Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro IV/Capo I

Capo I - Idea generale dello stato civile e letterario d’Italia in quest’epoca

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Capo I - Idea generale dello stato civile e letterario d’Italia in quest’epoca
Tomo III - Libro IV Tomo III - Capo II
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Capo I.

Idea generale dello stato civile e letterario d’Italia

in quest’epoca.

I. Morto l’anno 1002 il giovane Ottone III, i vescovi, i principi e i signori d’Italia, che profittando della lunga assenza de’ lor sovrani si eran fatti potenti assai, e poco meno che arbitri e signori delle loro provincie, elessero a loro re Arduino marchese d’Ivrea. Ma Arrigo duca di Baviera, eletto re di Germania, e poscia imperadore I di questo nome, volendo ritenere ancora, come i suoi predecessori, il dominio d’Italia, gli mosse guerra. Arduino, [p. 395 modifica]QUARTO 3g5 benché costretto a cedere al troppo potente avversario, più volte nondimeno ripigliò le armi, e non cessò di dar molestia ad Arrigo fino all’anno 1015, in cui deposta la corona, e ritiratosi in un monastero vi finì i suoi giorni. Questa guerra, come osserva il ch. Muratori (Ann. d’Ital, ad an. 1013), diede origine a due novità finallor non vedute in Italia, e che le furon poscia sommamente fatali; cioè in primo luogo alle guerre tra le une e le altre città che in questa occasione ebber principio, essendo alcune di esse favorevoli ad Arrigo, altre ad Arduino; e innoltre alla facilità con cui cominciarono gl’Italiani a prender da se medesimi le armi, quando e per qualunque motivo loro piacesse; da che poscia ne vennero e le guerre civili tra loro stessi, e le frequenti sollevazioni contro de’ lor sovrani, che ad ogni passo trovi am nelle storie di questi tempi. II. Dopo la morte di Arduino niun altro rivale disputò ad Arrigo il regno d’Italia. Ma poichè egli ancora fu morto l’anno 1024, i principi italiani pensarono di chiamare a lor signore alcuno de’ principi della Francia, e fissarono gli occhi singolarmente in Guglielmo duca di Aquitania. Il trattato però non si condusse a fine; e mentre gl’Italiani eran tra lor discordi nell’elezione del nuovo sovrano, Eriberto arcivescovo di Milano recatosi a Corrado il Salico, ch’era stato eletto re di Germania, gli offerse la corona d’Italia. Corrado accettolla, e scese in Italia a riceverla. Ma le difficoltà e le resistenze ch’egli trovò in Pavia e nella Toscana , le sedizioni che alla sua venuta si [p. 396 modifica]396 LIBRO eccitarono in Ravenna e in Roma, la ribellimi di Milano c di altre città di Lombardia 11011 gli permisero di goder della corona con una tranquillità uguale a quella con cui aveala ricevuta. Arrigo II suo figlio che l’anno 1039 gli succedette ne’ regni di Germania e d’Italia, e che l’anno 1046 ebbe in Roma la corona imperiale, non incontrò nè ostacolo nè ribellione in alcuna città d’Italia; e se mostrossi geloso del potere e della magnificenza di Bonifacio marchese di Toscana, e padre della celebre contessa Matilde (3), questi seppe contenersi per modo, che fece conoscere ad Arrigo ch’ei non avrebbe abusato delle sue forze, se non vi fosse costretto. A’ tempi però di questo imperadore ebber principio in Milano le guerre civili fra la nobiltà e la (plebe, da cui quella città fu per molti anni desolata miseramente (V. Hist. Mediol. ad ari. 104 *)A queste dissensioni si aggiunsero non molto dopo le altre non meno funeste nella stessa città cagionate dalla simonia e dalla incontinenza del clero, che poscia si accesero ancora in altre città d’Italia, e furon origine di odj, di rivalità, di uccisioni continue. Io accenno in breve tai cose solo per ricordare P infelicissimo stato in cui era a questi tempi l’Italia; ove però non è maraviglia che a tutt’altro si rivolgesse il pensiero che a scienze e ad arti. (3) La celebre contessa Matilde dovrebbe aver luogo ancora tra le principesse coltivatrici e fomentatrici de’ buoni studj, se pur basta ad accertarcene l’autorità di Benvenuto da Imola, che nel suo Comento su Dante, pubblicato dal Muratori, di lei parlando dice: Fuit etiam literata, et magnani librar uni habuil copi ani (Anliq. Ital. t. 1 , p. ia32). [p. 397 modifica]QUARTO 397 III. E nondimeno questi non furono, per così dire, che i principj delle sciagure di questi secoli. Arrigo II, morto l’anno 1056, ebbe per successore il suo figlio Arrigo III, fanciullo allor di sei anni, che resse l’impero fino all’anno 1106; spazio di tempo nelle nostre storie troppo famoso per le fatali e funestissime dissensioni da cui fu sconvolta la Germania non men che l’Italia. Al nominare Arrigo III ognuno ricorda tosto i pontefici Alessandro II, Gregorio VII, Vittore III, Urbano II e Pasquale II che resser la Chiesa, mentr’ei reggea l’impero, e ricorda la questione delle investiture, che fu la principale cagione delle discordie ch’essi ebbero con Arrigo. Io guarderommi dall’entrar qui o in racconti, o in discussioni che nulla appartengono al mio argomento, e più ancor guarderommi dal seguir l’esempio di alcuni tra’ moderni scrittori che non avendo per avventura nè sapere nè senno bastante a decidere una lite di pochi denari, ardiscono nondimeno di chiamare al lor tribunale papi e monarchi, e seggon giudici tra ’l sacerdozio e l’impero. Copriam di un velo oggetti così funesti, e facciam voti e preghiere perchè non mai si rinnovino. Solo voglionsi accennare i gravissimi danni che per tali discordie ebbe a soffrire l’Italia, perchè s’intenda quanto infelice ne fosse allora lo stato, e quanto contrario al risorgimento dell’arti e degli studj. Gli scismi non furon mai sì frequenti, e vidersi quasi sempre usurpatori della dignità pontificia contender con quelli che legittimamente n’erano rivestiti; Cadaloo contro Alessandro II, Guiberto contro Gregorio VII , e [p. 398 modifica]IV. Continuano le calamità e le guerre civili sotto Arrigo IV. 398 LIBRO gli altri pontefici che gli venner dopo fino a Pasquale, a’ cui tempi morto Guiberto l’anno 1100, tre altri si videro disputare allo stesso Pasquale il trono pontificio. Al medesimo tempo le discordie di Arrigo co’ romani pontefici furon cagione che prima Rodolfo duca di Svevia, poscia la contessa Matilde in Italia, e finalmente il suo figliuolo medesimo Arrigo contro di lui si volgessero per privarlo del regno. Quindi turbolenze e sedizioni e guerre continue. Le città d’Italia e i loro vescovi e signori , altri favorevoli a’ papi, altri ad Arrigo, e perciò gli uni contro gli altri, e sempre intenti a difendersi contro i vicini nimici, o ad assalirli; e spesso ancora le città stesse internamente divise in due contrarj partiti fomentati innoltre ed innaspriti vieppiù dalle animose discordie cagionate, come si è detto, dalla incontinenza e dalla simonia del clero. Chi può spiegare qual fosse in mezzo a tanti disordini lo sconvolgimento, l’agitazione , il tumulto della misera e sì travagliata Italia? IV. La morte di Arrigo III, avvenuta, come abbiam detto, l’anno 1106, sembrò recare qualche speranza di tranquillità e di pace. Ma poichè Arrigo di lui figliuolo , IV tra gl’imperatori, e V tra’ re di Germania, scese in Italia l’anno 1110, non solo infierì colle rovine e cogl’incendj contro varie città e castella che nol voleano riconoscere, ma giunto a Roma, venne ad aperta discordia col pontefice Pasquale II, che da lui fu fatto prigione. Riconciliatosi poscia con lui, e ricevutane la corona imperiale, pochi anni dopo venne con lui a nuova guerra; e morto [p. 399 modifica]QUARTO 399 Pasquale l’anno 1118, ed eletto a succedergli Gelasio II, Arrigo oppose a lui, e poscia a Callisto II che l’anno 1119 eragli succeduto, un nuovo antipapa in Maurizio Burdino arcivescovo di Braga; finchè l’anno 1122 stabilitasi con un solenne trattato la pace fra Arrigo e Callisto, videsi finalmente estinta la gran contesa delle investiture, e insieme riconciliati il sacerdozio e l’impero. Ma le città d’Italia frattanto avvezze già da più anni ad aver l’armi in mano, e a seguir qual partito lor più piacesse, continuarono a nudrire l’una contro dell’altra odii e ninne izie mortali che spesso finivano col totale eccidio or dell’une, or dell’altre. E celebre singolarmente fu a questi tempi la guerra tra Milano e Como, che cominciata l’anno 1118, non ebbe fine che l’anno 1127, quando la seconda città fu costretta a soggettarsi alla sua troppo potente rivale. Cotali guerre furon poscia in avvenire così frequenti, che per lo spazio di oltre a tre secoli in altro quasi non veggiamo occupate le città italiane, che in combattersi e in distruggersi l’une le altre. V. Mentre tale era lo stato di quella parte d’Italia che dipendeva dagl’imperadori, e mentre quella che ubbidiva a’ romani pontefici, era essa ancor travagliata dagli scismi e dalle discordie sopraccennate, nulla meno infelice era la condizione de’ principati di Benevento, di Capova, di Salerno e di altre provincie che or formano il regno di Napoli. Erano già più anni che i Greci, i Saracini e i Longobardi vi guerreggiavan tra loro. Quando i Normanni popoli settentrionali che dopo aver corse in addietro [p. 400 modifica]400 LIBRO molte provincie, si erano stabiliti in quella parte di Francia che dal lor nome fu appellata Normandia, chiamati a combattere i Greci l’anno 1017, cominciarono ad occupare alcune di quelle città, e quindi guerreggiando or cogli uni, or cogli altri de’ signori di quelle provincie, e passando ancora nella vicina Sicilia, dopo varie vicende ottennero sì ampio stato, evennero in sì grande potere, clic l’anno 1 i3o Ruggieri, essendo signore della maggior parte di quelle ampie provincie, prese il titolo di re di Sicilia, e gli antichi padroni costretti furono, quai prima, quai poscia, a cedere i loro stati a’ nuovi conquistatori, e ad abbandonarli interamente. Io non fo che accennare brevissimamente tai cose che non hanno alcuna relazione coll’italiana letteratura; e solo non si debbono ommettere interamente per aver qualche idea dello stato in cui era di questi tempi l’Italia. Ma ritorniamo alla serie degl’iinperadori. VI. Morto l’anno 1125 l’imperador Arrigo IV senza lasciar alcun figlio che gli potesse succedere, fu eletto a re di Germania e d’Italia Lottario duca di Sassonia, III fra ire d’Italia, e II fra gl’imperadori di questo nome. Principe fornito di pietà, di valore, di prudenza non ordinaria, e di tutte in somma quelle virtù che rendono un sovrano adorabile a’ suoi sudditi, dovette nondimeno per le circostanze de’ tempi mostrarsi rigoroso e severo contro molte delle città italiane, che seguendo il genio di libertà che già da lungo tempo erasi in esse introdotto , ricusato aveano di aprirgli le porte, e di riconoscerlo a lor signore. Corrado fratello [p. 401 modifica]QUARTO 40J di Federigo duca di Svevia, che avea già inutilmente disputato a Lottario il regno di Germania e d’Italia, poichè questi fu morto l’anno n 37, gli fu dato a successore. Egli parve che si dimenticasse di avere in suo dominio l’Italia; ove perciò le guerre intestine e civili si fecer sempre più aspre, e le città sempre più stabilironsi in quella indipendenza a cui già da molti anni eransi avvezzate. Federigo I soprannomato Barbarossa, e figliuolo del già mentovato Federigo duca di Svevia, e nipote perciò di Corrado, gli succedette l’anno 1152; principe di magnanimi spiriti e d’indole generosa , e che dovrebb’essere annoverato tra’ più famosi sovrani, se la rea condizione de’ tempi, il trasporto dell’impetuoso suo sdegno, e lo scisma lungamente da lui fomentato e sostenuto, non l’avesser condotto spesso a tai passi e a tali risoluzioni, cui seguendo la natural sua rettitudine avrebb’egli stesso in altre circostanze disapprovato. Egli si fissò in pensiero di voler ridurre al dovere le troppo libere e indipendenti città italiane; e alcune di esse, e Milano singolarmente, provarono i funesti effetti del suo risentimento. Ma ciò non ostante ei non potè condurre ad esecuzione il suo disegno. Le città lombarde insiera collegate seppero sostenere e stancare per modo le potenti armate di Federigo, che questi fu finalmente costretto a capitolare con esse; e f anno u 83 si stabilì la tanto celebre pace di Costanza, per cui fu alle città italiane dipendenti dagl’imperadori confermata con cesareo rescritto quella indipendenza che da essi considerava*! Tiuaboschj, Voi. III. 26 [p. 402 modifica]UDRÒ prima come ribellione e perfidia. Io non debbo parlarne più lungamente, poichè essa non ha relazione al mio argomento. Oltre i trattatori del pubblico diritto, di essa ha scritto colla consueta sua esattezza il ch. Muratori (Antiq. Ital, med. aevi, diss. 48) > e sopra essa abbiamo ancora la bell’opera del Cai lini stampala in Verona nel 1763. A me basta riflettere che ciascheduna delle città d’Italia prese in virtù di essa a reggersi a guisa di repubblica, senz’altra dipendenza dagl’imperati ori, che cjuella dell’alto dominio, delle appellazioni, e di qualche altro diritto; stato che sembrò loro dapprima il più lieto e felice che potesse bramarsi, ma di cui non tardaron molto a sentir gravi e funestissimi danni, come a suo luogo vedremo. VII. L’idea che abbiam data finora dello stato in cui trovossi l’Italia ne’ tempi che formano l’argomento di questo libro, basta a farci comprendere in quale condizione ebbe a trovarsi l’italiana letteratura. In fatti come e con quai mezzi poteva ella risorgere? Niuno degl’imperadori, de’ quali abbiam ragionato, ebbe stabil dimora in Italia; e quando essi vi scesero, vi si mostrarono comunemente non già pacifici e liberali sovrani, ma minacciosi conquistatori, e punitori severi delle ribellanti città. Il sol Federigo I è quegli da cui si legga che gli uomini dotti e le scienze avessero qualche onorevole contrassegno di protezione e di stima. Ma noi ci riserbiamo a parlarne ove trattando della giurisprudenza avremo a esaminare i principj della celebre università di Bologna. Le città stesse e i cittadini divisi tra loro in sanguinose [p. 403 modifica]QUARTO 4o3 fazioni, a tuli’altro areali rivolli i pensieri ohe a lettere e a studi. Aggiungasi che in quest’epoca, cioè al fine dell’XI secolo, ebber principio le sì famose Crociate per la conquista di Terra Santa. Io non entrerò a cercare se esse fossero utili, ovver dannose alla società, nè entrerò in alcuno di quegli esami di cui tanto si piacciono i filosofi e i politici de’ nostri giorni. Ma rifletterò solamente ch’esse alle lettere non recarono vantaggio alcuno, ma anzi non leggier danno. Perciocchè i sovrani ugualmente che i sudditi unicamente allora occupati di un tal pensiero, non si curavan certo nè di promuovere nè di coltivare le scienze (4). Ciò non (a) Sembra ad alcuni che dalle Crociate molto vantaggio traesse l’italiana letteratura. Ma esaminando la cosa attentamente, si vedrà forse che niuna parte ebbero nel renderla più fiorente e più colta. Il secolo delle Crociate fu singolarmente il XII, e quindi se esse avessero recato giovamento alle lettere, in quel secolo principalmente e nel seguente se ne sarebbon veduti gli effetti. Or benchè non possa negarsi ch’essi non fossero meno infelici de’ precedenti, nondimeno non si può in alcun modo affermare che seguisse allora quella ben avventurata rivoluzione che cambiò la faccia della letteratura in Italia. Il primo frutto che se ne dovea raccogliere , era la notizia e I uso de’ codici greci che i Crocesegnati potevan portar seco dall’Oriente, li umidimmo fu così lungi l’Italia dall"arricchirsi allora di tali opere, che le versioni che nel secolo XIII si fecero degli autori greci, furon più sovente formate su le traduzioni arabiche che sugli originali; indicio evidente che grande era ancora in Italia la scarsezza de’ greci codici, e che i Crocesegnati non si eran molto curati di recarli seco dalle loro spedizioni. L’entusiasmo per lo studio della lingua greca non si risvegliò in Italia che a’ tempi del Petrarca e del boccaccio, quando [p. 404 modifica]4<>4 LIBRO ostante da questa medesima sì infelice condizion dell’Italia io penso che avesse origine una delle sue glorie maggiori, cioè il recar ch’ella fece le scienze, singolarmente sacre, alle nazioni straniere. Alcuni che sortito aveano dalla natura e talento e inclinazione agli studj, veggendo che le turbolenze della lor patria non permettevano il coltivarli nelle paterne lor case con quell’agio e con quel piacere ch’essi avrebbon voluto, si trasportaron ad altre provincie, ed entrati in esse per farsi discepoli , vi divenner maestri. Noi avremo a vederlo più chiaramente nel capo seguente. VIII. Alcuni de’ romani pontefici, benchè travagliati continuamente da sinistre vicende, furon que’ nondimeno che non dimenticarono in questi tempi le scienze, e che anzi si adoperarono, quanto fu loro possibile, a ravvivarle. Così nel sinodo tenuto in Roma da Gregorio VII l’anno 1078 troviamo ordinato che tutti i vescovi facciano che nelle lor chiese vi abbia scuola di lettere (Condì’. Collect. Harduin. t. 6, Ìiars 1, p. 158o). E nel terzo Concilio generale ateranese, tenuto da Alessandro III l’anno 1179, non solo si ordina che i vescovi e i sacerdoti debbano esser forniti di quella scienza che al lor ministero e al lor carattere si conviene (ib. pars 2, p. 1674), ma espressamente comandasi uppcna più parlavasi delle Crociate. Lo studio che nel secolo XII cominciò a fiorire principalmente tra noi, fu quel delle leggi, e in esso io non credo certo che parte alcuna avessero le spedizioni in Oriente. In somma 10 l.ou trovo indù io di scienza alcuna che per mezzo delle Crociate si possa dire risorta e coltivata fra noi. [p. 405 modifica]. QUARTO 4°5 che, acciocché i poveri non rimangan privi di quel vantaggio che seco portan le lettere, in ogni chiesa cattedrale vi abbia un maestro che tenga gratuitamente scuola a’ cherici e ad altri scolari poveri, e che perciò qualche beneficio gli venga assegnato, di cui vivere onestamente; che se tal costume era stato in addietro in altre chiese, ovvero in altri monasteri, di nuovo vi s’introduca; e che per la licenza di tenere scuola non si esiga prezzo da alcuno, nè si vieti ad alcuno il tenerla, quando egli abbiane avuta l’approvazione, e sia creduto abile a tal impiego (ib. p. 1680). Questi provvedimenti medesimi furon poscia inseriti nel Corpo delle Leggi canoniche (Decret. l. 5, tit. 5 l/e Magislris), ove due altre leggi si veggono dello stesso Alessando III su questo argomento; cioè che non nelle cattedrali soltanto, e in quelle chiese ove tal uso era già introdotto, ma in tutte, purchè avessero rendite e ciò bastanti, il vescovo insiem col capitolo dovessero eleggere un maestro che istruisse i cherici ed altri giovani ancora nella gramatica; e che innoltre nelle chiese metropolitane si eleggesse un teologo che istruisse il clero nella scienza della sacra Scrittura, e in tutto ciò che al reggimento dell’anime è necessario. Io rammento volentieri queste sollecitudini de’ romani pontefici di questa età nel dissipar l’ignoranza in cui giaceva l’Italia, o a dir meglio il mondo tutto, perchè si vegga quanto ingiusto sia il fanatismo di alcuni tra’ moderni scrittori che ce li rappresentano come uomini che invece di rimediare a’ mali onde era oppressa la Chiesa, gli innasprissero [p. 406 modifica]4<>6 LIBRO vie maggiormente, coni’ essi dicono, colla loro ambizione. Se essi con animo men prevenuto prendessero a esaminare le cose, avrebbon a confessare, per tacer di altri punti i quali a questa mia opera punto non appartengono, che a’ romani pontefici si dee in gran parte il non esser interamente perito in Italia ogni seme di buona letteratura, e l’essersi in tal modo agevolata la strada al felice risorgimento delle scienze e delle, arti. IX. Egli è probabile che in molte chiese si conducessero ad effetto le sopraddette leggi del Concilio lateranese e di Alessandro III. Ma egli è anche probabile che in molte città l’infelice condizione de’ tempi ne sospendesse l’esecuzione. Certo per ciò che è della cattedra teologica, noi vedremo che assai più tardi fu ella fondata nella chiesa metropolitana di Milano. Ma questa nobilissima chiesa non era già ella priva di scuole, anzi vi si coltivavan gli studj per modo, che appena ci sembrerebbe credibile in questi secoli, se uno scrittore contemporaneo non ce ne facesse fede. Landolfo il vecchio, scrittor milanese dell’xi secolo pubblicato dal Muratori (Script. rer. ital. t. 4), ci narra nella sua Storia (l. 2, c. 35) che nell’atrio interno di quel tempio metropolitano presso alla porta settentrionale eranvi due scuole filosofiche, in cui i cherici della chiesa e della diocesi venivano in diverse scienze ammaestrati, che ai professori per antica istituzione dagli arcivescovi pagavasi annualmente il dovuto stipendio , e che gli arcivescovi stessi degnavansi a quando a quando di onorare colla ior [p. 407 modifica]QUARTO 4l>7 presenza le scuole medesime, e di esortare i maestri non meno che gli scolari all’adempimento de’ lor doveri. Ma udiamo le stesse parole dello Storico: In atrio interiori, quod erat a latere portae respicientis ad Aquilonem, philosophorum scholae diversarum irtium peritiam habentium, ubi urbani et extranei clerici philosophiae doctrinis studiose imbuebantur, erant duae: in quibus, ut clerici, qui exercitiis tradebantur, curiose docerentur, longa temporum ordinatione, archiepiscoporum antecedentium stipendiis a camerariis illius archiepiscopi qui tum in tempore erat, annuatim aerum magistris donatis, ipse praesul multories adveniens saeculi sullicitudines, a quibus gravabatur, a se depellebat, ac magistros et scholares in studiis adhortans, in palatiis sese demum recipiebat Ambrosianis. E certo non è piccola gloria di questa chiesa, che in un tempo in cui le scienze eran quasi interamente dimenticate, ella avesse nondimeno due professori di filosofia, i quali, se non facevano in essa nuove scoperte, serbassero almen la memoria di quelle, qualunque fossero, cognizioni che dai lor maggiori aveano ricevute (*). X. L’eruditissimo dottor Sassi, che sì gran luce ha recato alla storia letteraria della sua patria, pensa che oltre le scuole ecclesiastiche altre (*) L’uso delle scuole ecclesiastiche in tutte le chiese che avean capitolo 0 collegiata, provasi chiaramente dal titolo che fin da’ tempi più antichi si vede dato ad alcun de’ canonici, e che in molte chiese tuttor si conserva, ove fra le dignità si annovera quella di magister scholarum , o scholasticus , o gymnasia, o magitchola. [p. 408 modifica]4o8 - tuno ancor pubbliche ve ne avesse in Milano, i cui professori avessero dalla città medesima un determinato stipendio (De studiis mediol. c. 7). A provarlo egli adduce un passo di Landolfo il gio.vane, detto ancor di S Paolo, storico milanese esso pure, e del XII secolo, il qual fa menzione di un Arnaldo maestro in Milano: Cam presbi tero Arnaldo magistro scholarum mediolanensis; o, come legge il Puricelli, scholarum mediolanensium; e reca in. oltre l’antica Vita di S. Arialdo, da cui si raccoglie che anche nella diocesi di Milano vi avea di tali maestri. Ma a dir \ ero, benché non vi sia argomento a negare che altre pubbliche scuole vi fossero oltre le ecclesiastiche, non parmi però che i due sopraccitati passi bastino a provarlo; perciocchè e le scuole della diocesi potevano essere quelle appunto delle chiese rurali, i cui parrochi, come più volte abbiamo osservato , dovean tenere scuola; e il prete Arnaldo poteva essere un de’ maestri della metropolitana, il che si rende ancora più verisimile dallo stesso carattere di sacerdote eli’ egli avea. Nè mi sembra che quelle parole scholarum mediolanensium abbiano quella forza che pensa questo dotto scrittore , per inferirne che non delle ecclesiastiche ivi si parli, ma di altre pubbliche scuole; molto più che negli scrittori di questi tempi non conviene supporre una sì precisa esattezza , che da una loro parola dubbiosa e d’incerta significazione debbasi raccogliere un fatto che altronde non si può provare abbastanza. Lo stesso dicasi di Guido , di Azzone e di Giovanni, che in alcune carte milanesi [p. 409 modifica]QUARTO 4°9 deU’ anno 1119 e 1140 si veggon nominati col titolo di maestri, o di soprastanti alle scuole (Giulini, Mem. di Mil. t. 5. p. 121, 573); perciocchè forse queste ancora erano le scuole ecclesiastiche. XI. Scuole somiglianti a queste erano ancora in altre città d’Italia, fra le quali sembra che a questi tempi Parma singolarmente fosse perciò rinomata. S. Pier Damiano al principio fieli1 xi secolo passato da Ravenna sua patria a Faenza per coltivarvi gli studj, come egli stesso racconta (l. 6, ep. 30), venne poscia a continuarli a Parma (ib. l. 5, ep. 16), e rammenta egli stesso uno de’ suoi maestri detto per nome Ivone (l. 6, ep. 17), benchè non esprima se egli tenesse scuola in Parma, o in Faenza; e nel luogo medesimo fa menzione di un certo Gualtero compagno del detto Ivone, il quale dopo avere per presso a trent’anni corse per amor di sapere la Francia, la Spagna e l’Allemagna, tornato finalmente in patria, prese ad istruirei fanciulli, ma fu poscia da un suo rivale ucciso miseramente. Ma più celebri ancora esser doveano gli studj in Parma nel seguente xii secolo; perciocché Donizone, quel desso che ci ha lasciata la Vita della contessa Matilde, ai cui tempi vivea, in uno stile assai barbaro ed incolto, ci assicura che Parma, per le lettere e per le scienze che vi si professavano, dicevasi grecamente Crisopoli ossia città d’oro: Chrysopolis dudum Graecorum dici tur usu , Aurea sub lingua sonat urbs haec esse latina; Scilicet urbs Parma , quia grammatica manet alta Artes ac septem studiose sunt ibi lectae... Script. Rer. ital. t. 5, p. 35^. [p. 410 modifica]4‘O LIBRO Le quali sette arti erano quelle stesse che co’ barbari nomi di trivio e di quadrivio allora si appellavano, perciocchè il trivio comprendeva la gramatica, la rettorica e la dialettica , e il quadrivio l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia (V. Murat.Antiq.Ital. t..3, p. 911). Io credo bene che in tali scienze non fossero nè i professori nè gli scolari tropj o profondamente istruiti; ma quella che ora appena si chiamerebbe leggiera tintura , dovea allora sembrare, e per riguardo a quegli infelicissimi tempi potevasi ancor chiamare , vastissima erudizione. XII. Se vogliam credere a Alberto di Ripalta dottor piacentino, il quale l’anno 1471 difese i diritti dell’università della sua patria contro quella di Pavia , come a suo luogo vedremo, iiu dail’ xi secolo era in quella città uno studio generale di tutte le scienze. Egli parlando del privilegio perciò accordato a Piacenza da Innocenzo IV l’anno 1248, di cui favelleremo nel tomo seguente, afferma che dugento e più anni innanzi a tal privilegio era cotale studio in Piacenza: Verum et per ducentos annos et ultra ante ipsum privilegium in alma civitate Placentiae vigebat viguitque studium literarum (Ann. Placent. vol. 20 Script. Rer. ital p. 933), e a provarlo aggiugne che il celebre glossatore Ruggiero da Benevento ivi teneva scuola; e il conferma coll’autorità di un altro antico giureconsulto , cioè di Odofredo che visse nel XIII secolo. Ma in primo luogo Ruggiero visse nel xn, non nell’ xt secolo, come a suo luogo vedremo. In secondo luogo, ancorchè sia vero che questo giureconsulto tenesse scuola in Piacenza [p. 411 modifica]QUARTO ^•• nel xu secolo, ciò prova soltanto ch’ivi era studio di leggi , come era ancora in all re città, non già di tutte le altre scienze. Ma dello studio di leggi non è qui tempo di ragionare. Non vi ha dunque monumento sicuro che ci dimostri uno studio generale in Piacenza di questi tempi, benchè per altro, come osserva il dottiss. proposto Poggiali (Stor, di Piac t. 3, p. 217), qualche rara menzione si trovi prima d’Innocenzo IV di scuole, di maestri e di studenti piacentini. La maniera però con cui il Ripalta ragiona di questo studio, ci fa vedere che ancor non si era adottata l’opinione che poscia si sparse, e che ancor dal Sigonio fu sostenuta (De Regno Ital. l. 7), cioè che Ottone III l’anno 996 con un suo amplissimo privilegio fondasse l’università di Piacenza: opinione , come osserva il soprallodato Poggiali , non appoggiata ad alcun fondamento, anzi conibattuta abbastanza e distrutta anche dal solo silenzio de’ più antichi scrittori, e del Ripalta singolarmente, a cui troppo opportuna occasione erasi offerta di vantare un tal privilegio. Lo stesso dicasi dello studio di Napoli, che vedesi nominato in una lettera del celebre Pietro Blesense circa la metà del XII secolo (ep. ìj.’t), in cui egli consola i giovani che frequentavano quelle scuole, per la morte del lor maestro Gualtero. Ma questa lettera, e due altre che seguono di somigliante argomento, trovansi ancor tra quelle di Pier delle \ igne segretario di Federigo II nel secolo seguente; e la mai:"era di scrivere apertamente ci mostra che a questo secondo si debbono attribuire, e non al primo: [p. 412 modifica]4*2 LIBRO e che perciò non ha lbrza l’argomento da esse tratto a provare che fosse fin da questi tempi in Napoli uno studio pubblico e generale (6). XIII. E veramente ella è cosa omai posta fuor di quistione, che università alcuna, ossia pubbliche scuole in cui s’insegnin tutte le scienze, non vi ebbe in Italia prima del secolo XIII, poichè quella ancor di Bologna, a cui non si può contrastare il vanto d’antichità sopra l’altre, non era però ancora di questi tempi interamente formata, come vedremo parlando della giurisprudenza. Nelle altre città altre scuole non vedeansi comunemente che di elementare letteratura, o di studj sacri. Ma non giova il cercare più minutamente in quali città esse fossero, e io invece recherò qui parte di un monumento appartenente in qualche modo all’italiana letteratura pubblicato dal P. Mabillon, di cui riuscirà , spero, di non dispiacevole trattenimento ai miei lettori, eli’ io dica qui alcuna cosa. L’anno 1028, Benedetto, priore del monastero di S. Michele della Chiusa in Piemonte, venuto al monastero di S. Marziale in Limoges, risvegliò tra que’ monaci, e in altri monasteri ancora a cui fece passaggio, un gravissimo scandalo, col combattere 1’opinione ricevuta allora (*) Se noi crediamo ad Antonio Ferrari detto Galateo, non vi ebbe luogo nel regno di Napoli in cui gli studi a questi tempi si lietamente fiorissero, come in Nardò: Inclinante Graccorurn fortuna, postquam a Graecis provincia nel la ti no s trans migravit, celebcrrim a Feriti hoc loto regno fuere literarum studia (De Sita Japygiae, p 13s, cd. Lyciens). Ma converrebbe che di questa sua asserzione ci ci recasse qualche pruova. [p. 413 modifica]QUARTO 4 * 3 comunemente che S. Marziale fosse immediatamente discepolo di Cristo e apostolo di second’ordine. Ademaro monaco in Angouleme, il più zelante sostenitore di tal sentenza, inorridì a questa, come ei chiamavala, ereticale bestemmia; e scrisse una lettera circolare per prevenire le ree conseguenze che da’ discorsi di Benedetto gli pareva che dovesser temersi; e questa è il sopraccennato monumento pubblicato dal P. Mabillon (Ann. Bened. vol. 4, App. n. 46). In essa dopo aver caricato il povero prior Benedetto delle maggiori villanie del mondo, chiamandolo co’ nomi di eretico, di demonio, e con altre somiglianti leggiadre espressioni, per renderlo odioso insieme e ridicolo lo introduce a favellar per tal modo: Io son nipote dell libate della Chiusa; egli mi ha condotto a molte città della Lombardia e della Francia, perchè mi istruissi nella gramatica atira, il 98 mio sapere gli costa finora duemila soldi che a’ maestri egli ha dati. Nove anni mi son trattenuto nella gramatica , e sono ancora scolare. Siamo nove occupati in questo medesimo studio, e io sono un uomo perfettamente sapiente. Ho due gran case piene di libri, nè ancora gli ho letti tutti, ma gli vo meditando ogni giorno. Non vi ha in tutto il mondo libro ch’io non abbia. Quando uscirò dalla scuola, non vi sarà sotto il cielo uom dotto che mi stia a confronto Io son prior della Chiusa, e so comporre assai bene i sermoni Io saprei bene ordinare e disporre un intero concilio: tanto son dotto Nell’Aquitania non vi è dottrina di sorte alcuna: tutti son rozzi; e se alcuno ha appreso un [p. 414 modifica]4*4 LIBRO poi oliti ili gramatil a, si crede tosto di essere un nuovo Virgilio. In Francia vi è qualche erudizione, ma assai poco; ma nella Lombardia, ove ho fatto i miei studj, vi ha la sorgente della stessa sapienza. A me sembra impossibile che questo monaco potesse favellar di tal guisa, e credo certo che Ademaro per rivolgergli contro l’odio e il disprezzo comune gli affibbiasse tai sentimenti; molto più che in tutta questa lettera ei ci si mostra uom fanatico e trasportato, che non tiene moderazione alcuna, e che altro non cerca che d’ingiuriare e di mordere il suo avversario; il qual per altro avea per se la verità e la ragione, come or confessano i più eruditi tra gli stessi Francesi. E quindi, se questo monaco italiano insultava in qualche maniera i suoi avversarj, convien confessare che in questo punto egli avea motivo di credersi più di essi erudito. XIV. Tal fu lo stato in generale dell’italiana letteratura, che noi verremo frappoco più particolarmente svolgendo in ciascuna delle sue classi. Per ciò che riguarda alle biblioteche ed a’ libri, non era ancor giunta per essi stagion felice; e benchè taluno vi fosse, come vedremo trattando dei monaci singolarmente, diligente raccoglitore di quanti poteansene avere, non si vider però aprire pubbliche e ragguardevoli biblioteche che agevolasser gli studj. In quale stato fosse la vaticana, non abbiam monumenti che ce lo mostrino. Solo veggiam la serie de’ bibliotecarj della Chiesa romana continuata per tutto il secolo xi dagli eruditissimi Assemani (praef ad vol. 1 Cat. Bibl. vatic. p. 56, ec.), i quali [p. 415 modifica]QUARTO 4 1 5 moltissimi cardinali annoverano che in questo secolo furono di una tal carica onorati. Da’ monumenti medesimi però si raccoglie che un tal impiego non conferivasi in modo che fosse durevole e perpetuo in una sola persona, perciocchè veggiamo, a cagion d’esempio, Bosone cardinale e bibliotecario negli anni 1014, 1017, 1018, 1026, 1027, e insieme Pietro cardinale l’anno 1016 e Dodone l’anno 1024, anzi ancor nell’anno 1026 veggiamo con questo titolo Pellegrino arcivescovo di Celonia, e nel 1027 Pietro vescovo di Palestrina. E forse più d’uno al tempo medesimo aveano quest’onorevole impiego; poichè sembra difficile a intendere come nello stesso anno si veggan più volte due bibliotecarj della Chiesa romana. Nel secolo xii non hanno i suddetti eruditissimi autori rinvenuta notizia che di tre soli onorati di tale carica, l’ultimo de’ quali è il cardinal Gherardo che fu poi papa l’anno 1144 col nome di Lucio II. D’allora in poi per lo spazio di qu isi due secoli non trovasi più menzione di alcun bibliotecario della Chiesa di Roma, forse perchè essendo infelice lo stato di questa biblioteca, non si credesse nè utile nè necessario l’affidarne l’amministrazione e il governo ad alcun cardinale , o ad altro ragguardevole prelato. Altre chiese però ancora è probabile (7) che avessero (*) Il dottissimo sig conte. Rambaldo degli Azzoni Avagaro, canonico della cattedral di Trevigi, ha pubblicato (Mem. per servire alla Stor. letter. t. 8, par. 5, p. 25) un breve indice de’ libri che 1‘ anno 1137 esistevano in quella chiesa, il che conferma ciò che qui ho asserito, cioè che è probabile che fosse questo uso a molte chiese comune. [p. 416 modifica]le loro biblioteche, quali poteansi avere di questi tempi; e rammentansi espressamente da Arnolfo (tti.st. Mcdiol. I. 3, c 20, Script. rer. ital, t. 4; Giulini Mem. di MiL t. 4, p. 186) quella della metropolitana di Milano, che con irreparabile danno fu dalle fiamme consunta l’anno ioy5 (a).