Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo IV/Libro III/Capo I
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Capo I.
Lingue straniere.
I. Ì3e anche ai secoli più tenebrosi e più oscuri ebbe l’Italia alcuni studiosi coltivatori delle lingue straniere, e della greca singolarmente, come di mano in mano siamo venuti dimostrando, non è maraviglia che nel secolo di cui ora scriviamo, in cui si vide sorgere il primo albore della rinascente letteratura , ve ne avesse in numero maggiore assai. Le cose che nel precedente libro abbiam detto intorno agli studi delle più gravi scienze, possono esser sufficienti a persuadercene. Noi le riunirem qui brevemente, facendo un legger cenno di ciò che abbiamo altrove svolto e provato, e aggiugnendo più altre notizie intorno a questo stesso argomento. Abbiam veduto che Federigo II fece recar dal greco e dall’arabo in latino molte opere di Aristotele e di altri filosofi arabi e greci (c. 2 , n. 4) j e come questa versione fu fatta in Italia, e ad uso singolarmente delle scuole d’Italia, così è verisimile che italiani fossero i traduttori che in ciò furono 5o4 UDRÒ adoperati da Federigo. Manfredi seguì gli esempj paterni, ed altre opere di antichi filosofi per comando di lui furono volte in lingua latina, come pure si è dimostrato a suo luogo (ib.); il che pur fecero altri a imitazione de’ primi j ed altri, se non si occuparono in traslatare gli antichi autori, appresero almen le lingue in cui le lor opere erano scritte, affin di giovarsene ne’ loro studi. In fatti le opere filosofiche, astronomiche e mediche di molti Italiani di questa età, delle quali abbiam ragionato, e nelle quali veggiam sì spesso citati gli autori arabi e greci, molte delle cui opere non eransi ancor traslatate in latino, ci dan motivo di congetturare che i loro autori fossero in quelle lingue sufficientemente versati. E per ciò che appartiene alla lingua arabica, e ai traduttori de’ libri in essa scritti, già abbiam favellato de’ libri medici che Simone da Genova da quella lingua recò nella latina (c. 3, n. 16). Inoltre in questa Estense biblioteca conservasi manoscritta la traduzione di un’opera attribuita ad Ippocrate intorno le malattie de’ cavalli, fatta sulla versione arabica da Mosè di Palermo: Esplicit, così -si legge’alla fine del codice, Hippocratis Liber de curationibus infirmitatum equorum, quem translatavit de lingua arabica in latinam Magister Moyses de Palermo. Di questo traduttore non trovo chi faccia menzione; nè il codice ci dà indicio a conoscere in qual anno precisamente fosse scritto. Ma come in questo secolo furono assai frequenti cotali versioni, egli è probabile che Mosè fosse uno di quelli che da Federigo, o da Manfredi vennero in esse TERZO 5o5 adoperali. L anno ia65 essendosi stretto un trattato di pace e di commercio tra ’l re di Tunisi e la Repubblica pisana, esso fu steso in arabo, e recato poscia in latino da Buonagiunta Cascina che probabilmente era pisano di patria. Quindi al fin di questo Trattato, che è stato pubblicato dal Lunig (Codex diplom. Ital. t. 1 , p. 1067) e dal cav. Flaminio dal Borgo (Racc, di Docum. pis. p. 213), così si legge: existente interprete probo viro Banajunta da Cascina de lingua arabica in latina. Per ultimo la confutazione dell’Alcorano , che abbiamo altrove accennata (l. 1, c. 5, n. 14) 7 falla da F. Ricoldo dell’Ordine de’ Predicatori, ci è testimonio sicuro dello studio ch’egli avea fatto della lingua arabica; perciocchè quel libro non era stato per anco, ch’io sappia, recato in latino , o in altra lingua moderna. II. Molti coltivatori ancora ebbe la lingua greca. Già abbiam fatta menzione e di Buonaccorso bolognese dell’Ordine de’ Predicatori , che gli errori de’ Greci scismatici impugnò scrivendo nella lor lingua medesima (l. 2, c. 1, n. 33), e di Niccolò da Otranto , che servì in Costantinopoli d’interprete tra’ Greci e’ Latini (ib. n. 34), e di Bartolommeo da Messina , che per comando dei re Manfredi recò dal greco in latino l’Etica d’Aristotele (ib. c. 3, n. 16). Abbiamo ancora mostrato potersi credere con qualche probabile fondamento che S. Tommaso fosse in questa lingua versato (ib. c. 1, n. 18). E finalmente abbiam favellato (ib. c. 6 , n. 7) di Guido dalle Colonne, che delle greche opere supposte di Darete e di Ditti si valse a compilar l 5o6 LIBRO la sua Storia della Guerra di Troja. Ma oltre questi possiamo ancor nominare più altri Italiani che in questa età non ignorarono il greco. Il ch. canonico Bandini ha dati alla luce alcuni versi jambici greci (Cat. Bill. laur. I. t, p. 25) composti da un Giovanni da Otranto all’occasione dell’assedio di Parma fatto da Federigo II. Il march. Maffei a provare che in Verona non era del tutto sconosciuta la lingua greca, reca un Capitolo (Ver. illustr. par. 2^ p. 132, ed. pr. in 8) degli antichi Statuti di quella città , che ha per titolo De Proxeneta philantropo. Ma a dir vero, non parmi che sia questa pruova troppo sicura; poichè molte voci tratte dal latino e dal greco si usano continuamente da molti che pur di greco e di latino sono affatto digiuni, ma le usan solo perchè esse sono state già da lungo tempo introdotte nel parlar famigliare, Io non so ancora se possa credersi abbastanza fondato il pregio di aver saputa tal lingua, che il ch. monsignore Giangirolamo Gradenigo attribuisce a Uguccione pisano e a Giovanni Balbi (Della Lett. greco-ital. p. 83, 103) pe’ loro Lessici latini, dei quali altrove favelleremo. Essi in gran parte si valsero delle fatiche di Papia, ed è perciò a temere che ciò che nelle loro opere s’incontra di lingua greca , si debba al più antico compilatore (a). E quanto al Balbi, ella è piacevol (a) Il Lessico di Uguccione è assai più copioso e più ornato di erudizione che quello di Papia; e se F. Francesco Pipino, come altrove vedremo, lo taccia come libro non sempre esatto nè compito , ciò deesi intendere TERZO 5oy cosa a vedere come dalle stesse sue parole citate da’ PP. Quetif ed Echard (Script. (Ord. Praed t. 1, p. 462), e da monsignor Gradenigo , i primi raccolgono ch’ei non seppe di greco , il secondo eli’ egli ne seppe. Le parole son queste: Hoc difficile est scire, et maxime mihi non bene scienti linguam Graecam. S’egli era uomo veramente modesto, deesi credere ch’egli scemasse ciò che tornava in sua lode, e che perciò fosse sufficientemente istruito in questa lingua. Ma se egli era uno di quelli che non soffrono con dispiacere di’ esser creduti più dotti ancor che non sono, si potrebbe temere ch’egli non solo non la sapesse bene, ma la ignorasse del tutto. Monsignor Gradenigo, tra gl’Italiani che sepper di greco in questo secolo, nomina ancora il celebre giureconsulto Accorso (p. 96); e io credo bensì che non abbia alcun fondamento ciò che volgarmente raccontasi, cioè che egli avvenendosi in qualche parola greca solesse dire: graecum est; non legitur; ma ch’ei la intendesse , non riguardo al tempo in cui questo autore vivea, quando cioè progressi alquanto maggiori si eran fatti nel corso di oltre ad un secolo nell’amena letteratura, e sembrava perciò imperfetto ciò che prima non rimiravasi per poro come divino. Ch’ei poi sapesse di greco, comprovasi chiaramente dall’osservare che assai maggior numero di voci e di derivazioni greche trovasi nel Lessico di Uguccione che in quello di l’apia. Di queste riflessioni a difesa e ad onor di Uguccione io son debitore al eh. sig. Ranieri Tempesti autore di un elegante ed erudito Discorso sulla Storia letteraria di Pisa, il quale ha potuto, ciò che a me non era stato permesso, confrontare insieme i Lessici di questi due scrittori. 5o8 LIBRO parmi abbastanza provato: e il P. Sarti medesimo, di cui per altro non v1 ha il più valoroso sostenitore delle glorie de’ professori bolognesi, confessa (De Prof. Bon. t. 1, pars 1, p. 146) che non senza fondamento si crede ch’ei nulla ne sapesse. Lo stesso dicasi di quattro Cremonesi di questo secolo, che appoggiato all’autorità dell’Arisi annovera monsignor Gradenigo tra’ dotti di lingua greca, e sono Ferdinando Bresciani, Girolamo Salinerio, Valerio Stradiverto e Rodolfino Cavallerio (p. 102, ec.). Non v’ha chi non sappia quanto poco convenga fidarsi all’autorità dell’Arisi, scrittor erudito e laborioso, ma le cui opere o per la fretta con cui furon distese, o per troppa facilità in adottare checchè trovasse scritto di altri, son piene di gravissimi falli e di cose asserite senza alcun fondamento. Certo la iscrizione sepolcrale dei Cavallerio , ch’egli arreca, troppo è lontana dallo stile e dal gusto del secolo XIII a cui egli l’attribuisce. Quelli de’ quali finora abbiam fatta menzione, bastano ad assicurare all’Italia l’onore di aver sempre avuti diligenti coltivatori di questa lingua, senza che annoverandone altri di cui non ne sieno ugualmente certe le pruove, diamo occasione a’ rivali delle nostre glorie di crederci vani millantatori di lodi non meritate. ITI. A questi Italiani versati nella lingua greca aggiugniamone un altro che ci lasciò qualche pruova della sua perizia nella lingua ebraica. Ei fu Giovanni da Capova , di cui non fanno menzione alcuna gli scrittori delle Biblioteche del regno di Napoli, e che da Niccolò Antonio TERZO 5oy è stato, benché con qualche dubbio, creduto spagnuolo (Bibl. hisp. vet. t. 2, p. 222), solo perchè l’opera che ora rammenteremo, è stata tradotta in lingua spagnuola. Egli recò dalla lingua ebraica nella latina un’opera pregiatissima tra gli antichi Indiani, e traslatata in quasi tutte le lingue orientali, e poscia ancora nelle moderne, di cui parla lungamente il Fabricio (Bibl■ gr. t. 6, p. 460, ec.). Ella in lingua ebraica è intitolata Culila et Damna, e contiene racconti e favolette leggiadre ad istruzione degli uomini e singolarmente de’ cortigiani. Giovanni, avendone veduta una versione ebraica, la tradusse in latino, e la dedicò al cardinale Matteo Rossi sollevato a quella dignità dal pontefice Urbano IV l’anno 1262. Essa è poi uscita alla luce in carattere gotico e senza data d’anno e di luogo (Fabr. ib., et Bibl. med. et inf. Latìn, t. 1, p. 332). Egli è vero però, che non è a stupire che Giovanni da Capova fosse in quella lingua versato, poichè egli era nato ebreo , ed avea poscia abbracciata la religion cristiana, come raccogliessi dal prologo eli’ egli premise alla sua traduzione, parte del quale è stato di nuovo pubblicata dal Wolfio (Bibl. hebr. t. 3, p. 350) e dal Marchand (Dict t. 1, p. 312). Ma ciò non ostante egli è meritevol di lode, perchè a vantaggio degli altri rivolse la perizia ch’egli avea di quella lingua. Delle traduzioni che di quest’opera abbiamo in lingua italiana , parlasi nella Biblioteca de’ Volgarizzatori (t.3,p. 386; t. 5, p. 662). 5 IO LIBRO IV. A queste lingue, che per non esser note che a’ dotti si chiaman dotte, mi sia qui lecito T aggiugnerne un’altra che benchè usata allora dal volgo stesso in una parte d’Europa, divenne però l’oggetto dello studio e delle fatiche di molti Italiani, cioè la lingua francese. Parlo a questo luogo della lingua francese, non della provenzale; perciocchè, comunque monsignor Fontanini abbia creduto che fossero a un di presso la lingua medesima (Della Eloq. ital. l. 1. c. 8), certo è nondimeno ch’esse furon troppo diverse l’una dall’altra, come chiaramente si riconosce al confronto delle poesie provenzali che ancor ci—rimangono, co’ libri scritti al tempo medesimo in lingua francese. Quindi M. Falconet riprende a ragione il cavaliere Salviati, perchè sostenne che Brunetto Latini scrisse il suo Tesoro in lingua provenzale , mentre esso fu da lui scritto nel comun linguaggio francese (Hist. de l’Acad. des Inscr. t. 7, p. 296). Della provenzale e de’ poeti italiani che in essa si esercitarono, parleremo nel capo seguente. Qui direm solo de’ prosatori a’ quali piacque di scrivere in lingua francese. Essi non furon pochi , e non pochi sono i monumenti che ancora ce ne rimangono, benchè niun di essi sia mai stato , per quanto io sappia , dato alla luce. Ma onde mai sorse tra gl’Italiani un si nuovo fervore pel coltivamento di questa lingua? Il sopraccitato monsignore Fontanini ne arreca per principal ragione le splendide e magnifiche corti de’ Signori provenzali , che traendo a loro molti Italiani, gl’inTERZO 5« I vaghirono di coltivili’ quella lingua. Ma oltre ch’io temo che le cose che di coteste corti si narrano , siano forse esagerate oltre al dovere, esse aveano singolarmente in pregio la poesia provenzale, di cui qui non si tratta. Una ragione assai più probabile a me sembra che se ne possa assegnare nella venuta de’ Francesi in Italia, quando Carlo d’Angiò divenne signore del regno di Napoli l’anno 1266. Egli ebbe gran potere ancora nella Toscana, come abbiamo accennato al principio di questo tomo; e molti Francesi perciò essendosi a questa occasione sparsi per la Toscana, non è maraviglia che la lor lingua ancor vi si dilatasse, e che gl’italiani prendessero a coltivarla. V. Sembra che gl’italiani cominciassero fin da que’ tempi a lasciarsi trasportare per tal maniera dalla stima delle cose degli stranieri , che in confronto ad esse avessero a vile le loro proprie. Noi veggiamo alcuni di essiFonte/commento: Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/773 esaltare con somme lodi la lingua francese, e dirla assai più elegante e leggiadra dell’italiana, anzi delle lingue tutte del mondo. Brunetto Latini, che volle scrivere in questa lingua il suo Tesoro, afferma di aver ciò fatto anche parce que la parleure est plus delitable et plus commune à tous langaises. Ma non è meraviglia ch’egli scrivesse così, perciocchè egli scrivea in Francia, come vedremo altrove, ove di lui parleremo più a lungo. Il ch. abate Mehus parla di un codice ms. che conservasi in Firenze nella biblioteca raccolta dal marchese Gabriello Riccardi (Vit. Ambros. camald. p. 154), in cui contiensi la Storia di Venezia dall’origine di essa (ino 5 I 2 LIBRO all’anno 127$, scritta, o, a meglio dire, traslatata da antiche Cronache latine in lingua francese da maestro Martin da Canale, il quale nell’introduzione di essa, recando il motivo per cui abbiala scritta in francese, dice: parce que lengue Franceise cort parmi le Monde, et est la plus deli tulle a lire et a oir, que nulle autre. Il Fontanini tra gli encomiatori della lingua francese sopra la italiana annovera ancor Dante (l. cit. c. 10). Ma il march. Maffei, censor severissimo di quell’opera, lo ha su ciò confutato con evidenza (Osservaz. lett. t. 2, p. 117), mostrando che le lodi di cui Dante onora la lingua francese, sono da lui recate solo quai vanti di cui essa crede di essere adorna; ma che ove egli entra a porre il confronto la lingua stessa colla italiana, assai lungamente si stende a provare la preferenza che in questa si dee sopra quella (Convivio c. 10). Io mi terrò lungi da questo esame, poichè troppo odiosi son sempre cotai confronti, e ogni lingua ha vezzi e bellezze tutte sue proprie, di cui può essere paga senza venire a contrasto colle altre. VI. Oltre quelli de’ quali abbiam poc’anzi parlato, il Fontanini e il Mehus annoverano alcuni altri Italiani di questi tempi che scrissero in lingua francese; e il secondo nomina singolarmente (l. cit.) un maestro Guglielmo domenicano in Firenze, autore sconosciuto a’ PP. Quetif ed Echard, il quale avendo composto in latino un libro delle Virtù e de’ Vizii, ad istanza di Filippo detto l’Ardito re di Francia l’anno 1279 il traslatò in lingua francese. Ma di questo e di altri somiglianti scrittori Trv/.o 513 basti l’avere accennato presso chi se ne possan trovare più copiose notizie. Soio parali di 11011 do ver ommettere senza esame una proposizione del Fontanini, il quale afferma che gl’italiani scrissero prima nella lingua francese che nelI* italiana (l. cit. c. 8). Se egli ci avesse arrecati esempj antichi di scrittori italiani che usata avesser tal lingua , potrebbesi dire che in qualche modo provata avesse la sua opinione. Ma tutti quelli ch’ei reca, son posteriori alla metà del secolo XIII. Vorrà egli dunque persuaderci che prima d’allora non si scrivesse in lingua italiana? Egli conosceva pure il passo di Dante, da noi altrove citato, e allegato da lui medesimo (l. 2,c. 8), in cui afferma che a’ suoi tempi, cioè al fine del secolo XIII, non v’erano cose scritte in volgare oltre a centocinquant’anni , cioè che ve n’avea fin dalla metà a un di presso del secolo XII. Egli conosceva pure i poeti italiani che fiorirono prima della metà del secolo XIII, Pier dalle Vigne, Federigo II, Enzo di lui figliuolo (ib), e più altri, de’ quali a suo luogo ragioneremo. Come potè egli dunque asserire che gl’italiani scrivendo avean usata la lingua francese prima che l’italiana? E lasciando stare i poeti, Matteo Spinello cominciò a scrivere italianamente la sua Cronaca l’anno 1247 e Ricordano Malespini anche in più colto linguaggio non molto dopo, e forse ancor prima dello Spinello, scrisse la sua, come nell’ultimo capo del precedente libro abbiam dimostrato. Quindi forse non senza ragione V- v’ scrisse il marcii. Ma Rei, parlando di questa singolare opinione del Fontanini (l. c\ p. u è): ilRABOSC.M, J ni. lJr. 33 Questo valoroso scrittore era stato udito più volte a ragionare in affatto contraria sentenza, e si tiene che mutasse poi, per essersi immaginato di mortificar con questo certe persone di parere del tutto diverso, che gli vennero in disgrazia. Ma usciamo da un argomento che per le calde contese a cui ha data in ogni tempo occasione , sembra che maneggiar non si possa senza ravvivare un incendio non ancor ben estinto.