Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo IV/Libro III/Capo V

Capo V – Gramatica e d Eloquenza

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Capo V.

Gramatica ed Eloquenza.

I. Le università e le altre pubbliche scuole che in molte città d’Italia in questo secol si aprirono, benchè non abbracciassero sempre ogni sorta di scienza, come con varii esempii abbiamo osservato, non è a credere nondimeno che fosser prive di que’ professori che insegnando i primi elementi della gramatica e le leggi di ben parlare, aprissero alle altre scienze la via. Quindi gli eruditi scrittori della Storia dell’Università di Bologna (De Prof’ Bon. t. 1, pars 1. p. 503) non han potuto dissimulare il loro risentimento contro il ch. Muratori, il quale troppo letteralmente spiegando un passo di Buoncompagno, di cui parleremo tra poco, ha affermato (Script. Rer. ital vol. 6, p. 922) che prima del secolo XIII Bologna non avea professori di belle lettere, e che quegli era stato il primo che ne tenesse scuola. E a dir vero, ancorchè non avessimo alcun monumento che ci provasse il contrario, la sola ragione dovrebbe bastare a persuadercelo. Perciocchè, se anche molte città che pur non aveano scuole per le più alte scienze, avean ciò non ostante i professori di gramatica; quanto più doveano esserne provvedute quelle in cui o tutte, o quasi tutte le scienze ci avean maestri? Ma oltre ciò abbiam già osservato che Arrigo da Settimello in Bologna avea coltivate le belle lettere verso la metà del XII secolo, e che Gaufrido aveale [p. 660 modifica]66o libro ivi insegnale al principio elei xm, e vedremo ancora tra poco che il medesimo Buoncompagno altrove ci assicura che altri professori di gramatica ivi furono innanzi a lui. Nè è maraviglia che non ci sia rimasta notizia di molti altri professori che ivi in somigliante maniera aveano insegnato. La giurisprudenza ecclesiastica e civile erano quasi l’unico oggetto dello studio e dell’ammirazion di que’ tempi. Delle altre arti non faceasi, in confronto di essa, gran conto; e i lor professori perciò non eran creduti uomini di cui montasse il conservare memoria. Ma a poco a poco anche le altre scienze salirono in pregio; e degli altri professori ancora si prese miglior concetto. Ed è probabile che Buoncompagno fosse uno appunto di quelli che cominciarono a levar maggior grido. II. Il primo a far menzione di questo illustre gramatico fu il Muratori, all’occasione del pubblicarne ch’ei fece la prima volta un libro da lui composto sull’assedio posto alla città d Ancona da Federigo I l’anno 1172 (Script. Rer. ital. vol. 6, p. 925). Al fin di esso l’autore ci dà notizia di se medesimo, dicendo: Suscipiat Ancona favorabile munus, quod sibi a Boncompagno amicabiliter exhibetur, cui Florenlia ded.it initium, et Bononia, nullo praeeunte Doctore , celebre incrementum. Or queste furono le parole che al Muratori diedero occasion di affermare che Buoncompagno fiorentino di patria era stato il primo professor di gramatica che avesse Bologna (in praef. ad Lib. de Obsid. Ancon. l. cit.). Nel che egli è stato seguito dall’ab. Lorenzo Mehus (Vita Ambros. carnald. [p. 661 modifica]terzo 6Gi p. 143) e dal co. Mazzucclielli (ScriU. ¡tal. t. 2, par. 4» p- 2368). Ma poichè è certo, come abbiam già dimostrato, che molto prima erano in Bologna professori di gramatica, è certo quindi che in altro senso si debbono intendere le arrecate parole; e io penso che il più verisimile sia che Buoncompagno senza l’aiuto di alcun maestro avesse coltivati in Bologna gli studi dell’amena letteratura; seppure non vo~ gliam credere che Buoncompagno avesse sì buona opinione di se medesimo, che volesse dire con ciò che non vi era alcun altro de’ professor bolognesi che gli andasse innanzi in sapere. Qualunque sia il senso di queste parole, Buoncompagno era certamente professore di gramatica a Bologna l’anno 1221 (a). Perciocché Rolandino scrittor di que’ tempi afferma di averlo ivi avuto a maestro in quell’anno stesso: apud Bononienses in scientia litterali nutritus in anno Domini MCCXXI illic a Buoncompagno (nel codice Estense leggesi Boncompagno) meo Domino et Magistro, natione et eloquentia Florentino, licet indignus recepi officium Magistratus (Script. Rer. ital. vol. 9, p. 314)• Della quale scuola , tenuta per molti anni da Buoncompagno , vedremo presto più altre pruove che mostreranno che anche alcuni anni prima avea ei cominciato a tenerla. Una lettera scritta dal celebre Pier (a) Il sig. Landi osserva ben giustamente che se Buoncompagno fin dal 1215 ebbe l’onore di veder coronata una sua opera dall’università di Bologna, come io ho poscia osservato al n. vi, più anni prima doven egli aver cominciato ad essere ivi professore (l. 1, p. 338 , ec.). [p. 662 modifica]66-2 LIBRO delle Vigne, in cui piange la morte di un professor di gramatica appellato Bene, ha fatto credere al Muratori e al Mehus che questi fosse il medesimo che Buoncompagno; se non che il Muratori credette ch’egli o avesse amendue questi nomi, o che dell’abbreviarsi il nome di Buoncompagno ne venisse l’altro nome di Buono o di Bene; il Mehus al contrario pensò che Buoncompagno fosse lo stesso che Buono o Bene figliuolo di Compagno. Ma tutte queste etimologie sono appoggiate a troppo debole fondamento; e noi mostreremo fra poco che Bene fu uomo totalmente diverso da Buoncompagno. III. Assai più ampie e più accertate notizie intorno a Buoncompagno abbiamo nella recente eruditissima Storia dell1 Università di Bologna tratte solamente della Cronaca di F. Salimbene che vivea a quella medesima età, e di cui abbiamo altre volte parlato. In questa Cronaca si danno a Buoncompagno i gloriosissimi nomi di gran maestro di gramatica e di dottore solenne (De Prof. Bon. t. 1, pars 2, p. 210). Ma insieme se ne raccontano fatti che alla memoria di questo celebre professore non son troppo onorevoli. Noi ne abbiam già favellato ove, parlando del celebre F. Giovanni da Vicenza (l. 2, c. 4), abbiam rammentato il ridersi che Buoncompagno faceva de’ miracoli che a lui udiva attribuirsi, il ritmo latino ch’egli in tal occasione compose, e il deluder che fece tutta Bologna , invitando a venir un giorno a vederlo a levarsi a volo per aria, e poi congedando l’immensa moltitudine accorsa, col darle la sua non troppo autorevole benedizione. [p. 663 modifica]TERZO 663 F Salimbeno a questo luogo gli dà un titolo troppo diverso da quelli che abbiam veduto poc’anzi: perciocchè il chiama grandissimo truffatore. Hic cum more.... trufator maximum esset. Aggiugne poscia che per consiglio de’ suoi amici andò Buoncompagno alla corte di Roma, volendo provare se, per l’eccellenza ch’egli avea nello scrivere, potesse esservi onorevolmente occupato; ma che non essendogli ciò riuscito, venuto a vecchiezza, trovossi in sì gran povertà, che fu costretto a finir miseramente la sua vita in uno spedale di Firenze. Forse in occasione di questo viaggio alla corte di Roma ei recossi ad Ancona, e vi si trattenne alcun tempo affin di scriver la Storia dell’assedio di questa città; ed egli nella prefazione di questa Storia accenna, benchè con qualche oscurità , che per motivo di essa egli avea sofferto un pericoloso naufragio presso Sinigaglia insieme con Ugolino Gosia, a cui dedica il libro stesso, allora podestà d’Ancona e nipote del celebre giureconsulto Martino Gosia, di cui abbiamo altrove parlato: Sed quaeso tandem timorosum naufragium, quod occasione hujus libri vobiscum juxta Senegalliam fui passus, media pars tituli et pars epistolae integraliter suppleat defectum (Script. rer. ital. vol. 6 , p. 927). Parole oscure, a dir vero, e che se non sono state guaste da qualche scrittore inesperto , non ci danno troppo favorevole idea dello stile di questo sì famoso gramatico. IV. Oltre la Storia dell’assedio di Ancona , nella quale ei si protesta di avere sfuggito ogni favoloso racconto, e di aver raccolte le più [p. 664 modifica]664 LIBRO accertate notizie da quelli che vi si eran trovati presenti, più altri libri ancora furono scri.ti da Buoncompagno. Uno n’ è stato trovato dal ch. P. Sarti nell1 archivio de’ Canonici di S. Pietro in Roma diviso in sei libri, e intitolato Forma Literarum Scolasticarum, di cui ci ha dati alcuni estratti (l. cit. p. 220). Nel titolo non si esprime il nome dell’autore, ma da varii passi: raccogliesi che egli è Buoncompagno , il quale più volte ci parla di se medesimo. Nella prefazione egli annovera undici altri libri da sè composti su diversi argomenti, i più appartenenti alla sua professione , ma alcuni ancora di materie morali, o legali. Non sia grave a’ lettori eli’ io rechi qui le parole stesse di questo scrittore: Libri, quos prius edidi, sunt xi, quorum nomina hoc modo specifico , et doctrinas, quae continentur in illis, ita distinguo. Quinque nempe salutationum tabule doctrinam continent salutando... regulas initiales ex... probatur. Tractatus virtutum exponit virtutes et vicia dictionum. In notulis aureis veritas absque mendatio reperitur. In Libro, qui dicitur Oliva, privilegiorum et confirmationum dogma plenissime continetur. Cedrus dat notitiam generalium Statutorum. Mirra docet fieri testamenta. Breviloquium doctrinam exhiber inchoandi. In Isagoge introductorie suntconscripte. Liber amicitiae XXVI amicorum genera pura veritate distinguit. Rota Veneris lascivium, et amantium gesta demonstrat. Il trattato poi da cui un tal passo ho trascelto , benchè s’intitoli Forma delle Lettere scolastiche, abbraccia nondimeno ogni altra sorte di lettere, e parla della maniera con cui [p. 665 modifica]TERZO G65 scriver si debbono da’ papi, da’ principi, da’ prelati, da’ nobili e da ogni altro ordine di persone. Io credo perciò che sia questa quell’opera stessa di cui il du Cange cita un codice ms. (App. ad Glossar, gr.), e che s’intitola Ars Dictaminis; e stralciati pure da essa io penso che siano e quel Liber de Ordinatione Dictionum artificiosa et naturali, e quello de Stilo Epistolari, che trovansi ne’ Catalogi de’ Manoscritti d’Inghilterra e d’Irlanda (t 1, p. 262 ,• t. 2 , p. 8- ,• De Prof. Bon. t. 1, pars 1, p. 510). Anche nella biblioteca del re di Francia troviamo di questo scrittore; Summa Dictaminis sex Libris comprehensa (Cat. Mss. Bibl. reg. t. 4 j cod. 8654), e un libro che forse è diverso da tutti i fin qui mentovati, intitolato Pratum Eloquentiae (ib. cod. 7751), il qual codice si dice scritto l’anno 1226. Finalmente è probabile che sia opera del! nostro Buoncompagno un libro intitolato: de Malo Senectutis et Senio ad Venerabilem Patrem Dominum et benefactorem praecipuum Ardingum Dei gratia Episcopum Florentium, di cui rammentasi un testo a penna dal ch. conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t.. 2, par. 4. p. 2368). Ardingo fu vescovo di Firenze dal 1230 fino al 1249 (Ughell. Ital. sacra t. 3. in Episc. Florent.); e forse Buoncompagno, allor quando fi}’ritorno a Firenze, come sopra si è dettof cercò con tal libro di ottenerne la protezione, o avendone ricevuto qualche beneficio, volle con ciò mostrarsegli riconoscente. V. Tutte queste opere di Buoncompagno ci fan conoscere che egli era uomo di mollo studio [p. 666 modifica]666 LIBRO e in varie scienze istruito. Ma ei non dissimula rii’ era invidiato e odiato da molti; il che dovea probabilmente avvenire non solo perchè suol essere oggetto d invidia un uomo che sopra gli altri si vegga innalzato , ma anche perchè ei dovea essere uomo a cui piacesse il motteggiare e il beffarsi d’altrui, cosa che tanto più spiace , quanto più riesce felicemente. Ne abbiamo pruove negli estratti del libro suddetto dal p Sarti dati alla luce (t. 1, pars 2, p. 9.21). Perciocché in essi Buoncompagno racconta che prima della sua venuta in Bologna erasi in quella città introdotto il costume che chiunque bramava di esservi professor di gramatica, mandava innanzi una sua lettera scritta con grande studio e colla più ricercata eleganza che fosse possibile, affin di farsi per mezzo di essa conoscere valente oratore. Jnte ad.ven.tum menni pnllularat in prosatoribus here.sis cancerosa, quod omnis, qui pollicebatur in prosa doctrinam exhibere, literas destinabat, quas ipse magno spatio temporis vel alius pictorato verborum fastu et auctoritatibus philosophicis exornaret, cujus testimonio probatus habebatur Orator. Possiam noi bramare argomento più convincente a mostrarci che prima ancora di Buoncompagno erano in Bologna professori di belle lettere? Siegue egli poscia a narrare che mostrando di non far conto di certi proverbii e di cotali maniere oscure ed intralciate di ragionare, che piacevano ad altri, era disprezzato e deriso qual ignorante dagli altri maestri; e eli’ egli perciò determinossi a confonderli solennemente. [p. 667 modifica]TERZO GG~ Finse egli adunque che venuto fosse a Bologna un certo eccellente oratore detto Roberto , e scrisse ei medesimo una lettera sotto il nome di questo eloquente straniero, con cui sfidava a una pubblica disputa Buoncompagno, vantandosi di volerlo costringere a vergognarsi della sua propria ignoranza. Gli altri maestri e i nemici di Buoncompagno appena ebber veduta tal lettera, cominciarono a farne elogi grandissimi, e a mostrare disprezzo sempre maggiore del povero Buoncompagno, il quale frattanto scrisse una lettera di risposta al finto Roberto, accettando la sfida che égli gli proponeva. Pertanto nel dì prefisso radunatisi nel tempio metropolitano tutti i professori e gli scolari dell’università di Bologna, vennevi ancor Buoncompagno, e si pose a sedere su un tribunale che perciò era stato innalzato. Ei rivolgevasi or ad uno or ad un altro, chiedendo quando sarebbe venuto il sì aspettato Roberto: e godeva nel rimirare i suoi nemici che non veggendol! venire, andavan dicendo che egli indugiava per qualche impedimento eli’era gli sopraggiunto, ma che fra pochi momenti sarebbe venuto. Ogni uomo non conosciuto ch’entrasse in chiesa, gridavano alcuni, Ecco, ecco Roberto. Ma Roberto non mai veniva. Buoncompagno dopo alcun tempo fingendosi annojato , Venga, esclamò, venga innanzi Roberto: egli ci ha qui invitati e poi si beffa di noi, come se fossimo tanti stolidi animali. Molti risposero che non v’era in tutta la chiesa Roberto alcuno. Allor finalmente levandosi Buonc ompagno , Eccovi, disse y il vostro Roberto: [p. 668 modifica]6G8 LIBRO io son quel desso: voi avete pensato di venire a veder Roberto , e siete venuti a veder Buoncompagno. Di che confusi e svergognati i nemici di Buoncompagno , se ne andarono mutoli; e i suoi amici ne fecer tal plauso, che levatolo sulle lor braccia il portarono come in trionfo a casa: invidi namque mei et alii cum summo ludibrio et pudore perpetuo recesserunt, et ego a dilectis meis fui super ulnas usque ad hospitium pre gaudio deportatus. Lo stesso giuoco ei si prese de’ suoi nemici P anno seguente; ma di ciò non hassi che un cenno negli estratti pubblicati dal P. Sarti; e perciò non possiamo saperne più oltre. Così in que’ tempi, che da noi diconsi barbari e rozzi, la letteratura accendeva nel comune degli uomini un cotale entusiasmo, di cui ne’ tempi più colti non troverassi sì facilmente esempio. VI. Ma niuna cosa ci mostra meglio qual fosse la stima che aveasi di Buoncompagno, quanto il solenne onore che fu renduto all’opera da lui composta, di cui abbiam parlato finora. Egli stesso al fin di essa ce ne ha lasciata memoria con queste parole: Recitatus equidem fuit hic liber, approbatus, et coronatus fuit lauro Bononiae apud S. Joh. in Monte in loco, qui dicitur Paradisus , anno Domini MCCXV septimo Kal. April, coram Universitate Professorum Juris Canonici et Civilis, et aliorurn D odorimi Scoi ariani multi indine numerosa. Ed ecco, s1 io non m’inganno, la prima sicura menzione che dopo il rinnovellamento degli studi s’incontri di corona d’alloro, di cui fu onorato non già l’autore, ma il [p. 669 modifica]terzo 66g libro medesimo. Abbiamo altrove parlato di quel Pacifico che dicesi pel poetico suo valore coronato da Federigo II, ma sembra da ciò che abbiamo ivi detto, che quel fatto accadesse qualche anno più tardi. Il monumento che qui abbiamo recato , pare che ci indichi la prima origine di quell’onore che vedrem poscia ne’ secoli susseguenti accordato più volte a’ più illustri poeti. Nè in Bologna soltanto, ma in Padova ancora fu il libro di Buoncompagno ricevuto con plauso e approvato solennemente dodici anni appresso. Item, così continua e conchiude Buoncompagno il suo libro, datus et in commune deductus fuit Paduae in majori Ecclesia, in presentia Domini Alatrini Summi Pontificis Capellani, tunc Apostolice Sedis Legati, Venerabilis Jordani Paduani Episcopi, Ciaf redi Teologi, Cancellarii Mediolanen., Professor. Juris Canonici et Civilis, et omnium Doctorum et Scolarium Paduae commemorantium sitino Domini MCCXXVII ultimo die mensis Martii. Se Buoncompagno fosse vissuto tre o quattro secoli appresso, e avesse usato scrivendo di quello stile medesimo di cui usò ne’ suoi libri, ei sarebbe stato ben lungi dal conseguir tali onori. Ma allora ei potea sembrare un uomo coltissimo , quando era sì scarso il numero di coloro che sapessero scrivere in qualche modo latinamente. Quando ei morisse, nol possiamo accertare. Ma al vedere eli’ egli era professor già famoso in Bologna l’anno 1215 in cui il suo libro fu coronato, e che l’anno 1233 era ancora in Bologna, comesi raccoglie dal fatto di F. Giovanni da Vicenza, [p. 670 modifica]67O LIBRO si reude probabile che non molto dopo egli intraprendesse il sopraccennato viaggio di Roma, che fu poi seguito dalle sinistre vicende che sopra abbiam riferite (*). VII. Alcuni altri professori di belle lettere veggiam nominati nella mentovata Storia delf Università di Bologna, e onorati col titolo (*) Alcune altre belle notizie intorno alla vita e alle opere di Buoncompagno ci dà un codice del secolo xiv della libreria di S. Giovanni in Verdara di Padova , di cui ini ha comunicata la descrizione il eli. sig. D. Jacopo Morelli. Esso comincia: Incipit Prologus novissimae Reetorichae. In libro, <que ni appellavi meo nomine Boncompagnus, et in Epistolari stj-lo haeredem instituí priueipalem , sponte promisi, et me naturaliler obligas ì, <7 uod ad inveniendum novi ssi mam Rhetoricam laboraran. Unde ipsam incept Venetiis juxta pt omission’s foedera perirne tare. Cani autem essati postea negli gens in compiendo, Venerabili* Pater Nicolaus Episcopus Reginas, qui nobilis est genere, nobil’or moribus, curi al is ad ornnes, in colidianis usibus liberalis, refnrmator pacis, et in conspeotu principian gratiosus, me non pro sua sed pro studentium utili tate saepius hortabatur, qitod non tleberem inchoatum opus relinquere imperfectum. Unde Itane Rlu toricam Bottoniae consumavi, qnae in praesentia Venerabilis Ilenrici Bononiensis Episcopi, Magistri Tancredi Archid’aconi et Cancellarti, Capituli et Cieri Bnnoniensis , et in praesentia Doclorum et Scoiamoti Bonpniae commoraruium in majori Ecclesia solemnis recìtationis meruit gloria decorat i. L’opera è divisa in quindici libri, e contiene un intero trattato di Reltorica. Alla line di esso si leggono le seguenti parole: Farla est haec Rhetorica tìunoniae anno Domini millesimo ducentésimo tricésimo quinto indictione octava per marnati Boncotnpagaì Oraloris, qui fait iiatus in Castro, quod dicitur Signa France, et distai a florida Civilate Florentine per sepiem mtlliaria; nam castrimi illud situut est inter quatuor /lumina, et duos pontes lapídeos, unde propter aquartun decursus el copiani olivarían indesignabili esc amoenilale dolatum. [p. 671 modifica]TEllZO C>71 di dottori in gramatica, la qual voce, come più volte abbiamo osservato, comprendeva allora generalmente l’amena letteratura. Tali sono quel Gherardo da Cremona, diverso dall1 astrologo di questo nome, altrove da noi rammentato, che in un contratto dell’anno 1268 si obbliga ad insegnar la gramatica a un certo Ademaro di Tebaldo , e a prestargli que’ libri di cui nella scuola facea di bisogno, e a dargli stanze e vitto secondo il costume degli scolari pel corso di un anno pel prezzo di 23 lire bolognesi (De Prof. Bon. t. 1, pars 1, p. 514); e Buono da Lucca e Gherardo da Amandola che col medesimo titolo di dottori in gramatica si trovano nominati verso il 1280 (ib. p.512); e quel Bertoluccio di cui presso il dottissimo P. ab. Trombelli conservavasi manoscritta un’operetta gramaticale, il fin della quale così si legge: Expliciunt flores veritatis grammatice compositi a Magistro Bertolutio fratre Magistri Guizzardi bononiensis, qui in partibus omnibus Lombardie quam Tuscie Doctor Doctorum in grammatica reputatur (ib. p. Si4)- Questo sì grande elogio ci farebbe credere di leggere che Bertoluccio fosse il più elegante gramatico del mondo. Ma i dotti autori della Storia dell’Università di Bologna confessano sinceramente che questi suoi fiori non hanno nè grazia nè soavità alcuna, come in fatti si vede in un saggio eli’ essi ne han pubblicato (ib. pars 2 , p. i(i4). Gli stessi autori però non parmi che qui abbian serbata la solita loro esattezza; perciocchè a questo luogo dicono che il Bertoluccio gramatico è a lor parere lo stesso cbe 1’autore di [p. 672 modifica]672 LIBRO un trattato di Sfera da essi mentovato tra’ professori filosofi. Ma parlando di questo, essi attribuiscono e il trattato di Sfera e i Fiori gramatici a un Bartolommeo (ib. pars 1, p. 4i)4 5 ec-)Egli è ben vero che Bertoluccio e Bartolommeo son forse lo stesso nome; ma sarebbe stato opportuno che di ciò avessero fatto un cenno, o recata qualche pruova. VID. Era pure al tempo medesimo in Bologna un altro celebre professore di gramatica, di patria bergamasco, detto Bonaccio, di cui nulla sapremmo, se i monumenti bolognesi esaminati da’ dottissimi autori della Storia di quella Università non ce ne avessero conservata memoria. Da essi, come questi scrittori affermano (ib. p. 512), si raccoglie che Bonaccìo venuto in età giovanile a Bologna negli studi delle belle lettere fece sì felici progressi, che lasciossi di gran lunga addietro i più illustri professori. Quindi, salita la cattedra, insegnò con sì grande applauso, che niuno vi ebbe in quel secolo , che in ricchezze e in onore lo pareggiasse. Ma forse annojato della fatica scolastica, l’anno 1291 tornossene a Bergamo. Qual fosse il dolore che per la partenza di lui soffrirono i Bolognesi, il dà a vedere la lettera che il podestà Antonio di Fussiraga, il capitano Andrea Maggi, gli anziani, i consoli e il Consiglio del Comun di Bologna gli scrissero a’ 16 di aprile dello stesso anno, con cui istantemente il pregano che non voglia lasciar deserte le loro scuole, nelle quali con tanto suo onore e vantaggio era stato allevato fin da’ più teneri anni; esser continui e gravi i lamenti degli scolari e [p. 673 modifica]TERZO 6^3 de’ cittadini che di nuovo il richieggono; non esser conveniente ch’egli amato sempre da’ Bolognesi come loro concittadino, e che avea sempre rimirata Bologna come sua patria e sua madre, l’abbandoni in tal modo, poichè è certo che s’ei non ritorna , gli studi delle belle lettere ne soffriranno danno gravissimo; gli promettono ricompense ed onori, quanti bramar ne possa; e aggiungono che, se egli il vuole, sarà libero dalla fatica del far da scuola; che ad essi basta ch’egli la regga col suo consiglio , e che a’ giovani mostri la via per cui giugnere all’eloquenza. In somigliante maniera essi scrissero ancora al podestà e a’ magistrati di Bergamo, perchè inducesser Bonaccio a tornare a Bologna; e amendue queste lettere si conservano ancora nell’archivio della città di Bologna, come affermano i suddetti scrittori, i quali promettono di pubblicarne la prima nel1 Appendice alla loro Storia. Ma per quanto io abbia più volte corsa tutta questa Appendice, non vi ho potuto trovare la lettera a questo luogo promessa. Ci dee però bastare l’assicurarci ch’essi fanno di averla letta, perchè possiamo ad essa appoggiare ciò che detto abbiamo di questo professor sì famoso; il quale nondimeno io credo che non sarà stato molto migliore di Buoncompagno e degli altri di questo secolo, in cui gli elogi che troviam fatti degli scrittori di amena letteratura, voglionsi sempre intendere con qualche moderazione, proporzionandoli alla comune ignoranza della maggior parte degli uomini. Ma ritornando alle istanze dei Bolognesi per riaver Bonaccio, non Tikabosciu, frol. IF~. /,3 [p. 674 modifica]6^4 LIBRO par ch’esse avessero il bramato successo, perciocchè, come gli scrittori medesimi provano col testimonio di Giovanni d’Andrea ch’era stato scolaro di questo professore, e con quello del Diplovatacio, egli fu poi fatto prete e canonico nella sua patria. Benchè, come essi stessi riflettono , nelle edizioni dell’opera di Giovanni d’Andrea ei chiama il suo maestro non Bonaccio, ma Bonifacio, e dice ch’ei gli predisse che sarebbe divenuto dottore. Troppo grande però è la somiglianza tra questi due nomi, ed è verisimile che con amendue s’intenda un medesimo personaggio. IX. Abbiam poc’anzi accennato che non dee confondersi con Buoncompagno, come han fatto il Muratori e il Mehus, un altro illustre professore di gramatica, e anch’egli fiorentino di patria, detto Bene. Gli autori della Storia dell’Università di Bologna han pubblicato (t. 1, pars. 2, p. 164) il giuramento con cui egli si strinse l’anno 1218 a quella università, promettendo , come faceano ancora i professori di legge, di non adoprarsi giammai perchè quello studio altrove si trasportasse; d’impedire ancora che ciò da altri si facesse, o almeno di darne avviso al podestà di Bologna, e di non tenere mai scuola altrove, trattone quando egli fosse innalzato in Firenze agli ordini sacri, nel qual caso voleva che gli fosse lecito l’insegnare a’ cherici di quella chiesa a cui fosse ascritto. Fino a quando ei continuasse a tenere scuola, non ne troviamo indicio. Abbiam bensì una lettera scritta , quand’ei morì, da Pier delle Vigne; ma, come tutte le altre lettere di questo [p. 675 modifica]TERZO 6^5 scrittore, essa non ha data: anzi parrebbe che ella fosse scritta per tutt1 altri, clic per Bene. Perciocchè nel titolo si legge: Literae consolationis missae Scolaribus de morte Magi siri li cridtardi (Epist. l. 4> c. 7); al qual luogo, il più recente editore, Iselio avverte che dee leggersi Benedicti. Ma, come ottimamente riflettono gli autori della Storia dell’Università di Bologna (pars 1, p. 13), la lettera stessa chiaramente cHuostra che il professore, la cui morte si piange, non era nè Bernardo, nè Benedetto, ma Bene; perciocchè Pietro di lui parlando, dice ch’egli non ab infimo positivo, sed superlativo nomen meruit derivari, le quali parole non avrebbono alcun senso, se ei s’appellava Benedetto o Bernardo; ove al contrario, s’ei dicevasi Bene, s’intende tosto che Pietro vuol con ciò dire eli’ ei meritava di trarre il nome non dal positivo bene, ma dal superlativo ottimo. In fatti aggiungono i medesimi autori che in due codici di dette lettere chiaramente leggesi Bene. Le lodi che Pietro in (questa lettera dà a Bene, son tali che di un V arrone non sarebbesi detto altrettanto; anzi, con troppo poco rispetto alle cose sacre, ei non teme di paragonarlo allo stesso Mosè: quasi de culmine montis Sinai alter Moyses legifer a Deo et non ab homine sibi scriptam Grammaticam hominibus reportavit. Ma è degno singolarmente d’osservazione che qui si afferma che Bene nell’esercizio stesso del fare scuola perdè la vita: a mane usque ad vesperas clamavit sicut pullus hirundinis, et docendo desiit, et ut columba meditatus est ponendo animam pro scholaribus, [p. 676 modifica]X. Galeotto 0 Guido!to traduttore della Rettorie.» di Cicero7.1 ORO et (tocnit desinendo. Il che, ancorchè ci mancassero altri argomenti, basta a mostrarci cli’ei w / fu diverso da Buoncompagno, il quale abbandonò la cattedra di Bologna, e andò a finire i suoi giorni in uno spedal di Firenze. Osservano finalmente i sopraccitati autori che questi probabilmente è quel medesimo Bene che in una carta del 1226 vien nominato col titolo di cancelliere del vescovo di Bologna (*). X. L’ultimo tra’ professori di gramatica che si annoverano nella Storia dell’Università di Bologna (ib. p. 515), è F. Galeotto o Guidotto, di cui però essi confessano che non si reca certo argomento a provare che fosse della nobil famiglia de’ Guidotti bolognesi 5 e io aggiungo che niun indicio essi ci danno ch’ei tenesse scuola in Bologna. Essi ne fanno menzione solo, perchè ei recò in lingua italiana i libri rettorici di Cicerone, della qual versione avendo veduto un codice a penna nel convento dell’Annunziata dell’Ordine de’ Servi di Maria in Firenze, i pp. Quetif. ed Echard ne fecero menzione (Script. Ord. Praed. t. 1, p. 906), senza però affermare ch’ei fosse dell’Ordin loro , e solo dicono che sembra ch’egli vivesse prima del 1400 Dalla incomparabile esattezza del p Sarti noi avremmo probabilmente avuta qualche distinta contezza di un tal traduttore, (“) Di questo maestro Bene è lavoro probabilmente >in’opera rns. che si conserva in Venezia nella libreria de’ PP. Domenicani de’ SS, Giovanni e Parilo, che comincia Incipit stimma perirete Jictandi a Doctore, (fui Bonuni dicitur, ordinala. Anche di ciò io debbo la uolizia al sopialJodato sig D. Jacopo Morelli. [p. 677 modifica]tf.rzo G77 s1 egli ai esse pollilo condurre la sua opera a fine. Proc’jureretn dunque di supplire, come meglio ci verrà fatto, a ciò che questo dotto scrittore non ha potuto; perciocchè essendo questa, per quanto io credo, la più antica versione di qualche opera di Cicerone, e uno de’ primi libri che siano stati scritti in prosa italiana, merita di essere con qualche diligenza illustrata. La prima edizione che di essa siasi fatta, è del 1478, ed è intitolata: Rettorica nuova di M. Tullio Cicerone traslatata di latino in volgare per lo ex indo Maestro Galeotto da Bologna (Argelati Volgarizzat, t. p. 261), dietro alla qual edizione più altre poi son venute, il cui catalogo si può vedere presso l’Argelati Argelati (e.; t. 1, p. 2 59, ec.; t. 5, p. 452), in una dissertazione del P. Paitoni (Piace, di Opnsc. t. 44 j et aP- -drgelali l. cit. t. 3, p. 290), e nelle note del ch. Zeno al Fontanini (t. 1, p. 122). Or qui è ad avvertire primieramente che questa, che s’intitola Rettorica nuova, non è altro finalmente, come osserva il P. Paitoni il quale con diligenza 1 ha esaminata. che un compendio de’ libri de Inventione di Marco Tullio. In secondo luogo vuolsi riflettere che in questa più antica edizione il traduttore chiamasi semplicemente maestro Galeotto da Bologna, e così pure si legge in qualche altra antica edizione. Al contrario in tre codici mss. che si rammentano dall’Argelati (t. 1, p. 231; t. 5, p 45-3)» di questo volgarizzamento si fa autore F. Guidotto da Bologna. Questa diversità di titolo e di nome io credo che d terminasse Ovidio Montalbani, il quale l’anno 1658 ne procurò in [p. 678 modifica]678 LIBRO Bologna una nuova edizione, a togliere ogni questione , e ad unire insieme amendue i nomi; perciocchè egli la intitolò: Retorica volgare Ciceroniana del Cavaliere Fra Galeotto Guidotti Nobile Bolognese. Il Montalbani però volle persuaderci di aver tratto un tal nome dalla più antica edizione di cento ottant’anni, cioè del 1478, e di aver preso da essa il titolo seguente. Comincia la elegantissima doctrina de lo cxcellentissinio Marco Tullio Cicerone chiamata Retorica nova traslata di latino in volgare per lo eximio Maestro de l’arti liberali Fra Galeotto Guidotti Nob. Cav. da Bologna f anno del Signore 1257. Que’ che hanno veduta l’antica mentovata edizione, non vi han letto un tal titolo; e ci assicurano che l’autore non con altro nome si chiama, che di maestro Galeotto da Bologna. E mi sembra probabile assai che i due nomi di Galeotto e di Guidotto non sien già nomi diversi, nè prenome l’uno, l’altro cognome; ma che per error de’ copisti siasi cambiato l’uno coll’altro, senza però che vi abbia argomento bastante a decidere se il vero nome sia Guidotto, o Galeotto. Ben sembra certo che egli scrivesse questa sua traduzione l’anno 1257, o non molto dopo; perciocchè, oltrechè ciò si afferma nel passo da noi poc’anzi citato, vedesi ancora in alcuni codici la dedica eli’ egli ne fece a Manfredi re di Sicilia (Mehus Vita Arnbros. camald. p. 157; Paitoni ap. Argelati Volgarizz. t. 2, p. 293). Se poi Guidotto era veramente, come nel passo medesimo si asserisce, nobile cavaliere, è probabile assai ch’ei fosse dell’Ordine de’ Frati Gaudenti, che allor [p. 679 modifica]fioriva in Bologna. In fatti fab. Melitis afferma (l. cit. p. 4^8) die in un codice tuss. di questa versione Gnidotto è dipinto con veste bianca;, e con manto di color cinericcio e questo appunto era l’abito dell’Ordin suddetto (Helyot Hist. des Ordr. relig. t. 4j P- 4-">7)■ Vuoisi avvertire per ultimo che non dee confondersi, come alcuni han fatto, questa traduzione di Tullio colla Rettorica di Brunetto Latini, di cui parleremo fra poco, che è opera interamente diversa (a). \I. I professori gramatici dell’università di Bologna ci hanno finor trattenuti. Più presto ci spediremo da quelli dell’università di Pa- ” dova, giacché altro non possiam fare che valerci di ciò che ne han detto gli storici di essa, i quali, come più volte ci siam doluti, non sono stati troppo solleciti di tramandarcene copiose ed esatte notizie. Il più antico tra’ grammatici padovani, di cui il Facciolati faccia menzione (Fasti Gymn. patav. pars 1.p. 111), è un certo Arsegnino. In fatti lo Scardeoni, scrittor padovano del secolo xvi, citato anche dal ch. conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2), afferma di aver veduto un assai antico codice in cui (17) Minute eil esatte notizie intorno a’ rodici e alle edizioni di questa Rettorica ci ha date il sig. d. Francesco Alessio Fiori, il quale confessa che non v’ha fondamento ad annoverar Galeotto fra’ professori della università di Bologna (Fanluzzi, Scritt. bolngn. f. 4t p. 337, ec.). Ei crede che Galeotto fosse vei amente della famiglia de’ Guidotti. E che il potesse essere, non può negarsi. Ma che il fosse veramente, a me non sembra ancora provato abbastanza. Ma non giova il trattenersi sa ciò disputando. XI. Gramntiin Pado [p. 680 modifica]68o LIBRO si contenean precetti intorno all’arte di dettare, cioè di scrivere, da Arsegnino pubblicati l’anno 1216. Non abbiamo ragione alcuna per rivocare in dubbio l’autorità dello Scardeoni. Ma non si può ammettere così facilmente ciò che pensa il Facciolati, cioè che Arsegnino sia lo stesso che quel maestro padovano che nomineremo or ora, e ch’era professore l’anno 1262; perciocchè s’egli teneva scuola, ed era in istato di pubblicar libri fin dall’anno 1216, sembra difficile che per 46 anni ancora continuasse in quell’esercizio. Nel passo della Cronaca di Rolandino già da noi prodotto a suo luogo, ove si rammentano i professori che intervennero alla lettura di quella Storia, e solennemente approvarono l’anno 1 262 , si nominano ancora i professori di gramatica e di rettorica: Magister Rolandinus, Magister Morandus, Magister Junta, Magister Dominicus, Magister Paduanus, Magister Luchesius in Grammatica et Rhetorica vigiles et utiles Professores. Ma di tutti questi professori, se traggasene Rolandino, ch’io credo certo che sia il medesimo storico, come sospetta ancora lo stesso Facciolati (l. cit. p. 12), giacchè sappiamo ch’egli avea ricevuta in Bologna la laurea gramaticale, di tutti gli altri, io dico, non trovasi alcun’altra notizia. Il Facciolati pensa che quel mastro Domenico sia il poeta Montenaro, di cui abbiam poc’anzi parlato. Ma non veggo qual pruova, o qual monumento egli ne rechi. Questo scrittor medesimo fa menzione di Bonincontro da Mantova, di Guizzardo e di maestro Giovanni, i quali egli dice che da Albertino Mussato si chiamano [p. 681 modifica]TERZO 68 I professori di gramatica. Ed è vero che il Mussato ne fa menzione ne’ suoi poemi (ep. 13, 14 » i5), de’ quali ragioneremo nel tomo seguente. Ma niun’altra notizia ce ne somministran gli storici padovani, e mi rimane il dispiacere che per mancanza di storie e di monumenti io non possa dare un lume alquanto maggiore alle glorie di questa per altro sì celebre università. XII. Più scarse ancora son le notizie che de’ gramatici dell’università di Napoli ci son rimaste; e l’unico monumento che ne abbiamo , è una lettera di Pier delle Vigne (l. 4, c- 8) da lui indirizzata a’ professori di essa: Sedentibus super aquas amaritudinis , et in salicibus organa suspendentibus Neapolitani studi Doctoribus Universis. In questa lettera ei piange la morte di un professor di gramatica, che è indicato colla sola lettera iniziale G., e descrive il dolore da cui perciò era quella città travagliata. Grammaticorum eximius consocius noster et confrater Magister G ab oculis nostris pertransiit velut umbra, imo evanuit. Ad cujus transitum studi Partenopensis obscuratus est Sol, et Luna versa est in Eclipsim. Quindi prosiegue a dire che la Gramatica non avea peranco asciugate le lagrime sparse per la perdita di un altro professore morto non molto prima; con che.sembra che voglia alludere alla morte del fiorentino Bene, di cui parla nella lettera precedente da noi mentovata poc’anzi, e aggiugne che questi era stato scolaro del primo, e che contro l’ordine della natura il discepolo era morto innanzi al maestro. Questa lettera stessa vedesi inserita tra quelle [p. 682 modifica]XIII. Akri io altra città. 682 unno di Pietro di Blois (ep. i54), poiché, come altre volte abbiamo osservato, a lui sono state per errore attribuite alcune lettere che sono veramente di Pier delle Vigne, ed ivi vedesi chiaramente espresso il nome di questo gramatico, cioè Gualtero (*). Di lui però, nè di verun altro professore di questa università, non abbiamo alcuna particolare contezza. XIII. In somigliante maniera le altre università e le altre pubbliche scuole doveano avere i loro proprii professori di gramatica. Così nel monumento da noi altrove accennato dell’erezione dell’università di Vercelli veggiamo espressi due professori di quest’arte; ed è verisimile che ogni città ne avesse alcuni i quali almeno insegnassero a’ fanciulli i primi elementi gramaticali (a). Ma non sappiamo di alcun tra essi (’) li Gualtero gramático qui nominato è quegli probabilmente di cui nella libreria di S Salvadore in Bologna si ha un codice nis. col titolo: Speculum Artis Grammatieae. L’autore ivi è detto Gualtcrius Oscular, ma forse dee leggersi Guaherius Esculanus. E io non so se quest’opera sia diversa da quella che conservasi nella libreria Nani in Venezia, e che è intitolala Gttalterii Esculani Dedi gnomi um Linguae Latinae, e fu da lui cominciata iu Bologna nel 1229, e compiuta poi in Napoli (Codio. MSS. Bibl. Nan. p. 160). (a) Un professore di gramatica in Modena, da niun finor rammentato, ci si scuopre in un codice posseduto dal ch. sig. D. Jacopo Morelli che cortesemente me ne ha comunicata la notizia. Egli è un certo Boto da Vigevano , che qui insegnava nel 1234, e di lui è un opuscolo nel detto codice contenuto, che secondo l’uso di quel secolo s’intitola Liber Dictatoriae facultatis. Ecco com’egli con un’eloquenza di nuovo genere comincia il suo libro: Si mihi altitonans Jesus Chris tus [p. 683 modifica]TERZO 683 che si rendesse famoso o col metodo d’insegnare, o con libri dati alla luce. Noi dunque, lasciando ormai di parlare de’ professori , passeremo a dire d’alcuni pochi che questa scienza medesima illustrarono co’ loro libri. XIV. Abbiamo già favellato, parlando degl’interpreti del Diritto canonico, di Uguccione pisano vescovo di Ferrara, e abbiamo ivi accennato che fra le altre sue opere egli scrisse ancora un Lessico a somiglianza di quello che cent uni lingua* ferreas triburssel, et caelutn in cartulam se mutaret, a’ que mare in atramentum penitus vcrleretur, ac dcc.urrcrel manns mea velul lepusculus Jrgiti vus , vobis dicta’ .oriae [acuitati* bonitatem pienins expriniere nuruquam possem.... Ego Dotus de Veglevano hurnilis professor dictarninis vocitntus liunc libellula ili secretano cordis mei variis floribus eloquentiae lubricavi; e siegue dicendo di avervi inseriti documenti ed esempi Mag/stri mei Da!pii;ni elegantissimi Oratoris, ac Venerabilis Doncompagni f cujus fama jam implevit spatium orbis tcrrae. Alla fine poi così leggesi: Anno Nativitatis Domini nostri Jrstt Christi millesimo durentesimo trigesimo atque quarto fuil fabricntus Marinar siquidem iste liber, asperitate illius algoris acutissimi eo tempore imminente, qui nives ac brumas flundifluas undique deportabat, congelando Padum et alia flumina universa , ni si ea quae a fontibus emanabant, ita quod super glacicm fluviorum valcbanl cuncta transire. animalia suo pede. linde propter immens’tateni predirti frigoris in plani tieni perdurantis omnes fere vites, nuces, castaneae ac albores olivaruni sant in Italia evidenti us arefaclae. Et quod etiam mirabilius est auditu, multi lapides et arborum diversa per medium suiti conscissi. Prqfecto eodem anno in Aprili datus est iste liber scholaribus ad srribendum; quia sieut Aprili.t diversi* floribus inter alias menses mirifice commendatur, sic iste liber ex variis floribus eloquentiae relucescit; quare posset merito liber Eloridus nuncupari. XIV. Opere gram.it ira li Hi UgUrdone vncovo di Ferrara. [p. 684 modifica]684 LIBRO Papia uvea già compilato, intitolandolo Derivazioni. Ne fa menzione Riccobaldo nel suo Pomario (Script, rer. ital. vol. 9, p. 116): Per haec quoque tempora Hugucio Episcopus Ferrariensis librum Derivationum composuit E nella Compilazion Cronologica , a lui attribuita, più chiaramente si dice (ib. p. 246) die egli scrisse quest’opera quando essendo stato dal pontefice assegnato coadiutore dell’abate di Nonantola, uomo prodigo ed indegno di quella dignità , trovò in quel monastero l’opera di Papia, e di essa si valse a formare la sua (a). Essa però anche a que’ tempi , in cui ogni opera ancor mediocre era ammirata, non fu avuta in gran pregio, e Francesco Pipino nella sua Cronaca ne ragiona come di libro non troppo esatto (ib. p. 635): Hugucio Pisanus Episcopus Ferrariensis per haec tempora illustris habetur, qui librum Derivationum utiliter digessit, non tamen ubique veracem seu omnino perfectum. Esso non è mai stato dato alle stampe; ma alcuni codici se ne conservano scritti a penna, e il du Cange ne ha pubblicato qualche passo (praef. ad Glossar, med. et inf. Latin.) che poi è stato ripetuto ancora dal ch. P. Sarti (prof. Bon. t. 1, pars 1. p. 301). L’onore di venire alla luce è toccato a un altro scrittore, che dopo Uguccione entrò nella stessa carriera, e potè perciò col giovarsi delle (a) Delle cose operate del vescovo Uguccione per riformar la Badia di Nonantola , tratta quasi a rovina dall’\bate Bonifacio, abhiain parlato a lungo nella Storia di quella Badia. Veggasi anche intomo ad esso la nota posta a pagina JaS. [p. 685 modifica]TERZO (585 fatiche da lui fatte, come Uguccione si era giovato di quelle di Papia, darci un’opera, non dirò più perfetta, ma almen più copiosa. XV. Fu questi Giovanni Balbi genovese dell’Ordine dei Predicatori, di cui abbiamo alle stampe un Lessico da lui intitolato Catholicon ossia Universale, uno de’ primi libri che dopo l’invenzion della stampa si pubblicasse, e che è perciò più di ornamento alle insigni biblioteche , che di utile agli studiosi della lingua latina. Il più antico autore, in cui io abbia trovata notizia di questo scrittore, è Giorgio Stella autore degli Annali di Genova ne’ primi anni del secolo xv, il quale parlando dell’etimologia del nome della sua patria, reca quella fra l’altre del Balbi, il qual la traeva dall’esser quella città in un certo modo la porta della Lombardia, della Toscana e della Provenza: Memini super expositione vocabuli Januae civititatis Johannem Balbum Genuensem Ordinis Praedicatorum tenere, quod haec civitas a Porta dicatur, non tamen a Jano; qui fuit cum praemisso Jacopo de Varagine ejusdem temporis, ejusdemque Ordinis, atque patriae. Cujus opinio, quod a Porta dicatur, libro suo multi voluminis valdeque utilis Grammaticae disciplinae per varias ideo partes orbis diffuso, quem explevit anno Christi Jesu Nativitatis MCCLXXVI, quemque vocat Catholicum, quod Universale significat, est hac forma notata (Script. rer. ital. vol. 17, p. 960). E siegue recando il passo dello stesso Giovanni, al fin del quale dice ei medesimo di esser natìo di questa città: Hujus civitatis oriundus fuit compilator praesentis [p. 686 modifica]686 LIBRO libelli. Abbiain dunque certa notizia e della patria e dell’età e della famiglia di questo autore , il quale al dire di Agostin Giustiniani (Ann. genuens. l. 4) visse fin al 1298. Egli nel passo sopraccitato nomina ancora due altre opere da sè composte, cioè un dialogo De Quaestionibus animae ad spiritum, e un libro intorno al modo di ritrovare il giorno di Pasqua. Di queste e di alcune altre opere che a lui da alcuni si attribuiscono, noi non faremo parola, rimettendo chi più voglia saperne a’ PP. Querif ed Echard (Script. Ord. Praed. t. 1, p. 462), e all’Oudin (De Script, eccl. t. 3, p. 577), il quale avea già confuso Giovanni Balbi con Jacopo da Voragine, ma conobbe poi e ritrattò il suo errore. Noi ci tratterrem!! brevemente su quella che sola è venuta in luce , cioè sul suo Catholicon. Alcuni, citati da monsignor Gradenigo (Della Letter. greco-ital. c. 9, § 6), han data a Giovanni la taccia di plagiaro. Ma perchè mai far reo di furto un autore il quale modestamente confessa di non aver fatto altro che compilare i libri altrui? Ecco com’egli termina il suo: Immensas ornili potenti Deo, Patri, et Filio, et Spiritui Sancto gratiarum referimus actiones r qui nostrum Catholicon ex multis et diversis Doctorum texturis elaboratum atque contextum licet per multa annorum curricula in millesimo ducentesimo octuagesimo sexto anno Domini Nonis Martii ad finem usque perduxit. Poteva egli protestare più sinceramente di non voler la lode d’autore, ma quella solo di diligente compilatore? Qualche cosa nondimeno egli aggiunse alle opere degli [p. 687 modifica]TERZO 68^ scrittori che Paveano preceduto, come si può conoscere al paragone. Non è un sol semplice vocabolario l’opera di Giovanni, ma egli vi ha aggiunto ancor la gramatica, e qualche ammaestramento di rettorica, e perciò le diede il nome di Universale, perchè abbracciava tutto ciò che a parlare e scrivere coltamente credeasi allora bastante. S’ei sapesse di greco, l’abbiam cercato altrove, e abbiam mostrato che questa sua opera non è argomento sufficiente a provarlo. Ella, come già si è accennato , è divenuta celebre singolarmente per l’antichissima edizione fattane in Magonza l’anno 1460, di cui si può vedere un’esatta descrizione presso M. de Bure (Bibliogr. instruct. t. 1, Bel. Letti p. 58). Più altre edizioni nello stesso secolo e nel seguente l’han poscia seguita, che si annoverano dal ch. co. Mazzucchelli (Scritti ital. ti 2. par. 1), finchè le opere tanto migliori in questo genere pubblicate 1’ han fatta dimenticare, e altro pregio non le han lasciato che quello di servire di ornamento alle copiose e splendide biblioteche. M. Bayle ha impiegato un articolo del suo Dizionario a trattare del Balbi, in cui volendo raccogliere insieme e confutare tutti gli errori che da molti si son commessi nel ragionarne, sembra aver piuttosto oscurate che rischiarate le cose. XVI. Più ampio e più illustre argomento prese a trattare, e ottenne perciò maggior fama, Brunetto Latini, che è l’ultimo scrittore dell’arte di ben parlare, di cui dobbiam qui fare menzione, e che è degno che se ne esaminino con qualche particolar diligenza la vita non meno [p. 688 modifica](»88 LIBRO che le opere. Filippo Villani ne scrisse in latino la Vita tra quelle de’ Fiorentini illustri, e noi l’abbiamo nell’edizione che sulla traduzione italiana ne ha fatta il co. Mazzucchelli (Vite d Uomini ili. fior. p. 55, ec.). L’abate Mehus si duole che questa versione sia lacera e mutila (Vita Ambros. camald, p. 152); ma il passo ch’egli qui ne reca, tratto dall’originale latino, è così conforme alla versione, ch’io non vi scorgo la menoma differenza. Ei reca inoltre la Vita che di Brunetto scrisse Domenico di Bandino d’Arezzo contemporaneo del Villani, il quale pure trattò degli Uomini illustri , e spesso in maniera e con espressioni sì somiglianti a quelle che leggonsi nel Villani, che non si sa chi debba credersi autore, e chi copiatore. Il Mehus ha troncato qualche passo di questa Vita, che è poi stato prodotto dal P. Sarti, il quale dell1 opera di Domenico ci ha dati copiosi estratti (De Prof. Bon. t. 1, pars 2, p. 206). Parecchi antichi comentatori di Dante ci hanno parimente parlato di questo celebre Fiorentino , e il Mehus medesimo ha dati alla luce i passi loro e di altri antichi scrittori, che conservansi nelle biblioteche di Firenze, i quali però sembrano molte volte copiarsi l’un l’altro, e ripetere inutilmente le stesse cose. Noi ci varremo de’ loro detti, ma più, per quanto sarà possibile, delle parole medesime di Brunetto, e di ciò che di lui ne racconta, o ne accenna Dante che avea con lui vissuto più anni. XVH. Brunetto Latini, così detto, se crediamo a Ferdinando Leopoldo del Migliore [p. 689 modifica]TERZO 689 citato dal co. Mazzucchelli (Vite del Villani p. 55 , nota 1), perchè figliuolo di Buonaccorso, figliuol di Latino, era, secondo il Villani, de’ Nobili da Scarniano; nè io so su qual fondamento il Zilioli nella sua Storia MS. de’ Poeti italiani, citata dallo stesso co. Mazzucchelli (nota 2), abbia affermato ch’ei nacque di umile condizione. Ebbe a patria Firenze, nel che tutti gli scrittori convengono; ma in qual anno ei nascesse, niun cel dice. Certo egli era uomo di grande senno l’anno 1260, perciocchè Ricordano Malespini che vivea a quel tempo medesimo, e la cui autorità io cito più volentieri che quella di Giovanni Villani, il quale nella Storia di questi tempi non è comunemente che semplice copiatore di Ricordano; questo scrittore, io dico, parlando di Alfonso re di Castiglia al suddetto anno, così ne racconta: E acciocchè egli (Alfonso) con sue forze venisse abbattere la superbia e signoria di Manfredi, per la quale cagione i Guelfi di Firenze gli mandarono ambasciadori per sommoverlo dal paese , promettendogli grande ajuto, acciocchè favoreggiasse parte Guelfa, e lo’ ‘mbasciadore fu Ser Brunetto Latini, uomo di grande senno; ma innanzi che fosse fornita la ‘mbasciata, i Fiorentini furono isconfitti a Monte per ti, ec. (Istor. Fiorent c. 162, Script. rer. ital. vol. 8, P■ 9^7)• Quindi dopo aver narrata la suddetta rotta ch’ebbero i Fiorentini, annoverando tutti que’ Guelfi che perciò cacciati furono da Firenze lo stesso anno, nomina ancora Ser Brunetto Latini e’ suoi (ib. c. 168). Ma non abbisogniamo dell’altrui testimonio, per sapere il Tira boschi, Voi. IV. 44 [p. 690 modifica]()<)Cl LIBRO motivo dell esilio di sei- Brunello. Egli stesso ce ne ha lasciata memoria in un passo del suo Tesoro, ch’io recherò qui secondo la traduzione italiana, che sola abbiamo alle stampe: Questo Manfredi, dic’egli (l. 2., c. 29), crebbe tanto. di ebbe cl reame di Puglia et di Cecilia. Onde molti dissero , che elli l hebbe contra Dio, et contra ragione, sì che fu del tutto contrario a santa Chiesa. et però fece elli molte guerre. et diverse persecutioni contra a tutti quelli <F Dalia. che si teneano con santa Chiesa. et contra a grande partita di Firenze , tanto ch’ellino furono cacci ¡iti di loro terra, et le lor case furon messe a sacco et a fiamma et a distrutione , et con loro fu cacciato Maestro Brunetto Latino, et all’ hora se ne andò elli per quella guerra, si come iscacciato in Francia. E similmente al principio de’ suoi Comenti nella Rettorica di Cicerone: Questo Brunetto Latino per cagione della guerra, la quale fu tra le parti di Firenze, fu sbandito di Firenze. quando la sua parte Guelfa si tenea col Papa et. con la Chiesa di Roma fu cacciata et sbandita dalla terra l’anno mcclx. Poi se ne andò in Francia per procacciare le sue vicende. Le quali testimonianze non parmi che ci lascino luogo alcuno ad ammettere ciò che narra Benvenuto da Imola , scrittor posteriore di un secolo, ne’ suoi Comenti sulla Commedia di Dante, seguito poi da altri scrittori rammentati dall’abate Mehus, cioè che Brunetto fu costretto a partir da Firenze, perchè essendo ivi notajo , ed avendo in una sua carta commesso un leggier fallo , cui avrebbe potuto [p. 691 modifica]TF.RZO (jyi emendar facilmente, volle anzi essere infamato qual falsatore, che confessare d’avere errato per ignoranza; e perciò dovette abbandonare la patria: racconto che oltre l’esser contrario a ciò che ne dicono Ricordano autore contemporaneo , e lo stesso Brunetto, pare ancora sfornito di ogni verisimiglianza; perciocchè io non mi persuaderò così facilmente che Brunetto volesse piuttosto incorrere T infamia ad un falsario dovuta , che quella tanto più lieve che nasce da un involontario fallo. Un inedito comentatore di Dante, citato dal Mehus (Vita Ambr. camald, p. 159), dice che Brunetto in Parigi tenne scuola di filosofia. Se noi sapessimo a qual età fosse vissuto chi così scrive, potremmo conoscere qual fede gli si debba. Niun altro certamente ci ha di ciò lasciata memoria. Fino a quando si stesse; Brunetto in Francia, non si può precisamente determinare. Ma è probabile che non pochi anni vi si trattenesse; poichè, come vedremo frappoco, egli e vi apprese perfettamente la lingua, e in questa scrisse più libri. Il giovane Ammirato racconta (Giunta alla Stor. dell’Amm. t. 1, p. 169) che Brunetto l’anno 1284 era sindaco del Comune di Firenze; il che, se è vero , ci mostra che almen 1 o anni innanzi alla sua morte egli tornò in patria; perciocchè morì in Firenze l’anno 1294, per testimonio di Giovanni Villani: Nel detto anno 1294 mori in Firenze un valente Cittadino, il quale ebbe nome Messer Brunetto Latini (l. 8, c. 10). Il che pur si conferma da un codice della Magliabecchiana citato dal ch. Mazzucchelli (l. cit. nota 7). [p. 692 modifica]XVIII. F.lngl A. fu» talli «tagli srnltor di qu«* le Dipi. (np LIBRO Quimli , se è vero ciò che Filippo Villani afferma, cioè ch’egli era già quasi vecchio quando andossene in Francia , convien credere cU’ egli avesse lunghissima vita. E nondimeno Brunetto medesimo presso Dante dice: E s i non /òssi sì per tempo morto (Inf c. 15, v. 58). Ma è probabile che Brunetto si dolga qui di esser morto troppo presto, non per riguardo alla sua età, ma per riguardo alla compagnia di Dante, con cui avrebbe bramato di vivere più lungo tempo. XVIII. Questo è ciò solo che delle azioni e delle vicende di messer Brunetto Latini gli an’ liclii scrittori ci han tramandato. Più ampiamente si sono essi distesi nel favellar del sapere e della letteratura di lui. E primieramente lo stesso Giovanni Villani, dopo averne narrata la morte, gli fa questo elogio: fu un grande filosofo, e fu un sommo Maestro in Rettorica tanto in ben saper dire, quanto in bene dittare... et fu dittatore del nostro Comune, ma fu mondano huomo. Et di lui bave irò fatta menzione. perchè egli fu cominciatore et maestro in digrossare i Fiorentini, e fargli scorti in bene parlare, et in sapere giudicare, et reggere la nostra Repubblica secondo la politica. Nè punto minori sono le lodi di cui onorollo Filippo Villani: Brunetto Latini fu di professione filosofo, d’ordine Notajo, e di fama celebre e nominata. Costui, quanto della Rettorica potesse aggiugnere alla natura, dimostrò. Uomo, se così è lecito a dire, degno d’essere con quegli periti e antichi Oratori annumerato. E dopo averne narrata la vita, così conchiude: Fu Brunetto motteggevole, dotto e astuto, e di certi motti piacevoli [p. 693 modifica]TERZO GC)3 abbondante, non però senza gravità e temperamento di modestia, la quale faceva alle sue piacevolezze dare fede giocondissima , di sermone piacevole, il quale spesso moveva a riso. Fu officioso e costumato, e di natura utile, severo e grave, e per abito di tutte le virtù felicissimo, se con più severo animo le ingiurie della furiosa patria avesse potuto con sapienza sopportare. Legga»,si gli alil i elogi che l’ab. Mehn.s ha insieme raccolti (l. cit. p. 152, ec.), e si vedrà che tutti ci parlano di Brunetto come di uno de’ più dotti uomini che allor vivessero; benchè forse essi così scrivessero più seguendo l’autorità di Giovanni Villani, che per altri monumenti ch’essi ne avessero. Ma alcune delle parole di questo scrittore da noi por,’anzi recate richieggono più diligente esame. Dice Giovanni Villani eh’ei fu sommo maestro in rettori ca, il che perù io non saprei accertare se debba intendersi di scuola da lui tenuta, o sol di libri scritti. Ch’ei tenesse scuola, non trovo autore che espressamente l’affermi; e io credo probabile che egli istruisse bensì chi ricorreva a lui per consiglio e per direzione, ma non fosse già pubblico professore. Aggiugne che fu dittatore del Comun di Firenze, la qual voce non dee già intendersi di autorità, o di grado alcuno nella repubblica , ma in quel senso medesimo in cui l’abbiamo veduta usarsi parlando di Pier delle Vigne; perciocchè dittatore, o piuttosto dettatore dicevasi a questi tempi chi dettava o scriveva le lettere a nome altrui j ed era lo stesso perciò, che ora diciam segretario. Le lodi con cui Giovanni Villani esalta; la [p. 694 modifica]XIX. Fumé rii*l passo in cui frante rii lui ragiona. Gy4 LIBRO • letteratura di Brunetto, sono alquanto oscurate da ciò che soggiugne, cioè che fu mondano huomo. Colle quali parole sembra che alluda al sozzo delitto di cui Dante lo incolpa, ponendolo nell’Inferno tra quelli che ne furono infetti vivendo. Alcuni autori citati dal co. Mazzucchelli (l. cit. nota 4) hanno creduto che Dante, essendo Gibellino, così scrivesse per odio contro di ser Brunetto che era Guelfo. Io desidero che così fosse di fatto) ma come io veggo che Dante fa grandi elogi di lui, e non se gli mostra punto invidioso, o nemico, così io temo che una cotal difesa non sia troppo fondata. Finalmente dice Giovanni Villani che Brunetto fu il primo che ammaestrasse i Fiorentini a parlare e a scrivere coltamente; cioè, come io intendo., ch’egli fu il primo tra loro che scrivesse precetti di ben parlare; e come egli nel suo Tesoro trattò ancora del reggimento delle repubbliche, perciò conchiude ch’egli ancora fu il primo che istruisse i suoi Fiorentini in reggere saggiamente lo Stato. XIX. La maggior gloria però di Brunetto si è l’aver avuto a suo discepolo Dante. Questi chiaramente ce ne assicura) perciocchè ove descrive l1 aggirarsi eh’ei facea per f Inferno tra i rei d’infame delitto, dice che riconobbe Brunetto: Così adocchiato da cotal famiglia , Fu’ conosciuto da un che mi prese Per lo lembo e gridò: qual maraviglia?! Ed io quando ’l suo braccio a me distese, Ficcai gli occhi per lo cotto aspetto, Sicchè ’l viso abbruciato non difese [p. 695 modifica]TEnZt) fH)5 La conoscenza sua al mio intelletto. E, chinando la mano alla sua faccia, Risposi: siete voi qui, ser Brunetto? E quegli: o figliuol mio, non ti dispiaccia Se Brunetto Latini un poco teco Ritorna indietro, e lascia andar la traccia. c. 15, v. 22, ec. Dopo alcuni amichevoli complimenti Dante introduce a parlare Brunetto, e si fa da lui lodare modestamente: Ed egli a me: se tu segui tua stella, Non puoi fallire a glorioso porto. Se ben m’accorsi nella vita bella; E s’ P non fossi sì per tempo morto , Veggendo il Cielo a te così benigno , Dato t’avrei all’opera conforto. I quali versi di Dante han data occasione a taluno di scrivere che Brunetto , allor che nacque Dante, n1 avea preso l’oroscopo, e che aveagli predetto il sapere a cui sarebbe giunto; ma. come saggiamente osserva il co. Mazzucchelli (l. c. nota 3), anche senza esser astrologo poteva Brunetto conoscer l’ingegno di Dante, se questi gli era discepolo: e i versi or riferiti interpretar si possono facilmente in senso allegorico. Quindi Brunetto predice a Dante l’esilio ch’egli avrebbe a soffrire, predizione agevole a fare, allor ch’essa già era avverata. E Dante, dopo avergli spiegato il dolor che provava perchè ei fosse già morto, soggiugne: Che in la mente ni r fitta., ed or m’accuora La cara buona imagine paterna Di voi, quando nel mondo ad ora ad ora Mi ’¡¡segnavate come l’uom s’eterna. [p. 696 modifica]XX. Descriiionede)Pop<’ni inliloLia il Tesoro. 696 LIBRO Possiam noi bramare espressione in cui Dante più chiaramente ci mostri che Brunetto era stato già suo maestro? Finalmente, dopo più altre cose, Brunetto prende congedo e dice a Dante: Sieti raccomandato il mio Tesoro, Nel quale io vivo ancora, e più non cheggio. Del Tesoro di ser Brunetto ragioneremo tra poco. Frattanto non ci dipartiamo da Dante, il quale anche ne’ suoi libri della Volgare Eloquenza ha fatta menzione del suo maestro, benchè non troppo onorevolmente, rammentandol tra quegli uomini famosi fiorentini che nello scrivere, in vece di usare il volgar nobile e cortigiano, usarono anzi il lor dialetto natìo (l. 1, c. 13). Ma questa accusa finalmente non cade che sullo stil di Brunetto, e possiam credere che in questa ancora Dante si lasciasse condurre più da un cotal suo odio contro il parlare de’ Fiorentini da lui provati sconoscenti ed ingrati, che da un retto ed imparziale giudizio. Alcuni aggiungono che anche Guido Cavalcanti fu discepolo di Brunetto, ma io non veggo qual pruova o qual autorità se ne adduca. XX. Rimane a dire dell’opere di questo illustre scrittore. Giovanni Villani le annovera in questo modo: Et fu quelli ch’espose la Rethorica di Tullio, et fece il buono et utile libro detto Tesoro, e ’l Tesoretto et la Chiave del Tesoro, et più altri libri in Filosofia et quello de’ vitii et delle virtù. Fra queste opere, quella che rendè più illustre Brunetto, fu il s 10 Tesoro. Essa è in somma un compendio di Plinio, [p. 697 modifica]TERZO GiJ’J di Solino e di altri libri di tal natura, divisa in tre parti, e ciascuna parte in più libri, oppure, come in altre edizioni, divisa in tre libri, e ciascun libro in più parti. Io sieguo la prima divisione secondo l’edizione di Venezia del 1533, che bo sott1 occhio. Cinque libri comprende la prima parte; cioè la Storia del Vecchio Testamento nel I; nel Il la Storia del Nuovo fino a’ suoi tempi, colla descrizione degli elementi e del cielo j il III abbraccia la geografia 5 nel IV e nel V tratta de’ pesci, de’ serpenti, degli uccelli e degli animali. Due libri compongono la seconda parte, cioè un compendio dell’Etica di Aristotile, che forma il VI, e un trattato delle virtù e de’ vizi, che è 1’argomento del VII. Nella terza parte, che è pur divisa in due libri , tratta primieramente dell’arte di ben parlare , poscia della maniera di ben governare la repubblica. Il Quadrio afferma eli’ ei ne prese l’idea dal Tesoro di Piet ro di Corbiac poeta provenzale (Stor. della Poesia. t. 2, p. 118) (a). (a) 11 sig. ab. Andres rigetta l’opinione del Quadrio e di altri, che Brunetto Latini prendesse l’idea del suo Tesoro da Pietro di Corbiac, e reca anche qualche congettura a provare che il poeta provenzale fu di qualche anno posteriore al toscano. Egli crede più verisimile che a Brunetto servisse in qualche modo di guida il celebre Alfonso X re di Castiglia e imperadorc, che è talvolta da lui citato, e che scrisse pure un’opera col medesimo titolo (Dell’Orig. e Drogr. iV ogni Lettemi, t. 1, p. (186, ec.). Ma appunto poco oltre fuorchè il titolo potè Brunetto imitarne, o copiarne, perciocchè, come lo stesso ab. Andres osserva, materie del tutto diverse sono per la maggior parte quelle di cui tratta Brunetto, e assai più ampio argomento è quello del suo Tesoro, che non di quello del re Alfonso. [p. 698 modifica]6y8 LiBiio Io non credo che il Quadrio avesse mai letto questo più antico Tesoro , e non vedo perciò com’egli potesse accusar Brunetto di essersi giovato di esso nel compilar il suo. Egli lo scrisse non già in italiano, come crederono alcuni, nè in lingua provenzale, come altri affermano, ma nella francese, qual allora si usava, e che da alcuni diceasi ancora romanza. Quindi nel codice che se ne conserva nella biblioteca del re di Francia , e di cui parla in una sua Memoria M. Falconet (Hist. de l’Acad. des Inscr. t. 7, p. 297), così esso comincia: Cy comence le livre dou Tresor, le quel traslata maistre Brunet Latin de Florence Latin en Romans, ec.; e in que’ che trovansi nella regia biblioteca di Torino: Livre du Tresor le quel translata de latin en Francois Mais tre Brunet Latin de Florence (Cat. Codd. MS. Bibl. reg. Taur. t. 2, p. 478, cod 57, 58). Il dirsi qui questa opera traslatata in francese, ha mosso qualche sospetto nel march. Ma (Tei che Brunetto potesse averla prima scritta in lingua italiana (Osserv. letter. t. 2, p. 110), Ma al più potrebbesi dubitare ch’ei l’avesse scritta in latino; perciocchè ne’ codici sopraccennati si legge traslata de. latin en Francois (a). ’ È certo però che Brunetto scrisse veramente il suo Tesoro in lingua francese, e solo egli usò l’espressione di tradur dal latino, perchè latini eran gli autori de’ quali egli si valse nel (a) Merita di esser letta la descrizione che ci ha data 31. Senebier di mi bel codice ins del Tesoro di’ ser brunetto, il qual si conserva nella biblioteca pubblica di Ginevra { Cat. des MSS. de la Bibl. ile Gcttece p. 3>)8, ec.). [p. 699 modifica]terzo 6yy compilarlo. Lo stesso Brunetto rende ragione nell’esordio di questa sua opera , per qual ragione ei l’abbia scritta in francese. Et se alcuno domandasse, così egli secondo la versione italiana, perchè questo libro è scritto in lingua Francesca, poichè noi siamo d Italia? io gli risponderò, che ciò è per due cose: l’una, perchè noi siamo in Francia; et l’altra perciò che la parlatura Francesca e più dilettevole et più comune che tutti gli altri linguaggi. L’original francese dell’opera di Brunetto non è mai uscito alla luce. Solo ne abbiamo la traduzione italiana fatta verso il medesimo tempo da Buono Giamboni Giudice, il qual pure recò in italiano l’Arte militar di Vegezio, e la Storia di Paolo Orosio. Intorno alle quali versioni veggansi le osservazìoni erudite dell’ab. Mehus (Vita Ambros. camald. p. 156, ec.), che ne ha esaminati più codici nelle biblioteche di Firenze; ove egli avverte, come noi pure abbiamo altrove osservato, che quella parte sola di quest’opera di Brunetto, che contiene il compendio dell’Etica d’Aristotele, fu tradotta in lingua italiana dal celebre medico fiorentino Taddeo , il quale a questi tempi vivea. Lo stesso Mehus accenna alcune versioni di qualche tratto di Sallustio fatte pur da Brunetto; ma esse non son che passi del suo Tesoro, ov’ei le ha inserite < l. 8, c. 32 , ec.). Ma passiamo alle altre opere di Brunetto. XXI. La Rettorica di Tullio, che dal Villani si nomina , è una traduzione in lingua italiana di parte del primo libro dell’Invenzione co’ comenti di Brunetto. Ne abbiam tratto poc’anzi xxi Altre opere • li brunetta indicate dal Villani. [p. 700 modifica]7OO LIBRO un passo dal prologo, in cui gli ragiona della sua andata in Francia; ed ivi dopo le riferite parole così continua. Là (in Francia) trovò uno suo amico della sua cittade, et della sua parte, et molto ricco di havere , ben costumato, et pieno di grande senno, che li fece molto honore, et molta utilitade , e perciò l’appellava suo porto, si come in molte parti di questo libro pare apertamente, et era molto buono parlatore naturalmente, et molto desiderava di sapere ciò che li savi havevano detto intorno la Rettorica. Et per lo suo amore questo Brunetto Latino, il quale era buono intenditore di lettera, et era molto intento allo studio della Rettorie a, si messe a fare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tullio per maggiore fermezza, et poi mette et giugne di sua scienza et dell altrui quel che fa mestieri. Così in questo prologo , secondo la prima edizion fattane in Roma l’an 1546. A questa traduzione si può aggiugnere quella delle Orazioni a favor di Ligario, di Deiotaro e di Marcello, pubblicate in Lione l’an 1567, e attribuite a Brunetto Latini; delle quali e de’ codici che ancor di esse conservansi, e con qual fondamento se ne faccia autore Brunetto, si vegga il citato Mehus (l. cit. p. 159); e veggasi inoltre la da noi citata dissertazione del P. Paitoni inserita dall’Argelati nella sua Biblioteca de’ Volgarizzatori (t. 3,p. 275.ec.), ove più cose intorno a tai traduzioni e ad altre opere di Brunetto diligentemente si osservano. L’Argelati avea già asserito (t. 1, p. 170) che Brunetto avea ancora tradotta la Consolazion di Boezio; ma [p. 701 modifica]TERZO 701 questo errore si è poscia emendato, avvertendo (t. 5, p. 429) che solo diconsi in qualche codice tradotti da Brunetto i Motti de’ Filosofi antichi aggiunti alla stessa Consolazione. Io lascio in disparte più altre minute considerazioni che in varii passi della suddetta Biblioteca si fanno intorno alle traduzioni di Brunetto , parendomi di averne trascelto ciò che è più importante a saperne. Il Tesoretto, che si rammenta da Giovanni Villani, non è già, come han pensato il co. Mazzucchelli (l. cit. nota 6) e il Quadrio (Stor. della Poes. t 6, p. 240), un ristretto del Tesoro; ma contiene solo alcuni precetti morali esposti in versi settenarii rimati insieme a due a due. Esso ancora è stato dato alle stampe, e il detto co. Mazzucchelli ne cita l’edizion di Roma dell’anno 1542. Che opera sia quella che il Villani chiama Chiave del Tesoro , non possiamo indovinarlo, perciocchè non ce n’è rimasta, ch’io sappia, alcuna copia. Non sappiam parimente che fosse il libro de’ Vizii e delle Virtù, che il Villani attribuisce a Brunetto, se pur esso non era una parte del suo Tesoro, che ne fosse stata stralciata. Il P. Negri (Scritt, fiorent. p. 112), e dopo lui il Fabricio (Bibl. med. et inf. Latin, t. 1, p. 286), parlan di quest’opera di Brunetto, come di scritta in lingua latina; ma io penso ch’essi non ne vedessero copia in qualunque siasi lingua. XXII. Oltre queste opere di Brunetto Latini, di cui Giovanni Villani ci ha lasciata memoria, ne abbiamo ancora alcune altre. E primieramente havvi in alcune biblioteche scritto a XXII. Altre opere a lui attribuite. [p. 702 modifica]^02 LIWIO penna il Pataffio, che è un assai lungo componimento in terza rima, tutto tessuto di motti e riboboli fiorentini quali allora s’usavano, e che ora più non s’intendono. Eccone i primi tre versi che il co. Mazzucchelli ne dà per saggio: Squasimo Deo introcque, e a fussone Ne hai* ne hai piloni con mattana , AL t an la tigna , egli è mazzamarone. Buon per noi, che a niuno è venuto in pensiero di pubblicarlo, e, ciò che peggio sarebbe, di darcelo illustrato con ampi comenti. Alcuni però, rammentati dal Quadrio (Stor. della Poes. t. 3, p. 391) e dal co. Mazzucchelli, l’han comentato di fatti; ma le lor fatiche si giacciono ancor sepolte nelle biblioteche; ed io certamente non mi stancherò in pregare eh1 esse escano alla luce. Vuolsi ancora ch’egli s’esercitasse nella provenzal poesia (V. Mazzucch. l. cit.), e se ne allegano anche altre rime italiane, fra le quali un sonetto è stato pubblicato dal Crescimbeni (Comment. t. 3, p. 65). Di certe altre opere poi, che dal P. Negri (l. cit.) e da alcuni altri scrittori si attribuiscono a Brunetto, come la Povertà de’ stolti, un trattato della Penitenza, la Gloria de’ Pedanti ignoranti, e simili, converrebbe che ci si additassero o i codici che se ne han manoscritti, o le edizioni fattene, per assicurarci ch’esse ed esistano veramente , e sieno di questo autore, sul quale io mi sono steso finora forse alquanto più minutamente che all’idea di questa mia Storia non si convenga; perchè essendo egli stato un de’ primi scrittori dell’arte di ben parlare , bo [p. 703 modifica]I TERZO ~u3 creduto ch’egli esigesse a diritto qualche più esatta ricerca. XXIII. Tutti questi precettori e maestri d’eloquenza e di stile, che insegnando e scrivendo additaron le leggi di scrivere e di parlar coltamente , sembra che avrebbon dovuto formare valorosi allievi, sicchè in ogni parte d’Italia sorgessero nuovi Tulli e nuovi Cesari. E nondimeno noi siamo ancora ben lungi dal poter mostrare eleganti scrittori, o oratori eloquenti. Nè è a stupirne. I saggi, che noi abbiam dati, dello stile di Gaufrido, di Buoncompagno, e di altri simili professori, han potuto convincerci ch’essi non eran modelli su cui formandosi i lor discepoli giugner potessero a scrivere con eleganza. Ciò non ostante ottenevasi pur qualche frutto. Si cominciavano a conoscere i buoni autori, che erano stati per lungo tempo quasi del tutto dimenticati. Se di sì sublimi esemplari non faceansì ancora felici copie, se ne ritraevano almeno alcuni lineamenti. Le riflessioni che sopra essi si venivan facendo , non eran troppo profonde, ma pur qualche cosa si rifletteva. In somma il cammino verso l’elegante letteratura era lento e stentato, ma pur faceasi qualche progresso. Si moltiplicavan le copie de’ buoni libri, col loro numero cresceva ancora il numero de’ lor lettori 5 e fra molti lettori alcuni cominciavano ad esserne imitatori, e così a poco a poco andavansi dissipando le folte tenebre che per tanti secoli avean ingombrata l’Europa tutta. In fatti o noi osserviam gli scrittori latini, o gl’italiani, noi li veggiamo successivamente divenir meno incolti; e come xxm. Qual fruito si trarjse da’ precetti di Questi prottiiori. [p. 704 modifica]7«.>4 ’ LIBRO color die vissero al line del secolo xm scrissero assai men rozzamente di quelli che n’eran vissuti al principio, così vedremo nel secolo susseguente l’una e l’altra lingua acquistare grazie e bellezze sempre maggiori, cioè la latina rendersi più somigliante a quella usata dagli scrittori del buon secolo, l’italiana formarsi sempre più armonica e più leggiadra; e al medesimo tempo vedremo stendersi sempre più ampiamente le cognizioni, farsi nuove scoperte, e avanzarsi in somma felicemente a gran passi per quella carriera medesima sul cui principio si erano incontrate difficoltà e ostacoli quasi insuperabili. Noi frattanto dopo aver veduto fin qui chi fossero i precettori, e quali i precetti dell’arte di ben parlare, dobbiamo ora ricercar brevemente qual fosse di questi tempi lo stato della eloquenza. XXIV. Se a giudicare dell’arte rettorica di un dicitore, ci bastasse l’esaminare gli effetti che col suo dire ei produce, noi dovremmo qui confessare che niun secolo forse fu ugualmente a questo fecondo di eloquentissimi oratori. Nelle storie degli autori contemporanei che scriveano ciò che aveano sotto i lor occhi, veggiamo innumerabili schiere di popolo affollarsi alle prediche di S. Antonio da Padova, di S. Domenico, e de’ suoi primi compagni. E, ciò che è più, veggiamo maravigliosi effetti de’ loro ragionamenti: estinte le fiamme delle popolari discordie, riuniti in pace i più ostinati nemici, condotti a penitenza gli uomini più malvagi. Abbiam veduti più professori dell’università di Bologna all’udire i sermoni di F. Reginaldo e [p. 705 modifica]TERZO 7OO di altri Domenicani abbandonare le loro cattedre e le lor case, e rinchiudersi in povero chiostro. Abbiam veduto F. Giovanni da Vicenza favellare a una moltitudin prodigiosa di popolo accorso dalle città di Lombardia, e condurla alla pace. Altri religiosi dell’Ordine de’ Predicatori e de’ Minori abbiam pure veduti correre le città d’Italia, e coll’efficacia de’ loro ragionamenti acchetar le discordie, riformar gli Statuti, toglier gli abusi. Qual era dunque questa sì robusta eloquenza che produceva sì strani effetti? Qui è dove cresce la maraviglia. Noi abbiamo ancora i Discorsi e le Prediche di S. Antonio da Padova, il quale non cedette ad alcuno e nell’avere schiere foltissime di uditori, e nel raccogliere da’ suoi ragionamenti frutto non più veduto. Or io credo che se alcuno al presente si facesse a dire dal pergamo cotai sermoni, ei sarebbe ben lungi e dal mirarsi affollato da immensa turba di attoniti uditori, e dal vederne quegli effetti maravigliosi ch’erano allor sì frequenti. Essi non sono comunemente tessuti che di varii passi della sacra Scrittura e de’ Padri, di riflessioni semplici e famigliari, senza ornamento alcuno di stile, senza forza e profondità di discorso, senza varietà di figure, senza in somma alcun di quei pregi che or formano, o, a dir meglio, che hanno sempre formato il carattere di un eloquente oratore. Come dunque da sì lieve cagione sì grandi effetti? A ben intenderlo convien ricorrere, per quanto a me pare, a tutt’altri principii che a quelli dell’artificiosa eloquenza. Que’ sacri oratori erano comunemente uomini di santa vita e d’illibati costumi; Tiraboschi, Voi. IV. 45 [p. 706 modifica]XXV. Alcuni lodati per do<j ueuiu. ’"otí LI IMO e il frullo de’ loro ragionamenti doveasi più alle preghiere che porgeano a Dio, che alle parole che volgeano agli uomini; e molto più che congiungendo essi talvolta (se pure alcuni tra’ pensatori moderni ci permetton di credere ciò che innumerabili testimonii ci affermano concordemente di aver veduto) alle lor parole le opere loro maravigliose, e i soprannaturali prodigi che Dio per essi operava, questi rendeano i popoli sempre più docili e più pieghevoli a’ loro ragionamenti. Quindi della loro eloquenza vuolsi giudicare in somigliante maniera a quella con cui parliam degli Apostoli e de’ primi banditori dell’evangelica Legge, e si dee considerare ch’essa era di tutt’altro genere da quella che insegnasi co’ precetti, e che si apprende su’ libri. Che se videsi ancor taluno emulare negli ammirabili effetti della sua predicazione i più santi personaggi di questo secolo, senza emularne, o anzi col solo fingerne la santità, di ciò non dobbiam fare maraviglia maggiore, che di altre somiglianti imposture. Anche il vizio prende talvolta le sembianze della virtù, e ottien quegli onori che solo ad essa si debbono. L’inganno però svanisce presto, e i mal conseguiti onori ritornano a confusione di chi gli avea usurpati. Ma noi siamo entrati a parlare di un argomento che non è nostro, e non dobbiam confondere l’eloquenza degli uomini colla onnipotenza del Cielo. XXV. Di alcuni che vissero a questa età, noi ! leggiamo che furono parlatori eloquenti e leggiadri. Il Corio parlando della dignità di vicario imperiale in tutta la Lombardia, che fu [p. 707 modifica]TERZO 707 conferita a Matteo Visconti ila Arnolfo ossia Adolfo re de’ Romani l’anno 1294, dice che in quella occasione Guido Stampa huomo litteratissimo espose molte ornate et accomodate parole (Stor, di Mil. p. 154, ed. Veri. 155 \). Così pure Giovanni Villani parlando della venuta a Firenze del Cardinal Latino Orsini mandato da Gregorio X ad acchetarv i le civili discordie, racconta che dal detto cardinale fu nobilmente sermonato, et con grandi et molte belle, autoritadi, come alla materia convenia, siccome quegli che era savio et bello Predicatore (l. 7, c. 55). Ma di questi ed altri somiglianti elogi che veggiam farsi dagli scrittori all’eloquenza di alcuno, deesi a mio parere far quel conto medesimo che abbiam veduto doversi far degli elogi con cui furono a questi tempi onorati altri scrittori, i quali erano allor rimirati come uomini di maravigliosa eleganza nello scrivere e nel parlare, ed or nondimeno ci sembrano la stessa rozzezza. Tali è probabil che fossero i bei parlatori mentovati poc’anzi, de’ quali però non essendoci rimasto alcun saggio d’eloquenza, non possiam giudicarne se non per semplice congettura. XXVI. Di eloquenza sacra italiana non troviamo ancora in questo secolo vestigio alcuno. Le più antiche prediche in nostra lingua che ci sian giunte, son quelle di F. Giordano da Rivalta, il quale benchè vivesse in gran parte nel secolo XIII, non sappiamo però che dicesse alcuna sua predica prima del cominciamento del secol seguente, come si raccoglie da quelle di cui è rimasta memoria del giorno preciso in cui furono dette. Di esse perciò ci riserhiarno [p. 708 modifica]~o8 li ORO a parlare nel quinto tomo eli questa Stona. Qui sarebbe a esaminar l’opinione del Fontanini, il quale ha francamente affermato e ha recati più argomenti a provare che non solo nel secolo XIII, ma anche ne’ due seguenti predicavasi latinamente; e se pure talvolta si usava la lingua volgare, ciò non era lecito nelle chiese, ma sol nelle piazze ad esse contigue (Dell Eloq. ¡tal. I. 3, c. 1, 2). Ma essa è stata già confutata prima dal sig. Domenico Maria Manni (praef. alle Pred. di F. Giord.), poscia dall’eruditissimo Apostolo Zeno (Note alla Bibl. del Fontan. t 2, p. 424 ec.), i quali e hanno mostrato la debolezza delle ragioni dal Fontanini addotte, e han recato più esempii di prediche dette in lingua italiana in chiesa, valendosi singolarmente di quelle di F. Giordano. È certo però, che in questo secolo, di cui ora scriviamo , predicavasi per lo più in latino, benchè poscia si usasse talvolta di esporre al popolo in lingua volgare ciò che il predicatore avea detto latinamente. Ne abbiamo un bel monumento in una carta dell’anno 1189, pubblicata dal Muratori (Antich. Est. 1, c. 36), in cui si contiene la consecrazion della chiesa di S. Maria delle Carceri, e ove si dice che avendo Goffredo patriarca di Aquileia predicato in quella occasione litte.raliter sapientcr, cioè in lingua latina, Gherardo vescovo di Padova prese poscia a spiegare al popolo maternaliter, cioè in lingua volgare la stessa predica. Così ritenevasi comunemente il linguaggio latino nel predicare, perchè credeasi che ciò convenisse alla dignità della religione; e insieme si provvedeva [p. 709 modifica]TERZI) 70() a’ vantaggi del rozzo popolo, il quale senza ciò difficilmente avrebbe tratto alcun frutto dalle prediche dette in lingua ch’esso non avea appresa. Non è però da ommettere che la lingua volgare non erasi ancora separata, per così dire, e allontanata talmente dalla latina, che uno il quale non avesse fatto di questa studio alcuno, pur non potesse intenderla in qualche modo. Noi veggiamo quanto ritengono ancor del latino le opere che abbiamo in lingua italiana di questo secolo; e quindi per questa somiglianza tra le due lingue il popolo allora dovea assai meno difficilmente intendere il latino che non al presente , or che la nostra lingua, formando sue leggi proprie e sue proprie espressioni, si è tanto più discostala dall aulica sua madre. E io non saprei se maggior differenza vi avesse fra la lingua volgare di que’ tempi e la latina, di quella che v’abbia ora tra i dialetti plebei della maggior parte delle città d’Italia e la elegante lingua italiana , qual si usa da’ moderni colti predicatori. E come ciò non ostante il rozzo popolo ancora accorre alle prediche che or si fanno, e le intende, o almen si lusinga d’intenderle, così io credo che pure avvenisse nell’ascoltar le prediche che si faceano in lingua latina. Finalmente è probabile assai che i predicatori di que’ tempi, benchè parlassero latinamente, cercasser però di usare, quanto più poteano, i popolari idiotismi, e di adattarsi alla rozzezza de’ loro uditori. Anzi, come il ch. Zeno riflette, veggiamo che alcuni ne’ loro sermoni usavan talvolta di frammischiare de’ tratti in lingua volgare; perchè con essi il popolo più facilmente intendesse ciò che forse non J [p. 710 modifica]avea ben inteso dapprima nella lingua latina. Ne abbiam qualche esempio in alcuno de’ sermoni detti ne’ secoli susseguenti; e se ne leggiamo altri scritti totalmente in latino, ed esso ancora non affatto rozzo ed incolto, possiam credere a ragione che prima di pubblicarli , i loro autori, o i loro editori li ripulissero alquanto, e ne emendasser, come sapevano, la lingua e lo stile.