Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo IV/Libro III/Capo VI
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Capo VI.
Arti liberali.
I. La descrizione, che al principio di questo volume da noi si è fatta, dell’infelice stato in cui trovossi l’Italia nel XIII secolo , e delle sciagure d’ogni maniera onde fu oppressa , sembrava predirci tempi non meno calamitosi alle lettere e a’ loro coltivatori. E nondimeno, parte per quell’entusiasmo chela libertà e l’indipendenza accese in molte città, parte pel favore e per la munificenza d’alcuni principi e dei più ragguardevoli cittadini, si vider le scienze levare più ardito il capo, e tergere almeno in parte l’antico squallore, come da tutte le cose dette fin qui è manifesto abbastanza. Lo stesso vuol dirsi delle arti. Le guerre civili e le domestiche turbolenze, dalle quali fu travagliata l’Italia, pareva che dovesser condurle alla estrema rovina. E nondimeno appunto fra gli incendii e fra le devastazioni esse risorser più liete; e mentre le infuriate fazioni non perdonavano nè a lavori nè ad edificii di sorta alcuna, ne’ lavori e negli edificii si vide una magnificenza , e, ciò che è più a pregiarsi, un cominciamento TE11ZO 7 I t d’eleganza e di gusto già da molti secoli sconosciuto. Le stesse massime e gli stessi principii che fecer rivolgere gl’Italiani alle lettere e alle scienze, gl’invogliarono ancora di rendersi segnalati nelle arti. Le città che reggeansi a foggia di repubbliche, gareggiavano le ime eolie altre in potere e in ricchezze. Se da ciò nacquero dissensioni e guerre funeste, ne nacque ancora una lodevole emulazione nello stendere il loro commercio, nell’inalzare vaste e magnifiche fabbriche, nel rendersi oggetto di maraviglia a’ vicini non men che a’ lontani. I principi che in qualche parte d’Italia ebbero signoria , molti de’ quali furono di animo nobile e generoso, concorser non poco colla lor magnificenza ad abellire e ad ornare le loro città. Quello spirito di gelosia e d’invidia che moveva un popolo a’ danni d’un altro, e che fu cagione di rovine e d’incendii! così frequenti moveva ancora i vinti a riparare i sofferti danni; e una città che fosse stata incendiata, non credeasi vendicata abbastanza, finchè non sorgea dalle sue rovine più bella e più maestosa di prima. Così dalla stessa origine moveano i danni insieme e i vantaggi, o, a dir meglio, così l’ingegno e il valore degl’italiani sapea raccogliere frutto dalle loro stesse sventure. Svolgiamo alquanto più a lungo ciò che ora abbiamo accennato , e cominciamo da quelli in cui singolarmente si diè a vedere la pubblica magnificenza, cioè dall’architettura. II. Di tante città delle quali abbiamo le antiche Cronache nella gran Raccolta del Muratori, appena ve n’ha alcuna di cui non leggasi che in questo secolo fece innalzare il palagio del n. Opere inagrì ti« he «li ar IniMtura fatte in Italia a questa et’«. J 712 LIBRO Comune, o, come diceasi, il palagio della Ragione. Tutte aveano il proprio lor podestà , e questa carica era allor conferita ad uomini non sol per senno, ma ancor per nascita e per sapere ragguardevoli. Conveniva dunque eli’ essi avessero ove abitare; e conveniva che l’abitazion fosse tale, quale alla lor condizione e al loro impiego si richiedea. Io non prenderò a nominare partitamente tutte quelle città che intrapresero cotali fabbriche, fra le quali una delle più magnifiche è il famoso palazzo della Ragione in Padova (V. Rossetti, Pitture, ec. di Pad. p 277, ec., edit. Pad. 1776) Non parmi però che debba passarsi sotto silenzio una circostanza che leggiamo nell’antica Cronaca di Vicenza di Niccolò Smerego, il quale parlando agli anni 1222 e 1223 del podestà Lorenzo Strazza da Martinengo bresciano, dice: fecit fieri quinque arcus, qui sunt subtus palatium (di Vicenza), et fuerunt Magistri de Cremona ad faciendum dictum opus (Script. Rer. ital. vol. 8, p. 98). Convien dire che si facesse non poca stima degli architetti e de’ capimastri cremonesi , se fra tutti furono prescelti ad andare fino a Vicenza per intraprendere cotal lavoro. Io lascio ancora di ragionare partitamente delle mura di cui molte città italiane si cii’ condarono Eer lor difesa , di che vediamo continuamente le pruove nelle Cronache di questi tempi. In Reggio, secondo l’antica Cronaca di questa città pubblicata dal Muratori, cominciossi l’anno 1229 a innalzare le mura (ib. p. 1106, ec.) e a fabbricare le porte e a fortificare con varie difese le une e le altre, e continuossi fino al 1244? benchè pure in que’ tempi fossero travagliati TERZO 7 * J i Reggiani da varie guerre esterne ed interne. Le mura, secondo il calcolo di questa Cronaca, si stesero a 3300 braccia, oltre le porte, le torri, le fosse e più altri edificii che ne’ medesimi anni intrapresero; fra’ quali non è a tacersi la chiesa dell’Ordine de’ Predicatori, perchè ciò che all’occasion di essa si nan a, ci fa vedere fin dove giugnesse a que’ tempi l’ardor popolare in cotali imprese: Ad praedictum opus faciendum, dice l’autore della Cronaca sopraccennata all’anno 1233 (ib. p. 1107), veniebant homines et mulieres Reginorum , tam parvi quam magni, tam milites quam pedites, tam rustici quam cives ferebant lapides, sablonem et calcinam supra dorsa eorum , et in pellibus variis, et cendalibus; et beatus ille, qui plus portare porterai; etfecerunt omniafundamenta domorum et Ecclesiae, et partem muraverunt. Nè men grandiose e magnifiche furon le fabbriche e i lavori in questo secol medesimo intrapresi da’ Modenesi. L’anno 1259, secondo gli antichi Annali di questa città pubblicati dal Muratori (ib. vol. 11 , p. 65), si scavò un canale per la lunghezza di selle miglia, detto il Panarello nuovo: Eodem anno factum fuit Canale, quod dicitur Panarolum (ita) novum de Bodruza a plebe S. Martini inferius per septem miliaria, per Mutinenses et Bononienses, per Episcopatum Mutinae. E nell’anno medesimo dentro della città il vescovo Alberto Boschetti fece aprire il canale che anche al presente si dice Chiaro. Due anni appresso la gran torre di S. Geminiano, la cui parte quadrata già da molto tempo era stata innalzata, sorse più in alto, e il lavoro continuossi fino al i319, in q\\ LIBRO «:ui fu compito: Eoilem anno olivato flit Turri s S. Geminiani a quadro supra, ubi sunt campanae, et positus fuit pomus deauratus in summitate, quae est alta brachia ci.y, et finita fuit MCCCXIX (ib. p. 66). L’anno seguente, oltre più cose fatte a ripulir laFonte/commento: Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/773 città, si fabbricò il palazzo della Comunità, e la ringhiera onde si fanno i proclami: De anno mcclxii evacuata fuit Civitas Mutinae de omni letamine, et contratoc fiuemnt enfia mine, et multi porticus salegati. Eo anno elevatum fuit Palatium Communis Mutinae, quod est ex opposito Turris S. Geminiani; eodem anno facta fuit Rengheria Communis Mutinae, ubi fiunt proclamationes super Platea (ib). Un altro palazzo s’innalzò l’anno seguente presso la suddetta ringhiera, che fu detto perciò il palazzo nuovo. Finalmente l’anno 1264 parecchi ponti di vivo sasso furon gittati sul canale detto la Cerca all’intorno e al di fuori della città 5 e scavato fu e arginato un nuovo canale detto Grisaga (ib.). Veggansi ancora le magnifiche fabbriche de’ Padovani, che si rammentano nelle lor Cronache dopo l’anno 1 280 (ib. vol. 8, p. 381, ec.); cioè sette ponti di pietra e 3 nuovi palazzi nel corso di pochi anni innalzati, oltre più altri già fabbricati negli anni addietro. « Alcuni canali ancora furono sulla fine del XII e sul! principio del XIII secolo scavati da’ Padovani per agevolare la navigazione e il commercio, e se ne può vedere più distinto ragguaglio nelle Notizie della scoperta fatta in Padova d un ponte antico con una romana iscrizione ivi stampata nel 1773 (p. 27, ec.) ”. La città di Asti, che molto avea sofferto nelle guerre passate, lu TERZO 713 l’anno 1280 quasi tutta nuovamente edificata: Anno Domini mcclxxx Civitas Asti per gratiam Dei facta est quasi nova, plena divitiis, clausa bonis muris et novis, et plena multis edificiis, Turribus, Pala tiis, et doni ¡bus novi? quasi tota (Script. Rer. ital. vol. 12, p. 149). I Genovesi, oltre due darsene fabbricate l’una nel 1276, l’altra nel 1283, e oltre la gran muraglia del molo in questi tempi medesimi eretta, l’anno 1295 compierono la grande e veramente reale fabbrica de’ loro acquedotti (Stella, Ann. genuens. vol. 17 Script. Rer. ital. p. 975,976), che pel giro di molte miglia e su per l’erte coste de’ monti introducon l’acqua in città. Molti palazzi ancora e molte altre fabbriche si rammentano nelle antiche Cronache milanesi , che furon opera di questi tempi; e nella descrizione di quella città fatta da F. Buonvicino da Riva l’anno 1288, e inserita dal Fiamma nelle sue Storie (ib. vol. 11, p. 711), si esprimono specialmente sedici porte di marmo, che le davan l’ingresso, benchè non ancor del tutto finite. Ma assai più memorabile è la grande impresa da’ Milanesi in questi medesimi tempi eseguita, cioè l’aprimento del canale, per cui l’acqua del Tesino vien condotta pel corso di oltre a 30 miglia fino a Milano, e che volgarmente dicesi il Naviglio grande, opera cominciata fin dall’anno 1179, e ripigliata poscia l’anno 1257 e felicemente condotta a fine (Giulini, Mem. di Mil. t. 6, p. 501; t.8,p. 143, ec.). Io potrei stendermi ancora più oltre assai nell’annoverare le grandi opere dalle repubbliche italiane singolarmente in Lombardia intraprese ne’ tempi di cui parliamo; e potrei ad esse aggiugnere quelle III. Notizie di Marchionur aretino, e di altri archi» lotti. jiG Limo de’ papi in Roma e iifllo altre cittì» dello Stato Ecclesiastico, e quelle de’ re di Sicilia e di Napoli nelle lor capitali (a). Ma il saggio che ne abbiarn dato fin qui, basta a farci testimonianza delle ricchezze di queste città, e dell’industria e dello splendore de lor cittadini. III. Fin qui abbiamo annoverali molti magnifici e dispendiosi edifici in Italia intrapresi, ma non abbiam nominato alcun famoso architetto a cui essi si debbano, perchè gli storici di que’ tempi non ci bau lasciata memoria, chi ne formasse il disegno, o chi presiedesse al lavoro. Ebbe però 1 Italia di questi tempi non pochi illustri architetti, e alia magnificenza degli edifici cominciò ancora ad aggiugnersi qualche principio ili buon gusto, allontanandosi a poco a poco dal grottesco e capriccioso disordine ne’ passati secoli introdotto, e ritornando, benché a passi assai lenti, all’antica maestosa semplicità. Nel tomo terzo di questa Storia abbiam fatta menzione di alcuni che in quest’arte aveano ne’ due secoli precedenti ottenuto gran nome. In questo, di cui parliamo, il primo che ci si faccia innanzi, è Minchionile aretino. In nocenzo III, dice il Vasari (Vite de Pittori, (a) Fra i re di Sicilia che furono splendidi protettori delle belle arti, deesi singolarmente annoverare P imperador Federigo II. De’ magnifici edifici da lui in quel regno innalzati, e della statua di esso che, comunque malconcia assai, tuttor conservasi in Capova , belle notizie ci ha date il sig. D. Francesco Daniele in alcune sue memorie pubblicate dal P. Guglielmo dalla Valle (Lettere sanesi, t. 1, p. 197, ec.). e noi speriamo di vederle ancor più copiose nella Storia di quel celebre imperadore, intorno alla quale da lungo tempo ei si affatica. TERZO yiy t.\, p. ed. Livorn.) si dilettò molto di fabbricare’ . fece in Roma molti edificii , e particolarmente col disegno di Marchionne Aretino architetto e Scultore la Torre de’ Conti.... il medesimo Marchionne fini l’anno, che Innocenzo terzo morì, la fabbrica della Pieve di Arezzo, e similmente il campanile, facendo di scultura nella facciata di detta Chiesa tre ordini di colonne, l’una sopra l’altra molto variatamente non solo nella foggia de’ capitelli e della base, ma ancora nei fusi delle colonne, essendone fra esse alcune grosse, alcune sottili, altre a due a due, altre a quattro a quattro legate insieme. Parimente alcune sono avvolte a guisa di vite, ed alcune fatte diventar figure, che reggono con diversi intagli. Vi fece ancora molti animali di diverse sorte, che reggono i pesi, col mezzo della schiena, di queste colonne; e tutti con le più strane e stravaganti invenzioni, che si possono immaginare, e non pur fuori del buono ordine antico, ma quasi fuor d’ogni giusta e ragionevole proporzione. Ma con tutto ciò, chi va bene considerando il tutto, vede, ch’egli andò sforzandosi di far bene, e pensò per avventura averlo trovato in quel modo di fare, e in quella capricciosa varietà. Fece il medesimo di scultura nelFarco, che è sopra la porta di detta Chiesa, di maniera barbara, un Dio Padre con certi Angeli di mezzo rilievo assai grandi, e nell’arco intagliò i dodici mesi, ponendovi sotto il nome suo in lettere tonde, come si costumava, ed il millesimo, cioè F anno niccxn. Dicesi, che Marchionne fece in Roma per il medesimo Papa 718 LIBRO Innocenzio terzo in Borgo vecchio I cdìfizio antico dello Spedale e Chiesa di S. Spirito in Sassia, dove si vede ancora qualche cosa del vecchio; ed a’ giorni nostri era in piedi la Chiesa antica, quando fu rifatta alla moderna con maggiore ornamento e disegno da Papa Paolo terzo di casa Farnese. Fin qui il Vasari, le cui parole ho io qui voluto riferire distesamente, perchè ognun veda a quai fondamenti egli appoggi i suoi racconti. Un uomo nella storia dell’arte dottissimo, qual era il Vasari, merita fede, ancor quando ci non ci reca pruove di ciò che afferma. Nondimeno egli ci avrebbe fatta cosa assai grata, se più spesso, che non suole, avesse accennati i monumenti onde ha tratte le sue notizie, e molto più che, come avrem presto a vedere, egli ha talvolta seguito le popolari opinioni più che gli autentici documenti; e a questo luogo medesimo l’erudito monsignor Bottari nelle sue note confuta più cose dal Vasari asserite. Il Baldinucci aggiugne a Marchionne un Fuccio Fiorentino (Notizie de’ Profess. del Disegno, t. 1, p. 80, ed. Fir. 1767), che in Firenze fabbricò con suo disegno la Chiesa di Santa Maria sopr’Arno del 1229, e in Napoli finì il Castello di Capoana, poi della Vicheria, e Castel dell uovo. IV. Il tempio più magnifico per avventura che di questi tempi sorgesse, fu quello de’ Minori di Assisi, per opera del celebre frate Elia lor Generale , che sembrò troppo presto dimentico dell’umiltà e della povertà del padre e fondatore santissimo dell’Ordin suo. Il Vasari, che descrive esattamente questa gran fabbrica TEllZO 7»y (p. 25i)j dice che l’architetto ne fu Jacopo di nazione tedesco, il che par che confermisi da Pietro Rodolfi nella sua Storia di quell1 Ordine , il quale, benchè dica di non aver trovato il nome dell’architetto, avverte nondimeno che essa Opus Theutonicum est (Hist Seraph. l. 2 , p. 247). Il Baldinucci però dubita che Jacopo fosse italiano, o toscano, non già tedesco (l. cit.); poichè Arnolfo , che credesi di lui figliuolo, era natìo di Colle in Toscana, coni’ egli pruova da un passo delle Riformagioni di Firenze del 1299. Nè sarebbe privo di forza queslo-’-argomento, se fosse certo che Arnolfo fosse veramente figliuolo di Jacopo3 ma lo stesso, Baldinucci ci avvisa che in uno spoglio del Borghini, tratto da’ libri medesimi delle Riformagioni, Arnolfo si dice figliuol di Cambio. Checchè sia di ciò, siegue a dire il Vasari che la fama colla fabbrica del tempio d’Assisi ottenuta da Jacopo, il fè chiamare a Firenze, ove diede il disegno di molte fabbriche che dal Vasari si annoverano. Ma questo dotto scrittore non ha avvertito a un non piccolo errore di cronologia che qui ha commesso; perciocchè. dopo aver detto ch’ei venne a Firenze , poichè ebbe innalzato il tempio di Assisi, opera intrapresa dopo la morte di S. Francesco, che accadde l’anno 1226, e continuata, come afferma lo stesso Vasari, per quattro anni (a), (a) 11 P. delti Valle osserva (Lettere Sane si, t. 1, p. 179, ec.) che il tempo di Assisi era già compito l’an 1230. Ei reca ancora alcune probabili congetture a provare che l’architetto di quel magnifico edificio non fosse già quel tedesco Jacopo nominato dal \ asari, V. Arnolfo altri. ~j’lO LIBRO dice ch’egli venuto a Firenze fondò l’anno 1218 le pile al Ponte della Carraia, e l’anno 1221 diede il disegno della chiesa di S. Salvadore e del vescovado. Somiglianti errori trovansi nel Vasari più spesso che non vorremmo in un sì illustre scrittore j e un altro notabile ne ha preso a questo luogo medesimo , ove dice che a questi tempi si fabbricarono la Certosa di Pavia e il Duomo di Milano (ivi p.), le quali fabbriche son posteriori di oltre ad un secolo. Ei narra ancora che Jacopo in Firenze fu detto comunemente Lapo , e eli’ egli, oltre più altre fabbriche di cui diè il disegno, fu il primo che prendesse a lastricare le strade, le quali primi si mattonavano; e che finalmente mandato a Monreale in Sicilia il modello d’una sepoltura per Federigo II, richiestogli dal re Manfredi, morì l’anno 1263. V. Anolfo che, come si è detto, credesi figliuol di Jacopo ossia di Lapo, ma che probabilmente non ne fu che discepolo, nato, secondo il Vasari (ivi, p. 254), l’anno 1233, avendo anche appreso il disegno da Cimabue, ma Niccolò da Pisa, e rileva altri errori, in cui gli sembra che il medesimo Vasari sia caduto. È certo che la storia delle arti e degli artisti toscani del secolo xn e del xiti è ancora intralciatissima, e che non potrà mai rischiararsi abbastanza, finché uno scrittore più erudito e più diligente di que’ che sonosi (inora avuti, prenda a ricercare con esattezza gli archivi delle diverse città della Toscana, a trarne le opportune notizie, e a combinarle con quell’ordine e con quella connessione che è 1’anima della storia. 11 suddetto P. dalla Valle e il sig. Alessandro Morrona ne han già dato felicemente l’esempio riguardo a Siena 0 a Pisa. TERZO ^21 fu impiegato in molti maestosi edificii che s’innalzarono in Firenze, e che si posson veder descritti dallo stesso autore (a). Io accennerò solamente l’ultimo cerchio delle mura di Firenze eretto 1’anno 1284 , la loggia e la piazza de’ Priori, la gran chiesa di Santa Croce, e quella ancor più magnifica di Santa Maria del Fiore. Egli morì l’anno i3oo. Il Baldinucci ne annovera ancora alcune sculture (l. cit. p. 85. ec.), e aggiugne che in un libro delle Riformagioni si trova data la cittadinanza ad Alberto e a Guiduccio figliuoli di Arnolfo, il primo de’ quali era scultore in marmi. Il Baldinucci medesimo ci racconta (ivi) che alla fine di questo secolo stesso erano in Firenze alcuni religiosi dell’Ordine de’ Predicatori assai ben intendenti d’architettura, e singolarmente F. Ristoro e F. Sisto conversi e fiorentini di patria, i quali, come si narra in una Cronaca ms. del convento di (a) Ecco un’altra pruova del bisogno che abbiamo di una esatta storia dell’arte e degli artisti singolarmente toscani de’ bassi secoli. Arnolfo dicesi figliuol di Lapo, o, secondo altri, discepolo; e credesi che Lapo morisse nel 1262. Or il suddetto P. Guglielmo dalla Valle ha prodotto il documento con cui a’ 29 di settembre del 1266, secondo l’uso pisano, Niccola da Pisa fu condotto pel lavoro del celebre pulpito del duomo di Siena; e in esso tra i patti a Niccolò imposti è che pel primo di marzo ei debba condur seco a Siena Arnolfo e Lapo suoi discepoli (Lettere sanesi, t. 1 , p. 180); colle quali parole , ove non vogliasi supporre un altro Lapo diverso da quel del Vasari , si mostra ad evidenza che nè Lapo morì nel 1262, nè egli era padre nè maestro di Arnolfo; ma amendue al tempo medesimo erano discepoli di JNiccola. Tuuboschi, Voi. IV. 46 t VI. NirroL * Giovanili pisani architetti e scultori , ed altri. ~rJ2 LIBRO Salila Maria Novella. con lor disegno rifabbri- 11 careno i due antichi ponti della Carraia e di 3 Santa Trinità caduti l’anno 1264, c l’anno 1 2-9 1 dieder principio alla fabbrica della gran chiesa del lor convento, e in Roma ancora edificarono le volte inferiori del palazzo Vaticano. ed ivi poscia morirono , il primo F anno 1280 , il secondo l’an 1289. VI. Nè minor fama ottennero in quel secol medesimo Niccola pisano e Giovanni di lui figliuolo , il quale toccò anche in parte il secol seguente, essendo morto l’an 1320. Io lascio che ognuno vegga le fabbriche per opera loro innalzate presso il Vasari (p. 262, ec.) e il Baldinucci (p. 97, ec.): poiché non èrnia intenzione, come tante volte mi son dichiarato, di far la storia dell’arti, ma sol di accennare lo stato in cui esse erano. Gli scrittori fiorentini e toscani non sono stati negligenti nel ricercare e nel pubblicar le loro glorie, e non giova perciò il trattenersi su questo argomento, se non quando si offre o qualche cosa ad aggiugnere, o qualche errore a confutare. Per questa ragion medesima io non farò che un cenno delle sculture che furono opere di questi due famosi architetti, perciocchè i due suddetti scrittori ne hanno ampiamente trattato. Il Baldinucci loda singolarmente la statua di Maria Vergine posta da Giovanni sopra la porta di Santa Maria del Fiore; e il Vasari parlando dell’arca che Niceola dall’anno 1225 fino al 1231 lavorò nella chiesa de’ Domenicani in Bologna pel corpo del santo lor fondatore, la quale si è conservata fino al dì d’oggi, dice ch’ella è la , TERZO 723 migliore fra quante opere di scultura furon fatte a que’ tempi (a). Così pure essi annoverano parecchie sculture del suddetto Arnolfo, e altre di Margaritone di Arezzo pittore, scultore e architetto (frasari l. cit.; Baici p. i5), il quale però troppo fu in fama ad essi inferiore. Io lasciando in disparte ciò che i due (<7) Fra le opere di Niccolò, che dal Vasari si annoverano , son le sculture della facciata del famoso duomo di Orvieto, in cui egli afferma, non so su qual fondamento, ch’egli ebbe a compagni alcuni Tedeschi. Sembra dapprima che il Vasari voglia qui esaltare il valor di questo scultore, affermando che non che i Tedeschi che quivi lavorarono, ma superò se stesso con molta sua lode. Ma poscia aggiugne cosa che rivolge le lodi in biasimo, dicendo ch’egli è stato non che altro lodato a’ tempi nostri da chi non ha avuto più giudizio che tanto nella Scultura, che è lo stesso in somma che dire ch’ei non ottien lode che dagl’ignoranti. Quanto sia mal fondata questa opinion del Vasari, si conoscerà, spero, fra non molto, quando si vedrà uscire alla luce la Storia di quel Duomo scritta dal P. Guglielmo della Valle minor Conventuale, per ordine delr eminentissimo cardinale Antamori vescovo di quella città, e vi vedrem tutte quelle sculture esattamente disegnate: le quali in verità sono tali, come lo stesso autor mi assicura, che mostrano aver Niccolò superato tutti gli altri scultori non sol del suo secolo, ma anche de’ due susseguenti; e che Luca Signorelli, Michelangiolo ed altri di esse si giovaron non poco in alcune loro opere. Dal che egli trae argomento a confermare ciò che nelle Lettere sanesi avea asserito, e ciò ch’io pure ho accennato fin dal tomo precedente, Pisa essere stata veramente l’Atene delle belle arti nel loro risorgimento in Italia. Questo scrittor medesimo , e dopo lui il sig. Alessandro Morrona nella sua Pisa illustrata, hanno più diligentemente trattato delle opere di scultura e d’architettura di Niccola e di Giovanni. suddetti scrittori han già diffusamente spiegato a gloria della lor patria, aggiugnerò solo un altro eccellente scultor pisano da essi non nominato , cioè Guglielmo, converso dell1 Ordine de’ Predicatori e discepolo del suddetto Niccola, con cui egli in questo secolo lavorò le sculture che veggonsi nella facciata della chiesa di S. Michele in Borgo nella medesima città di Pisa. I dottissimi Annalisti camaldolesi ce ne han data l’immagine (Ann. camald. t. 5,p. 288). V II. Anche in altre provincie fuori della Toscana , e da altri artefici oltre i già nominati, fu la scultura in questo secolo esercitata con successo talvolta non infelice. Nelle Memorie della città di Milano raccolte ed esaminate dal diligentissimo conte Giorgio Giulini veggiamo alcune sculture del secolo XIII, che per riguardo a’ lor tempi non son certamente spregevoli. Tali sono un marmo nell’antica chiesa di S. Giorgio in Bernate de’ Canonici regolari (Mem. di Mil. t. 7, p. 50), e la statua di Oldrado da Tresseno podestà di Milano innalzatagli l’an 1233 (ib. p. 47°) > e l’arca sepolcrale di Ottone Visconti arcivescovo e signor di Milano (ib. t. 8 , p. 474)? e P*’1 altre c^e *n città sì conservano, in niuna però delle quali veggiamo indicato il nome dello scultore. Negli Annali di Modena all1 anno 1268 si parla di una statua detta della Bonissima, che vi fu innalzata, e che ancor si conserva: Eodem Anno (MCCLXVIII) die ultimo Aprilis erecta fuit statua marmorea Bonissimae in plateis Civitatis Mutinae (Script. rer. ital. vol. 11, p. 69). Chi fosse questa Bonissima, e per qual ragione TERZO ’ 7^5 le si rendesse sì grande onore, ivi non si dice. Ma nella Cronaca ms. di Modena di Francesco Panini, che conservasi in questa Estense biblioteca, si narra (p. 83) che fu a questi tempi in Modena una donna assai ricca, detta per nome Buona, la quale sovvenendo in tempo di carestia e di altre sventure assai liberalmente i suoi concittadini, ebbe perciò il soprannome di Bonissima, e l’onore di questa statua. Essa in fatti si vede con una borsa aperta in mano a indicio della pietosa sua liberalità, e perciò il fatto che narrasi dal Panini, se non è vero, è certamente assai verisimile. Or questa statua, per riguardo singolarmente a’ tempi in cui fu fatta, è di assai pregevol lavoro, e migliore di molte altre di questi medesimi secoli. « Parma ancora conserva sculture non sol del secolo XIII, ma anche degli ultimi anni del secolo xii. In una cappella del duomo vedesi un palliotto di marmo bianco, in cui rappresentasi in rozze figure la deposizione di Cristo dalla croce , aggiuntivi i seguenti versi: Anno milleno centeno septuageno Octavo scultor patravit mense secundo Antelamus dictus Sculptor fuit hic Benedictus. Migliori sono i lavori che più anni appresso , cioè nel 1196, fece questo scultor medesimo pel battistero della stessa città , che tuttor vi si veggono con questi versi: Bis denis demptis annis de mille ducentis Incepit dictus opus hoc sculptor Bciiedictus ». Quanti monumenti non dispregevoli di sculture 726 turno conservansi in Roma, che appartengono a questa medesima età! Tutti i libri che ne descrivon le chiese e gli altri pubblici edifizii, ce ne possono essere testimonio. Io accennerò solo le grandi lastre d’argento figurate, colle quali Innocenzo III ricoprì la sacra immagine del Salvatore detta Acheropita, che si venera nell’antichissimo oratorio di S. Lorenzo. Esse sono state esattamente descritte dal ch. canonico Giovanni Marangoni (Istor. delP anlichiss. Orat. di S. Lor. ec. c. 20), il quale afferma che questo lavoro, quantunque gotico , si vede formato con tanta diversità d intrecci c di figurine di basso rilievo, che rende una somma vaghezza. Così anche in questi sì rozzi secoli faceasi pur qualche sforzo per condur la scultura a perfezione maggiore. Eran lenti i progressi, ma pur (davasi qualche passo, e si rendeva per tal modo più piana e più agevol la via a que’ che doveano venire appresso. VDI. Riman per ultimo che diciamo della pittura. E qui io ben conosco di entrare in un sentiero assai spinoso e intralciato, e in cui appena sembra possibile di avanzarsi senza pericol di offesa. La Toscana , e singolarmente Firenze, pretende che le si debba in ciò il primo vanto: rammenta il suo Cimabue, il suo Giotto, e ci schiera innanzi un gran numero di scrittori che la chiamano per riguardo a questi due pittori madre e ristoratrice delle bell’arti. Dante, il Boccaccio, il Villani ne sono i condottieri, e dietro ad essi siegue una innumerabile folla di altri e loro concittadini e stranieri che ripetendo i lor detti, li confermano TERZO ~2~ vie maggiormente. Ma ciò non ostante altre città non voglion cederle il primato: e sopra tutte Bologna che vanta aneli’ essa pittori nè meno antichi nè men valorosi di Cimabue. Contro il Vasari, che fu il primo a porre in maggior luce le glorie de’ Fiorentini, levossi, ma più di cent’anni dopo, il conte Carlo Cesare Malvasia che nella Introduzione alla sua Felsina, pittrice non temè di onorare il Vasari (del titolo di bugiardo (p. 9)), perchè avesse scritto che innanzi a Cimabue la pittura fosse piuttosto perduta, che smarrita, e che ella prima che altrove rinascesse in Firenze. Il Baldinucci. che allora stava pubblicando le sue Notitie de’ Professori del Disegno, dal libro del Malvasia prese occasione di entrar di nuovo nella questione , e così nelle Notizie medesime, come nell’Apologia al principio di esse aggiunta, e nel Dialogo intitolato la Veglia, difese con molto ardore le glorie de’ suoi Fiorentini. Prima del Malvasia avea brevemente scritto in difesa de’ pittori veneziani il cavalier Carlo Ridolfi per dimostrare che in Venezia assai prima di Cimabue erasi usata non senza lode la pittura (Le meraviglie dell Arte, t. 1. p. 13), e similmente più altri hanno scritto per altre città. Siena ancora contrasta questo primato a Firenze, come tra poco vedremo; e molti altri campioni sono usciti a battaglia su questo argomento, e , come suole avvenire , ognun si lusinga di aver ridotto al silenzio il suo avversario (a). Or in sì impegnata contesa (a) Fra quelli che insorsero contra il Vasari, e che 728 LIBRO qual mezzo di unire in pace i fervidi combattenti? Io , che per professione e per indole son nimico di guerra, mi guarderò dallo stringermi in alleanza con alcuno de’ due partiti, e mi parrà di aver ottenuto non poco, se sponendo semplicemente i fatti che non sou punto dubbiosi, lascerò che altri ne tragga le conseguenze che gli sembreranno migliori. t IX. Egli è fuor di quistione, come nel terzo tomo di questa Storia abbiam dimostrato, che . l’Italia non fu mai priva nè di pittura nè di ad altre città italiane assicuraron l’onore di avere avute pitture più antiche di quelle di Cimabue, fu Marco di Pino pittore contemporaneo del! Vasari e sanese di nascita, ma per lungo soggiorno divenuto cittadino napoletano. Ed egli accusollo non sol d1 ignoranza , ma ancor di malizia, per aver dissimulate opere di pittura ch’egli stesso avea vedute. Scrisse egli dunque un Discorso sulle più antiche pitture che esistevano nel regno di Napoli, ma nol condusse a fine; e un sol frammento ne venne alle mani del notaio Angelo Criscuolo di lui discepolo, il quale dalle pubbliche e dalle private scritture raccolse moltissimi documenti per la storia de’ più antichi artisti di quel regno. Ma egli ancora non pubblicò cosa alcuna, e i manoscritti di amendue venuti poi alle mani del cavaliere Massimo Stanzioni, e poscia di Bernardo de Dominicis, servirono a quest’ultimo di fondamento per compilare la sua opera sui Professori delle Belle Arti da quel regno usciti. Veggasi intorno a ciò il sig. D. Pietro Napoli Signorelli, il quale di queste pitture e di altre opere egregie di scultura e di architettura (fatte in questo secolo nel regno stesso e in quel di Sicilia ragiona con molta accuratezza (Vicende della Coltura nelle. Due Sicilie, t. 2, p. 233, ec.; t. 9, p. 89), e parla singolarmente di un valoroso architetto e scultore napoletano per nome Masuccio, di cui molte fabbriche e sculture ivi esistono ancora. TLItZO 729 pittori. Ne abbiam veduti in ogni secolo esempii e pruove, e abbiam mostrato che non abbastanza si pruova che greci fossero tutti i pittori in Italia, e che alcuni di essi furon certamente italiani. Quindi sembra difficile a difendersi il parlar del Vasari che mostra di non riconoscere altri pittori in Italia innanzi a’ tempi di Cimabue, fuorchè i Greci, a’ quali egli attribuisce i musaici e le pitture fatte prima in Italia (proem. p. 163, ed. livorn.). Egli è vero che altrove pare eli’ egli affermi il contrario; dicendo (Vite, ec. t. 1, p. 237) che nelle pitture di Cimabue si vedeva un certo che più di bontà e nell aria della testa e nelle pieghe de’ panni, che nella maniera Greca non era stata usata in fin allora, da chi aveva alcuna cosa lavorata non pur in Pisa , ma in tutta l’Italia. Ma forse il Vasari qui ancora intese di favellare de’ greci pittori che in molte città d’Italia erano sparsi. Quando però si voglia affermare che il Vasari non negò mai che altri pittori fosser tra noi, fuorchè greci, ciò finalmente assai poco monta al nostro argomento. Così pure io non mi tratterrò a esaminare diversi passi del Baldinucci, il quale, benchè difenda il Vasari dicendo Veglia, p. 38, ed. di Fir. 1765) ch’egli non sostenne mai che al tempo di questi due (Cimabue e Giotto), e innanzi ancora stesse il mondo senza pitture e pittori; altrove nondimeno scrive così (Notizie di Cimabue, p. 13, ed. di Fir. 1767): Aveva fino da gran tempo avanti, e molto più in quei medesimi tempi. la venuta in Italia de’ pittori greci fatto sì, che altri pure inclinati a quell’arte, ^30 LIBRO ad essa attendessero. Colle quali parole sembra affermare che l’Italia si rimanesse senza pittura, prima che i Greci venissero a richiamarla in vita. Ma non giova il cercare che abbian detto gli autori , ove abbiamo i fatti che ci istruiscono chiaramente, e ci provano che l’Italia in niun tempo ebbe bisogno che venisser dalla Grecia pittori ad istruirla in quest’arte; benchè pur sia certo che molti Greci esercitavano la pittura in Italia, come dalle opere loro stesse si riconosce. Continuiamo le pruove recate pe’ secoli precedenti con quelle che ne abbiam nel presente, restringendoci alla prima metà di esso, cioè ai tempi anteriori a Cimabue. X. Nelle note dall’eruditissimo monsig. Gio vanni Bottari aggiunte all’edizion del Vasari fatta in Roma l’anno 1719, e ripetute ancora in quella di Livorno, si fa menzione di un Guido sanese (t. 1 ,p. 137 ed. Livorn.), di cui conservasi nella chiesa di S. Domenico in Siena un’immagine della Madre di Dio fatta, come raccogliesi dall’aggiunta iscrizione, l’anno 1221, oltre un’altra simile immagine nell’oratorio di S. Bernardino nella stessa città, che a lui pure si attribuisce (*). Ivi ancora rammentasi un (*) Di questo Guido sanese, e di alcuni altri pittori di questi tempi, che nulla debbono a Cimabue, fa menzione ancora Giulio Mancini nel suo trattato inedito da noi mentovato nelle note al tomo precedente. Ma intorno a Guido da Siena deesi or leggere singolarmente ciò che ha scritto, dopo la pubblicazione di questa Storia, il P. Guglielmo della Valle, il quale ha confutate le ragioni da alcuni addotte per dubitare dell’antichità della pittura qui indicata (Lettere sane si, t. 1, p. 237). Più altri pittori sanesi, e molte loro pitture TERZO ^3l Diolisalvi pittore parimenti sauese verso la metà del medesimo secolo. Il P. Wadingo (Ann. Minor. t. 1 ad an. 1233) parlando del gran tempio di Assisi nomina un’immagine del Crocifisso , che egli chiama affabre pictam, a’ cui piedi vedesi il ritratto di frate Elia con questa iscrizione: Frater Elias fecit fieri Jesu Christe pie Miserere precantis Heliae. Giunta Pisanus me pinx.it anno Domini MCCXXXVI, Un altro ritratto di frate Elia, fatto nell’anno stesso e dallo stesso pittore e con somigliante iscrizione, conservasi in Cortona presso il cavaliere Carlo Venuti (Dal Borgo, dell’Univ. pisana , p. 75). Delle pitture del battistero di Parma, e di altre fatte nel secolo XIII in quella città, veggasi ciò che ha scritto l’eruditissimo P. Affò nella sua Vita del Parmigianino ivi stampata nel 1784 (p- 3, ec.). Il Malvasia parla di alcune pitture, che ancor conservansi in Bologna , fatte al principio del XIII secolo da due di questo secolo fìnor conservate, ha egli felicemente scoperti (ivi, p. 272, ec.; 282, eri), e ha con ciò dimostrato ciò che io pure anche rii altre città d’Italia ho brevemente accennato che assai prima di Cimabue erano in Siena pittori non infelici, e che la scuola sanese , che ei mostra doversi distinguere dalla fiorentina , fu ancor di essa più antica. Lo stesso dee dirsi della scuola pisana in cui molto pi ima di Cimabue fiori il suddetto Giunta. Veggasi l’opera altre volte citata del sig. Alessandro Morrona (Pisa iUuslr. t. 1 ,p. 146, ec.), il quale ragiona ancora di alcuni antichi scultori e fonditori in bronzo, ch’ebbe quella città. ”31 LIBRO pittori bolognesi, cioè da Ventura e da Orso o Orsone (Felsina pittrice, t. 1, p. 8). Egli però avrebbe recato maggior vantaggio alla storia dell’arti, se pubblicate avesse interamente le iscrizioni ad esse aggiunte, che fanno fede dell’anno in cui furono dipinte. Fra’ più antichi pittori de’ quali ci sia rimasta memoria, deesi annoverare ancora Guido bolognese, di cui si fa menzione nella Felsina pittrice, e di cui abbiam rammentate nel tomo precedente alcune pitture in Bologna. Al principio del nostro secolo esistevano ancora nella chiesa di S. Francesco in Bassano alcune pitture di esso, che or son perite, e sol ci è rimasta memoria dell’iscrizione che vi era aggiunta , cioè Anno Domini MCLXXVII. Guidus Bononiensis pingebat. Di esse ragiona esattamente il eli. Giambatista Verci, come pure di altre pitture fatte nella stessa chiesa nel secolo susseguente, le quali egli crede opere di un certo Martinello che nelle carte di que’ tempi trovasi mentovato, e di altri monumenti dell’arte, di cui gli storici di que’ tempi ci han lasciata memoria (Della Pittura bassan. p. 2, ec.). Nella Rocca di Guiglia , feudo della nobilissima casa de’ marchesi Montecuccoli, vedesi ancora un ritratto di S. Francesco , che, come mi assicurano alcuni che 1’ han rimirato, è assai bello a vedersi, fatto 1’anno i a35 da Bonaventura Berlingeri da Lucca, come raccogliesi dalla aggiunta iscrizione: Bonaventura Berlingeri me pinxit de Luca Anno 1235. E ciò che è più degno di riflessione, si è ch’esso è dipinto su tela dorata , onde si scuopre l’errore del Baldinucci TEliZO 733 che disse Margaritone d’Arezzo essere stato il primo a rapportar sopra le tavole alcune tele (l. cit. p. 19). Io so che qualche valentuomo non lascia di sospettar d’impostura nella iscrizione di questo ritratto, che gli sembra troppo ben fatto, perchè si creda di tempi sì barbari. Ma a me sembra non essere ancor così certo che i pittori tutti dì questi tempi fossero grossolani e rozzi, che il sol vedere una pittura non dispregevole basti a conchiudere che ella fu di tempo assai posteriore (a). Ma bello è singolarmente il monumento dato alla luce dal Bosetti nella Storia dell’Università di Ferrara , quando si possa assicurare che sia sincero. Egli parla (t. 2, p. 446&) di un codice ms. di Virgilio, che conservasi in quella città nella libreria de’ PP. Carmelitani di S. Paolo, scritto l’anno 1198, e ornato di miniature da Giovanni di Algieri monaco, come si manifesta dall’iscrizione ch’egli ne riferisce. Aggiugne poscia che nell’ultima pagina di questo codice così trovasi scritto: A. D. † In el presente anno de Salute M. doixento quaranta doi lo strenuo ac splendido viro Athom de Esti gha facto impinger (-/) Giulio Miincini sancse nel suo Trattato della conoscenza delie Pitture , che non è mai stato stampato, rammenta all7 anno 1 a35 il ritratto di S. Francesco fatto ila Buonaventura... da Lucca assai di buona maniera: i piedi posano nel piano, nè sono così a piè d’oca, come quelli di Cimabue. Questo ritratto è in Faticano nelle camere del Papa (Della Falle, Lettere sanesi , t. 1, p. n55). Par dunque che fosse questo l’originale, e che il quadro di Guiglia ne sia una copia, e che perciò appaia men rozzo di quel che sembri convenire a que’ tempi. ^34 libro una tabula, per lo excelente Magistro de impinctura M. Gelaxio fiol de Nicolao de la Masna de Sancto Georgi, el qual dicto Gelaxio fo in Venexia subtus la disciplina do lo admirando Magistro Thophani de Co slatitinopolo: ibi cum el so ingenio ac sedula alacrità el gha facto maximo proficto: ac ideo el venerabile M. Phelipo de Fhontana delecto per nu dal Sancto Xpo Inocentio ─ ac per la nostra Gexia del (Vescovado jussu de lu el gha impincto lu figio della nostra Dona cum, el benedicto fructo del so ventre Jexus inter hulnas: Item el ghonfalon cum Santo Georgi Kavalieri cum la puela ac el Dracon truce interfecto cum la lancca: cum cl dieta ghonjàlon se obvio el pro Dux Tehupol de Venexia, en ipsa dicta tabula estoriè el gha el caxo do Phaeton cum venustà de colori iusta li poete: Nec non cxemplo memo rab il secundum el Psalmo ─ Dispersit superbos ─ Laus Deo ─ Amen ─ Huldovicus de Joculo Sancti Georgii ─ Memoriam fecit mirabilium | feliciter amen \ Amen |. Non pago il Borsetti di aver dato alla luce tal monumento, ci ha voluto ancora dare il saggio de’ caratteri con cui esso è scritto. Ma io confesso che essi appunto mi han destato qualche sospetto d’inganno e d’impostura, non già nel Borsetti, ma in alcun di quelli che più volte si son compiaciuti d’ingannare il mondo con tali frodi. Io ho veduti molti codici e molte carte del XIII secolo, e non mi è mai avvenuto di ritrovare caratteri di tal forma, che sono un capriccioso composto di antico e di moderno , di greco e di latino, di barbaro e di TERZO 735 elegante, clic non so indurmi senza timore a riconoscere per sincero un tal monumento. E molto più cu’ esso dicesi scritto l’anno 1242 , e pur vi si nomina il papa Innocenzo, cioè il IV di questo nome, che non fu assunto al pontificato che nell’anno seguente; e vi si nomina ancora Filippo Fontana vescovo di Ferrara, che, secondo l’Ughelli, non fu eletto a quel vescovado che nello stesso anno 1243 (a). Aggiungasi che il Borsetti fa menzione ancora di Cristoforo da Ferrara (ib. p. 436) e di Cosma Tura (ib. p. 460) pittori ferraresi, l’uno al principio, l’altro alla metà del secolo xv, e dice che il primo fu rivale, il secondo scolaro di Galasso Galassi pittore esso pur ferrarese. Or lo stesso Borsetti tra i ferraresi pittori non nomina alcuno di questo, o di somigliante nome, trattone questo stesso Gelaxio o Gelasio, di cui parliamo, il quale perciò dovrebbe credersi vissuto al principio del secolo xv. Tutte le quali ragioni mi rendono assai dubbioso intorno alla sincerità di tal monumento, su cui però io non ardisco decidere. XL A queste pitture possiamo aggiugnerne altre, delle quali sappiamo solo che furon fatte di questi tempi, benchè ora sieno in tutto perite e non ci resti memoria alcuna di quelli di cui furono opera. In questo tomo medesimo abbiam parlato (l. 1, c. 3) di una pittura (a) La difficoltà tratta dall’anno in coi fu eletto vescovo di Ferrara Filippo Fontana, più non sussiste; perciocché il sig. ab. Barotti nella sua più esatta Serie di que’ vescovi, ivi stampata nel 1781 , ha dimostrato (p. 36, ec.) che a quella sede ei fu innalza Lo uel t33g. ’jZ 6 LIBRO die vedeasi nel palazzo di Federigo II in Napoli, ove era dipinto questo imperadore, presso a lui il suo fedel cancelliere Pier delle Vigne, e i clienti che implorando soccorso da Cesare, da lui rimetteansi a Pietro, e abbiam riferiti i versi che vi erano aggiunti, fingendo che con essi parlassero i clienti e Federigo. È falso dunque ciò che afferma il Vasari (l. cit. p.?./jo) , cioè che Cimabue cominciò a dar lume ad aprire la via all’invenzione ajutando l’arte con le parole ad esprimere il concetto; poichè veggiamo che prima che Cimabue nascesse, o certo prima eh1 ei cominciasse a dipingere, fu ciò usato nella suddetta pittura. Veggansi ancora alcune pitture che furono fatte in Verona, ed una singolarmente del 1239, di cui parla il march. Maffei (Ver. illustr. par. 3, c. 6). Anzi era fin dal principio del XIII secolo così frequente in Italia l’uso della pittura, che i gran personaggi solevano fin d1 allora, come anche al presente, avere un pittore tra i lor cortigiani. Ne abbiam la pruova in un monumento milanese dell’anno 1210, accennato sulla scorta degli antichi Annali dall’eruditissimo co. Giulini (Mem. di Mil. t. 7, p. 249), in cui si annoverano distintamente que’ che componevan la corte del cardinale Uberto arcivescovo di quella città, e tra essi veggiamo espressamente nominato il pittore. XII. Ma tutte queste pitture, dicono il Vasari, il Baldinucci e i lor seguaci, erano o opere di greci artefici, o fatte nella rozza maniera da’ Greci usata. Ciò che abbiam detto sinora, ci mostra che molti pittori italiani vi ebbe TERZO 707 certamente di questi tempi, e die non si può in alcun modo affermare che i soli Greci sapessero in qualche modo dipingere. Anzi io rifletto che ci è bensì rimasta memoria di alcuni pittori italiani de’ primi anni di questo secolo, e ne abbiamo indubitabili monumenti nelle stesse loro pitture; ma appena sappiam cosa alcuna de’ nomi de’ pittori greci che in questo secol medesimo dipinsero in Italia. Abbiam veduto nominarsi poc’anzi Teofane che dipingeva in Venezia, ma abbiamo ancora osservato che il monumento in cui di esso si parla, non è troppo autentico. Il Vasari fa ancor menzione di Apollonio (l. cit. p. 281) pittor greco che dipingeva in Venezia e vi lavorava a musaico; ma non ci arreca testimonianza di scrittori, o di monumento antico che ne faccia fede. Lo stesso autore nomina più volte generalmente i pittori greci che dipingevano in molte città d’Italia; ma non ci dice in particolare chi essi fossero. Io però, il ripeto, non negherò mai che alcuni pittori greci fosser tra noi; poichè le stesse loro pitture segnate con caratteri greci ce lo persuadono. Solo mi basta il provare che non furon essi soli che sapessero usar di quest’arte. Ma sarà egli almen vero che o greci fossero, o italiani i pittori, tutti usassero nelle lor pitture della maniera greca dei bassi secoli/ Così affermano i sopraddetti scrittori che danno a Cimabue la gloria di essere stato il primo ad allontanarsi dalla greca rozzezza a que’ tempi usata, e d’avere nelle sue pitture studiata attentamente e imitata, come meglio gli fu possibile, la natura; nè essi soli l’affermano, ma TiRABOSem, Voi. IV. 47 ^38 LIBRO moltissimi altri ancora da essi citati, e tra questi non pochi scrittori del xiv secolo, che perciò sono degni di maggior fede (V. Baldinucci Apologia). In tal quistione io mi guarderò bene dal proferir decisione di sorta alcuna. Veggo altri scrittori, ed odo più testimonii affermare che prima di Cimabue si hanno in Italia pitture assai migliori di quelle di questo sì rinomato pittore. Essi accusano i Fiorentini che f amor patriottico gli abbia condotti a lodar troppo questo preteso loro ristauratore della pittura, e aggiungono, ciò che sembra non potersi negare, che i lodatori più antichi di Cimabue sono tutti toscani, e che se ve n’ ha alcuno straniero, ei può avere troppo facilmente adottato il sentimento de’ primi. Ma non potrebbono i Fiorentini rispondere che l’invidia accieca i loro avversarii e li conduce a riprendere Cimabue, solo perchè fu fiorentino? A decidere giustamente una tal contesa, che forse non avrà fine giammai, converrebbe che una società d’uomini intendenti delle bell’arti, e insieme imparziali, prendesse a ricercare diligentemente tutte le pitture che del XII e del XIII secolo abbiamo in Italia, quelle cioè delle quali è certo il tempo in cui furono fatte ed è conosciuto l’artefice; quindi a ritrarle con somma esattezza in rami, e colorirli ancora , imitando, quanto è possibile, le stesse pitture. Una serie di quadri così formata ci darebbe una giusta idea della pittura di que’ tempi, e ci farebbe conoscere qual fosse l’arte prima di Cimabue, qual fosse dopo, e se a lui possa convenir veramente l’onorevole nome di ristoratore TERZO 739 della pittura. Aspettiam dunque che si faccia questo confronto; e guardiamo frattanto fra ’l caldo de’ contrarii partiti quella neutralità in cui dee tenersi singolarmente chi non si conosce fornito di quelle cognizioni che a giudicare son necessarie. XIH. Così esaminato lo stato della pittura nella prima parte di questo secolo, passiamo ormai a vedere ciò che appartiene a Cimabue e agli altri pittori che con lui e dopo lui in questo secolo stesso esercitaron quest’arte. Nel che però io sarò assai breve, sì perchè così vuole l’idea di questa Storia, sì perchè in questo argomento abbiam già le più copiose notizie che si possan bramare presso il Vasari e gli altri scrittori posteriori. Cimabue adunque, secondo essi, nacque in Firenze l’anno 1240, e il Baldinucci pretende che la famiglia di lui fosse detta ancor de’ Gualtieri, ed egli ne ha formato l’albero genealogico (Notizie, ec. t. 1, p. 16), di cui però sembrerà ad alcuno che qualche ramo non sia troppo ben fermo. Egli aveva sortito dalla natura inclinazione sì viva al dipingere, che in età fanciullesca tutto il tempo che secondo il volere de’ genitori avrebbe dovuto impiegar nello studio, da lui consumavasi nell’addestrarsi a quest’arte. E la fortuna, come dice il Vasari, gli fu favorevole (l. cit. p. 234), perchè essendo chiamati in Firenze da chi governava la Città alcuni pittori di Grecia non per altro che per rimettere in Firenze la pittura piuttosto perduta che smarrita, Cimabue ebbe agio di formarsi sotto il lor magistero. Io rispetto l’autorità del Vasari; ma in questo >J:\o LlBnO , passo tutto il mio rispetto appena basta per dargli fede. Perchè far venir di Grecia cotesti pittori? Non v’eran forse in Italia altri che sapesser dipingere? Guido e Diotisalvi sanesi, Giunta pisano, Buonagiunta lucchese, per tacer di altri fuori della Toscana, non potevan fors’essi rimettere in Firenze la pittura? Si dirà foi •se che furon chiamati i Greci come pittori più esperti e di gusto più fino. Ma ogni altro scrittore potrà per avventura dir questo, fuorchè il Vasari 3 perciocché egli dice che que’ pittori greci avean fatto quelle opere, non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que’ tempi5 e poco appresso aggi ugne, che la maniera di que’ Greci era tutta piena di linee e di profili, così nel musaico come nelle pitture, la qual maniera scabrosa, goffa ed ordinaria avevano, non mediante lo studio, ma per una cotale usanza insegnata V uno all’altro per molti e molti anni i pittori di que’ tempi; senza pensar mai a migliorare il disegno, a bellezza di colorito, o invenzion alcuna , che buona fosse. Or se tali erano i pittori greci, perchè farli venire a Firenze? e se altro non si cercava, se non chi dipingesse in qualche modo le mura, era egli necessario il condurli così da lungi? Il Baldinucci nella sua Veglia disputa assai lungamente a difesa di questo passo. A me non sembra che le ragioni da lui recate abbian gran forza; e mi stupisco fra l’altre cose che a provare l’uso frequente di chiamare in Italia artefici greci , ei non abbia potuto produrre altro esempio che quel di Buschetto o Bruschetto architetto del duomo di Pisa TERZO 741 nell’xi secolo, cui abbiamo altrove mostrato non provarsi abbastanza che fosse greco; e stupisco ancora che il Baldinucci non abbia potuto recare un solo autore antico che affermi aver Cimabue appresa l’arte dai Greci. La sola ragione che tra le arrecate dal Baldinucci mi sembra non dispregevole, si è che il capriccio degli uomini non soffre legge} e che comunque si potessero aver altronde pittori, i Fiorentini vollero averli di Grecia. Ma converrebbe produrre testimonianze di antichi scrittori che affermino che così fu veramente. Aggiungasi che qui il Vasari ha certamente commesso errore} perciocchè egli dice che i pittori greci cominciarono, fraW altre opere tolte a fare nella Città, la cappella de’ Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in Santa Maria Novella allato alla principale cappella, dov ella è posta (p. 234). Il Baldinucci in difesa ancora di questo passo ha parlato nel’ suddetto suo dialogo assai lungamente} ma per quanto egli abbia cercato di scusare il Vasari, i più esatti moderni scrittori, e singolarmente monsignor Bottari nelle sue note al Vasari e il sig. Domenico Maria Manni (Sigilli, t. 2, p. 9) han chiaramente provato l’errore di amendue questi scrittori, mostrando che la chiesa di Santa Maria Novella fu rifatta da’ fondamenti l’anno 1350. Siegue poscia il Vasari ad annoverare molte altre pitture da Cimabue fatte in Firenze, in Pisa, in Assisi, alcune delle quali si conservano ancora. E io non dubito punto
che s’egli avesse scritta la sua opera a questiXIV.
Lodi ad
esso date.
tempi, vi avrebbe aggiunte ancor le iscrizioni colle quali si pruova ch’esse furon veramente opere di Cimabue.
XIV. Ciò che è fuor d’ogni dubbio, si è che
Cimabue fu avuto ai suoi tempi in Firenze in pregio del più eccellente pittor che vivesse. Dante fu uno de’ primi a rendergliene onorevole testimonianza con que’ celebri versi: Credette Cimabue nella pittura Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido , Sì che la fama di colui oscura. Purg. c. 11 , v. 94E dietro a lui tutta la immensa schiera de’ suoi commentatori ha fatti elogi di questo rinomato pittore. Il Baldinucci ha raccolti e pubblicati i passi di essi e di altri antichi e moderni scrittori (Apologia , p. 22), co’ quali esaltano il valore di Cimabue, e mi han con ciò risparmiata la pena di qui recarli. Un solo ne produrrò, perchè ci dà l’idea del bizzarro carattere di questo ristoratore della pittura. Esso è di un anonimo, il quale scriveva verso l’anno 1334, come afferma il Vasari che prima di ogni altro ne ha dato alla luce il seguente passo (l. cit. p. 241): Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di l’autore, molto nobile di più che uomo sapesse, e con questo fue sì arrogante e sì disdegnoso, che si per alcuno li fosse a sua opera posto alcun fallo o difetto, o elli da se l’avesse veduto, che, come accade molte volte, l’artefice pecca per difetto della materia, in che adopra, o per mancamento, eh’ è nello strumento, con che lavora; immantinente quell’opra disertava, fossi cara quanto volesse. Fu, TERZO 743 ed è Giotto tra li dipintori il più sommo della medesima Città di Firenze. Le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a f iguane, a Firenze, a Padova, ed in molte parti del Mondo. Agli elogi di Cimabue dal Vasari e dal Baldinucci raccolti vuolsi aggiugnere quello di Filippo Villani, ch’essi per avventura non videro, tratto dalle Vite degli Uomini illustri fiorentini da noi mentovate più voltej ed io il recherò qui tradotto fedelmente dall’originale latino pubblicato dall’ab. Mehus (Vita ambros. camald. p. 164), poichè la traduzione data alla luce dal co. Mazzucchelli in questo passo non è abbastanza esatta: Siami ancor lecito % con pace degl’invidiosi, t inserire a questo luogo i celebri pittori fiorentini che l’arte della pittura esangue e quasi estinta richiamarono in vita; tra’ quali Giovanni soprannomato Cimabue fu il primo che coll arte e. coll’ingegno cominciasse a ricondurre (alla rassomiglianza della naturi1 quest arte, la quale per inesperienza de’ dipintori se n’era affatto allontanata. Perciocchè è certo che prima di lui la greca e la latina Pittura si giacque per molti secoli in una totale rozzezza, come ben mostrano le figure e le immagini de’ Santi, che sulle mura e su’ quadri adornan le Chiese. Alcune riflessioni si potrebbono fare su questo passo per confermare ciò che abbiam detto di sopra, intorno alla pittura usata dagl’italiani prima di Cimabue. Ma di ciò e di questo illustre pittore basti il detto (fin qui. Egli morì, secondo il Vasari, 1 anno i3oo. XV. Di Giotto, scolaro di Cimabue e oscurator delle glorie del suo maestro, parleremo j w.’ iblei«»;« «ì* r. ultimi ri*Ichrr miniatore. y44 LIBRO nel secolo seguente in cui fu più famoso. Qui frattanto si dee far menzione di un altro pittore , cioè di Oderigi da Gubbio, in bocca di cui Dante ha posto il sopraccitato elogio di Cimabue. Il poeta lo ripone nel Purgatorio tra’ superbi, e ne parla come di persona da sè ben conosciuta: Ascoltando chinai in giù la faccia, E un di lor (non questi che parlava) Si torse sotto ’l peso che lo ‘mpaccia; E videmi e conobbemi e chiamava , Tenendo gli occhi con fatica fisi A me che tutto chin con loro andava. O, dissi lui, non se’ tu Oderigi, U onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte Ch’alluminare è chiamata in Parigi? L. cit. v. 73, ec. Benvenuto da Imola comentando questo passo di Dante dice che Oderigi fuit magnus Miniator in Civitate Bononiae (Antiq. Ital. t. 1, p. 1184). Ma ciò non ostante il Baldinucci impiega non poche pagine a persuaderci (Notizie, ec. t. 1, p. 152) ch’ei fu in Firenze scolaro di Cimabue. E tutto il suo discorso si riduce a questo: Dante fu amico di Oderigi e di Giotto: dunque Oderigi e Giotto furono amici fra loro5 il che ei conferma con ciò , di che or ora diremo, che ei fu a Roma insieme con Giotto, mentre miniava alcuni codici della libreria del papa. Da tutto ciò io non v eggo come discenda che Oderigi fosse scolaro di Cimabue, e a me pare che se ne potrebbe ugualmente inferire che Cimabue fosso scolaro di Oderigi. Certo essi furono coetanei, e Oderigi o morì lo stesso anno, o forse anche prima, come fra TERZO ^45 poco vedremo. Dell’eccellenza di Oderigi nella sua arte abbiamo una certissima pruova nel passo soprarrecato. Egli è vero che lo stesso Oderigi confessa dopo che Franco bolognese l’avea di gran lunga avanzato, appunto come Cimabue era stato superato da Giotto: Frate, diss’egli, più ridon le carte Che pennelleggia Franco bolognese: L’onore è tutto or suo e mio in parte. L. cit. v. 82. Ma appunto, come qui si accenna, la gloria di Franco, di cui parleremo nel tomo seguente, tornava in gloria dello stesso Oderigi che gli era stato maestro. Ciò che afferma Benvenuto da Imola, si rende probabile assai dalle cose che altrove abbiamo osservate (l. 1, c. 4), intorno al lusso fin da questo secolo introdotto nel copiare e nell’ornare i libri, nel che essendo singolarmente celebri i Bolognesi , chiunque avesse in quell’arte qualche eccellenza, dovea verisimilmente recarsi colà, ove poteva sperare onore e vantaggio maggiore. Il Vasari fa menzion di Oderigi, e Fu, dice (t. 1, p. 312), in questo tempo in Roma (cioè a’ tempi di Benedetto XI eletto l’anno 1303, benchè in tutte le edizioni del Vasari e del Baldinucci si dica per errore Benedetto IX) Oderigi d A gobbio, eccellente miniatore in que’ tempi, il quale, condotto perciò dal Papa miniò molti libri per la Libreria di palazzo, che sono in gran parte oggi consumati dal tempo. E nel mio libro de’ disegni antichi sono alcune reliquie di man propria di costui, che in vero fu valent uomo. Il Baldinucci ha qui avvertito (Notizie, ec. t. 1, ^46 LIBRO p. 164) l’errore del Vasari nello stendere la vita di Oderigi fin oltre al 1300, nel qual anno ei dovea già esser morto, come si raccoglie dal passo citato di Dante; e ha mostrato (ivi, p. 109) che Giotto fu chiamato a Roma verso l’anno 1298 a’ tempi di Bonifacio Vili, e che è perciò probabile che da questo stesso pontefice fosse Oderigi impiegato a miniare i suoi libri. Di lui non ci è rimasta alcun’altra notizia. XVI. Io non farò, per ultimo, che accen- nare i nomi di alcuni altri pittori e lavoratori di musaici, de’ quali parlano il Vasari e il Baldinucci, perchè nè essi furono egualmente famosi, nè io ho che aggiugnere a ciò che que’ due scrittori ne han detto. Essi sono Andrea Tafi fiorentino nato nel 1213 e morto nel 1294, che dicesi essere stato assai pregiato a’ suoi tempi nel formare i musaici, singolarmente dacchè apprese da Apollonio, pittor greco ch’ei fece venir da Venezia a Firenze, l’arte di cuocere i vetri del musaico, e di far lo stucco per commetterlo (Vasari t. 1, p. 281; Baldinucci t. 1, p. 66); F. Jacopo da Turrita Francescano che verso la fine di questo secolo stesso fu adoperato al lavoro di parecchi musaici (Vas. p. 184; Bald. p. 94); Gaddo Gaddi fiorentino discepolo di Cimabue, nato nel 1239 e morto nel 1312, che lasciò più monumenti del suo valore nella pittura non meno che ne’ musaici (Vas. p. 287; Bald. p. 89); e Margaritone d’Arezzo già da noi nominato tra gli architetti e scultori, di cui si veggon più pitture singolarmente nella sua patria, e di cui afferma il Vasari che fu inventore del modo di dare di bolo, mettere sopra teuzo 747 Y oro in foglie e brunirlo (fras. p. 296; halli, p. 13). I due suddetti scrittori parlano distintamente delle diverse opere in cui tutti essi*furono adoperati 5 nè io muoverà lor guerra intorno al giudizio eh1 essi ne danno. Molti si dolgono che questi due scrittori abbian parlato solo de’ pittori fiorentini, o almen toscani, e che se alcun altro ne han nominato, non l’abbian fatto che alla sfuggita e in assai poche parole. E certo noi abbiam fatta menzione di altri pittori di cui nell’opere loro non si vede fatta parola. Ma chi si duole in tal modo di essi, meglio farebbe, a mio credere, se in vece di usare troppo generali espressioni, si facesse a ricercare con diligenza le memorie di altri pittori. in altre provincie vissuti a questo secol medesimo, e a rintracciare ove ancor si conservino le lor pitture, e a darcene una fedel descrizione. Così la storia dell’arte verrebbe a rendersi più esatta e compita, e si potrebbe decidere finalmente la gran contesa, se veramente si debba a’ Fiorentini la gloria di aver richiamata in vita la languente e quasi estinta pittura. Fine. del Tomo IV.