Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo V/Libro I/Capo IV

Capo IV – Biblioteche e scoprimento di libri antichi

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Capo IV – Biblioteche e scoprimento di libri antichi
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Capo IV.

Biblioteche e scoprimento di libri amichi.

I. Benchè fino da’ secoli precedenti avessero . ricominciato alcuni a raccoglier libri e a formare S biblioteche, esse però erano assai scarse di libri, ■ e questi per lo più riducevansi aa’alcune opere de’ SS. Padri e degli antichi e de’ recenti teologi, a’ libri dell’uno e dell’altro Diritto, e a que’ di medicina, di astrologia, di filosofia; e di questi ancora aveasi grande scarsezza. A questo secolo propriamente dovette l’Italia, e per lei tutta l’Europa, quella lodevole avidità con cui si presero a ricercare gli angoli più abbandonati e più polverosi delle case private e de’ monasteri per rinvenirvi le opere di quegli autori de’ quali o non era rimasto che il puro nome nella memoria de’ posteri, o delle molte opere da lor composte, poche eran quelle che fosser note. In questo capo ancora ci darà ampia materia di ragionare il Petrarca, di cui non v’ebbe a que’ tempi il più sollecito in cotali ricerche, e che si può considerare a ragione come il primo fra que’ tanti Italiani che collo scoprimento de’ libri antichi giovarono sì grandemente alle scienze e alle arti. Io mi lusingo che niuno fra gli stranieri vorrà in ciò contendere pel primato cogl’italiani; e quando pure il volesse, i monumenti che dalla istancabile diligenza de’ nostri maggiori dovrò di mano in [p. 141 modifica]PRIMO 1 41 ninno produrre, persuaderanno, io spero, che in vano ci si contrasta tal gloria da una luminosa serie di fatti troppo ben comprovata. 11. Qual fosse la comune ignoranza, anche ,”*orin. fra quelli che aveano il nome di dotti, intorno » universali! agli antichi autori, possiam raccoglierlo da una antichi lettera del Petrarca intitolata a Tommaso Ca- •cnUoru loria da Messina, uno de’ più colti uomini che allor vivessero, ma che veramente è indirizzata a un professor bolognese, cui l’ab. de Sade, come altrove vedremo, crede, ma forse senza bastevole fondamento, che fosse il celebre canonista Giovanni d’Andrea. Questi dunque, chiunque egli fosse, avea scritta una lunga lettera al Petrarca, in cui veniva ragionando de’ più illustri antichi scrittori e de’ poeti singolarmente, ma in modo che fra molte belle notizie cadeva in gravissimi errori. Perciocchè primieramente, come il Petrarca lo avverte nella sua risposta (Famil. l. 4, c. 9), ei dava il primo luogo tra gli scrittori a un certo Valerio, ch’io non so se fosse Marziale, o Massimo, o altri, ma certo, chiunque fosse, non dovea esser cotanto innalzato. Quindi voleva che tra’ poeti si annoverassero Platone e Tullio. I nomi poscia di Nevio, e, ciò che è più, di Plauto gli riuscivan sì nuovi, che avendone il Petrarca in altra sua lettera fatta menzione, il suo amico ne avea fatte le maraviglie. E finalmente egli avea asserito che Ennio e Papinio Stazio erano stati coetanei. Or se un uomo per altro così erudito, quale a giudizio del Petrarca era costui, chiunque egli fosse, sì miseramente in[p. 142 modifica]14 li • LIBRO ciampava nel ragionare ili autori cotanto noti, qual cognizione potevano averne gli uomini solo mediocremente versati nella letteratura? Quindi fra le fatiche, a cui il Petrarca si accinse, una fu quella di esaminare con diligenza, se le opere che spargevansi sotto nome di qualche antico scrittore, gli si dovessero attribuir veramente, o si avessero a creder supposte. Intorno a che è degna d’esser letta singolarmente una lettera (Senil. l. 2, ep. 4) in cui egli va ragionando d’alcune opere falsamente attribuite ad Aristotele, a Seneca, a Origene, a S. Agostino, a S. Ambrogio, a Ovidio. Nel che s’egli ancora non è sempre sicuro nelle sue congetture, qual maraviglia, che essendo egli il primo a dissipare sì folte tenebre, talvolta non cogliesse nel vero? ni. 111. Alle scarse e infedeli notizie che aveansi • D^» degli autori antichi, aggiugneasi l’ignoranza de’ de* copuli. COpiat0ri? che trascrivendone le opere, le sformavano per tal maniera, che gli autori stessi appena le avrebbono riconosciute. Bello è l’udire anche su questo argomento le amare doglianze del Petrarca che sembra non sapersi dar pace di esser nato in sì barbaro secolo: Chi potrà , dic’egli (De Rem. utriusque Fortunae, l. 1, dial. 43), recare un efficace rimedio all ignoranza e alla codardia de’ copiatori, che ogni cosa guasta e sconvolge? Per timor di essa molti di eccellente ingegno si son tenuti lontani dal dare alla luce opere immortali; pena ben giustamente dovuta a questo nostro secolo scioperato che non de’ libri, ma solo [p. 143 modifica]PRIMO l43 della cucina tien conto, e chiama ad esame i cuochi, non gli scrittori Quindi ci dunque sa in qualche modo miniare le pergamene , e maneggiare la penna, benchè sia interamente sfornito di dottrina , d arte e d’ingegno, vien riputato scrittore. Non parlo ora, nè fo querela dell’ortografia che già da lungo tempo è perduta. / 0 Ics se il Cielo cìi essi in qualunque modo scrivessero ciò che lor si dà a copiare; si vedrebbe l’ignoranza dello scrittore, ma si avrebbe almeno la sostanza de’ libri. Ma essi confondendo insieme gli originali e le copie, dopo aver promesso di scrivere una cosa, ne scrivono una tatt! altra, per modo che tu stesso più non conosci ciò che hai dettato. Credi tu forse che se risorgessero ora Cicerone e Livio, e molti altri antichi egregi scrittori, e singolarmente Plinio Secondo? e si facessero a rileggere i loro libri, essi gl’intenderebbono? e che non anzi esitando ad ogni passo or le cre.derebbono opere altrui, or dettatura di barbari? E poco appresso: Aggiugnesi a ciò che non v ha freno nè legge alcuna per cotai copiatori che senza esame si scelgono e senza pruova alcuna. Non vi ha libertà somigliante pe’ fabbri , per gli agricoltori, pe’ tessitori, per gli altri artefici. E nondimeno, benchè il pericolo riguardo a questi sia assai minore, e tanto maggiore riguardo a quelli, tutti nondimeno alla rinfusa prendono a scrivere, ed havvi anche il suo prezzo fissato a cotai barbari distruttori. Nè ciò dee ascriversi a colpa tanto de’! copiatori, che secondo il comun costume degli [p. 144 modifica]IV. .Scarse**» de1 liliri; inTmuione della caria di lino. 144 LIBRO uomini cercano il loro guadagno , quanto degli studiosi medesimi, e di que’ che hanno la cura de’ pubblici affari, i quali non si prendon pensiero alcuno di ciò , nè si ricordano che Costantino diè ordine ad Eusebio di Cesarea che i libri non si scrivessero, se non da periti e ben esercitati scrittori. E ben n’ebbe a fare esperienza lo stesso Petrarca, il quale, scrivendo al Boccaccio (Senil. l. 5, ep. 1), si duole che dieci e più volte avea tentato di far copiare il suo libro della Vita solitaria, e che non mai l’avea potuto ottenere per l’ignoranza e la pigrizia de’ copiatori: talché, egli dice, sembrerà appena incredibile che un libro scritto in pochissimi mesi, nel corso di molti anni non siasi potuto copiare. IV. Nè solo guasti e scorretti, ma rari ancora erano i libri, sì perchè molto tempo e non poco denaro si richiedeva ad averne copia, sì perchè non era sì facile a ritrovare le pergamene, sulle quali allora usavasi scrivere. Perciò tra alcuni provvedimenti che per l’università di Bologna furono pubblicati l’anno 1334, troviam questo fra gli altri che niuno Scolare avesse ardimento di portare sorte alcuna di libri fuori di Bologna senza licenza bollata col sigillo degli Anziani, Consoli e Difensori dell’avere, sotto pena di perdere li detti libri, e di essere gravemente punito (Ghirardacci, t. I , p. 117). Così la scarsezza de’ libri facea che si rimirassero quasi contrabbandieri coloro che li trasportavano altrove, e che fosse allora delitto ciò che or sarebbe degno di lode e di premio. [p. 145 modifica]PRIMO In questo secolo stesso però a render minore la rarità loro giovò non poco o l’invenzione, o almeno il più frequente uso della carta comune, di cui or usiamo (*). lo so che alcuni (*) Quando io a questo luogo ho trattato della prima origine della carta di lino, non mi era ancor venuta sotl* occhio P operetta de Chartae vulgaris seu linae origine stampata all’Aia nel 1767, in cui contengonsi alcune erudite lettere su questo argomento di Gherardo Meerman, di Giovanni Cristoforo Gotsched, di Paolo Daniello Longolio, di Gregorio Majansio, e di più altri eruditi, Io l’ho poi avuta per grazioso dono del ch. signor Pierantonio Crevenna , e P ho letta avidamente. Ma confesso che la mia espettazione n’ è rimasta delusa. Nè è già che non vi si leggano molte e pellegrine notizie che altrove si cercherebbero invano. Ma dopo averle lette, pare che l’incertezza invece di togliersi si faccia maggiore; perciocchè chiaramente si vede che molte carte, che ad alcuni eran sembrate fatte di lino , da altri sono state infallibilmente credute carte di bambagia. Ivi ancora non si fa alcuna menzione del bel passo della Cronaca de’ Cortusii da me prodotto, in cui l’invenzion della carta volgare di lino si attribuisce a Pace da Fabiano, e solo si dice eh1 essa dovette cominciare ad usarsi sul principio del secolo XIV, e vi si aggiugne, ma senza recarne pruova, che i primi saggi vennero dall’Allemagna. La difficoltà di discernere la carta di lino dalla carta di bambagia fa cadere spesso in errori, e gli artefici sono in ciò più atti a decidere, che gli eruditi. Quindi il ch. sig. canonico Mario Lupo primicerio della cattedrale di Bergamo, come mi ha egli stesso avvertito, avendo fatti esaminare da alcuni artefici certi pezzi di carta della fine del XIII secolo , ed avendo essi asserito ch’essa era carta di stracce di lino , fatte sulla medesima più diligenti osservazioni, si ristrinsero a dire che certo v’era frammischiato del lino. E lo stesso mi assicura di avere, dalle sue osservazioni fatte insieme cogli artefici, raccolto il eh. sig. conte Tiraboschi, Voi. V. 10 [p. 146 modifica]146 LIBRO pretendono che fin dal secolo xn ella fosse usata, e ne trovan la pruova in un passo di Pietro Cluniacense, che allor vivea, il quale , descrivendo i diversi generi di carta allor Rambaldo degli Azzoni Avogaro, canonico della cattedral di Trevigi, cioè che sulla fine del secolo XIII le carte si lavoravano di stracci di lana e di bambagia , o ex rasuris pannorum veterum , con alcuni pochi di canape e di lino, generi allora assai rari, e che essendosi poi questi moltiplicati in Italia, verso la metà del secolo xiv Pace da Fabiano dovette prenderne occasione di fabbricare con essi soli la carta. L’eruditissimo sig. Cristoforo Teofilo de Murr, celebre pel suo Giornale delle Belle Arti, e per più altre opere , mi ha inviato da Norimberga un pezzo di bella carta di lino, fabbricata, come si crede, sul principio del secolo xiv. Ma non parmi che se ne possa stabilir con certezza nè l’anno nè il luogo. Quindi poichè noi per una parte abbiamo Y autorità della Cronaca sopraccitata, che fa inventor della carta di lino Pace da Fabiano verso la metà del secolo xiv, e per altra parte non abbiam monumenti ugualmente sicuri di altre carte di puro lino fabbricate altrove prima di questo tempo, pare che, finchè tai monumenti non si ritrovino, debba rimanere la gloria di questa invenzione al detto Pace da Fabiano, e al territorio di Trevigi, in cui egli intraprese questo lavoro. È però degno di osservazione un passo del giù-* reconsulto Bartolo, morto nel 1359, il quale nel suo Trattato de Insigniis et Armis alla rubrica 8 fa menzione delle fabbriche di carte de papyro , ch’erano in Fabriano , e che erano le più accreditate che allora si conoscessero, come osserva il Meerman nell’operetta sopraccitata (p, 7, ec.), che ne riferisce tutto quel passo. Ciò mi fa nascere qualche dubbio che ove nella Cronaca de’ Cortusii si legge Pax de Fabiano, debba leggersi per avventura Pax de Fabriano , e che questi in Fabriano forse prima che nel Trivigiano cominciasse a fabbricar tali carte, e che poscia passato a Trevigi, la copia e la bontà dell’acque ivi da lui ritrovate lo [p. 147 modifica]PRIMO 147 conosciuti, nomina fra le altre quella ex rasuris velcri un pannorum, seri ex quali he t alia vittore materia (Tract. contra Jud. c. 5). Ma ò corto ancora che, comunque il P. Arduino affermi invitasse a trasportare colà la sua fabbrica. Ma questa non è che una semplice congettura, di cui gli eruditi faranno quel conto di cui la crederan degna. u La congettura da me qui accennata , che invece di Pax de Fabiano debba leggersi Pax de Fabriano , acquista ora maggior forza; perciocchè per autentici documenti possiamo affermare che le più antiche cartiere finor conosciute in Italia son quelle di Fabriano, antico castello della Marca d’Ancona, onorato del titolo di città da Sisto IV nel 14-74 * e poscia da Benedetto XIII sollevato all’onore di città vescovile. Due pergamene originali autentiche conservansi ivi nell’archivio del monastero di S. Benedetto de’ Monaci silvestrini: la prima è segnata anno Domini Millesimo cci.xxr tempore Domini Adriani Pape quinti Indictione quarta die vii intrante augusto; ove però è evidente che per errore del notaio si è scritto mcclxxv invece di mc.clxxvi, al quale appartiene la indizione iv, e il brevissimo pontificato di Adriano V che si stese solo da’ 12 di luglio fino a’ 18 d’agosto del detto anno, il quale error non è tale che basti a rivocare in dubbio F autenticità della carta. In essa dunque sub trasanna carteris sororis benentesse morici gentilis la stessa suor benentessa alla presenza di alcuni ivi nominati existens in carcere suo posito in contrada gualdi prope Fabrianum juxta stratam publicam , ec. dona alla chiesa di S. Benedetto di Montefano de’ medesimi Monaci silvestrini posta circa tre miglia lungi da Fabriano dictum carterem pro dimidia cum solo et edifitio con tutti gli altri suoi beni. La seconda appartiene a’ 22 di novembre del 1278 nella vi edizione; e in essa una certa Temperanza di Albertuzio vende al sindaco del medesimo monastero pel prezzo di otto lire ravennati, o anconitane un’altra cartiera: quendam Carterem cum solo et edificio posi tu/n a ponte gualdi Juxta viam a primo late re. Ove è ad [p. 148 modifica]l.{8 LIBllO (in Plin. t. i, p. 689 alter, ed.) di aver vedute carte ordinarie de’ tempi di S. Luigi re di Francia, altri però in questa materia più versati j assicurano che non se ne trova alcuna prima; avvertire che di queste due cartiere, la prima fu nel 1715 a’ 9 di maggio venduta da’ monaci stessi che finallora l’avevano posseduta; l’altra è ancor presso loro, ma cambiata in molino da grano , benchè ritenga non dubbj vestigi di antica cartiera. Cartiere più antiche di queste non sono state finora, che io sappia, scoperte in Italia; e finchè esse non si scuoprano, dee rimanere a questa città l’onore di averle prima di ogni altra avute. Ma queste cartiere erano esse di carta di bambagia, ovver di carta di lino? Niuno può indicarcelo meglio che le carte medesime da esse uscite. Dieci protocolli conservansi nel pubblico archivio di Fabriano, che contengono gli stromenti dal 1 di decembre del 1297 fino a’ 14 di decembre del 134.7 > eil ess* son tutti in carta, e di diverse cartiere, perciocchè vi si osservano fino a venti marche diverse, trattane la carta del primo protocollo , che non ne ha alcuna. Or queste carte, esaminate e sfilate e disfatte con somma attenzione da’ più periti artefici di Fabriano , son da essi state giudicate incontrastabilmente carte di lino. Il lor giudizio confermasi dal passo già accennato del celebre giureconsulto Bartolo, il quale scriveva verso la metà del secolo xiv, il qual passo, anche per le notizie che ci somministra della fama in cui erano allora le carte di Fabriano, merita di esser qui riportato distesamente: “In Marchia Anconitana , dice egli (Tract. de Insigniis et Armis, rubr. 8), est quoddam nobile castrum, cujus nomen Fabrianum , ubi arti fidimi faciendi chartas de papyro principaliter viget, ibique sunt aedificia multa ad hoc y et ex quibusdam artificiis meliores chartae veniunt, licet etiam in aliis faciat multum bonitas operantis, et, ut videmus hic, quodlibet foli uni chartae habet suum signum, per quod significantur, cujus aedificii est charta”. Qui veggiamo che quelle carte da Bartolo diconsi chartae de papyro. E io so bene che con [p. 149 modifica]PRIMO 149 ilei secolo xiv già innoltrato; e credon perciò, eli1 egli o abbia presa la carta bambagina per la volgare, o abbia creduli originali que’ ch’orano copie, e che il passo di Pietro si debba questo nome s’indicano ancora talvolta le carte di bambagia. Ma le cose già riferite, e singolarmente i documenti trivigiani, ci mostrano che quando s’introdusse l’uso della carta di lino, a distinguerla da quella di bambagia, questa continuò a dirsi charta bombacyna, e il nome di charta de papyro rimase a quell;» di lino. Di fatto nel passo arrecato de’ Cortusii si dice che 1* inventore delle carte di papiro in Padova e in Trevigi fu Pace, ove certo deesi intendere delle carte di lino, poichè quelle di bambagia già da qualche secolo eran notissime. A me par dunque assai verisimile che in Fabriano si trovasse il modo di far le carte di lino , e che esistessero le cartiere fin dal 1275, ed anche probabilmente alcuni anni prima. Quindi, ove nella Cronaca de’ Cortusii si dice che quel Pace da Fabriano fu il primo inventor della carta a pud Padunm, et Tarvisium , non parmi ora , come nella prima edizione io avea creduto , che si debba intendere in questo senso, che Pace fosse il ritrovatore della carta di lino ,• ma che egli, venuto da Fabriano, la introducesse verso la metà del secolo xiv in Padova e in Trevigi: perciocchè altrimente converrebbe dare a Pace una vita troppo più lunga dell* ordinario. Due cose voglionsi qui ancora accennare. La prima si è che in Fabriano sussiste ancora in basso stato una famiglia del cognome di Pace, presso la quale conservasi un’antica tradizione che l’esercizio di essa fosse una volta quello di lavorare la carta, e che anzi di essa fosse una delle cartiere al principio accennate. L’altra si è che le cartiere di Fabriano sono state per lungo tempo rinomatissime, e ne parlano alcuni scrittori del secolo xv, e anche Leandro Alberti. E maggior gloria ancora verrebbe alle cartiere fabrianesi, se potesse affermarsi con sicurezza ciò che il Salmon ne racconta (Stor. del Mondo, t. 21, p. 145, ec.), cioè che da Fabriano furon condotti in Toscana 1 primi [p. 150 modifica]l5o LIBRO intendere di carta bambagina, la quale pure pud# dirsi ex rasuris veterani pannorum. Certo il march. Maffei ci attesta che la più antica carta ch’egli abbia veduta, è del 1367 (Istori introduttori di quest’arte, e che n’ebber perciò dalla Repubblica Fiorentina amplissimi privilegi. Ma io non so se questo racconto sia appoggiato ad autentici documenti. Tutto ciò che intorno alle cartiere di Fabriano fin qui ho detto, deesi all’erudizione e alla diligenza del sig. Luigi Mastarda nobile fabrianense, che ne ha raccolti e me ne ha cortesemente trasmessi i documenti, Ma queste cartiere furono esse le prime e le più antiche solo fra quelle d’Italia, ovvero ancora fra tutte quelle del colto mondo? Ecco un’altra quistione di troppo più difficile scioglimento. Così io ho creduto nella prima edizione di questa Storia, ove io ho attribuita la lode di questa invenzione al suddetto Pace, nè per ora parmi di esser costretto a cambiar sentimento. Ho letta la bella dissertazione che su questo punto ci ha data il eh. sig. abate Andreas (Orig. e Progr. della Letterat. t. 1, p. 198, 222), nella quale egli non solo attribuisce agli Arabi l’invenzione della carta di bambagia , che da lui si fissa circa il principio del secolo VIII, ma quella ancora della carta da lino , e crede che se ne abbiano nelle Spagne non pochi documenti anche anteriori al secolo XIII. Io rispetto l’autorità de’ dottissimi uomini che lo asseriscono. Ma mi sembra che a decidere con sicurezza di tal quistione , converebbe confrontare tra loro i codici spagnuoli cogl’italiani , assicurarsi che la carta sia di lino e non di bambagia , nel che gli artigiani possono essere migliori giudici che gli eruditi; osservare se i documenti che si accennano scritti in carta, sieno originali o copie, e fare altre simili riflessioni, senza le quali non si può proferire un sicuro e inappellabil giudizio. Io non veggo che questo esame siasi ancor fatto , e perciò non mi pare che la disputa si possa ancor considerare come decisiva. Su questo argomento si può ancora vedere un’opera di M. Breitkof in lingua tedesca, stampata in [p. 151 modifica]PRIMO 15 1 di pio ni. p- 78), e il eli. P. ab. Trombetti osserva (Arte di conoscere V età de! codici, c. 9) che nell’archivio e nella libreria della sua canonica di S. Salvadore in Bologna, ove ha gran copia di tai monumenti, non trovasi cosa scritta in carta volgare se non dopo il 1400. Il Muratori vorrebbe persuaderci ch’egli avesse veduti codici scritti nella nostra carta volgare nel secolo xii (Antiq. Ital. t. 3, p. 871); ma questo grand’uomo, con error perdonabile a chi tratta di tanti e sì diversi argomenti, ha qui egli pure confusa la carta bambagina con quella di lino: mentre egli è evidente che ne è tanto diversa, quanto la bambagia dal lino. Finchè dunque non si trovino monunmenti più antichi scritti in tal carta, abbiam ragione di credere che solo nel xiv secolo ne fosse trovato V uso. Anzi mi sia qui lecito di proporre una mia Lipsia nel 178.4, ove egli riconosce gli Àrabi come inventori della carta di bambagia , dà agl’Italiani il primato di antichità riguardo alla carta di lino, e pretende che gli Spagnuoli non l’abbiano conosciuta che verso la metà del secolo xiv, e che non ne abbiano fabbricato prima dell’invenzion della stampa. Dopo avere scritto fin qui, veggo indicarsi nelle Effemeridi romane (1788, agosto , p. 271), e nell’Antologia (1788, agosto , p. 61) una dissertazione del sig. Giovanni Giorgio Schwandner primo custode dell’imperiai biblioteca di Vienna, in cui produce un diploma di Federigo Il, che si assegna al 1 ^43 , e che conservasi ora nella detta biblioteca, scritto in carta di lino } la qual perciò vuoisi che sia la più antica finora trovata. Ma l’erudito autore ci permetterà che non ammettiamo sì presto come originale un diploma imperiale scritto in carta e non in pergamena $ e che ha il sigillo noti sotto il diploma, ma a tergo di esso w. [p. 152 modifica]l5a LIBRO congettura su un passo dell1 antica Storia di Padova de’ Cortusii scritta in questo secolo stesso. All’anno 1340 così ivi si narra (Script. Rer. ital. vol. 12, p. 902): Facti fuerunt Fulli Omnium Sanctorum, et laboreria pannorum, lanae, et cartarum paperum caeperunt Paduae. Ognun vede che quella parola paperum vuol essere emendata. In fatti in un codice del co. di Collalto veduto dal Muratori, in cui alla Storia de’ Cortusii si aggiungono alcune note di Andrea Redusi da Quero, non solo diversamente si legge quella voce, ma più stesamente così si aggiugne: et chartarum de papyro. Cujus laborerii chartarum de papyro primus inventor apud Paduam et Tarvisium fuit Pax quidam de Fabiano, qui propter aquarum amaenitatem in Tarvisio saepius ac longius versatus vitam exegit. Or non possiam noi credere che qui ci s’indichi il primo inventor della carta in questo Pace da Fabiano? Forse, è vero, si vuol dir solamente che Pace fu il primo a introdurne l’uso in Padova e in Trevigi. Ma queste parole primus inventor sembrano accennar veramente il primo ritrovatore; e poichè appunto a questi tempi medesimi si comincia a trovar qualche cosa scritta in carta volgare , a me par certo assai probabile che al suddetto Pace noi dobbiam riconoscerci debitori di sì bella invenzione. Io ho voluto comunicare queste mie riflessioni all’eruditissimo sig. canonico co. Rambaldo degli Azzoni Avogaro, uomo a maraviglia versato nella storia dei bassi secoli, e in quella singolarmente di Trevigi: ed egli non solo mi ha confermato nella mia opinione intorno al [p. 153 modifica]PRIMO passo da me addotto, e ch’era già stato da lui ancora osservato, ma con singolar gentilezza mi ha comunicati altri monumenti con cui stabilirla ancora più fermamente. Egli osserva adunque che in un documento dell’anno 1318 un notaio creato dal co. Rambaldo di Collalto promette che non formerà strumento alcuno in carta bombycis, vel de qua vetus fuerit abrasa scriptum: e un altro notaio nel 1331 promette pure di non iscrivere in carta bombycina; nè altra carta ivi si nomina. Al contrario in un altro stromento del j 367 si dice: Nec scribet in carta bombycis vel papiri, esprimendosi così l’altro genere di c;irla che nei monumenti più antichi non è espresso. E che l’invenzione di questa nuova foggia di carta si dovesse a’ Trivigiani, si conferma dalla premura che il senato veneto avea perchè solo ivi, e non altrove , essa si fabbricasse 5 perciocché l’anno i366 a’ 19 agosto fu stabilito, quod pro bono et utilitate Artis Cartarum, quae fit in Tarvisio, et max imam conftrt ut ilitate m Communi nostro, ordinetur, quod nullo modo possi? U extralù stratie a cartis de Venetiis pro portandis alio quam Tarvisium T1 1 ’ luglio del 1374. Finalmente ne’ libri antichi de’ conti del capitolo della cattedral di Trevigi, la carta in cui essi sono scritti, chiamasi bambacina. E solo nel 1365 si legge pro isto libro papyri. Da’ quai documenti provasi a mio parer chiaramente che verso la metà del secolo xiv, lasciati i panni di bambagia e di lana, di cui prima si solean formare le carte, si presero ad fu pur confermato per lettera [p. 154 modifica]154 LIBRO usar que’ di lino; e che questo ritrovamento deesi alla città di Trevi gi, e a Pace da Fabiano. pv. V. Ma ciò che torna a maggior gloria di queJcl Pctraira sto secolo stesso, si è lo scoprimento di molti antichi scrittori, le cui opere eran come smar■nUciù idi - ^te per dimenticanza in cui si giaceano, fino a credersi ch’esse più non esistessero in alcun luogo. Il Petrarca, come ho poc’anzi accennato , si può dire a ragione che fosse il primo che gittandosi tra le tenebre, onde ogni cosa era miseramente ingombrata, cercasse di richiamare a nuova vita quegli uomini illustri dell1 antichità, senza la scorta de’ quali appena poteasi sperare di dissiparle. Egli confessa (Famil. l. 3, ep. 18) ch’era questa tra le sue passioni quella che non avea ancor potuto 7 anzi che non avea pur cercato di superare, perciocchè lusingavasi ch’ella non fosse tale di cui vergognarsi; dice che per lo più un autore gli dava notizia di un altro , e che nel cercare di questo, più altri gli si faceano innanzi , e avvivavano vie maggiormente l’insaziabile sua curiosità; prega caldamente che si usino diligenze a trovar nuovi libri, che si cerchino singolarmente in Toscana, che si esaminino gli archivi de’ religiosi; e aggiugne che somiglianti preghiere avea egli fatte ad altri suoi amici nella Brettagna, nelle Gallie e nella Spagna. Ed in altra lettera, non mi maraviglio, dice (Senil. l. 3, ep. 9), che non sieno ivi i libri che noi cerchiamo. Io stesso nel pregarti di tal ricerca non mi lusingava, ma pur voleva tentare , se mai, come tal volta accade, [p. 155 modifica]PRIMO 155 il successo fosse maggiore della speranza. Benchè spesso mi sia riuscito inutile V indagare eia io vo facendo de’ libri, pure non so cessarne; sì dolce è lo sperare ciò che si brama. Noi avremo ciò che potremo, e non lascerem di cercare per vil codardia. Aspetteremo gli altri pazientemente, e frattanto sarem paghi di quelli che la sorte ci offrirà, e raffreneremo C impazienza di leggere, e l’avidità di imparare colla memoria della nostra condizione mortale. VI. La prima ricerca di tal natura, a cui il Petrarca si volse, fu quella della Storia di Livio. Tre sole decadi allor ve ne avea, com’egli stesso afferma (Rer. memor: l. 1 , c. 2) 5 la prima, la terza e la quarta 5 ed egli, ad istanza singolarmente del re Roberto, non perdonò a diligenza per rinvenirne almen la seconda. Ma ogni sforzo fu inutile, come egli si duole; anzi, innasprito forse dal suo stesso dolore, per poco non proruppe in un vaticinio funesto, che per buona sorte non veggiam avverato, dicendo ch’ei temeva assai che fra poco e le Storie di Livio e le Poesie di Virgilio per negligenza degli uomini si perdessero interamente. Poco felici furono parimente le diligenze da lui usate per ritrovar le opere di Varrone. L’entusiasmo onde il Petrarca era compreso per gli antichi Romani, e singolarmente per gli uomini dotti, movealo talvolta a scrivere loro sue lettere, come se in tal modo più famigliarmente godesse della loro conversazione. Or fra esse una ne abbiamo a Varrone (Ad Viros ill. ep. 5), in cui si lamenta che tanti e sì dotti libri’ da lui composti per colpa degli uomini sieno periti, vi. Diversi successi «Ielle dili|-rnti’ Ja lui peteio usale* [p. 156 modifica]156 LIBRO sicché o nulla, o sol ne rimanga qualche lacero e guasto frammento. Io ben mi ricordo, egli dice, che essendo fanciullo vidi i tuoi libri delle Cose divine ed umane, pei quali principalmente sei celebre; e mi affligge il pensare al piacere da me appena assaggiato. Sospetto c/i essi sieno ancora in un cotal luogo nascosti; e già son più anni che questo pensier mi travaglia, poichè non vi ha cosa che più affligga di una sollecita e prolungata speranza. E ben abbiamo a dolerci noi pure che una sì dotta opera di Varrone, qual era la mentovata, dopo aver superate felicemente le vicende di tredici secoli, perisse in un tempo in cui pareva che dovesse essere omai sicura. Ma essa non fu la sola a cui ciò avvenisse; perciocchè oltre i libri di Cicerone de Gloria, de’ quali altrove abbiam detto, egli attesta ancora di avere in età giovanile veduto un libro di Epigrammi e di Lettere di Augusto (Rer. memor. l 1, c. 2), cui avea poscia inutilmente cercato. Più lieto successo ebbero le sue fatiche nel ricercare le Istituzioni di Quintiliano. Egli trovolle finalmente l’an 1350, e sfogò il suo giubilo per sì bella scoperta con una lettera inedita scritta in quel giorno medesimo allo stesso Quintiliano. L’ab. de Sade afferma (Mém. de Petr. t. 3, p. 93) che il Petrarca trovò questo codice in Arezzo nel tornar ch’ei fece da Roma l’anno 1350. Ma è certo in primo luogo che egli il trovò non nel tornar da Roma, ma nell’andarvi; poichè nel codice delle Lettere del Petrarca postillato per mano di Lapo da Castiglionchio, che si conserva in Firenze, questi alla lettera accennata [p. 157 modifica]PRIMO 15*7 aggiugne in margine queste parole riferite dall’ab Mehus (Vita di Lapo, p. 37): Verum dicis, quia ego illum tibi donavi, dum Romam peteres, quem ante, ut tunc dixisti, numquam vide ras. Dalle quali parole ancor raccogliamo che a Lapo dovette Petrarca il piacere che allor provò. In secondo luogo non in Arezzo ma in Firenze ebbe il Petrarca quel codice. L’abate de Sade avea creduto che il Petrarca indichi Arezzo nella data della stessa lettera con queste parole: A pud Superos inter dextrum Apennini latus et dextram Arni, ripam intra ipsos patriae meae muros, ubi primum mihi cœptus es nosci. Ma egli stesso ha poi conosciuto il suo errore, e lo ha emendato al fine dello stesso tomo, avvertendo che in Firenze trovò il Petrarca tal libro, e non in Arezzo. Ma insieme ha ripetuto che ciò fu al tornar eli’ ei fece da Roma, mentre le parole stesse di Lapo ci mostrano che ciò avvenne mentre ei vi andava (a). Or tornando al codice stesso di Quintiliano, questo, come il Petrarca stesso confessa, era mancante e guasto; e la sorte di trovarne un intero esemplare era riserbata al Poggio, come a suo luogo vedremo. VII. Il principale oggetto però delle solleci- S(jaVI*j ludi ni del Petrarca eran le opere di Cicerone. tudinc*»ng.>. Questi era, per così dire, il suo idolo, e nonX ne parla giammai che con un dolce trasporto j!£ e co1 sentimenti più vivi di ammirazione e di cerone, gioia. Meriterebbe di esser qui riferita una sua (a) L: obate de Sade nella sua Apologia rns. confessa di essersi a questo lungo ingannato. [p. 158 modifica]158 LIBRO lettera su questo argomento (Senil. l. 15, ep. 1). Ma poichè la soverchia lunghezza non mel permette , basti il recarne un breve epilogo e qualche picciol frammento. Luca da Penna aveagli •.scritto, chiedendo quali opere egli avesse di Cicerone. Ei gli risponde che non ha se non quelle che hannosi comunemente da tutti, e quindi prende occasione di esporre quanto egli fin da’ più teneri anni ne fosse stato rapito. Al qual proposito narra che avendo dovuto in sua gioventù per comando del padre applicarsi agli studi legali, egli, che troppo se ne annoiava, trattenevasi segretamente a leggere quelle opere che aver poteva, di Virgilio e di Cicerone. Quando un giorno suo padre entratogli d’improvviso in camera, e coltolo con quei libri alla mano, sdegnosamente glieli tolse in atto di gittarli sul fuoco; ma inteneritosi poi alla tristezza e al pianti del figlio, glieli rendette, e gli permise di continuarne la lettura. Quindi a mostrare quanto ei fosse avido di ritrovare quante più potesse opere di Cicerone, avendo io, dice , per qualche fama d ingegno e di sapere. ottenuta contratte molte amicizie, e trovandomi in luogo ove da ogni parte concorreva gran gente (in Avignone), agli amici che nel congedarsi chiedevanmi, secondo il costume., se nulla io bramassi nella lor patria, Nidi’ altro, io rispondeva, fuorchè i libri di Cicerone, e per questi soli io facea loro istanza e in parole e in iscritto. Quante volte rinnovai le preghiere, quante volte mandai denaro non solo in Italia , ov io era più conosciuto, ma in Francia, in Alemagna e fino in Ispagna, e nella Gran [p. 159 modifica]PRIMO l5() Brettagna, dirò di più ancora fino in GreeiaCosì con molta fatica e con molta sollecitudine ho raccolti molti piccioli libri; ma talvolta raddoppiati; e assai di raro quel che sopra tutti bramava — Quando era in viaggio, se avvenivami di veder da lungi qualche maestro antico, io colà divertiva, e chi sa, dicea tra me stesso , che non siavi per avventura ciò che desidero? Siegue poscia a narrare ciò che gli avvenne in Liegi, ove, avendo trovate due orazioni di Cicerone, a grande stento potè in quella città trovare alquanto d’inchiostro, ed esso ancora assai giallo, per trarne copia; parla delle inutili diligenze da se usate per rinvenire i libri della Repubblica, della Consolazione, delle Lodi della Filosofia; e dell’errore in cui visse per qualche tempo, credendo di aver quest’ultima opera in due libri, che scoperse poscia non esser altro che parte delle Quistioni Accademiche; e finalmente racconta ciò che nel primo tomo di questa Storia abbiam già riferito de’ libri de Gloria, ch’egli avea già avuti dai Raimondo Soranzo, e che prestati poscia a un suo antico maestro, non gli era mai stato possibile il riaverli. Di questo a lui sì soave argomento parla egli stesso nelle sue Lettere (Famil. l 7, ep. 4; Ad Viros ill. ep. 1, 2, ec.); e quando entra a parlarne, sembra che non sappia uscirne giammai. Avea egli avuto in prestito da Lapo da Castiglionchio un rarissimo codice delle Orazioni di Cicerone; e il tenne seco oltre a quattro anni, finchè non l’ebbe interamente copiato di sua propria mano, poichè non troppo fidavasi degli ordinarj scrittori, come [p. 160 modifica]l6o LIBRO egli stesso racconta in una lettera a Lapo pubblicata con alcune opere di questo celebre Fiorentino (ep. di M.LapOjp. 176) dall’ab. Mehus, il (quale osserva ancora (Vita di Lapo, p. 36) che dal medesimo Lapo ebbe il Petrarca l’orazione in favor di Milone e le Filippiche. Ma sopra ogni cosa il Petrarca fu lieto della scoperta che fece delle Lettere famigliari del suo Cicerone. Trovolle egli a caso in Verona, come raccogliesi dalla lettera che egli, secondo il suo costume, su ciò scrisse al medesimo Tullio (Ad Vir. ill. ep. 1), e come afferma Coluccio Salutato in una sua lettera (Mehus Vita Ambr. camald. p. 113), più degno di fede che non il Biondo che afferma essersi dal Petrarca fatta cotale scoperta in Vercelli (Ital. illustr. p. 346, ed. Basil 1531). Nella Laurenziana di Firenze conservasi tuttavia il codice stesso antichissimo dal Petrarca trovato insiem con un altro che di sua mano ei ne scrisse (Mehus l. cit. p. 21 \) , e vi si conserva ancora un codice di quelle ad Attico scritto di mano dello stesso Petrarca, benchè sia perito il più antico, ond’egli il trasse (ib. p. 215, 216). Di uno di questi codici parla leggiadramente scherzando il Petrarca in una sua lettera citata dall’ab. de Sade (Mém. t. 3, p. 494), e narra il cadergli che fece due giorni di seguito sopra la stessa gamba, con aprirvi una non leggier piaga; e si duole con Cicerone che abbia sì mal corrisposto alla fatica che nel copiarlo egli avea sostenuta. L’impegno finalmente e l’amore che il Petrarca avea per Tullio, fece sì, che il pontefice Clemente VI gli comandasse di ordinarne, come meglio poteva, [p. 161 modifica]PRIMO l(3l e (l’illustrarne le opere (Famil. i 7, cp. 4)- Nel che però non sappiamo s’egli veramente si ailodità con cui egli andava in cerca degli antichi scrittori, mosse Niccolò Sigeros, uom ragguardevole alla corte di Costantinopoli, a inviargli in dono una copia de’ poemi d’Omero in greco , di che il Petrarca gli scrisse in ringraziamento una lettera, dalla quale ben si raccoglie quanto un tal presente gli fosse caro (Variar, ep. 21). A lui però non bastava l’averlo in greco, ma il voleva ancora in latino, e tanto si adoperò presso il suo amico Boccaccio, che finalmente con suo gran piacere l’ottenne (Senil. l. 3, ep. 6; l. 5, ep. 1; l. 6, ep. 2). Non è qui luogo di ricercare a chi si debba la traduzion suddetta di Omero, di che parleremo altrove; e solo ho voluto qui accennarla, perchè si vegga quanto a questo grand’uomo sia debitrice non Sol l’Italia, ma ancora tutta l’Europa per l’infaticabile diligenza con cui si adoperò in ricercare, in emendare, in copiare quanti potè aver tra le mani antichi scrittori, di molti de’ quali forse saremmo or privi, s’egli non ne avesse o tratte in luce prima d’ogni altro, o accresciute e migliorate le copie (a). (a) Anche un gramatico bergamasco di nome Crotto adoperossi di questo tempo in raccoglier codici singo> l.irniente delle opere di Cicerone, il Petrarca if el-Lie notizia , e seco lui rallegrossi che fra tutti gl’ luUiaui j, ciasse. Vili. Nè solo si occupò il Petrarca nella ri- v ’1,1 • |. • 1. •. Va In trarr cerca degli autori latini, ma si volse ancora ««j

i. La fama sparsa della insaziabile avi- 8ren

Tirabosciii , Voi. V. 11 [p. 162 modifica]163 LIBRO IX. L’esempio d<*l Petrarca accese un somigliante fervore in più altri , e singolarmente nel Boccaccio che gli era si strettamente congiunto! ri- in amicizia. Questi si dà il vanto di essere stato il primo che facesse venir da Grecia a sue spese \ Omero e alcuni altri scrittori greci: Fui equidem ipse insuper qui primus meis sumptibus Homeri libros, et alios quosdam Graecos in Etruriam revocavi, ex qua multis antea seculis abierant non redi turi (Gene al. Deor. l. 15, c. 7). Nè solo in raccogliere, ma nel copiare ancora gli antichi codici egli esercitossi a imitazion del Petrarca, perciocchè, come narra Giannozzo Manetti nella Vita del Boccaccio pubblicata dall’ab. Mehus (p. non avendo egli libri, nè potendo per la sua povertà farne compera, quanti libri potè trovare di poeti, di oratori, di storici antichi, copiò di sua mano, talchè chiunque rimira i tanti esemplari ch’egli ne fece, non può non istupire che uomo qual egli era pingue e corpulento, e occupato in tanti e sì diversi studj, pur lavorasse tanto di sua propria mano, che appena potrebbe altrettanto un copiator giornaliero. Conservasi tuttavia nella Laurenziana ei si distinguesse nell’amar gli scritti di quel grand’uomo, cui voleva in certo modo avere a suo ospite e famigliare , e che presso lui si trovassero molte delle più rare opere di Cicerone, e pregollo a volerne a lui pure far parte (Petr. Epìst. ed. Genev. 1601 , /• 9, rp. i3). E avendogli di latto il Crotto inviato un bel codice egregiamente corretto delle Quislioni Tusculane con altri libri del medesimo autore, il Petrarca con nuova lettera ’gliene dichiarò la viva sua riconoscenza, lodando ancor 1’eleganza di quella che il Crotto aveagli scritta (ib. ep. 14). [p. 163 modifica]PRIMO iGJ un codice delle Commedie di Terenzio , che l’abate Mehus crede scritto di propria mano dal Boccaccio (Vita Ambr. camald, p. 275). Al tempo medesimo Roberto de’ Bardi illustre teologo, di cui ragioneremo più a lungo nel libro seguente, raccolse e ordinò i Sermoni di S. Agostino, come da due codici mss. pruova il conte Mazzucchelli (Note alle Vite degl’ill. fiorent, di F. Villani, p. 30, nota 3). Nella libreria del convento di Santa Croce in Firenze moltissimi sono i codici mss. che ancora vi si conservano, scritti da quei religiosi in questo secol medesimo, fra’ quali frequentemente s’incontrano i nomi di F. Tedaldo dalla Casa e di F. Matteo di Guidone, dei quali codici assai lungamente ragiona P ab. Mehus (l. cit. p. 335, ec.) (a). X. Ma niuno forse vi ebbe dopo il Petrarca, , che tanto sollecitamente in ciò si adoperasse,V.T.V!. quanto Coluccio Salutato, di cui dovremo in 6iia’ 4 questo tomo medesimo parlare altrove piti a lungo. Egli non contento di piangere f infelice stato in cui erano comunemente i libri a que’ tempi, si fece ancora a ricercare l’origine di tal disastro, e ampiamente ne trattò in una sua opera inedita, di cui un lungo squarcio ha dato alla luce il suddetto ab. Mehus (l. cit p. 290), (il) Copiose notizie intorno alla biblioteca del convento di Santa Croce, ove fin dal secolo precedente si era cominciato a raccoglier codici, si posson vedere nella prefazione dal ch. canonico Bandini premessa al tomo quarto del suo Catalogo de’ Codici latini dell » Lamenziana, a cui l’anno 1766 furono uniti i codici della suddetta biblioteca, de’ quali però alcuni furon poscia l’an 1772 rimandali all’antica lor sede. [p. 164 modifica]164 LIBRO nel quale egli mostra a qual segno fossero allora guasti e scorretti i codici per P ignoranza e la negligenza de’ copiatori, per la presunzione di coloro che ardivano di emendare ciò che non intendevano, per la malizia di altri che a bella posta alteravano i libri per introdurvi le loro opinioni, e finalmente per la leggerezza di alcuni maestri i quali volevano che gli autori parlassero come più loro piaceva. Trattando poscia del modo con cui porre argine e riparo a sì grave danno, ei saggiamente propone che si formino pubbliche biblioteche, nelle quali raccolgansi quanti più libri è possibile; che esse diansi in cura a dottissimi uomini, e che questi paragonando tra loro i diversi codici dell1 opera stessa, ne scelgano quella lezione che a lor giudizio sembri migliore. Ottimo consiglio, per vero dire, ma che allora non era ancora bastevole a ciò che brama vasi; perciocché quando un libro era stato con un diligente confronto de’ codici emendato e ridotto all’antico suo stato, se esso cadeva in mano, come era troppo facile ad avvenire, di copiatori ignoranti ed inesperti, il frutto di tante fatiche in assai poco tempo periva interamente. Giovò assai nondimeno il fervore de’ dotti di questo secolo nel ripurgare le opere degli antichi scrittori; perciocchè, quando si cominciò a usare le stampa nel susseguente, si poterono ritrovar facilmente alcuni codici ben emendati, di cui valersi a pubblicarle. Nè solo adoperavasi il Salutato a rinvenire e a correggere li antichi codici, ma ancora a discernere quali fosser le vere, quali le supposte opere che aveansi sotto nome di [p. 165 modifica]PRIMO l65 antichi autori; e nc abbiamo in pruova fra le altre una sua lettera (epist t. 1, ep. 41) in cui> con minor critica che a que’ tempi non si potesse aspettare, si fa a provar chiaramente che non si posson creder di Seneca quelle tragedie le quali allor gli venivano attribuite. Così la letteratura si andava apparecchiando in Italia a quell’intiero felicissimo risorgimento che dopo tante fatiche finalmente ottenne. XI. Il consiglio, che poc’anzi abbiamo udito *7* l 1 C I J’ • 1 i 1* 1 1 • ijiM mirra proporsi dal Salutato, di aprir pubbliche bi- <i<).<• n..i»r blioteche , non fu in questo secolo posto ad lo ’* effetto, quando s’intenda di ragionare di tali biblioteche, nelle quali libero sia a chiunque piace l’accesso e l’uso de’ libri. Molti però vi furono che vollero averla nelle lor case ad uso loro privato, e a vantaggio ancora de’ loro amici. E il primo, di cui a questi tempi troviam memoria, fu il re Roberto, a cui niuno mancò di que’ pregi che in uno splendido protettor delle lettere sono richiesti. L’unica memoria che della biblioteca da lui raccolta, e dell’uom dotto a cui affidonne la cura, ci sia rimasta, è un passo di Giovanni Boccaccio, in cui così ne ragiona (Geneal. Deor. l. 15, c. 6): A questo io aggiungo ancora Paolo da Perugia uomo gravissimo , il quale e già avanzato in età e di rara erudizione fornito fu maestro e custode della biblioteca di Roberto re di Gerusalemme e di Sicilia. Egli fu , se mai altri ve ti ebbe, uomo eruditissimo nel ricercare e raccogliere di ogni parte, per comando ancora del suo sovrano, libri pregevoli ed opere di poesia e di storia. Perciò stretto in singolare amicizia con Barlaamo [p. 166 modifica]I l66 LIBRO (dolio Calabrese di cui diremo altrove) que’ che non potea trovar tra’ Latini, ebbegli in grandissimo numero per tal mezzo da’ Greci. Scrisse un opera voluminosa , a cui diè il titolo di Collezioni, nella quale, fra le altre molte e diverse quistioni, raccolse quanto intorno agl Jddii dé Gentili potè rinvenire non solo presso i Latini , ma coll’aiuto , coni io penso, di Ba ria amo, ancor da’ Greci. E io confesso sinceramente che essendo ancor giovane, e molto prima eh’io m accingessi a quest1 opera, ne raccolsi con più avidità che senno non poche cose, e quelle singolarmente che son sotto il nome di Teodon zio. Il qual libro ho udito che a gran danno di questa mia opera sia perito insiem con più altri per colpa della disonesta Biella moglie di Paolo. L’ab. Mehus pretende di provare (Vita Ambr. camald.p. 293, ec.) con questo passo, che Teodonzio sia un autore nulla diverso da Paolo perugino; ma a me sembra evidente che il Boccaccio nomini qui Teodonzio come autor greco, e un de’ migliori tra quelli che da Paolo nella sua opera venian citati. Il Fabricio (Bibl. med. et inf. Latin. t. 5, p. 218), citando il Tritemio e l’Oldoino, dà a Paolo il cognome di Saluzzo, e gli attribuisce alcune altre opere, di che io non so qual fondamento ci arrechi. Checchè sia di ciò, il passo del Boccaccio da me allegato ci pruova abbastanza che una copiosa biblioteca aveva con grande spesa raccolta il re Roberto, e che seguendo l’esempio di Augusto, aveane dato il governo ad uno de’ più dotti uomini che allor vivessero. V [p. 167 modifica]PRIMO 167 XII. La biblioteca Estense ci darà luminoso argomento di storia ne’ tempi da noi non lontani , e molto migliore ancora, se ci avverrà di condurla sino a’ dì nostri. Ma non si è forse ancora avvertito quanto ne sia antica l’origine. I marchesi d’Este fin dal secolo precedente avean cominciato, come nel quarto tomo si è dimostrato, a usare della splendida loro munificenza a pro delle lettere: e io credo probabile che fin d’allora essi cominciassero parimente a raccoglier libri. L’antico codice delle Poesie provenzali scritto, come altrove si è osservato, circa la metà del secolo xiii, sembra che fosse scritto per offrirlo al marchese Azzo VII che a quel tempo vivea, di cui perciò si forma ivi l’elogio da noi allor riferito. Ma un monumento più certo della biblioteca di questi principi abbiamo ne’ loro Annali scritti da Jacopo di Delaito, e pubblicati dal Muratori (Script. Rer. ital. vol, 18, p. 905). Egli cominciò a scriverli l’anno i3c)3; e nella prefazione, dopo aver parlato del gran vantaggio che seco reca la storia, così prosiegue: Idcirco ut etapud Jlìus/rem Illustrem Magnifici Magnificum Dominum Nicolaum Marchionem Estensem etc. natum recolendae et Celebris memoriae quondam Illustris et Magnifici Principis Domini Alberti olim Marchionis Estensis, post Chronica hactenus in Bibliotheca inclytae Domus suae ex more illustrium Progenitorum suorum ejusmodi descriptio habeatur, ec. Dal qual passo chiaramente raccogliesi che non solo al tempo del padre, ma de’ progenitori ancora del marchese Niccolò III, questi avean già la loro biblioteca, e che in essa si XII. Tìihlinlcra «li-’ marrlii* m il* E*li* in Ferrara. [p. 168 modifica]I 1 ()8 LIBRO solcano riporre le cronache, che si andavano successivamente scrivendo, delle cose più memorabili che a’ loro tempi avvenivano. Nè io crederei di andar lungi dal vero, affermando che a questa lor cura, degna veramente di grandi e magnanimi principi, si debbano in gran parte le tante cronache antiche che in essa ancor si conservano, e che in gran parte sono state date alla luce dall’immortal Muratori. Sòie- XLU. L’ab. de Sade, parlando dell’università ra «i«*l «lu- di Pavia eretta da Galeazzo Visconti, rapporta !,i (Vj’i’ ./ro (Meni, de Pc.tr. t. 3, p. 330) il detto di F. Paolo Mori già che afferma avervi ancora quel principe aggiunta una copiosa biblioteca, e averne data la soprantendenza al Petrarca; il che, dice ottimamente il suddetto scrittor francese, benchè non sia improbabile, non trovasene però alcun cenno presso il Petrarca medesimo. E veramente a me non è avvenuto di ritrovare alcun monumento di biblioteca aperta da Galeazzo. Ma ben si dee una tal lode a Gian Galeazzo Visconti, di cui già abbiamo veduto quanto nel fomentare le scienze, e nel chiamare alla sua corte gli uomini dotti, fosse magnifico e liberale. Della biblioteca di questo principe troviam menzione in quella lettera stessa di Giovanni Manzini che nel capo secondo di questo libro medesimo abbiam riferita*, in conspicua nostri Principis Bibliotheca (Miscell. Coll. Rom. t. 1, p. 209). Ma assai più onorevole testimonianza ne abbiamo nel prologo alla traduzione de’ libri della Politica di Platone fatta da Manuello Crisolora, e migliorata poscia e corretta da Uberto Decembrio che vivea a’ tempi medesimi [p. 169 modifica]PRIMO lGj) di Gian Galeazzo (V. Argelati Bibl. Script, mediol. t. 2, p. 2106), nel qual prologo, pubblicato in parte dall’ab. Mehus (Vita Ambros. camald. p. 361), Uberto così ragiona: A’ nostri tempi uscirà finalmente alla luce la Politica di Platone? perciocchè se n’è fatta la traduzione di greco in latino da Manuello Crisolora costantinopolitano, uomo celebre e di singolare ingegno, e mio maestro nel greco, e ciò per opera del primo duca di Milano e della Liguria Gian Galeazzo.... il quale, fra le altre grandi e magnanime sue imprese, non solo presso di sè ha chiamati i più dotti uomini che in qualunque parte del mondo si ritrovassero, ma con ogni industria si è adoperato a raccogliere tutti que’ libri in cui così i greci come i latini antichi scrittori ci hanno lasciati i monumenti del lor sapere; e molti di essi che giacean quasi sommersi e naufraghi, ha felicemente ricoverati in sicuro porto e disposti nella sua biblioteca, ove mercè la premura di questo immortal principe possiamo ora leggere ad ammirare opere sì illustri. Nè questo passo , nè le parole dal Manzini da noi poc’anzi citate? non bastano ad accertarci se questa insigne biblioteca di Gian Galeazzo fosse da lui stata raccolta in Milano, o in Pavia. Il Giovio afferma ch’ella era in questa seconda città (in VitaJo. Galeat.), e ciò si rende più certo dalla testimonianza di Pier Candido Decembrio (figliuol di Uberto, il quale in una sua lettera, rammentata dall’eruditissimo Sassi (Hist Typogr. mediol. p. 294)? ne parla come di cosa che a suo tempo ancora esisteva, e rammenta il famoso codice di [p. 170 modifica]XIV. Altro I Mintivhe |irini i|>i s privali. 1 70 LIBRO Virgilio scritto per man del Petrarca, che ivi allora vedevasi, e che or conservasi nell1 Ambrosiana in Milano. Ed ella dovette ivi durare tutto il secolo xv, finchè nel seguente, nel tempo che i Francesi ebbero la signoria dello Stato di Milano, la biblioteca ancora fu dissipata, ed è probabile che molti libri ne fosser portati in Francia, come vedremo altrove esser avvenuto di altre biblioteche. XIV. L’esempio di questi sì potenti sovrani <iì fu imitato ancor da altri principi italiani, come suole avvenire che ognuno si sforza di non sembrare da meno di quelli a cui gli sembra di esser uguale. Abbiamo una lettera di Coluccio Salutato al signor di Mantova (t 2, ep. 16), che dovea essere Luigi Gonzaga, o Guido di lui primogenito, in cui gli scrive di avere udito che egli abbia raccolta grandissima copia di libri , e che molti di essi invano cercherebbonsi altrove; e il prega perciò, che, se ha alcuni o storici, o poeti, o filosofi morali che non sieno comunemente noti, gli permetta di trarne copia: il che desidera singolarmente riguardo alle poesie di Ennio, cui bramava assai di vedere. Così il Petrarca rammenta quella di Pandolfo Malatesta (Senil. l. 13, ep. 10), in un angolo della quale dice egli di sperare eli’ ei sia per riporre le sue rime volgari che gli trasmette. Così egli pur fa menzione di quella di Raimondo Soranzo (ib. l. 15, ep. 1), di cui dice che fornitissimo era di libri, benchè essendo giureconsulto, trattine i suoi libri legali, non si curasse molto degli altri fuorchè di Livio; ma ne loda insieme la facile cortesia con cui eg’i [p. 171 modifica]PRIMO - 171 preslavagli, e donavagli ancora i libri medesimi, fra’ quali avea da lui ricevuti i due libri de Gloria, del cui smarrimento egli poi tanto si dolse, come altrove si è detto. Le gei am parimente nella Vita del gran siniscalco Niccolò Acciaioli scritta da Matteo Palmieri (Script. rer. ital. vol. 13, p. 1228), che avendo ei fabbricata con regia magnificenza la Certosa presso Firenze, vi aggiunse una casa in cui da tre maestri si tenessero le scuole, assegnando fondi, a’ quali mantenere essi non meno che cinquanta studenti; e che a loro vantaggio comperò molti libri, e nel monastero stesso li pose, quasi principio di una splendida biblioteca che avea risoluto di aprirvi. Il Cardinal Luca de’ Fieschi, morto nel 1336, avea egli pure un’assai ragguardevol raccolta di libri, come ci assicura l’ab. de Sade (Mém. de Petr. t. 1, p. 65) che dice di averne veduto l’inventario ne’ Registri di Benedetto XII. Quel Giovanni Manzini, più volte da noi citato, acenna egli ancora la sua propria biblioteca Miscell. Coll. Rom. t. 1, p. 190), e al tempo medesimo descrive leggiadramente la bibliomania da cui era compreso un certo Andreolo de Ochis bresciano vecchio settuagenario, a cui scrive, e di cui dice scherzando che avrebbe venduti i fondi, venduta la casa, venduta la moglie, venduto ancora se stesso per comperar libri, de’ quali pure avea già una grandissima copia. XV. Ciò che abbiam detto della sollecitudine xv. del Petrarca e del Boccaccio, nel ricercar da ogni parte e nel correggere gli esemplari delle de,Po,ri,rca* opere degli antichi scrittori, basta a persuaderci [p. 172 modifica]Ì’JI LIBRO che dovean essi non meno raccogliere avidamente nella lor casa quanto più fosse possibile di libri di ogni maniera. E per ciò che è del Petrarca, egli ne parla spesso con quel trasporto medesimo con cui udimmo già Cicerone parlar della sua. Scrivendo al suo Simonide, cioè a Francesco Nelli, lo esorta a mandare alcuni libri, che gli avea promessi, alla sua biblioteca, ch’ei chiama unico sollievo al suo animo e unico sostegno della sua vita; gli dice che si fidi pure del suo scrigno, che non verrà meno alla spesa; che se otterrà ciò che brama, appena gli rimarrà più che bramare; e che, ove ancor non l’ottenga, quei soli libri che già possiede, i quali non son nè pochi ne spregevoli, fanno ch’ei si creda più ricco de’ più ricchi uomini che mai furono al mondo (Senil. l. 1, ep. 2). Somiglianti espressioni troviam più volte nelle sue opere (De Vita solit l. 2, sect 10, c. 1; Senil. l. 14, ep. 1; De Ignor. sui ipsiusy ec. p. 1162, ec.), e nelle sue lettere singolarmente ne ragiona assai spesso, sì che ben si raccoglie che la sua biblioteca era il più caro oggetto delle sue sollecitudini, e che nulla stavagli più a cuore quanto l’andarla ogni di più accrescendo e arricchendo di nuovi libri. E nondimeno il Petrarca dodici anni innanzi alla sua morte, cioè l’anno 1362, pensò a disfarsene, forse perchè ne’ frequentissimi viaggi ch’egli facea, recavali non poco imbarazzo il recarla seco, come raccogliamo da una sua lettera scritta l’anno precedente (De Sade Mém, de Petr. t. 3, p. 561). Egli adunque, trovandosi l’anno i362 in Venezia, e non essendo [p. 173 modifica]PRIMO 173 alieno dal fissare ivi stabil soggiorno, fece a quella repubblica la generosa offerta di tutti i suoi libri, chiedendo per se e per essi una casa in cui poterli disporre, e dare in tal modo cominciamento a una pubblica biblioteca che poi avrebbe col tempo e colle altrui liberalità acquistata gran fama (*). Gradì il senato il cortese animo del Petrarca, e con suo decreto, dei 4 settembre del detto anno 1362, ordinò che col denaro pubblico si prendesse una casa a tal fine opportuna, e si facesser le spese tutte per ciò necessarie, e diede insieme a vedere in (quale stima avesse il Petrarca, chiamandolo uomo, cujus fama hodie tanta est in toto Orbe, quod in memoria hominum non est, jamdiu inter Christianos fuisse vel esse pìiilosopliuni moralem et poetam, qui possit eidem comparari. Così la richiesta del Petrarca, come il decreto del senato, si posson vedere nella edizion Cominiana delle Rime dello stesso poeta (an. 1722, p. 56) e presso il P. degli Agostini (ScritLvenez. t. 1 , pref p. 28). Il Petrarca ebbe certamente stanza in Venezia assegnatagli dal senato, e fu il palazzo delle due torri nel sestiere di Castello, che da lui stesso ci vien descritto (Senil. l. 2, ep. 2); e l’abate de Sade pensa (Mém, de Petr. t. 3, p. 616) che ivi pure ei (*) Tra le lettere inedite del Petrarca nel codice Morelliano la xxix è diretta al gran cancelliere fleninlendi de’ Ravegnani, dalla quale si scorge che di lui si valse singolarmente il Petrarca nell’ideare e nell’eseguire il disegno di aprire una pubblica biblioteca in Venezia , c ne parla in modo, come se la gloria di ciò tutta dovesse essere di Beniutcudi. [p. 174 modifica]iy4 LIBRO collocasse i suoi libri. Al contrario alcuni scrittori veneziani, citati dal P. degli Agostini (l. cit p. 30), credono che essi fosser riposti in una picciola stanza sopra la chiesa di S. Marco, e se ne reca in prova il trovarsi che ivi si è fatto l’an 1635 alcuni codici antichi, ma assai malconci, che poi l’an 1739 furono uniti alla pubblica biblioteca. Intorno a che veggasi T erudita dissertazione pubblicata di fresco intorno alla libreria di S. Marco dal sig. D. Jacopo Morelli. Se ne posson vedere i titoli nel Catalogo della medesima libreria (t 2? p. 207). Il vedere però quanto scarso è il lor numero, ci fa credere che il Petrarca non tutti ivi lasciasse i suoi libri. Un passo del libro de Ignorantia sui ipsius et multorum, ch’egli scrisse nell’anno 1367, in cui Urbano V venne a Roma (Petr. Op. t. 2, p. 1148), mi sembra che indichi chiaramente ch’egli partendo da Venezia lasciò i suoi libri a Donato da Casentino soprannomato T Apenninigena, a cui è indirizzato quel libro, e di cui altrove diremo: perciocchè egli gli dice: Bibliotheca nostra tuis in manibus relicta ib. p. 1162). Io credo perciò, che in man di Donato lasciasse il Petrarca gran parte de’ suoi libri, finchè il Pubblico assegnasse loro stanza più opportuna; e che l’essersi indugiato più eh ei non avrebbe voluto ad assegnarla, fosse cagione ch’ei più non pensasse a compiere interamente il suo disegno. Perciocchè egli è certo che in una lettera, scritta T anno 1371 (Variar, ep. 42), ei fa menzione de’ suoi libri, cui dice di esser pronto a vendere, o ad impegnare, quando così faccia d’uopo, per [p. 175 modifica]PRIMO 175 fabbricare 1111 oratorio in onor della Madre di Dio. In fatti nella lettera che il Boccaccio scrisse a Francesco da Bros sano, quando udì la morte del Petrarca, che è stata data alla luce dalF ab. Mehus (Vita Ambr. camald, p. 2o5)7 istantemente gli chiede come abbia egli disposto della sua preziosissima biblioteca. Di essa nel testamento del Petrarca non si fa motto, onde ella dovette passare alle mani del suddetto Francesco che n’era l’universale erede. Ma F autor dell’Elogio di Niccolò Niccoli, citato dal P. degli Agostini (l. cit p. ò 1), afferma che i libri del Petrarca, poichè ei fu morto, andaron dispersi; il che forse avvenne ancora di quelli ch’egli avea lasciati presso Donato. In fatti fino a’ tempi del cardinale Bessarione non troviam vestigio in Venezia di alcuna pubblica biblioteca, e al Petrarca si dee solo la lode di averne conceputo il pensiero, e fatto ciò che in lui era, per eseguirlo. XVI. Sorte migliore e più durevole sussistenza xvl ^ ebbe quella dello stesso Boccaccio, eh’essendo mìi.i.*.i..-.i.’i al par del Petrarca avido e premuroso nell’andar ^7.mio «Jrintracciando gli antichi scrittori, dovea averne 1"’ii-,l’jlr". *u raccolta una non ispregevole copia. Quando egli1 l’anno i3(Ì2 determinossi a cambiar vita e costumi, come vedremo a suo luogo, avea conceputo il disegno di spogliarsi ancor de’ suoi libri, e di vendergli al Petrarca; e abbiamo ancora la lunga lettera che il Petrarca gli scrisse (Senil. l. 1, ep. 4) in risposta a quella con cui il Boccaccio gli avea dato ragguaglio della sua risoluzione, e dei motivi che ad essa l’avean condotto. E benchè il Petrarca assai volentieri fosse [p. 176 modifica]1*6 LIBRO per accrescere sì bel tesoro alla sua biblioteca, avendol nondimeno esortato a non abbandonare in tutto gli studj, il Boccaccio ritenne ancora i suoi libri. Quindi nel suo testamento, da lui scritto l’anno 13*y4 ^ c pubblicato dal sig. Domenico Maria Manni (Stor. del Decam. par. 1, c. 31), ei lasciò erede di essi F. Martino da Segni de’ Romitani di S. Agostino del convento di S. Spirito in Firenze, acciocchè dopo averne usato vivendo, li lasciasse in morte al convento medesimo. Così avvenne, e a render più durevole la volontà del Boccaccio, si aggiunse poscia la liberalità di Niccolò Niccoli che a sue spese fabbricò ed ornò nel detto convento la stanza in cui doveansi conservare, come colla testimonianza di parecchi scrittori contemporanei dimostra l’ab. Mehus (pref. ad Epist. Ambr. camald. p. 31). Gran copia di libri avea parimente raccolta Coluccio Salutato, come afferma Giannozzo Manetti (Mehus, Vit ejusd p. 288); anzi ci assicura ch’essi giunsero al numero di 600, somma per que’ tempi non poco pregevole; ma poichè egli fu morto, i figliuoli che più che i libri avean in pregio il denaro, li venderono tutti (Pigg in Elog. Nic. Nicoloi). E veramente quanto fosse Coluccio desideroso di raccogliere libri, cel mostrano le sue lettere, nelle quali frequentemente or l’uno, or l’altro ne chiede a’ suoi amici. Io ne recherò qui solo tradotto in lingua italiana un frammento pubblicato dall’ab. Mehus (l. cit p. 386), in cui egli scrivendo a Giovanni di Montreuil, di cui parleremo tra poco, Consegna, gli dice, a /inoli accorso le lettere di Abailardo tanto da me [p. 177 modifica]PRIMO fjn bramate; e io mi compiaccio di averti additato il nome di un uomo che non era conosciuto in Francia, e cK io farò noto anche in Italia. Or ecco ciò di io desidero. S. Agostino ha fatti, se non erro, sette libri della Musica, che in Italia non irò vansi. Spero che costì possan essere in qualche libreria; di grazia fa che se ne cerchi con diligenza; e il mio Buonac corso li farà copiare. Odo, ma non so se sia vero (e non fu vero di fatti), che Andreolo Arese cancelliere del duca di Milano, che sempre dimora in Francia, ha trovate intere le Istituzioni di Quintiliano, che noi abbiamo assai imperfette. Ti prego pertanto, se così è, di fare in modo che Buonaccorso possa diligentemente copiarle: desidero di avere amendue questi libri, benchè del primo ho speranza maggiore, in ottimo carattere, e somigliante, quanto più è possibile, alC italiano. L’ab. Mehus ragiona ancora diffusamente (ib. p. 330) de’ molti codici, onde nel decorso di questo secolo furono accresciute le Biblioteche di Santa Croce de’ Minori, e di Santa Maria Novella dei Predicatori nella stessa città di Firenze; e riguardo alla prima principalmente ne reca in pruova più codici che ancor si conservano, in cui si leggono i nomi de’ religiosi che li copiarono, o ne fecer dono alla lor biblioteca. Ancor di Luigi Marsigli celebre teologo agostiniano, di cui parleremo nel libro seguente, leggiamo che raccolti avendo da ogni parte non pochi codici, ne fe’ poi dono alla biblioteca del suo convento in Firenze (V. Mehus Vita Ambr. camald. p. 286). Copiosa ancora per riguardo a quei tempi era la biblioteca del Tuaboschi , Voi. V. 12 [p. 178 modifica]1 <y8 LIBRO monastero di S. Martino delle Scale in Palermo, come raccogliesi dal Catalogo di essa formato Tanno 1384* or pubblicato e con assai erudite annotazioni illustrato dal ch. P. D. Salvadore Maria de’ Blasi monaco benedettino, nel quale si annoverano oltre a 400 codici che ivi allora si conservavano (Relaz. della nuova Libr. del Greg. Monast, ec. Palermo, 1770). E lo stesso potrei mostrare di altre case religiose in cui in questo secolo singolarmente si attese a radunar libri, se non temessi che una più lunga ricerca di tale argomento fosse per recar noia a chi legge. Accennerò solamente il copioso catalogo de’ libri storici citati da Galvano Fiamma domenicano, scrittore di questo secolo, come quelli sui quali egli avea tessuto le sue Storie, e che probabilmente trovavansi nel convento di S. Eustorgio in Milano, ove egli scrivea. Ne parla a lungo il ch. Muratori (praef. ad Script. Rer. ital.), il quale a ragione si duole che tanti tra essi sieno ora o interamente periti, o abbandonati e nascosti per modo,che si posson considerare come perduti. Assai diversamente ci converrebbe pensare dei monaci di Monte Casino, se fosse vero ciò che Benvenuto da Imola (Comment, ad Com. Dant, ap. Murat. t. 1 Antiq. Ital. p. 1296) narra di aver egli stesso udito narrarsi da Giovanni Boccaccio, cioè che essendo questi andato per veder la biblioteca di quel monastero, trovolla aperta e senza difesa alcuna, talchè le tavole non men che i libri eran pieni di polvere; e che essendosi fatto a visitare i libri stessi, altri ne trovò bruttamente macchiati, altri laceri [p. 179 modifica]PRIMO I^t) (. guasti; altri mancanti di più quaderni, e che da un di quei monaci gli fu detto die ne era cagione l’avarizia e l’indolenza de’ suoi confratelli. Ma è probabile che questo racconto sia almeno esagerato di molto. XVII. Niuno aspetterà ch’io parli in questo ^vii^ secolo della biblioteca della chiesa romana. 11 della chie»4 trasporto della sede pontificia in Avignone, ““•"dii!*! come a Roma e a tutta l’Italia, così ad essa ancora recò gravissimo danno. Noi veggiamo, è vero, risorgere a questa età la carica di bibliotecario della Chiesa romana; e se ne può vedere la serie nella prefazione al primo tomo del Catalogo della Biblioteca Vaticana altre volte da noi citato. Ma se se ne tragga Tolommeo da Lucca domenicano, di cui non è ancora ben certo che avesse tal carica (V. Quetifet Echard Script. Ord. Praed. t. 1,p. 541, tutti gli altri furon francesi di nascita, ed ebbero comunemente in Francia la loro stanza. Se le altre chiese particolari serbassero ancora buon numero di codici, non abbiam memorie bastevoli ad affermarlo e a provarlo. Di quella di Milano fa menzione il Petrarca (Senil. l. 7, ep. 4)> dicendo di aver vedute nella biblioteca di quella chiesa alcune opere di S. Agostino e di S. Ambrogio. E i codici che negli archivj e nelle biblioteche di molte chiese ancor si conservano, fanno pruova della continua diligenza da esse usata nel custodirli; la quale se fosse stata più universale, e se i posteri avessero seguito l’esempio de’ lor maggiori, serbando intanto ciò che da essi aveano ricevuto, anzi facendone dono al pubblico coll’edizione di ciò che vi era [p. 180 modifica](80 LIBRO degno di luce, assai maggior frutto ne avrei)bou le lettere ricevuto {a). xvin. XVIII. Così l’Italia andavasi in ogni parte 1 liaiu era • u i più rie- adornando di splendide biblioteche, che ageS. ’!« altriè volaron poscia vie maggiormente la strada a pruvincic. qlie’ |ieti progressi che la letteratura venne facendo nel secolo susseguente. Ad essa in Fatti ricorrevasi anche in questo secolo dagli stranieri per aver copia di que’ libri che tra loro inutilmente cercavansi. Ne abbiamo in pruova, fra le altre, una lettera di Giovanni di Montreuil pubblicata da’ PP. Martene e Durand (Collect ampliss. t. 2, p. 1345), in cui, scrivendo a un suo amico, il ragguaglia di aver dall’Italia ricevuto di fresco certe opere di Catone, di Censorino, di Varrone sopra l’agricoltura, di un certo Vittorino parimente sopra l’agricoltura, e le Commedie di Plauto; i quai libri, egli dice? io non so se in alcun luogo (a) Tra le chiese che per copia eli antichi codici meritan di essere rammentate, è quella di Cividal del Friuli , in cui fin da questo secolo furon trasportati molti di quelli che formavan già l’insigne biblioteca della chiesa d’Aquileia, la qual fu poscia a1 dì nostri divisa , assegnandosene parte a quella di Udine e parte a quella di Gorizia. Altre pregevoli biblioteche e nelle badie e nelle case private del Friuli eran parimente a que’ tempi; e moltissimi preziosi codici tuttora \’i si conservano , frutto della sollecitudine di coloro che in tempi cotanto diffìcili seppero studiosamente raccoglierli e conservarli. Di là certo sono vernili e il celebre Evangeliario pubblicato dal P. Bianchini, e il codice delle Opere di S. Leone, che passalo poi in Francia servi al Quesuel nel pubblicarle, e più altri che han data occasione di doUe ricerche a molti eruditi. [p. 181 modifica]PRIMO 18 I ritrovinsi di qua da’ monti. Il Petrarca ancora in una sua lettera, riferita dall’ab. de Sade (Mém, de la Vie de Petr. t. 3, p. 196), si duole che in tutta la città d’Avignone non v1 era copia alcuna della Storia naturale di Plinio, fuorchè presso il papa. Nè è a stupirne. I libri classici nati, per così dire, in Italia più che altrove, dovean essere stati moltiplicati in queste nostre provincie: e in esse però dovean diseppellirsene gli esemplari, lasciati già da più secoli in abbandono, come erasi cominciato a fare già da molto tempo in addietro, e come sempre più felicemente si veniva facendo. Anzi non sol si pensava a raccoglier quei libri che a’ propri studi potesser riuscire opportuni, ma già tornava a risorgere quell’antico lusso, contro cui udimmo già declamare il filosofo Seneca; perciocchè il Petrarca osserva (De Remed. utr.fortun. l. 1, di al. 43) che alcuni faceano raccolte di libri d’ogni maniera, non per amore di studio, ma per desiderio di gloria, e che ne ornavan le stanze non altrimenti che di statue, di pitture e di bronzi, usando allo stesso modo degli uni e degli altri, cioè a curiosità e a pompa. Il qual abuso però comprova sempre più chiaramente l’universal costume de’ signori e de’ grandi di avere copiose biblioteche;, del che io non credo che sarebbe facile ad additare in questo secolo altro esempio fuor dell’Italia. XIX. Questo fu il secolo finalmente in cui l’Italia cominciò a rivolgersi allo studio delle romane antichità, in cui poscia fece sì lieti progressi, e prima d’ogni altra nazione dissipò le XIX. SI cornitiria indie j r.i n>olirre le unlirliilSi. [p. 182 modifica]! 82 LIBRO tenebre fra cui esse stavano involte. Qui non è luogo a parlare di que’ che in tale studio si esercitaron con lode; ma solo delle raccolte alle quali si diede cominciamento. Il primo esempio di una serie di medaglie imperiali d’oro e d’argento, che a me sia avvenuto di ritrovare, ci si offre nell’opere del Petrarca. Questo grand’uomo, nato all’onor dell’Italia e al ben delle lettere, fra i molteplici studi a cui avidamente si volse, non trascurò quello delle antichità, e fu il primo, ch’io sappia, che pensasse a radunare medaglie. Egli ne parla nella sua lettera da noi altre volte citata, in cui narra il favorevole accoglimento che ebbe in Mantova dal!’imperador Carlo IV l’anno 1354, quale è stata inserita nelle sue Memorie dall’ab. de Sade (t. 3 , p. 381), Io presi questa occasione, dic’egli, per offerire all’imperadore alcune medaglie imperiali d oro e d argento, c/i erano le mie delizie. In questa raccolta ve n avea una di Augusto sì ben conservata, eli ei pareva vivo. Eccovi, gli dissi, i grand uomini de quali ora occupate il luogo, e che vi debbono servir di modello. Queste medaglie mi erano care; non le avrei date ad alcun altro; ma voi avete ad esse diritto. Così cominciò in questo secolo l’ 1tal.ia a radunare studiosamente cotai tesori, e insieme ad esserne liberale, come poi sì spesso è avvenuto, a’ non sempre grati stranieri.