello pur Veronese molto dotto uomo in Greco e in l(U tino, qual fu mio Maestro a Carpi (Scritt. it t. 2, par. 2, p. 1238), ove forse si dee intendere il luogo di questo nome nel Veronese. Fu egli uno de’ più celebri traduttori di questo secolo, e pregevole è principalmente la vur_ sione latina della Dimostrazione Evangelica di Eusebio, da lui fatta per ordine di Giammatteo Giberti suo vescovo, e più volte data alla luce, benchè, come osserva il marchese Maffei, nelle più recenti edizioni d’Oltramonti siasi ommesso il nome del traduttore italiano. Ne abbiamo ancora le traduzioni latine di alcune opere di Galeno, di Senofonte, di Aristotele; ed avea ancora volgarizzato Vitruvio, il qual lavoro però non fu pubblicato. Ei fu innoltre il primo editore del Comento greco di S. Giovanni Grisostomo sulle Lettere di S. Paolo, del testo greco di Ecumenio, del Comento di Areta sopra l Apocalisse, de’ libri di S. Giovanni Damasceno della retta Fede; delle quali edizioni ragiona il sopraccitato marchese Maffei, il quale accenna ancora qualche altra fatica del Donato, e soggiugne le notizie d’altri Veronesi di questi tempi studiosi del greco, come di Giambattista Gabbia, di Matteo dal Bue, o Bovio, di Girolamo Bagolino, di Domenico Monteloro, di Girolamo Li orsi, di Pier Francesco Zino e del conte Lodovico Nogarola, uomo in tutte le scienze dottissimo; e accenna le molte traduzioni di greci scrittori da essi fatte, e altre opere da lor composte; fra le quali debbono avvertirsi le Tavole delle [p. 1623 modifica]r terzo jG::3 Istituzioni grammaticali della lingua greca, pubblicate dal Zini a uso del Seminario di Verona. XXI. In Milano, al principio di questo secolo, fioriva felicemente la greca letteratura, j introdottavi principalmente da Costantino La-, scari e da Demetrio Calcondila, de’ quali si è detto nel precedente volume. Fra quelli che più la promossero, deesi annoverare Stefano Negri, nato in Casalmaggiore nella diocesi di Cremona. Ei fu lungamente professore di belle lettere in Milano; e bramò poscia di esser destinato alla cattedra di lingua greca, e ne fece istanza non solo egli, ma per lui molti de’ più ragguardevoli cittadini a Gianfrancesco Marliani senatore e uomo di grande autorità; ma quegli che a quella cattedra avrebbe voluto Basilio Calcondila figliuol di Demetrio, che allor trovavasi in Roma, si oppose dapprima al Negri (Niger. praef. ad Muson. Collect. de Princ. opt.); il qual però ottenne dappoi ciò che bramava; e ne son pruova le orazioni da lui recitate innanzi alla spiegazione di Omero e di Pindaro, che abbiamo alle stampe. Il Negri era stato già scolaro di Demetrio, di cui egli parla con molta lode nel suo Dialogo, in cui introduce tre fratelli, Giovanni, Girolamo e Lodovico Botti, encomiati dal Negri, che pur era stato loro maestro, come giovani amantissimi dello studio e di tutti gli uomini dotti, a ragionare insiem con Demetrio sulle cose più notabili nella Grecia, delle quali tratta Pausania. Le altre opere del Negri, che sono per lo più traduzioni di varii opuscoli di Musonio, di Filostrato, di Plutarco, d’Isocrate e d’altri scrittori [p. 1624 modifica]1624 LIBRO greci, e clic furono stampale in Milano nel i5r-, e nel i52i, si annoverano dall’Arisi (Crem liter. t. 1, p. 397) e dall' Argelati (Bibl. Script, mediol t. 2, pars 2, p. 2137)} e benché il l0p catalogo non sia troppo esatto, a me però non è lecito il trattenermi in esaminare minutamente ogni cosa. Il Negri vivea in Milano, mentre questa città era in poter de Francesi; e perciò molte delle sue opere ei dedicò a Giovanni Grollier segretario del re Francesco I, al cancelliero Antonio du Prat, e a figliuoli di esso. Ma questo attaccamento alla Francia gli fu fatale; perciocchè caduto finalmente quello Stato in mano degli Spagnuoli, il Negri si vide privo del suo stipendio, e abbandonato da tutti; talchè in breve tempo fra le miserie di un' estrema povertà venne a morte, come raccontasi da Pierio Valeriano (De infelic. Litterat. l. 2, p. 66). A questo professore di lingua greca in Milano un altro possiamo aggiugnerne, che in Pavia e in Venezia ebbe la medesima cattedra, cioè Giambattista Rasario novarese. Il P. Giannantonio Gabuzio barnabita, scrittor di que’ tempi, ne ha steso un lungo elogio, inserito dal (Cotta nel suo Museo novarese (p. i64)- Narrasi in esso che il Rasario, dopo avere studiato in Milano, passò a Pavia, ed ivi nel tempo stesso che teneva scuola di lingua greca, fu onorato di amendue le lauree della medicina e della giurisprudenza; che fu indi chiamato a Venezia, ove per venlidue anni fu professore di lettere greche e latine con gran concorso di uditori, e con fama di non ordinaria eloquenza, di cui diede una pruova fra le altre nell’orazione [p. 1625 modifica]TERZO 162.*) clie disse nel 1571 per la vittoria di Lepanto, la;, qual fu data alle stampe; che il re Filippo II lo invitò all' università di Coimbra; ma che essendosi il Rasario scusato, quel monarca volle almeno ch’ ei tornasse a Pavia, ove fu per quattro altri anni professor di eloquenza, finchè nel novembre del 1074 > essendo venuto a mancare, fu con onorevoli esequie sepolto in S. Agostino, e pianto da tutti quelli c!»e ne conoscevano e ne ammiravano non solo il sapere, ma ancora le rare virtù delle quali egli era adorno. Il Cotta accenna altre testimonianze degli scrittori di que’ tempi, che del Rasario favellano con grandi encomii, e ci dà poi il catalogo delle opere da lui pubblicate, che, trattane la mentovata orazione e qualche epistola, son traduzioni dal greco in latino di molte opere di Oribasio, di Giorgio Pachimere, di Giovanni Filopono, di Galeno e di altri. XXII. Men conosciuto è un professore di lingua greca, ch’ebbe in questo secolo l'università di Bologna, perchè morto infelicemente nel fior degli anni, non ebbe tempo a produrre que’ frutti che se ne speravano copiosissimi. Ei fu Bartolomrneo Faustini modenese, che dopo essere stato per più anni in Bologna scolaro di Romolo Amaseo, e al suo maestro carissimo, fu in quella medesima università destinato alla cattedra di lingua greca, e la tenne dal 1530 al 1533, nel qual anno a' 21 di maggio fu da incogniti sicarii crudelmente ucciso. Di questo fatto si ha memoria negli Atti di quella università citati dal ch. abate Flaminio Scarselli: fiartholomaeiis Faustinus... XI Kal. Junii TlllABOSCUl, Voi XII. 3o [p. 1626 modifica]jfvj(j li uno bora notti* < irci ter seconda, (tdoL'scens optimus et litteratissimus, ac summae earspectatioiiis sicariorum insidiis oppressus, ac miserabili ter cocsns (/Ita Boni. Amas. p. 155). Ma più bel monumento ancora de;' rari talenti del Faustini è Torazion dairAmaseo medesimo detta in lode di esso e di Teodoro Garisendi bolognese morto esso pure in et;i immatura circa quel tempo, nel quale egli sfoga il dolore che per la morte di questi due suoi scolari amatissimi avea provato, e mostra quanto gran cose si potesser da essi sperare (Boni. A mas. Oratìon. p. a 21). Di Romolo, come abbiam detto, ci riserbiamo a parlare altrove. Ma questo è il luogo opportuno a dir di Pompilio di lui figliuolo. Di esso ha parlato il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 1, p. 578); ma alcune più esatte notizie possiamo trarne dalla Vita di Romolo, data non ha molto alla luce dal soprallodato abate Scarselli Egli era nato in Bologna, come si pruova da monumenti in quella Vita prodotti (l. c. p. 105, ec.), da Romolo e da Violante Guastavillani di lui moglie. In certe Memorie della sua famiglia da lui stesso distese (lib. p. 167) egli narra di essere stato in sua gioventù segretario de cardinali Paolo Emilio Cesis e Francesco Quignoni. Nel 1543, a’ 29 di agosto, essendo in Bologna vacante la cattedra di lingua greca per la partenza di Ciriaco Strozzi r fu destinato ad essa Pompilio coll’annuo stipendio di 100 lire (ib. p. 116), il quale nel 1572 fu accresciuto fino a 850, ad istanza principalmente del Cardinal Filippo Guastavillani nipote di Gregorio XIII e cugino di Pompilio (ib. p. 121). [p. 1627 modifica]TERZO • 1627 frattanto egli era slato inviato da Giulio III nel 1551 suo nuncio apostolico a Ferdinando re de’ Romani, e avea ancora ottenuta la grazia del re Cattolico Filippo II (ib. p. 167). L’an,,0 ¡582 essendo egli gravemente e da lungo tempo infermo, il senato sollevollo dal peso delle lezioni, che quasi per quarant’ anni avea sostenuto, conservandogli però intero il fissato stipendio (ib. p. 122). Pompilio visse sin verso il 1585; ma io non trovo sicuro riscontro del tempo in cui diè fine a’ suoi giorni. Delle opere ad esso composte si può vedere il catalogo presso il conte Mazzucchelli, il quale innoltre difende Pompilio dall’ingiusta taccia d’ignorante del greco, che alcuni gli han data per riguardo alla version da lui fatta di due frammenti di Polibio. Più esatto ancora e più copioso è l’indice delle opere di Pompilio, che va aggiunto alla più volte citata Vita di Romolo (ib. p. 233), ove fra esse si dà un distinto ragguaglio della traduzione italiana da lui fatta de' libri del Sacerdozio di S. Giovanni Grisostomo, la qual conservasi in Roma nella biblioteca che già fu del Cardinal Ottobuoni. XXIII. Di professori italiani che uscissero dall’ Italia per promuovere fra le straniere nazioni lo studio della lingua greca, io non trovo in questo secolo altri che Girolamo Aleandro, che ne fu professore in Parigi, come altrove si è detto, e quel Paolo Lacize veronese apostata dalla cattolica Fede, e professore di greco in Strasburgo, di cui pure si è già ragionato, e un certo Pietro Illicino, che ne tenne scuola in Cracovia, e che oltre alcune Poesie latine, [p. 1628 modifica]iGaS * libro pubblicò nel i5j8 una versione di un Idillio di Mosco (a). Ma come io non ne ho altra notizia che il cenno che se ne fa nelle romane Efemeridi, nel riferire un opera di Storia polacca (1776; p 88), così non posso dirne più oltre, e da’ professori passo a parlare per ultimo di alcuni altri che senza salir le cattedre giovarono co loro studi al coltivamento di questa lingua. Nel che però ancora non farò che accennarne pochissimi, poichè di un gran numero di essi si è fatta già, o si farà altrove menzione. Due monaci celebri amendue nella greca letteratura veggiam lodati fra gli altri nelle Opere del Cardinal Cortese. Il primo è Luciano degli Ottoni mantovano, o anzi da Goito, monaco casinese nel monastero di Polirone, e poscia abate del monastero della Pomposa, e morto nel primo monastero nel 1528, come ci mostra una lettera d'Isidoro Clario (Epi.sK p. 79). Ei tradusse dal greco in latino le Omelie di S. Giovanni Grisostomo sulla Lettera a’ Romani, e vi aggiunse un’apologia del santo dottore per riguardo all accusa da alcuni datagli di avere stenuata la forza della grazia divina per innalzar quella del libero arbitrio j opera che, benchè approvata e difesa da molti dotti teologi di quell età, fu nondimeno dalla Chiesa posta nell Indice dei libri proibiti. Due lettere (a) Quel Pietro llliciuo qui nominato fu anche professor pubblico in Vienna, poscia canonico di Strigonia, e in occasione di diversi sinodi tenuti nell' LJn* gheria recitò molte orazioni polemiche, che si hanno stampate nella Raccolta de1 Concili! ungarici del P. Praj (Pars a, p. 444), [p. 1629 modifica]TERZO iGaj) a Irti scritte dal Cortese allor monaco (Op. t. 2, p. 185, 194), e la stima in cui lo avea il celebre Isidoro Clario, che lo appella suo maestro (l. c). bastano a farci l’elogio di questo dotto monaco, più celebre ancor fu l’altro, cioè Severo Varino, di patria piacentino, o da Firenzuola, come udiremo affermarsi dal Fornari, e monaco cisterciense (rt). Il Libanori, citato dal Borsetti (Hist. Gymn. Ferr. t. 2, p. 82, ec.), racconta che innanzi ch’ egli abbracciasse la vita monastica, era stato primario professore di giurisprudenza in Ferrara. Ma ciò non par verisimile al Baruffaldi (Guarini Supplem. ad Hist. Gymn. Ferrar. pars 2, p. 26), e veramente non se ne trova indizio negli atti di quella università. Abbiam bensì monumenti della profession da lui fatta nel monastero di S. Bartolomeo presso Ferrara a’ 26 di maggio del 14<)3, c del soggiorno ch’ egli vi ebbe ancora per alcuni anni appresso, i quali sono stati pubblicati dal suddetto Borsetti. La fama che d Severo avea d’uomo dottissimo, gli conciliò la stima e l'amicizia di molti, e principalmente dell’Ariosto, che di lui ancor tra gli altri poeti suoi amici fece menzione: E l Lascari, e Musuro, e Navagero, R Atulrea Ma rane, r 7 Monaco Sc\cin. Canto 4^ 5 st. 13. Simon Fornari comentando questo passo dell Ariosto, Don Severo da Firenzuola, dice, (a) Del monaco Severo ha poi trattato con molta cviUcm.i anche il sig. proposto Poggiali (Mrtnor. per la òlor. Ictlcr. di Piar. i. 9., p. ti, ec.). / [p. 1630 modifica]l63o LIBRO di Lombardia Monaco di Ci stello, e dotto nelle buone Lettere, delle quali ne facea professione, visse alcun tempo in Corte del Cardinal Sauli. Il quale essendo condennato per la congiura contra Leon X, questo Monaco come consapevole si fuggì incognito, et ricoverò in Lamagna, dove ultimamente morì. Il Porcacchi al contrario, nelle sue note al medesimo passo crede che l’ Ariosto non parli già del^nionaco di Cistello, di cui ripete le cose che ne narra il Fornari, ma di un altro Severo monaco camaldolese. Contro questa asserzion del Porcacchi ha scritto a lungo il P. Niccolò Baccetti cisterciense nella sua Storia latina della Badia di Settimo (p. 228, ec.), stampata in Roma nel 1724 il quale dimostra con assai forti argomenti che l Ariosto parla del monaco di Cistello, non di quel di Camaldoli, e si fa ancora a difenderlo dalla taccia appostagli di essere stato consapevole della congiura del Cardinal Bendinello Sauli, alla qual voce diè forse ancora occasione l essere stato Severo maestro nelle lingue latina e greca del Cardinal Alfonso Petrucci, che di quella congiura fu il capo (Valerian. De infel. Literat l. 1, p. 12). Le pruove ch’egli ne arreca, sono assai conchiudenti; ma una ancor più luminosa ce ne somministran le Lettere del Cardinal Cortese allor monaco. Questi essendo ancor giovinetto, e scolare in Roma tra 'l 1500 e ’l 1504, avea ivi conosciuto Severo; e io credo che gli desse occasione a conoscerlo la stretta amicizia che questo monaco avea con Paolo Cortese. Questi, nella sua opera da noi altrove lodata De [p. 1631 modifica]TERZO lG3I Cardinalati/, fa spesso menzione di Severo, di cui esalta con molti encomii e il molto sapere e l'indole amabile e dolce, e ne rammenta un’ambasciata da lui sostenuta per la città di Siena al re Luigi XII, quando questi era in Italia; e dice fra le altre cose che di Severo ei solea valersi ogni giorno per esercitarsi nel tradurre di greco in latino; il che ci mostra quanto ei fosse in quelle lingue versato: Ut si ego quotidie Severo Cisterciensi Graeco paraphraste. utar, quo societas vitae sit studiorum conjunctione laetior (De Card. l. 2, p. 64)• E Severo mostrossi grato alla stima che per lui avea Paolo, premettendo all’opera mentovata una sua lettera latina e un distico in lode dell’ autore allora defunto. È dunque probabile che Gregorio, detto allor Giannandrea, Cortese, trattando spesso con Paolo che gli era parente, si stringesse ivi in amicizia con questo monaco. In fatti in una lettera che Gregorio poscia gli scrisse, rammenta con sentimento di gratitudine quanto ei debba a Severo, per l’ esortarlo e scorgerlo ch’ egli allor facea allo studio delle lettere greche e latine. Mi si permetta il recar questo passo che forma un troppo bell’ elogio a Severo, perchè possa essere tralasciato: Et quidem, dic egli (Op. t. 2, p. 1 {6), quantum memoria repetere possum, nemo te mihi est amicus antiquior nemo magis conjunctus, nemo, cui acque omnes studiorum meorum qualescumque fructus acceptos re/erre delie ani. Non enim memoria nohis ex cidi t, ncc excidet. prof ceto aliquando. cum tu jam princeps Ordinis fui, atquc adeo [p. 1632 modifica]i<53a libro maxima ilignitate praeditus, me adolescentulum adhuc in literis balbutientem, tantum aberat ut sperneres, ut ultro vocares, cum noctes diesque me quietem studiorum tuorum interpellantem, non modo non repellebas, sed ne vultu quidem subtristiore moleste id ferre unquam mihi visus fueris. Resonant adhuc in auribus meis sanctissimae illae adhortationes, et gravissima praecepta, quibus me assidue et ad bonarum litterarum studia et ad Christianam pietatem hortabare, cum ea ordinis gravitate, qua tunc eras, etiam circa incunabula mea, curri latina rum, tu/n graecarum lite ramni, me curii, ut ita dicam, repuerascere non gravareris, ut ad ea, ad quae verbis me hortabare, te ipsum ducem et praevium nobis exhiberes. Questa lettera è quella che ci somministra, come ho accennato poc’anzi, il più forte argomento a provare che Severo non fuggì dall’Italia perchè fosse consapevole della congiura del Cardinal Sauli. Aveagli Severo scritto dalle Fiandre, ove allor si trovava, e ove parimente era allora l imperadore, che avendo egli stese alcune correzioni delle Orazioni di Tullio, pensava, quando gli fosse stato necessario lo star lungo tempo fuor dell'Italia, d’inviarle a lui, perchè le desse a stampare ad Aldo Manuzio (ib. p. 145). Il Cortese nella sopraccitata lettera di risposta si offre pronto a servirlo; ma lo avvisa che Aldo pochi mesi innanzi era morto: Id auteni l& laiei'e nolo, paucis antea mensibus Aldum ipsum immatura et sibi et rei literariae morte ereplum tris fissininni nobis sui desideri uni rcliquisse. Ora Aldo [p. 1633 modifica]TERZO J G33 Malizio il vecchio, come si è detto a suo luogo, morì verso l’aprile del 1515, e perciò nel corso dell’anno stesso si debbon supporre scritte le lettere sopraccennate, ed era perciò fin d’ allora assente dall’ Italia Severo. La congiura contro di Leon X fu ordita solo nel 15 j *(Marat. Ann. d[tal. ad h. an.), nè potè perciò avere in essa parte alcuna Severo. Nè può dirsi che questi tornasse forse in Italia e alla corte del Cardinal Sauli, e che involto nella procella della detta congiura, fosse costretto a partirne di nuovo. Un’ altra lettera a lui scritta dallo stesso Cortese ci pruova che almeno fino al 1520 era sempre stato Severo lontan dall Italia. Gli ricorda in essa il Cortese (l. c. p. 178) le correzioni suddette che quegli avea promesso d’inviargli, e la risposta ch’egli fatto gli avea. Quindi soggiugne che non avendone più avuto riscontro alcuno, temeva che quella sua lettera si fosse smarrita; che ora Ercole Gonzaga vescovo di Mantova, avendo da lui udita tal cosa, avea gli ingiunto di scrivergli nuovamente, e di fargli, istanza, poichè mandasse quell’opera in Italia, la cui stampa avrebbe procurata egli stesso. Or Ercole Gonzaga, che qui è nominato come vescovo di Mantova, fu a quella sede innalzato nel 1520 (Ughell, Ital. sacra, t. 1 in Episc. mantuan.), e perciò non prima di quell anno dovette questa lettera essere scritta. Finallora dunque era stato lontan dall Italia Severo, e quindi non è possibile che fosse complice in alcun modo dell' accennata congiura. Non sappiamo però bene qual fosse il motivo di sì lunga assenza; ed è certo [p. 1634 modifica]i G34 Limo soltanto ch’egli continuò a starne lontano. Il Cortese in una sua lettera italiana al Cardinal Contarini, scritta nel 1536: Mi occorre, gli dice (l c. t. 1, p. 101), avanti tutte le altre cose raccordare a Vostra Signoria del nostro Don Severo, qui si adhuc in humanis agit, è persona che merita, che si faccia ogni opera per revocarlo in Italia, e del quale in ogni buona opera, che si abbia a fare, penso che debbia essere accomodato istrumento quanto alcun altro, che al presente si trovi, considerando in lui la letteratura, e la indole e i di lui costumi. Sicchè prego assai V. S. sii contenta fra le sue gravissime cure fare, che questa non 'sii la postrema, essendo tanto utile e proficua, quanto alcun altra. Ma qualunque ragion se ne fosse, Severo continuò a star lontan dall’Italia, e, come abbiamo udito narrarsi dal Fornari, morì in Allemagna; e se questo scrittore colla voce ultimamente intende poc'anzi, convien dire che ciò avvenisse verso il 1549), nel qual anno egli stampò la sua sposizione. Le due lettere e il distico mentovato sono il solo saggio del sapere di Severo, che abbia veduta la luce; e l’opera da lui scritta sulle Orazioni di Tullio dovette andare smarrita, o giacersi inedita. XXIV. Io mi son trattenuto nel ragionar delle cose di questo monaco alquanto a lungo, perchè esse non erano state rischiarate abbastanza. Di altri basterà il dire più in breve, benchè alcuni tra essi ci abbian date più pruove del lor valore. Zenobio Acciaiuoli fiorentino dell’Ordine de’ Predicatori, amicissimo di Angiolo [p. 1635 modifica]TERZO l635 Poliziano c di Marsilio Ficino, dichiarato poscia da Leon X suo famigliare, onorato della carica di prefetto della biblioteca Vaticana, destinato a trasportar da essa in Castel S. Angelo le più antiche pergamene, delle quali ancora compilò l Indice pubblicato dal P. Montfaucon (Bibl. Biblioth. t. 1, p. 202), e morto in età di cinquant’ otto anni a’ 27 di luglio del 1519, tradusse in latino e diè alle stampe più opere di Eusebio di Cesarea, di Olimpiodoro, di Teodoreto e di altri, delle quali versioni e di altre opere di questo dotto scrittore si ha un esatto catalogo presso il conte. Mazzucchelli, il quale diligentemente ancora ne ha tessuta la Vita (Scritt. ital. t. 1, par. 1, p. 50, ec.). Le Storie di Tucidide e di Senofonte vennero in lingua italiana tradotte da Francesco di Soldo Strozzi, e stampate la prima nel 1545, la seconda nel 1550. In questa seconda egli aggiunse la nota di 144 passi ne’ quali la traduzione fattane dal Domenichi dovea esser corretta. Nella prima ei dice di essere stato aiutato da M. Sylvestro Macchia da Fuligno, huomo non meno esercitato negli studi della Lingua Greca, che della Latina, e dal dotto M. Jacopo Laureo da Udine, giovane gentilissimo, nutrito et allevato del continuo negli esercizi della lingua Greca, nella quale egli è così pronto, come si sia ciascheduno nella sua materna. Di questo Jacopo Laureo abbiam tre lettere a Pier Vettori, scritte da Venezia nel 1549 e nel 1550 (Cl Viror. Epist. ad P. Victor, t. 1, p. G(*, 77, 79); nella prima delle quali gli scrive di aver tutta la sua puerizia e la gioventù trapassata [p. 1636 modifica]if>36 LIRTtO nello studio degli scrittori greci e latini, di aver poscia dovuto per dieci anni interi ompere queste sue piacevoli occupazioni, essendo stato impiegato nell istruire i fanciulli, di averle indi ripigliate, e di aver tradotta di greco in italiano la Storia Varia di Eliano e un Oda di Pindaro; e la prima di queste versioni, stampata in Venezia nell’ anno i.*>5o, egli manda colla seconda lettera allo stesso Vettori, il qual rispondendogli, ne dice gran lodi (Victor. Epist. l. 2, p. 36). Di Tommaso Aldobrandini figliuolo di quel Silvestro di cui abbiam parlato tra professori di legge, e fratello del pontefice Clemente VIII, scarse notizie ci ha date il conte. Mazzucchelli (l. c p. 396, ec.) per mancanza di monumenti. Noi possiam darne qualche più distinta contezza, valendoci singolarmente delle Lettere degli Uomini eruditi a Pier Vettori, e di quelle di Giulio Poggiano, e di qualche altro scrittore. Il primo saggio che Tommaso diede del suo sapere, fu una lettera scritta a Bernardo Salviati nella morte del Cardinal Giovanni di lui fratello, accaduta nel 1553, la qual conservasi ms. nella Magliabechiana (Negri, Scritt. fior. p. 511); e abbiamo una lettera dello stesso Tommaso al Vettori, in cui il ringrazia delle lodi che a quel suo componimento avea date (Cl. I Ir. Epist. ad P. Victor, t. 3, p. 176); e il Vettori rispondendogli, esalta il molto studio e il profondo ingegno di Tommaso (Victor, ep. l. 3, p. 54). Molto parimente il loda il Poggiano in due lettere al medesimo scritte che non han data, ma che sembrano appartenere al i56o [p. 1637 modifica]TERZO 163*7 (Poggiati. Epist. t. 2, p. 98, 100). Ma in ,un’ altra scritta a Francesco Davanzati a 21 di dicembre del detto anno: Aldobrandinus noster, dice (ib. p. i8.{)» (iestatcm egit in t e/enti solitudine. Nunc ubi terrarum sit, ignoro. De quo quidem vehementer doleo, illud ingenium, illam virtutem et humanitatem in haec tempora incidisse. Nostri puto caetera. Tuas ad eum literas dedi Petro ejus fratri. A che cosa alluda qui il Poggiano, e quali fossero le vicende a cui fu soggetto Tommaso, noi l ignoriamo, se pure ei non fu avvolto nella rovina de’ Carafi, che avvenne in quell’anno stesso. Un’ altra lettera del Poggiano a Tommaso de’ 26 aprile del 1561, ci mostra che questi era allora tranquillo in Padova, e che sperava che fosse presto per tornarsene a Roma (ib. p. 264)} ed egli vi tornò in fatti, c fanno i568, morto il Poggiano,.fu dal S. Pontefice Pio V nominato segretario de’ Brevi (Bonamici de Cl. Pontif. Epist. Script. p. 91, 254, ed. 1770) (a). Non sappiamo quando ei morisse, e solo dalle testimonianze addotte dal conte. Mazzucchelli raccogliesi ch' ei fu rapito in età ancor fresca, e prima di poter dare l’ ultima mano alla sua versione delle Vite de’ (a) Quattro tomi di Lettere, o di Brevi, scritte dall'Aldobrandini in nome del papa, conservami nell’archivio V aticano da’ 17 di gennaio del 1 ‘"»67 lino a' 10 d'aprile 1 (Marini (Irgli Archiatri pontìf. I. 2, p. 3i3). Quindi dee dirsi che circa due anni prima della morte del Poggiano, e non dopo essa, come io ho scritto, ci fosse eletto a segretario pontificio. [p. 1638 modifica]»638 LIBRO Filosofi di Diogene Laerzio da lui illustrata con erudite annotazioni. Essa fu poi data alla luce in Roma nel dal cardinal Pietro di lui nipote; e le fatiche di Tommaso sì nel tradurre che nel comentare Laerzio sono state assai lodate da’dotti, e singolarmente da Isacco e da Merico Casauboni, le testimonianze de’ quali si adducono dal suddetto scrittore. Abbiamo ancora un’altra lettera di Tommaso al Vettori, dalla quale caviam le notizie di un’altra opera di esso, cioè della Parafrasi sull’ ultimo libro di Aristotile De physico auditu # ch’ egli inviò al Vettori, perchè vi facesse le correzioni che avesse credute opportune (Cl. Vir. Epist. ad P. Vict. t. 3, p. 180); e il Vettori, rispondendogli nel febbraio del 1568, celebra quel lavoro con molte lodi (Victor. Epist. l. 3, p. 71). Di Tommaso fa onorevol menzione anche Francesco Patrizi, dedicando al cardinal Ippolito Aldobrandini di lui fratello, che fu poi Clemente VIII, la sua Pancosmia: In memoriam venti, T/iomae fralris tai humaniorihus litc.ris et Graecis et Latinis, et Philosophiae ornatissimi me satis diu Patavii amicitia familiarissime esse usum. Pregevole è ancora la traduzione italiana delle Meccaniche di Aristotele, fatta da Antonio Guarino modenese, e stampata in Modena nel 1573 colle dichiarazioni del medesimo traduttore, il quale, dedicando l’opera a Cornelio Bentivoglio, dice che avendo dovuto pel rigore del freddo interrompere il lavoro delle fortificazioni della cittadella di Modena, erasi in quel frattempo [p. 1639 modifica]TERZO 163«) occupato in questo lavoro (<*). Nel breve elogio di Antonio Àngelio da Barga Iratello del celebre poeta Pietro, che ci ba dato il co. Muzzucclielli (l. cit t. 1, par. 2, p.?33), non si dice eh’ ci fosse dotto nel greco. Ma questa lode gli vien data dal medesimo Pietro nell orazion funebre del gran duca Francesco de’ Medici, di cui Antonio era maestro, e da Pietro Vettori in una lettera al medesimo Pietro (l. c. l 2, p. 41)• Alle poche operette di Antonio che dal detto scrittore si accennano, deesi aggiugnere una lettera da lui scritta allo stesso Vettori (Cl. Vir. Epist. ad P. Victor, t. 3, p. 185) e un endecasillado in lode del medesimo (ib. ad calc. t. 4)• Due Dialoghi di Platone furono in lingua italiana tradotti da Ottaviano Maggi veneziano, e stampati in Venezia nel 1558, ove due anni prima avea ei pubblicata la traduzione dell’Epistole di Cicerone a M. Bruto. Una lettera a lui scritta nel 1555 da Agostino Valerio, che fu poi cardinale, ci mostra che Ottaviano era allora scolaro di Marziano Rota, e ch erasi singolarmente prefisso (a) Molto dotto nel greco fu anpora Giancarlo Bovio nato in Brindisi, ma oriondo della nobil famiglia bolognese di questo nome, prima vescovo d; Ostuni, poi arcivescovo di Brindisi e d’Oria, e morto mi 1570. I)i lui abbiamo la traduzione di grero in latino delle Costituzioni apostoliche, stampala in Venezia nel i563j e vuoisi eh' ei traducesse ancora le c pere di S. Gregorio Nisseoo; la qual versione però non fu pubblicala. Più copiose notizie di questo vescovo si posson vedere presso il co. Mazzucchclb (Scnlt. itaL t. 1, par. 3, P• »9*6). [p. 1640 modifica]l6/fo LIBRO «rimitare scrivendo Cicerone tra’ Latini, e Isocrate tra’Greci (Epist. Cl. Vir.; Ven. 1568, p. 126). Nel 1558 passò a Roma, come ci mostra una lettera a lui scritta da Jacopo Griffolio (ib., p. 133). Nel 1560 fu richiamato a Venezia alla carica di segretario del senato; e abbiam le lettere di Giambattista Rasario e di Pietro Giustiniani, nelle quali con lui si congratulano (ib., p. 131, 134), e quella con cui lo stesso Maggi scrive al Poggiano di esser giunto a Venezia lieto per l onor conferitogli ma afflitto per la perdita de’ molti amici che in Roma aveva (ib.. p. 137), tra" quali era un de’ principali il Poggiano, fra le cui Lettere una ne abbiamo a lui scritta (Pogia.fi. EpisL t 2, p. 87). Nel 1562 egli andossene per la Repubblica in Francia, donde scrivendo a Matteo Pizzamani, gli dà ragguaglio della stima che ivi avea ottenuta presso i dotti, e del piacere che in quel soggiorno proverebbe, se le guerre civili non gliel rendesser men caro (ib., p. 138). Alcune altre opere ne accenna il Sansovino, delle quali io non ho più distinta notizia (Venezia, p. G18) (*). Giambatista C") Fra quelli che più. si adoperaron nel tradurre in lingua italiana gli autori greci, deesi anche annoverare Marcantonio Gandino trivigiano, di cui abbiamo, oltre gli Stratagemmi di Frontino tradotti dal latino (Argr.~ lati, Bibl. de’ Volgarizz. t. 2, p. 105)), gli Opuscoli morali di Plutarco in gran parte (ivi, t. 3, p. 266, ec.), e tutte l Opere di Senofonte recate in lingua italiana (ivi, p. 372, ec.). Ei fu ancora matematico e meccanico valoroso, come ci mostra l iscrizione a lui posta dal Burchelati, e da questo medesimo storico (CommenL [p. 1641 modifica]TERZO l041 Canaozzi asolano fu uom versato nelle lingue orientali, ma nella greca principalmente, come afferma lo storico de Thou ad an. 1581), il quale narra che il Camozzi, studiata prima la medicina, fu poi a’ tempi di Giulio III professore in Bologna nel collegio di Spagna \ che sotto Paolo IV ebbe la medesima cattedra in Macerata j che da Pio IV fu poscia chiamato a Roma, perchè si occupasse nel tradurre in latino le Opere dei SS. Padri \ che mori a’ 25 di marzo del 1581, in età di sessantasei anni, lasciando un figlio detto Timoteo. Aggiugne che molte opere avea egli scritte, ma che non erano venute a luce che alcune orazioni in diverse occasioni da lui recitate (delle quali una sola ho io veduta De Antiquitate literarum, stampata in Roma nel i5~5), il Co mento greco della Metafisica di Teofrasto, di cui questa biblioteca Estense ha la bella edizione fatta nella stamperia Aldina nel 1550, e alcune altre traduzioni dal greco; e che molte altre opere ne eran rimaste inedite, delle quali dall Italia gli era stato trasmesso il catalogo, che troppo Jlift. Tarvis. p. 4> i). E benché Ottavio Fahri sembri a «è attribuire r invenzione della squadra mobile nel libro deli Uso di essa, stampato la prima volta in Padova nell’auno i6i5, nell’iscrizione suddetta però si attribuisce ni Gandino questo qual ehe siasi onore, e lo stesso Fahri in una lettera diretta a Francesco figliuolo di Marcantonio, e die va innanzi a quel libro, contessa di ilo ver ogni cosa al padre di esso, Matematico eccellentissimo e di acutissimo ingegno. 1 IRA BOSCHI, Voi XII. 3l \ [p. 1642 modifica]164 ^ LIBRO lungo e inutile, dice egli, sarebbe [' inserir nella Storia (a). XXV. Ma io mi avveggo di esser quasi mio malgrado entrato in un argomento di sterminata estensione, prendendo ad annoverare coloro che della perizia nel greco ci dieder pruova colle lor traduzioni, o con altre opere somiglianti, de’quali io potrei continuar ragionando per lungo tratto. Diam dunque fine a questo capo col ragionare di un vescovo che fu in questa lingua dottissimo, e che ne promosse lo studio col raccogliere una copiosissima biblioteca di libri greci. Parlo di Filippo Sauli genovese, vescovo di Brugnate, cugino di Stefano da noi mentovato altrove, e del celebre Cardinal Bendinello. In età di soli ventun anni fu da Giulio II sollevato alla vescovil dignità nel 1512, e fu ancora più d’una volta inviato dalla sua patria all’imperador Carlo V. Lo studio della lingua greca fu la principale occupazione di cui si compiacque, e ne diè saggio nel pubblicare la traduzione de’ Comenti di Eutimio Zigabeno su’ Salmi, della qual opera, e insieme della gran copia di libri greci da lui raccolti, fa menzione con somma lode il Cortese in una sua lettera a Dionigi Fauclier: Sa alio (a) Intorno alla vita e alle opere di Giainbatisla Ca» mozzi più copiose notizie si posson vedere nel Saggio di Memorie degli Uomini illustri di Asolo del sig. conte Pietro Trieste (p. 32, e«-.); a cui però deesi aggiu* gnere che due altre opere di esso trovatisi nella biblioteca Barberini, cioè un Fomento da Ini scritto in Alcibi<idem Platonis, e l Olimpiodoro stille Meteore d Aristotile da lui tradotto dal greco. [p. 1643 modifica]TERZO l643 Episcopo, gli scriv egli (Op. t. 2, p. 77)? a U salutem plurimam dixi, qui te vehementis siine amat, tuique visendi est cupidissimus. Is nuper commentarios Euthymii Monachi in omnes Psalmos e Graeco in Latinum convertit, opus elegans, ingeniosum, eruditum, et in quod fere omnia, quae a maximis illis viris Origene, Didymo, Eusebio, Basilio, Chrysostomo in eo genere scripta fuerant, breviter et miro cum artificio sunt conjecta. In eo elimando, atque expoliendo nunc assiduus est, egoque illi minister assideo. Maximam praeterea graecorum librorum copiam, et eorum antiquorum incredibili sump tu ì atque industria nactus est, partim Roma, Florentia, atque Venetiis, parti/n e ti am e media Graecia allatorum, miraque diligentia operam dat, ut ejus generis ornamenta, non jam ex languenti, ut ille ait sed pene J'unditus deleta Graecia, Genuam transferantur. La traduzione accennata venne a luce in Verona nel 1530. Un bell’elogio del Sauli ci ha lasciato ancora il Bandello, il quale a lui dedicando la prima novella del tomo II, così ne ragiona: Io direi, che tra gli altri voi sete uno di quelli che sino dalla vostra fanciullezza sete stato nemicissimo degli avari; e che dopo che sete beneficiato, vivete splendidamente e largamente ai poveri e virtuosi; e poco appresso: Quella ho voluto mandarvi, acciò che dopo gli studi vostri de le Civili e Canoniche leggi, ne le quali sete eminentissimo (come l opere vostre stampate fanno ferma fede) possiate quella leggendo gli spiriti vostri ricreare, ec. Quai sien quest' opere, dalle quali dice il Bandello che [p. 1644 modifica] raccoglievasi il saper legale del Sauli, non è agevole a definire. Il P. Oldoini dice (Athen. ligust p. 473) ch’ egli credesi autor de’ Comenti su’ tre ultimi libri del Codice che dall’ Alciati furono pubblicati, e che ciò affermasi dall’Alciati medesimo nella lettera dedicatoria al Sauli, che lor va innanzi. Ma, a dir vero, l'Alciati in quella lettera loda bensì lo studio di questa scienza fatto dal Sauli, e dice che molto lume a scrivere que' Comenti gli avea dato un libro dal Sauli stesso prestatogli, ma di Comenti da esso scritti non dice motto. Forse il Bandello intende di parlare di un libro che dice l’Oldoini avere il Sauli fatto stampare, non so in qual anno, in Milano ad uso de’ sacerdoti che hanno cura di anime, da lui indirizzato al clero della sua diocesi. Ei rinunciò al vescovado nel 1528, e ritirossi a viver privato in Genova, ove venne a morte nel 1531, e fu sepolto nella chiesa dell’Assunta in Carignano, che dalla sua nobil famiglia fu magnificamente innalzata. Più altri elogi del Sauli si posson vedere presso i molti scrittori dall' Oldoini accennati.