Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro III/Capo I

Capo I – Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, e idea dello stato civile e letterario dell’Italia in quest’epoca

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Capo I – Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, e idea dello stato civile e letterario dell’Italia in quest’epoca
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Capo I.

Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, e idea dello stato civile e letterario d’Italia in quest’epoca.


Si prende a esaminare qual parte avesse l’Italia nelle letterarie cure di Carlo Magno. I. Il nome di Carlo Magno è uno de’ più pregevoli ornamenti della storia letteraria di Francia. Egli ne fu natio, sovrano, legislatore; e vi fece rifiorire le scienze; egli in certo modo gittò i primi fondamenti della celebre Università di Parigi. E se l’Italia ebbe allora la sorte di avere un principe che si adoperasse a farvi risorger gli studi, ella dee confessare sinceramente che ne è debitrice alla Francia. Ma parmi ciò non ostante che l’Italia possa con qualche buon diritto gloriarsi della memoria e del nome di un tal monarca. Io so che la comune opinione ci rappresenta’ Carlo Magno a guisa di un principe che istruito già nelle scienze venne dalla sua Francia in Italia; e mosso a pietà della profonda ignoranza in cui essa giaceasi, vi trasse da’ paesi stranieri uomini dotti che la dirozzasero. E confesso che non senza dispiacere ho veduto uno de’ più accreditati scrittori che abbia ora l’Italia, cioè il ch. sig. Dcnina, [p. 227 modifica]TERZO abbracciare egli pure questa opinione. Ma ben maggior maraviglia, die’egli (Rivol. di tal. t.1, P 4°° i ec.), ci dovrà parere che. l’Italia non solamente allora abbia dovuto conoscere da’ Barbari boreali il rinnovamento della milizia, ma abbia da loro dovuto apprendi’ re in quello stesso tempo le scienze più necessarie, e che bisognasse dagli ultimi confini d Occidente e del Nord far venire in Italia i maestri ad insegnarci, non che altro, la lingua latina. Carlo Magno l’an 781 ave a preposto alle scuole d’Italia e di Francia due monaci irlandesi, ec. Io penso che questo valoroso autore, poichè si era prefisso di non trattare nella sua opera se non per incidenza dell.^ italiana letteratura, non abbia creduto di dovere esaminare un tal punto, e che abbia perciò troppo facilmente seguito l’altrui parere (18). L’idea di questa mia Storia mi ha condotto necessariamente a consultare e a confrontare tra loro gli antichi scrittori della Vita di Carlo Magno, e gli altri autori che gli furono contemporanei, de’ quali, non ostante l’insofferibil barbarie del loro stile, ho voluto leggere quanto ho potuto aver tra le mani; e dopo un diligente esame fatto sopra essi, parmi di poter affermare, con sicurezza di non andare errato, tre cose assai gloriose all’Italia, cioè in primo luogo che Carlo Magno a un Italiano fu debitore del primo volgersi t » (<z) 11 cb. sig. Denina ha poi modestamente ritrattata , o almeno moderata questa sua proposizione nella seconda più ampia edizione del suo ingegnoso ed erudito Discorso sopra le Vicende della Letteratura fatta in Basilea nel 1783 (tom. 1, pag. 100). [p. 228 modifica]a Questo principe dovette le prime istruzioni a Pietro da Pisa , a Paolo Diacono « a Paolino di Aquilata, 228 LIBnO ch’ei fece agli studj; in secondo luogo che Carlo Magno non mandò straniero alcuno in Italia a tenervi scuola; in terzo luogo per ultimo che da Carlo Magno molti Italiani inviati furono in Francia a farvi risorger gli studj. Prendiamo a svolgere e a provare partitamente ciascheduna di queste tre proposizioni, e primieramente la prima, II. Niuno, io credo, vorrà rivocare in dubbio che il primo degli studj a cui Carlo Magno si rivolgesse, non fosse quello della gramatica, senza cui inutilmente avrebbe egli tentato di coltivare le scienze. Or in questo studio egli ebbe certamente a suo maestro un Italiano, cioè Pietro Diacono da Pisa. Eginardo, che è il migliore tra gli scrittori della Vita di Carlo Magno, di cui fu cancelliere, chiaramente lo afferma: In discenda gramatica Petrum Pisanum Diaconum senem audivit (c. 25). Lo stesso confermasi dall’antico scrittore degli Annali di Metz pubblicati dal Du Chesne (Script Hist.Franc.t.3). E similmente l’anonimo poeta Sassone: A sene Levita quodam cognomine Petro Curavit primo discere graminnticam. De Vita Car. ili. I. 5. Questo Diacono Pietro soggiornava in Pavia, e il celebre Alcuino, di cui fra poco ragioneremo, scrive (ep. 15 ad Car. M.) di averlo ivi veduto, mentre andando a Roma erasi per alcuni giorni fermato in quella città, e che in que’ giorni medesimi Pietro avea tenuta una disputa di religione con un Giudeo detto Giulio, che poscia era stata messa in iscritto; e [p. 229 modifica]terzo ^2Q questi, soggiugne Alcuino scrivendo a Carlo Magno , egli è quel Pietro medesimo che poscia si rendette famoso insegnando la gramatica nel vostro palazzo. Egli è dunque certissimo che Pietro da Pisa fu il primo maestro di Carlo Magno, il quale, partito di Francia l’anno 773 in età di trent’anni, rozzo perfino negli stessi rudimenti gramaticali, ebbe in Pavia l’occasion di conoscere un uomo che cominciò a destargli nell’animo qualche amor delle lettere (19). Ciò accadde probabilmente l’anno 774? in cui {a) 11 sig. ab. Gio. Pietro della Stua nella recente sua Vita di S. Paolino, che rammenteremo tra poco, combatte la mia opinione, che Carlo Magno partisse dalla Francia ancor rozzo negli stessi elementi gramaticali (p. 81, nota 6), e afferma che per voler di Pipino suo padre ei fu istruito da Ambrogio Autperto, il quale poscia entrò nell’Ordine di S. Benedetto. Così di fatto afferma lo scrittor della Vita di Autperto, che leggesi presso il Mahillon (A età SS. Ord. S. Bened. saec. 3, pars 2, p.?.5q); ed anzi lo stesso scrittore aggiugne che Autperto fu anche arcicancelliere della corte imperiale. Ma il P. Ceillier osserva (Hist, des Aut. eccl. t. 18, p. 200) che questo autore si mostra mal informato delle azioni di Autperto, perciocchè questi era monaco prima che Carlo Magno salisse il trono di Francia, ed è un grossolano anacronismo il dire che egli morto l’an 769 fosse arcicancelliere imperiale , mentre Carlo Magno non fu coronato imperadore che l’anno 800. Non ha dunque autorità alcuna il detto di questo scrittore a combattere un’opinione fondata sulla testimonianza di tanti altri più accreditati autori. In fatti, come osserva anche il Mabillon, la Vita di Autperto è tratta da una Cronaca del monastero del Volturno scritta nel secolo XI, cioè oltre a 200 anni dopo la morte di esso, e perciò non può avere autorità alcuna in confronto degli scrittori contemporanei che senza far menzione di Autperto danno altri maestri a Carlo Magna. [p. 230 modifica]a3o LIBRO Carlo si rendè padron di Pavia. Nè fu già solo il Diacono Pietro che avesse tal vanto. Carlo conobbe pure in Italia il celebre Paolo Diacono ch’era stato alla corte de’ re longobardi; e com’egli era uno de’ più dotti uomini de’ suoi tempi, fu avuto da Carlo in gran pregio, come a suo luogo vedremo. Inoltre allor. quando l’anno 776 Carlo Magno conquistò il Friuli, e nenuccise il duca Rodgauso, ebbe notizia di Paolino prete, allora gramatico, e poi patriarca di Aquileia; e nell’anno medesimo egli fe’ dono con suo diploma di alcuni beni confiscati ad uno de’ seguaci di Rodgauso con lui caduto in battaglia, chiamandolo nel diploma perciò indirizzatogli, venerabili Paulino artis gramaticae magistro. Il Muratori sostiene che questo diploma appartenga all’anno 781 (Ann. d’Ital, ad. h. an.); ma io mi lusingo di poter dimostrare, quando avrò a trattare nominatamente del patriarca Paolino, ch’esso deesi certamente fissare al detto anno 776. Io so che i Francesi vogliono annoverar Paolino tra’ loro scrittori; ma con qual ragione il facciano, sarà ciò ancora oggetto a suo tempo delle nostre ricerche. Frattanto per non confondere il punto di cui ora si tratta, con altre più lontane quistioni, mi si permetta per ora il supporre ciò che spero di poter evidentemente provare. Che se le mie pruove non sembreranno allor convincenti, potrà ognuno, come meglio gli piaccia, cambiar sentimento. III. Non solo dunque Pietro Pisano fu il primo che avesse la sorte di avere a suo discepolo Carlo Magno , ma questo principe conobbe [p. 231 modifica]TERZO a3l ancora in Italia ed onorò del suo favore Paolo Diacono, e il gramatico Paolino; ed essendo questi due de’ più dotti uomini che allora vivessero, molto certamente giovossi de’ lor discorsi e del loro sapere. Egli è vero che la gloria di aver istruito nelle più nobili scienze Carlo Magno si dee ad Alcuino monaco inglese, di cui racconta Eginardo (Vita. Car. M. c. a5 > che fu maestro di questo principe negli altri studj, dappoichè ebbe appresala gramatica da Pietro Diacono, e che questo sì gran monarca da Alcuino fu ammaestrato nella rettorica, nella dialettica, nell’aritmetica, e singolarmente nell’astronomia, di cui era Carlo sì avido, ch’egli stesso faceasi ad osservare con somma esattezza il corso delle stelle. Nè io negherò ad Alcuino tal lode. Ma si rifletta. Alcuino non fu conosciuto da Carlo Magno che l’anno 780, perciocchè l’antico Monaco anonimo che ne ha scritta la Vita pubblicata dal P. Mabillon (Acta SS. Ord. S. Bened. saec. 4; pars. 1), racconta che Alcuino fu mandato a Roma da Eanbaldo arcivescovo di Yorck, perchè dal romano pontefice gli ottenesse il pallio: che essendosi egli per via avvenuto in Carlo Magno nella città di Parma, questi con gran preghiere lo strinse, perchè, dopo aver soddisfatto all’incarico ingiuntogli, passasse in Francia. Or ciò non potè avvenire che l’anno 780, come dimostra il medesimo Mabillon, perciocchè l’anno 779 morì l’arcivescovo Elberto antecessor di Eanbaldo, il quale l’anno seguente gli fu surrogato, e appunto al fine dell’anno 780 trovossi Carlo in Italia. Erano dunque già alcuni anni che Carlo [p. 232 modifica]a3a ubro Magno avea stretta amicizia con Pietro da Pisa, con Paolo Diacono, con Paolino d’Aquileia, e che per mezzo di loro avea cominciato a conoscere, ad amare e a coltivare gli studj. E quindi se ad Alcuino dovette Carlo i progressi ch’ei fece nelle più ardue scienze, a’ tre mentovati Italiani dovette il rivolgersi primieramente ad esse, e lo spogliar l’ignoranza in cui, finchè si restò in Francia, egli visse. IV. Posso io avanzarmi ancora più oltre, e dire che Alcuino medesimo dovette forse in gran parte alla nostra Italia il suo sapere, e che giovinetto venne a Roma a coltivarvi le scienze? Io non ardisco di affermare una cosa che non trovo asserita nè da antichi nè da moderni scrittori, e che sembra contraria a ciò che narra di se medesimo lo stesso Alcuino, cioè ch’egli era stato istruito fin dai più teneri anni nella chiesa di Yorck (ep. 98). Ma ciò non ostante me ne crea qualche sospetto un’altra lettera dello stesso Alcuino, cioè quella da noi citata poc’anzi, in cui egli ragiona della disputa da Pietro Diacono tenuta con un Ebreo (ep. 15): Dum ego adolescens, dic’egli, Romam perrexi, et aliquantos dies in Papiae regali civitate demorarer, ec. AfTe’ rma qui Alcuino, che in età giovanile egli era andato a Roma. Or questo non potè certo essere il viaggio da lui intrapreso l’anno 780, di cui si è detto di sopra. Alcuino morì, secondo il mentovato scrittor della sua Vita, l’an 804, come confessa lo stesso P. Mabillon (Ann. Ord. bened. t. 2, l. 27, n. 29), benchè altre volte avesse pensato che ciò fosse avvenuto alcuni anni più tardi; [p. 233 modifica]terzo a33 e morì, come nella sua Vita si legge, dierum plenus. Dunque l’anno 780 ei certamente non era giovane. In fatti osserva il Mabillon (ib. l.23, n. 37), che fin dall’anno 758 egli teneva scuola in Yorck, ed era perciò di un’età sufiìeientemente matura. Quindi parmi evidente che il viaggio fatto a Roma da Alcuino giovane non potè essere quello ch’egli vi fece l’anno 780, e che conviene perciò ammettere che due volte fece egli un tal viaggio, la prima in età giovanile, e allor fu che trovò in Pavia il Diacono Pietro che di que’ giorni disputò col Giudeo; l’altra l’anno 780 per chiedere il pallio al suo arcivescovo, quando Pietro probabilmente era già passato in Francia con Carlo (20). Or un viaggio fatto da Alcuino a Roma in età giovanile non è egli probabile che fosse fatto per motivo d’apprendervi quelle scienze, singolarmente sacre, che in Roma eransi sempre in qualche modo coltivate? Io non vo più oltre; perchè parmi che questo argomento non abbia altra forza, se non di rendere alquanto vrrisimilo (a) Il ch. P. abate Frobenio Benedettino, da cui l’anno 1777 abbiamo avuta la nuova e bella edizione delle Opere di Alcuino fatta in Ratisbona in due grossi volumi, nella Vita del medesimo Alcuino postale innanzi confessa (Alc. Op. t. 1, p. 27) che Pietro Pisano e Paolo Diacono furono i primi ad istruir Carlo Magno, ed osserva egli pure che Alcuino in età giovanile era stato a Roma, il che egli crede che avvenisse quando insieme con Elberto, il quale poi l’anno 762 fu eletto arcivescovo di Yorck , andò viaggiando in diversi paesi; e non è inverisimile che qualche tempo si trattenesse in Roma, e ne prendesse occasione di sempre meglio istruirsi negli studi sacri. [p. 234 modifica]234 LIBRO questa opinione. Essa sarà gloriosa all’Italia, quando si possa provare con più certezza. Ma di essa non ci fa d’uopo per dimostrare, come già abbiam fatto, che Carlo Magno dovesse all’Italia il primo rivolgersi ch’egli fece a coltivare gli studj. Or passiamo a provare ciò che in secondo luogo ci siam prefissi, che niun dotto straniero fu da Carlo Magno mandato in Italia per toglierne la comune ignoranza. V. Se a render certa, o almen probabile un’opinione bastasse una lunga serie di autori che la sostengano, noi non potremmo ardire ili rivo; care in dubbio se Carlo Magno inviasse in Italia uomini eruditi, perchè vi tenessero scuola; perciocchè appena vi ha tra’ moderni scrittori chi non ce n’assicuri. Ma la buona critica ha omai sbandita questa maniera di argomentare presso i nostri maggiori troppo frequente, ai quali pareva di aver fatta, per così dire, una matematica dimostrazione, quando aveano schierato un numeroso esercito di scrittori, chiunque essi fossero, da’ quali un cotal fatto fosse affermato. Ove si tratta di storia antica, si esige al presente, e a ragione, l’autorità di storici o di monumenti antichi, la quale ove manchi, inutilmente si arreca quella degli autori moderni che non sono sovente che semplici copiatori l’uno dell’altro, e le cui diverse opere hanno perciò peso poco maggior di quello che avrebbon molti esemplari di un’opera sola. Anzi si vogliono esaminare i detti ancor degli antichi; perciocchè ove in alcun di essi si trova inverosimiglianza, contraddizione, o altro somigliante difetto, di esso ancora rigettasi, o si [p. 235 modifica]TERZO 235 rivoca in dubbio l’autorità e la testimonianza.’ Or, ciò presupposto, si leggan di grazia tutti gli antichi autori che hanno scritta la storia di Carlo Magno, de’ quali ve n’ha sì gran numero nelle Raccolte che abbiamo degli Storici di Francia, di Germania e Italia. Io non ne trovo che un solo a cui si possa appoggiare la comune opinione, che Carlo Magno mandasse in Italia eruditi stranieri. Questi è l’anonimo Monaco di S. Gallo, scrittore non molto lontano da’ tempi di Carlo, perciocchè vissuto al fine del ix secolo, e al principio del x. Ma veggiamo ciò ch’ei ne racconta. Dice egli dunque sul incominciare della sua Storia, che mentre Carlo regnava. e mentre gli studj erano quasi dimenticati, avvenne che due Scozzesi, uomini nelle sacre e nelle profane scienze maravigliosimente eruditi, approdarono con alcuni mercatanti della Bretragna alle spiagge francesi; e che a coloro che verso de’ mercatanti venivano per comperare le loro merci, essi ad alta voce gridavano: Se v’ha tra voi chi brami d’ottener la sapienza, venga a noi, ed avralla; perciocchè noi la vendiamo. Così essi gridavano, riflette l’accorto Monaco, per invogliar meglio i circostanti col risvegliare in essi curiosità e maraviglia. Ne giunse la fama al re Carlo, il quale fattili a sè venire, richiese loro se veramente avessero, come correva voce, recata seco lor la sapienza; e rispostogli che sì certo, e eli’ eran pronti a comunicarla a coloro che la cercassero degnamente, il re interrogolli qual prezzo ne richiedessero; a cui essi: null’altro, sire, che luogo opportuno, uditori ingegnosi, [p. 236 modifica]a36 unno c per noi i necessarj alimenti e le vesti di cui coprirci. Di che rallegratosi sommamente Carlo, poichè gli ebbe per poco tempo presso di sè ritenuti, costretto a andarsene alla guerre, un di essi detto Clemente ritenne in Francia, raccomandogli l’istruzione di molti giovani, altri nobilissimi, altri di mediocre, ed altri ancora di vil condizione, e assegnogli il giusto suo sostentamento. L’altro fu da lui mandato in Italia, e gli fu assegnato il monastero di S. Agostino presso Pavia, acciocchè chiunque fosse bramoso, potesse esser da lui istruito. Ecco il gran racconto del Monaco di S. Gallo, su cui è fondata l’accennata comune opinione. Ancorchè esso si ammettesse per vero, altro finalmente non potremmo raccoglierne se non che uno Scozzese fu mandato da Carlo Magno a Pavia per tenervi scuola; nè ciò basterebbe a provare che vi fosse tale scarsezza d’uomini dotti in Italia, che convenisse inviarvi stranieri. VI. Ma a parlare sinceramente, io non posso a meno di non maravigliarmi che un tal racconto sia stato sì facilmente adottato da uomini allora di erudizione e di critica non ordinaria, e singolarmente dal Muratori (Ann. d’Ital. ad an. 781; Antiq. Ital. diss. 43). A me par di scorgere in esso una cotal aria di favoloso e di romanzesco, che non saprei a qual fatto si possa mai negar fede, se si dà a questo. Comunque infelici fossero i tempi di cui trattiamo, non mancavano però alcuni che allora poteano esser chiamati dotti. Chi eran dunque costoro che colla lor erudizione da saltimbanco commossero a maraviglia la Francia [p. 237 modifica]TERZO 237 tutta, sicché all’udire ch’essi vendevano la dottrina, come se questa fosse una merce non più veduta, e di cui s’ignorasse perfino il nome, tutti si rimanesser estatici per istupore? Qual nuova maniera d’ispirare amor per le scienze fu mai cotesta? Ad uomini che vengono per comprar mercanzie, esibire la erudizione? Cotal sorte di gente era certo molto disposta a udire le cicalate di questi dottissimi cerretani. Inoltre è egli possibile che di un fatto che secondo il Monaco di S. Gallo mise la Francia tutta a rumore, niun altro di tanti storici che scrissero di que’ tempi, avesse contezza? Io posso affermare sinceramente di aver voluti leggere quanti ho potuto aver fra le mani, antichi storici francesi, inglesi e tedeschi, per vedere se questo o altro somigliante fatto confermato fosse da altri, e non ne ho trovato alcun cenno, trattone nella Cronaca di Giovanni Bromton inserita nella Raccolta degli Scrittori di Storia inglese stampata in Londra l’anno 1652. In essa si racconta il fatto medesimo dei due Scozzesi, e si arreca l’autorità di una Cronaca di Arles; ma come la cosa è narrata presso che colle stesse parole del Monaco di S. Gallo, egli è evidente che questo è il fonte a cui Giovanni Bromton ha attinto, onde niuna autorità si aggiugne quindi al racconto. Di tutti gli altri non v’è alcuno che di ciò faccia motto. Inoltre ci si dica di grazia: chi fu egli quel Clemente che approdò co’ mercanti scozzesi alle spiaggie di Francia? Chi fu l’altro compagno di cui il Monaco di s Gallo non ci ha lasciato il nome? Ella è cosa [p. 238 modifica]238 LIBRO leggiadra a vedere come i moderni scrittori per non aver voluto esaminare attentamente le cose, si avviluppano, si confondono, si contraddicono. Il Monaco di S. Gallo nomina un Clemente. Essi cercano chi egli sia: non ne trovan! contezza; poichè veramente, per quanto io abbia cercato, non veggo alcun Clemente che di questi tempi insegnasse in Francia. Trovano che ad Alcaino nel reggimento delle scuole del real palazzo di Carlo Magno sottentrò Claudio: quindi di Claudio e di Clemente fanno un uom solo; e non avvertono che questo Claudio, come poscia vedremo, è lo stesso che fu poi vescovo di Torino, e che ei non fu scozzese di nascita, ma spagnuolo. Vogliono inoltre trovare il nome dell’altro erudito Scozzese che si dice mandato a Pavia. Osservano che Teodolfo fa menzione di uno Scoto ch’era di que’ tempi alla corte di Carlo Magno (l. 3, carm, 1, 3), e che verso il tempo medesimo fu in Francia un certo Giovanni Scoto. Ecco dunque felicemente scoperto il nome dell’altro Scozzese venuto in Francia, e poi mandato a Pavia. Ei fu Giovanni. Ma non riflettono che Teodolfo non dice qual fosse il nome del suo Scozzese, di cui anche parla con molto disprezzo; e che Giovanni Scoto non venne in Francia che a’ tempi di Carlo Calvo, cioè circa la metà del ix secolo (Simm. Dunelmens Hist de gestis Reg. angl. ad. an. 884), e che l’anno 884 ritornossene in Inghilterra. VII. Nè qui finiscono le contraddizioni degli scrittori su questo fatto. Alcuni, a cui sembra improbabile la venuta de’ due dotti Scozzesi [p. 239 modifica]TERZO 23y insiem co’ mercanti, ci narrano che essi vi vennero insieme cogli ambasciadori spediti da un dei re della Gran Brettagna per far lega con Carlo Magno. Ma qui ancora quali inviluppi! In una antica Vita di Offa re de’ Mercii, pubblicata insiem colla Storia di Matteo Paris, si dice ch’egli mandò ambasciadori a Carlo Magno, dappoichè udì le conquiste da lui fatte in Italia ed in Alemagna, e vi si recano ancora le lettere che vicendevolmente furono scritte} ma in esse non si fa motto di alcun uomo erudito che con essi venisse. Guglielmo di Malmesbury, scrittore antico egli pure, cioè del XII secolo, dice che a tal effetto fu spedito Alcuino. Polidoro Virgilio narra di Alcuino la stessa cosa, e poi soggiugne il fatto narrato dal Monaco di S. Gallo, e dice che allora si crede da alcuni che venissero in Francia Alcuino, Rabano, Claudio e Giovanni (Hist Anglor. l. 5). E prima avea egli scritto che Clemente e Giovanni dottissimi uomini erano stati inviati da Acaio re di Scozia a Carlo Magno, mentre questi facea venir da ogni parte i personaggi più celebri per dottrina (ib. l. 4 sub.fin.). Gli scrittori poi più recenti ci narran le più leggiadre cose del mondo. Leggansi le Storie del Larrey e del Lesley, di Rapin Thoiras, del Mezeray, e si vedrà se v’è un solo che si accordi in ciò con un altro. E piacevole singolarmente è il racconto del Larrey che fa venir deputati dal detto Acaio a Carlo Magno Alcuino insieme con Rabano, il qual secondo, egli dice, fondò poi l’Università di Pavia (Hist d’Anglet.)} mentre è pur certo ch’ei non nacque che l’anno 788, [p. 240 modifica]a4v LIBRO e eh* ei non fu in Italia se non per qualche di voto pellegrinaggio. Così non è possibile l’accertar cosa alcuna, e si commettono errori ancora non piccioli, quando non si vogliono esaminare attentamente i detti de’ più antichi scrittori, e ove essi ancora si contraddicano, esaminare a cui debbasi maggior fede. Ma io riprendo in altri un difetto in cui forse sarò caduto io stesso non rare volte, e da cui appena è possibile che sempre guardisi un uomo, anche per questa sola ragione ch’egli è uomo. VIII. Or da tutto il detto fin qui a me par j di potere con qualche sicurezza affermare che

la venuta in Francia dei" due dottissimi saltimbanchi scozzesi è una pura invenzione, non

dirò già ritrovata, ma troppo facilmente adottata dal Monaco di S. Gallo-, che non si sa chi sia quel Clemente, e molto men quel Giovanni, che si voglion venuti alla corte di Carlo Magno in tal occasione; che fu veramente spedita un’ambasciata da uno de’ re d’Inghilterra a Carlo Magno, ma che non è probabile che vi avesse parte Alcuino, perciocchè lo scrittore della sua Vita, che in ciò è più degno di fede, afferma ch’egli si avvenne a caso con Carlo Magno in Parma; che non vi è alcun argomento a provare che in una tal ambasciata vi fosser uomini dotti de’ quali si valesse poi Carlo Magno; il che si rende ancor più certo dalle lettere stesse di Offa e di Carlo, nelle quali non vedesi fatta menzione alcuna di tali uomini; la qual cosa, singolarmente da Carlo Magno, non sarebbesi ommessa; e che perciò essendo questo l’unico fondamento a cui si possa [p. 241 modifica]TERZO 2/[l appoggiare la spedizione fatta da Carlo Magno a Pavia di un dotto Scozzese a tenervi scuola, questo fatto cade interamente, nè si può provare che alcuno straniero fosse a tal fine mandato in Italia da Carlo Magno. IX. Io non ho fatta finor menzione dell’erudito storico dell’Università di Pavia, Antonio Gatti, il quale più lungamente di tutti si è steso su questo argomento, per dimostrare che la detta università fu da Carlo Magno fondata (Hist. Univ. Tic. c. 5, 6, 7, 8, 9, 10); ma ho voluto prima mettere in chiaro, quanto più era possibile, la quistione, perchè in tal modo si vedesse più facilmente il poco peso delle ragioni eli’ egli arreca in difesa del suo parere. Ei sostiene in primo luogo come verissimo il racconto del Monaco di S. Gallo, e a confermarlo in modo che non ne possiam dubitare, reca il testimonio di molti eh egli chiama scrittori antichi. Ma chi sono essi? Il più antico di tutti è Vincenzo Bellovacese, autore del XII secolo, e a cui qual fede si debba in ciò che è storia più antica de’ suoi tempi, è noto ad ognuno. E molto più che egli rapporta il fatto quasi colle istesse parole del Monaco di S. Gallo, da cui si vede che tutti l’han ricavato. Gli altri scrittori son tutti de’ secoli posteriori, e perciò molto men degni di fede, ove si tratta di cosa antica di cui essi non adducano certe pruove. Passa poi il Gatti a ricercare chi fosse il monaco spedito a Pavia; e qui ancora gli avviene ciò che suole avvenire a chi vuol fondare i suoi racconti sugli autori più recenti, invece di consultare gli antichi. Vede in essi Tiraboscih, Voi. III. 16 [p. 242 modifica]2^2 LIUKO imbarazzi e contraddizioni infinite; da alcuni egli è chiamato Giovanni, da altri Albino, ed egli unisce in pace tutti i discordanti scrittori, affermando ch’egli chiamavasi Giovanni Albino scozzese; avvertendoci però ch’egli fu diverso da quell’altro Giovanni Albino scozzese soprannominato Erigena, che noi pure abbiam poc’anzi accennato, e diverso pure probabilmente da quel Giovanni che dicesi, come abbiam osservato, venuto di Francia con Alcuino, con Rabano e con Claudio. e che il Giovanni venuto a Pavia fu Giovanni Mailros, uomo di cui non v’ha alcun tra gli antichi che faccia menzione, e molto meno chi il dica venuto in Italia. Così conviene immaginare, o, a dir meglio, sognare personaggi e fatti che non hanno alcun fondamento, quando si vuole abbandonare la scorta degli scrittori più antichi e più degni di fede. Niuno di questi, come si è dimostrato, ci parla di alcuno straniero spedito da Carlo Magno a Pavia; e questo fatto perciò deesi avere in conto di favoloso, benchè narrato da moltissimi autori, ma tutti appoggiati all’autorità del solo Monaco di S. Gallo. Così di fatto han giudicato il Launoy (de Scholis celebrior. a Car. M. institut. c. 1,2), il Crevier (Hist de l’Univ. de Paris l. 1), ed altri che più attentamente han preso ad esaminarlo. X. Ma negheremo noi dunque che l’università di Pavia fosse fondata da Carlo Magno? Se col nome di università altro non s’intenda che qualche pubblica scuola, io anzi ne dirò più antica la fondazione, poichè abbiamo veduto fin da’ tempi de’ re longobardi tenervi [p. 243 modifica]TERZO a43 scuola di gramatica Felice e Flaviano maestro di Paolo Diacono; e tale era ancor probabilmente l’impiego di Pietro da Pisa. E perchè i gramatici allora non insegnavano i soli elementi della lingua latina, ma tutto ciò che allora apprendevasi di belle lettere, veniva da essi, io concederò volentieri, che scuola pubblica di tali studj, e verisimilmente ancor di aritmetica, fosse in Pavia anche assai prima de’ tempi di Carlo Magno. Ma se col nome di università s’intenda un corpo di professori che di tutte o almeno delle principali scienze tengano scuola, e che abbiano le loro leggi e i lor privilegi muniti di autorità sovrana, io nol negherò ostinatamente, ma riserberommi a crederlo quando o si producano gl’imperiali diplomi con cui questa università fu fondata, o almeno ci si mostrino scrittori antichi che di ciò ne assicurino. Or l’erudito Gatti, benchè sostenga la fondazione dell’università di Pavia fatta da Carlo Magno, nè ha trovato finora alcun autentico monumento, nè ha potuto citarne in pruova che autori vissuti sei o sette secoli dopo, alla semplice asserzione de’ quali i buoni critici negano di prestar fede. Io credo certo che se questo dotto scrittore vivesse al presente, si atterrebbe egli ancora a questo mio sentimento. I pregiudizj volgari sì facilmente ricevuti e sostenuti sì caldamente negli scorsi secoli, quando ogni città, ogni università, ogni pubblico corpo pensava di non esser celebre abbastanza se non traeva la sua origine dai secoli più rimoti, sono omai interamente svaniti; e si è finalmente conosciuto [p. 244 modifica]344 LIBRO die non è già l’autiehilà dell’origine, ma il valore e il merito de’ suoi professori, che rendano le università celebri ed immortali. E quella di Pavia è stata sempre, ed è ancora al presente, in questa parte sì illustre, che dee sdegnare il procacciarsi ogni altra gloria fondata su monumenti troppo incerti e dubbiosi (21). So (a) Su questo argomento medesimo si può vedere l’elegante operetta del sig. ab. Angelo Teodoro Villa stampata in Pavia nel 1782, e intitolata: De Studiis literariis Ticinensium ante Galeatium II, vicecomitem, nella quale sostiene egli ancora la mia opinione , e quasi colle stesse ragioni da me arrecate la vien confermando. Ma un valoroso avversario si è poscia contro lui non meno che contro me innalzato, cioè il sig. Sirio Comi , il quale nel suo libro pubblicato ivi pure l’anno seguente e intitolato; Franciscus Philelphus Archigymnasio Ticini’ nsi vindicatus, ha combattuto a lungo questa sentenza, sempre però con quella urbanità e modestia che degli uomini onesti ed eruditi è propria; e si è ingegnosamente sforzato di sostenere la verità del racconto del Monaco di S. Gallo, e della venuta de’ due Scozzesi, e della fondazione di pubbliche scuole a foggia di università fatta in Pavia da Cai lo Magno, Io confesso sinceramente che ho letto il libro con desiderio d’esser convinto d" errore; e cosU’etto perciò a cambiar sentimento: ma che non mi sembra che le ragioni dal valoroso scrittore allegate sian tali che mi possano persuadere, e che anzi parmi di averle già in questo passo della mia Storia ribattute. Io però non voglio qui rientrare in contesa; e rimetto i lettori al giudizio che lor piacerà di recare, quando abbiano lette ed esaminate le ragioni dell’una e dell’altra parte. Che qualche scuola fosse in Pavia, non può negarsi, e io stesso l’ho affermato. Ma che prima della fondazione di quella università fatta nel 1361 vi fossero scuole di quasi tutte le scienze, io non credo che sia finora stato provato, nè che sia per provarsi giammai, e che il sig. Comi alibi« [p. 245 modifica]TERZO 345 che alcune altre città ancora pretendono che Carlo Magno fondasse in esso pubbliche scuole. Ma ciò che si è detto finor di Pavia, vale a più forte ragione per qualunque altra città e per qualunque scuola italiana. XI. Rimane ora a vedere ciò che in terzo luogo mi son proposto di dimostrare, cioè che Carlo Magno degl’Italiani singolarmente si valse a far risorger le lettere nella Francia. Ciò che ne abbiam letto finora, bastar potrebbe a provarlo; ma conviene esaminare e svolger meglio un tal punto che alla nostra Italia è troppo glorioso. Tra gli antichi scrittori della Vita di Carlo Magno pubblicati dal Du Chesne (Script. Hist. Franc.) non deesi l’ultimo luogo all’Anonimo Monaco engolismese ossia d’Angoulemme, che visse non molto dopo il tempo di cui scriveva. Or questi parlando della venuta di Carlo Magno a Roma l’anno 787 (Vita Car. M. c. 8), dopo aver narrata una contesa che ebber tra loro i cantori romani e i francesi sull’eccellenza del loro canto, contesa che fu decisa da Carlo Magno in favor de’ Romani, due de’ quali furon da lui condotti in Francia, perchè v insegnassero il loro canto; dopo ciò, dico, soggiugne: Similiter erudierunt romani cantores supradicti cantores Francorum in arte organandi (22). Colle bensì usato un lodevole sforzo d’ingegno per dimostrarlo, ina che non abbia potuto produrre che deboli congetture , e autorità non troppo valevoli ad assicurarcene. (22) Il sig. ab. Arteaga afferma (Rivol, del Teatro music, ital. t. 3 , p. 103, ed. ven.), che l’uso dell’organo introdotto in Roma assai prima , e obbliato per qualche secolo, fu poi rinnovato verso la fine del srcol [p. 246 modifica]a46 LIBRO quali parole non è ben chiaro se il Monaco ci voglia dire che i Romani ammaestrarono i Francesi a lavorare gli organi, o ad usarne sonando. Forse vuol dire l’uno e l’altro. L’uso degli organi era certo assai antico in Italia, perciocchè, oltre altre pruove, ne abbiamo una chiarissima descrizione in Cassiodoro: Organum itaque est, dic’egli (in psal. 150), quasi turris diversis fistulis fabbricata , quibus flatu folliuna vox copiosissima destinatur, et, ut eam modulatio decora componat, linguis quibusdam ligneis ab interiore parte construitur, quas disciplinabiliter magistrorum digiti reprimentes nono; e che ove si dice che Adriano papa mandò in Francia maestri in arte organandi, non deesi già intendere di maestri di lavorare, o di sonar I’ organo; perciocché la parola organari non significa già tal cosa, ma significa inserire alcune terze nel progresso del canto fermo cantato all’unisono, e che in ciò il Muratori, il Bettinelli, ed io ci siam tutti ingannati. Se io avessi a quel solo passo appoggiata la mia asserzione, ove ho stabilito che al tempo di Carlo Magno si usavan gli organi in Italia, avrebbe l’erudito autore giusta occasione di oppormi i diversi sensi ne’ quali quella voce può essere intesa. Ma io l’ho appoggiata anche agli altri passi da me riportati nei quali si fa menzione di organo, e perciò, s’ei voleva ribattere la mia opinione, conveniva che dimostrasse che da que’ passi ancor non si pruova l’esistenza degli organi. Concedasi dunque all’ab. Arteaga ciò di che per altro potrebbe quistionarsi, che la voce organari abbia il senso ch’egli le dà, benchè pure ne abbia altri, e forse ancor quello da me indicato. Ma egli non ha provato, nè proverà forse mai che l’uso degli organi fosse dimenticato in Italia dopo i tempi di Cassiodoro; giacchè abbiam se non altro l’organo del prete Giorgio non alla fine, ma al principio del nono secolo. [p. 247 modifica]grandisonam efficiunt et suavissimam cantilenam. Al contrario io non ne trovo esempio in Francia prima de’ tempi di Pipino padre di Carlo Magno; perciocchè veggiamo che Costantino Copronimo mandogli in dono un organo (Ann. Franc, ad an. 757) che dovea perciò aversi in conto di cosa assai rara. Un altro organo, se crediamo al Monaco di S. Gallo (Vita. Car. M. l. 1, c. 10), dall’imperador Costantino Porfirogenito fu mandato a Carlo Magno, il che dovette accadere verso l’anno 781, quando l’imperadrice Irene gli mandò ambasciadori, chiedendogli Rotruda di lui figliuola per moglie del detto Costantino suo figlio. Ma non bastava che in Francia vi fosser organi, se non sapeasi la maniera di usarne, e insieme di farne de’ somiglianti. Di ciò dunque istruiti furono i Francesi da’ cantori romani condotti da Carlo in Francia l’anno 787. E anche più anni dopo, cioè l’anno 826, un prete veneziano, detto per nome Giorgio, venuto in Aquisgrana innanzi all’imperador Lodovico Pio, vi fabbricò un organo che destò gran maraviglie nella corte imperiale, come coll’autorità di più antichi scrittori dimostra il Du Cange (Gloss. Med. et inf. Latin. art. Org.). Ma degli organi basti il detto fin qui; che parrà forse ad alcuno che io stenda troppo oltre il regno della letteratura, se anche l’invenzion degli organi vi debbe aver parte.

XII. E altri maestri di gramatica e di ritmetica. XII. Insiem co’ detti cantori, prosiegue a dire il citato Monaco d’Angoulemme, il re Carlo condusse seco da Roma in Francia maestri di gramatica e di aritmetica, e comandò loro che [p. 248 modifica]a4$ LIBRO propagassero in ogni parte cotali studj, perciocchè, dic’egli, prima di lui niuno studio delle belle arti era in Francia. Et domnus rex Carolus iterum a Roma artis gramaticae et computatoriae magistros secum adduxit in Franciam, et ubique studium litterarum expandere jussit. Ante ipsum enim domnum regem Carolum in Gallia nullum studium fuerat liberalium artium. Le quali ultime parole non debbonsi però intendere per tal maniera’ che la Francia fosse finallòra rimasta sommersa in una profonda ignoranza, ma solo che già da molto tempo eranvi interamente caduti gli studj , talchè convenne a Carlo di far venir dall’Italia alcuni che dirozzassero i suoi popoli nella gramatica almeno e nell’aritmetica, ch’erano allora comunemente il più alto scopo a cui si cercasse di giugnere collo studio. Eccardo, detto da altri Eneccardo, monaco egli pur di S. Gallo, e che essendo vissuto nell’ xi secolo si suol chiamare il giovane monaco di S. Gallo, esprime i nomi di due che da Roma a tal fine passarono in Francia. Mittuntur secundum regis petitionem Petrus et Romanus cantuum et septem liberalium artium magistri. Può essere che così fosse; ma a meglio accertarsene , sarebbe a bramare che se ne potesse addurre qualche più antico e autorevole testimonio. Ma se non è abbastanza certo il nome de’ maestri che Carlo Magno condusse in Francia, non può negarsi ch’egli alcuni non ne conducesse da Roma. Anzi quella parola iterum usata dal Monaco d’Angoulemme ha fatto sospettare a taluno che prima ancora dell’anno 787 [p. 249 modifica]TERZO u/jO altri maestri avesse egli da Roma chiamati in Francia. Ma gli scrittori di questi tempi non dobbiam creder che fosser così scrupolosi nella scelta delle loro espressioni, che le parole da essi usate si abbiano a prender sempre nel proprio e rigoroso lor senso, e forse la voce iterum qui è adoperata a spiegar parimenti, o ancora. XIII. Egli è certo però che non furon questi nè i soli ne i primi Italiani che Carlo chiamasse in Francia a farvi fiorir le scienze. Pietro da Pisa, come di sopra ho accennato, fu a mio parere il primo che a tal fine passasse in Francia, e nel palazzo di Carlo tenesse scuola di gramatica, come colla testimonianza del celebre Alcuino abbiam dimostrato. Quindi il Du Boulay giustamenle’aiTerma che questi debb’essere rimirato come il primo fondatore delle regie scuole in Francia, Itaque Petrus ille merito dici potest primus scholae palatinae et regiae institutor (Hist Univ. Paris t. 1, p. 626). Paolo Diacono venne egli pure in Francia verso questo tempo medesimo, come congettura il P. Mabillon (Ann. Bened. t. 2, l. 24, n. 73), e come mi lusingo di poter a suo luogo provare chiaramente. E benchè il breve tempo ch’egli vi si trattenne, non gli permettesse di recar gran vantaggio a^quelle provincie, nondimeno, uomo colto com’egli era per quella età, dovette concorrer non poco a ravvivarvi l’amore de’ buoni studi. Teodolfo, che pur fu italiano, come a suo luogo dimostreremo, non solo fu da Carlo Magno condotto in Francia,ma fu anche eletto vescovo d’Orleans. Alla qual chiesa ei si rendette sommamente giovevole, come con altre [p. 250 modifica]a5o LIBRO opere di pietà e di zelo, così per singolar maniera col procurare che vi si. coltivasser le. scienze. Perciocché nelle leggi da lui prescritte al clero della sua diocesi due ne veggiamo a tal fine indirizzate; nella prima delle quali egli comanda che se alcun prete vorrà mandare alla scuola qualche suo nipote, o parente, possa mandarlo ad alcuno de’ monasteri ch’egli nomina, ove convien dire che fosser pubbliche scuole (Theodul. Capitular. n. 19 ap. P. Sirmond. Op. t. 2); nell’altra ordina che i parrochi delle ville tengano scuola, e che debbano istruir nelle lettere i figliuoli di chiunque voglia ad esse mandarli, e ciò senza esigerne mercede alcuna, ricevendo solo ciò che spontaneamente lor venga offerto (ib. n. 20). Finalmente Paolino patriarca d’Aquileia, quantunque non mai soggiornasse in Francia, come fu nondimeno accetto per singolar modo a Carlo Magno che di lui si valse, come avremo a vedere, in molte occasioni, così non è a dubitare che non si adoperasse egli pure perchè questo gran principe fomentasse il coltivamento degli studj. Noi abbiamo in fatti una lettera scrittagli da Paolino, in cui a ciò singolarmente lo esorta. Expedit tibi, gli dic’egli (Baluz. Miscell, t. 2, pars 2, ed. luc.), venerande princeps, ut exerceas praesules ad Sanctarum Scripturarum indagationem, et sanam sobriamque doctrinam, omnem clerum ad disciplinam, philosophos ad rerum divinarum humanarumque cognitionem. Così, benchè non vogliasi negare ad Alcuino la lode di aver grandemente contribuito al risorgimento degli studj in Francia, deesi però Concedere ancora che [p. 251 modifica]TF.RZO a5l non piccola parie in ciò ebbero gli Italiani; e che non solo non furono da Carlo Magno mandati stranieri in Italia, perchè vi tenessero scuola, ma anzi più Italiani furono da lui chiamati in Francia, e che di essi si valse a farvi risorger le scienze. XIV. Nè io voglio perciò affermare che l’Italia non debba molto essa pure a questo gran principe. Benchè il trarne eli’ ci fece molti uomini dotti per condurgli in Francia, potesse riuscirle di qualche danno, ciò non ostante in altre maniere l’impero di Carlo Magno le fu così vantaggioso per riguardo ancora agli studj, ch’ella dee serbarne eterna e grata memoria. La protezione di cui egli onorò tutte le scienze, e il favore di cui fu liberale agli uomini dotti, dovette certo aver gran forza a risvegliar nell’animo di coloro che ne eran capaci, un nobile ardore per coltivare le belle arti che vedevano essere in sì gran pregio presso il loro sovrano. E se Carlo Magno avesse avuta in Italia più stabil dimora, più lieti effetti si sarebbon veduti della sua regia munificenza nel fomentare gli studj. Ma egli costretto a dividere i suoi pensieri fra le tante diverse provincie di cui era signore, non potè rivolgersi all’Italia con quella particolar vigilanza che convenuto sarebbe a riparare interamente i gravissimi danni de’ secoli trapassati. Se. egli facesse aprire nuove scuole in Italia, non ne abbiamo notizia alcuna, come sopra si è dimostrato: anzi da ciò che dovremo dir fra non molto dell’imperadore Lottario, sembra che si possa raccogliere che anche di questi tempi rare dovean essere rotai [p. 252 modifica]XV. Slato civil dell* Italia. 25a LIBRO pubbliche scuole; e che l’impegno di Carlo Magno nel fomentare le scienze, benchè conducesse probabilmente non pochi a coltivarle, non fece però che 1 Italia, e molto più qualunque altra provincia, non fosse comunemente involta in una profonda ignoranza, funesto effetto delle pubbliche calamità, della mancanza di libri, e di più secoli di barbarie, che aveanla miseramente travagliata ed oppressa. •< A queste ragioni, perle quali l’impegno di Carlo Magno nel rinnovare gli studj non ebbe quel lieto effetto che sembrava doversene sperare, un’altra giustamente ne aggiugne il valoroso ab. Andres. cioè che gli uomini da lui trascelti a tal fine eran bensì i migliori che allor vivessero, ma troppo eran lontani da quel buon gusto senza cui le lettere non posson risorgere, e che altro essi non si prefissero, che di dirozzare ne’ primi elementi della letteratura e del canto quelli singolarmente che al servigio della chiesa erano destinati; ma che niun pensiero si diedero di rintracciare le opere degli antichi scrittori greci e latini, e di eccitare i giovani a conoscerli e ad imitarli (Dell’Origine e progressi d’ogni Letterat. t. 1,p. 106, ec.). » XV. Prima di passar oltre, ci conviene qui dare un’idea generale dello stato in cui era l’Italia di questi tempi. Carlo Magno ne possedeva la maggior parte, e a ragione ne aveva il titolo di sovrano. I papi avean cominciato ad avere il lor proprio stato per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, confermate poi ed accresciute da altri imperadori che venner dopo. Venezia e le isole adiacenti si mantennero [p. 253 modifica]TERZO 253 esse pure indipendenti da Carlo Magno e dai suoi successori, come eransi mantenute a’ tempi ancora de’ Longobardi. Il ducato di Benevento, che comprendeva a que’ tempi una gran parte del regno di Napoli, era rimasto in mano de’ principi longobardi, perciocchè Arigiso II che n’era duca, quando Carlo conquistò l’Italia, e poscia Grimoaldo di lui figliuolo, seppero or coll’armi, or co’ trattati sostenersi sì destramente, che continuarono a godere del lor dominio, dal quale poi l’anno 840 furono staccate due parti, cioè il principato di Salerno e la contea di Capova, che formarono due altri separati dominj di due altri principi longobardi. I Greci non aveano mai abbandonata interamente l’Italia. Napoli, Gaeta e gran parte della Calabria erano o ad essi soggette, o almen tributarie. I Saracini per ultimo dopo aver corse e saccheggiate alcune delle isole adiacenti all’Italia, e dopo aver occupata verso l’anno 722 la Sardegna, scesi in Sicilia l’anno 828, si renderono successivamente padroni di tutta quell’isola che finallora avea ubbidito a’ Greci, e quindi l’anno 842, gittatisi nella vicina Calabria, cominciarono a occuparne alcune piazze, e a molestare e a travagliare l’Italia tutta. Questo era lo stato dell’Italia ne’ tempi di cui scriviamo; stato che dovea naturalmente, come in fatto avvenne, dar frequente occasione a discordie e a guerre fra’ diversi principi confinanti, avidi di stendere il lor dorminio, e di togliersi, se venisse lor fatto, da’ fianchi i troppo molesti vicini. Ma io non debbo trattenermi su ciò che nulla appartiene all’italiana letteratura; [p. 254 modifica]u£»4 LIBllO e solo mi basterà il venire annoverando quelli che essendo signori della maggior parte d’Italia, ne ebbero ancora il titolo di sovrani, e qualche cosa vi operarono a pro delle lettere. XVI. Erano già sette anni che Carlo Magno avea preso il titolo di re de’ Longobardi, quando l’anno 781 venuto a Roma, e fattovi battezzare suo figliuolo Pipino, diegli ancora il nome di re d’Italia. Egli è evidente che questi non era re che di nome; e che Carlo Magno proseguiva a governare egli stesso il nuovo suo regno, e perciò le leggi che sotto nome di Pipino veggiam pubblicate, debbonsi rimirare aneli’ esse come leggi del padre. Poichè nondimeno cominciò Pipino a poter maneggiare le armi, diede in esse pruove di gran valore per modo, che già se ne concepivano le più liete speranze. Ma esse furon troncate da una morte immatura l’anno 810, essendo egli in età di soli trentalrè anni incirca. Carlo Magno, che fin dall’anno 800 avea dal pontefice Leone III ricevuta la corona imperiale, non diegli per allora alcun successore. Ma poscia l’anno 812 nominò re d’Italia Bernardo figliuol naturale del defunto Pipino, giovinetto egli ancora di pochi anni. Questi, morto l’anno 814 Carlo Magno, e succedutogli nell’impero Lodovico soprannomato il Pio di lui figliuolo, lasciatosi ciecamente trasportare da sdegno contro del medesimo Lodovico, perchè avea dichiarato suo collega nell’impero il suo primogenito Lottario , ebbe ardire di ribellarglisi. Ma presto avvedutosi della sua imprudenza, e gittatosi con nuovo errore tra le mani de’ suoi nimici, ne fu [p. 255 modifica]terzo a55 eondennato ad essere accieeato, il che fu eseguito con tal crudeltà, ch’ei ne morì fra tre giorni l’anno 818. Lottario già dichiarato imperadore, fu due anni appresso da Lodovico il Pio suo padre dichiarato ancor re d’Italia; e questi è veramente a cui dobbiamo la prima origine delle pubbliche scuole in molte delle nostre città. XVII. Fra le leggi pubblicate da’ re d’Italia successori de’ re longobardi, e dette perciò longobardiche, alcune ne abbiamo di questo principe l’anno 823 in cui ebbe in Roma la corona imperiale, da lui promulgate in Cortelona, luogo a que’ tempi celebre nel territorio di Pavia presso il fiume Olona, da cui traeva il nome, e ove aveano gli imperadori palazzo e villa, da cui spesso si veggon datate le loro leggi. Ad esse un’altra se ne aggiugne dello stesso Lottario, in cui determina le città nelle quali deesi pubblicamente insegnare. Rechiamola prima nel suo originale linguaggio, qual è stata pubblicata dal ch. Muratori (Script rer. ital. t. 1, pars 2, p. 151), tratta da un codice dell’insigne archivio di questo Capitolo di Modena; e poscia prenderemo a far sopra essa le riflessioni opportune: De iì^c trina vero, quae ob nimiam incuriam atque ignaviam quorumque praepositorum cunctis in locis est Jiinditus exlincta, placitit, ut sicut a nobis constitutum est, ita ab omnibus observetur. Videlicet ut ab his qui nostra dispositione artem docentes alios per loca denominata sunt costituti, maximum dent studium, quali ter sibi commi ssi scholastici ita proficiant, atque doctrinac [p. 256 modifica]LlbiiO insistant, sicut praesens exposcit necessitas. Propter opporti mi tafani tamcn omnium apra loca distincte ad hoc exercitium providimus, ut dif~ ficidtas locorurn longc positorum, ac paupertas nulli fieret excusatio. Questa è l’introduzione, per così dire, all’Editto che poscia segue, annoverando le città destinate alle pubbliche scuole. Ma prima d’innoltrarci, vuolsi far riflessione sull’anno in cui questa legge fu pubblicata, e su queste prime parole che ne abbiam qui recate. Il Muratori nel darla alla luce ha creduto ch’essa appartenesse allo stesso anno 823 a cui certamente appartengono le altre leggi che ad essa precedono (in Not ad l. cite lo stesso ha affermato nelle sue Antichità Italiane (t. 3, p. 815). Ma negli Annali d’Italia dice essere incerto l’anno di questa legge (ad an. 829). E veramente così ne pare a me ancora; perciocchè egli è ben certo che l’anno 823 promulgò Lottario le prime leggi che si veggon nel codice modenese, ma quelle che vengon dopo, non vi è pruova che ci dimostri che siano dello stesso anno, o non piuttosto di alcun degli anni seguenti. Checchessia di ciò, Lottario dice primieramente che in ogni parte d’Italia erasi intieramente perduta la scienza: cunctis in locis est. funditus ex line tu; e che egli perciò avea dati opportuni provvedimenti, e nominate le città in cui dovean essere maestri: sicut nohis constitutum est.... his qui nostra dispositione artem docentes, ec. Di scuole che prima esistessero, di leggi a tal fine pubblicate da Carlo Magno, qui non vi è cenno; e l’asserirsi l’universale ignoranza, ci fa intendere [p. 257 modifica]TERZO 25t chiaramente, non dirò già die ninna scuola vi avesse in Italia, perciocchè abbiam dimostrato che alcune ve n’avea certamente, ma che esse eran sì rare, che non bastavano al fin prefisso. Gli studj qui vengon chiamati col nome di arte: artem docentes: colla qual parola non vi ha dubbio che qui non intendasi la gramatica, presa però in quell’ampio senso in cui abbiamo altrove mostrato che di questi tempi prendevasi, cioè di lettere umane, e forse ancor di aritmetica. E di vero non troviamo alcun monumento di scuola che si tenesse di altre più gravi scienze, come di filosofia, di matematica, di giurisprudenza; nelle quali ognuno potea saper ciò solamente che col privato suo studio gli veniva fatto d’intendere. Per ultimo, se questi maestri che da Lottario si stabilirono, avessero stipendio dal regio erario, o solo da’ lor discepoli, qui non si dice; ma il recarsi per un de’ motivi delle disposizioni di Lottario il desiderio di toglier l’ostacolo chela povertà recava al coltivamento degli studj, ci fa credere che non si obbligassero i discepoli a comperare l’erudizione, perciocchè in tal caso mal sarebbesi provveduto a quei che non aveano a tal fine sufficienti ricchezze. Or veggiamo quai furono le città da Lottario prescelte, il che giova ancora a farci conoscere qual fosse allor l’estensione e quali i confini dei regno d’Italia. XVHI. Primum, siegue a dire Lottario, in Papia conveniant ad Dungalum, de Mediolano, de Brixia, de Laude, de Bergamo, de Novaria, de Vercellis, de Arthona (leg. Derthona), de Aquis, de Genua. de Haste, de Clima. Tu Eboreja Tiraboschi, Voi. III. iq [p. 258 modifica]258 LIBRO ipse episcopus hoc per se faciat. In Taurinis conveniant de Vighintimilio, de Albegano, (de Vadis, de Alba. In Cremona discant de Regio, de Placentia, de Parma, de Mutina. In Florentia de Thuscia resipiscant (forte respiciant). In Firmo de Spoletinis civitatibus conveniant. In Verona de Mantua, de Tridento. In Vicentia de Patavia, de Tarvisio, de Feltris, de Cene fa, de. Asilo. Reliquae civitates Forum Julii ad scholam concurrant. Ecco dunque le nove città da cui doveasi per tutto il regno d’Italia diffonder la scienza: Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona, Vicenza e Cividal del Friuli. L’esser nominata Pavia prima d’ogni altra, e l’assegnarsi ad essa numero di città subalterne quanto allo studio maggiore assai che ad ogni altra, ci mostra eli’ essa fin d’allora distinguevasi in ciò sopra tutte; il che probabilmente nasceva dall’essersi ivi tenuta scuola fin da’ tempi de’ Longobardi, come abbiam dimostrato. A Pavia dunque dovean concorrere i giovani bramosi d’istruirsi da Milano, da Brescia, da Lodi, da Bergamo, da Novara, da Vercelli, da Tortona, da Acqui, da Genova, da Asti, da Como. Chi fosse il Dungalo qui nominato, il vedremo frappoco. Ma che è ciò che si soggiugne d’Ivrea / In Ebo~ reja ipse episcopus hoc faciat. Per qual ragione uno studio particolare in Ivrea, e ad uso solo della stessa città, invece di assoggettarla, come sembrava naturale, a Torino? Per qual ragione ordinare che lo stesso vescovo vi tenga scuola? Io pi eliderei volentieri a rischiare tai dubbj, se potessi aver fondamenti a cui appoggiarmi. [p. 259 modifica]TERZO a5g Ma per quanto io abbia cercato di venirne in chiaro, confesso che non mi è stato possibile lo scoprire anche una semplice congettura di un tal ordine di Lottario. Non sappiamo nemmeno di certo chi di questi tempi fosse vescovo in Ivrea, poichè nella serie dell’Ughelli (Ital. Sacra, t. 4) vedesi una gran voto dall’anno 743 all’anno 844? i’ 1 c’Ji vescovo d"Ivrea era un Giuseppe, il quale vivea ancora l1 anno 853, e non si può perciò accertare ch’ei fosse il medesimo che era vescovo ai tempi di cui parliamo. Oltre che di lui ancora appena altro sappiamo che il puro nome. Non è dunque possibile il far congettura di sorta alcuna su questo punto che pur meriterebbe d’essere diligentemente illustrato. Il rimanente di questa legge non soffre difficoltà. A Torino dovean andare i giovani da Ventimiglia, da Albenga, da Vado, luogo una volta illustre nella Riviera occidentale di Genova, e da Alba; a Cremona da Reggio, da Piacenza, da Parma, da Modena. In F irenze eravi scuola per le altre città di Toscana; in Fermo per le città del ducato di Spoleti. A Verona dovean raccogliersi que’ di Mantova e di Trento; a Vicenza que’ di Padova, di Treviso, di Feltre, di Ceneda, di Asolo. Le altre città finalmente, cioè quelle del Friuli, dell’Istria, e delle vicine provincie soggette all’impero di Lottario, dovean radunarsi in Cividal del Friuli. Delle città soggette al romano pontefice, e di quelle che componeano il ducato di Benevento, qui non ragionasi, essendo formato il decreto solo per le città comprese nel regno d’Italia. [p. 260 modifica]260 libro XIX. Chi fossero i professori nelle altre città, non ce n’è rimasta memoria. Solo quel di Pavia si nomina in questa legge, cioè Dungalo, di cui perciò ci convien dare qualche più distinta contezza. E Muratori ha pubblicato un Catalogo de’ libri che anticamente conservavansi nel celebre monastero di Bobbio, scritto, com’egli pensa, nel x secolo (Antiq. Ital. t. 3, diss. 43, p. 817). In esso non sol si registrano i libri, ma si nominano quelli ancora da cui eransi ricevuti in dono, e tra questi veggiam nominato Dungalo in questa maniera: Item de libris quos Dungalus praecipuus Scotorum obtulit beatissimo Columbano, cioè a quel monastero fondato da S. Colombano. Or questi perchè non crederem noi che fosse quel Dungalo stesso che teneva scuola in Pavia? L’identità del nome, il tempo in cui fu scritto il Catalogo, la non molta distanza tra Pavia e Bobbio, ci rendono questa opinione probabile assai. Era dunque scozzese il professor di Pavia, e quindi alcuni hanno pensato ch’ei fosse uno di que’ venditori della sapienza, che, secondo il racconto del Monaco di S. Gallo, venuto innanzi a Carlo Magno, fu da lui inviato a Pavia. Ma oltre ciò che noi abbiam di sopra recato a confutare un tal fatto, osserva il Muratori (l. cit.) che la venuta del dotto Scozzese, clic si suppone mandato a Pavia da Carlo, non potè accadere dopo l’anno 780, e che non sembra probabile che questi fosse quel Dungalo medesimo che teneva scuola in Pavia dopo l’anno 823, e inoltre nella legge mentovata di Lottario si parla di Dungalo e degli altri professori, come [p. 261 modifica]TERZO a6i (V uomini a tal impiego destinati dallo stesso Lottario: qui nostra dispositione artem docentes alios.... sunt constituti Dungalo dunque fu probabilmente mandato in Italia verso il tempo medesimo in cui fu pubblicata la detta legge. XX. Due altre quistioni ci si offrono a esaminare intorno a questo professor di Pavia; cioè s’ei sia quello stesso Dungalo a cui veggiam attribuite alcune opere; e s’ei fosse Monaco. Abbiamo in primo luogo una lunga lettera scritta fanno Si i da Dungalo a Carlo Magno, il quale per mezzo di Valdone abate di S. Dionigi presso Parigi aveal richiesto della ragione di due ecclissi solari che dicevansi nel precedente anno seguite (Dacher. Spicil. t. 3, p. 324 sec. ed.), nella qual lettera ei mostra di avere una assai mediocre notizia di astronomia, qual era quella che allor n1 aveano anche i più dotti. Il P. Mabillon riflettendo che in essa Dungalo prende il titolo di Rinchiuso) ne congettura (Ann. Bened. t. 2, l. 30, n. 3) ch’ei fosse o monaco dello stesso monastero di S. Dionigi, o ritirato a più solitaria vita presso il medesimo monastero, e detto perciò Rinchiuso. Il Muratori pensa al contrario che questa lettera non dalla Francia, ma dall’Italia fosse scritta a Carlo Magno (l. c. p), 818 e s’appoggia singolarmente a queste parole: in ista terra in qua nunc., Deo donante, Franci dominantur, ah ini fio mundi talis rex et talis princeps nunquam visus est sicut noster dominus Angus tu s Caroìus; parole che sembrano dinotare che il paese in cui egli scriveva, fosse non molto prima passato xx. S1 ei sia Ir» slesso di cui si ha una lettera a Carlo Mag;no sopra le ecdissi. [p. 262 modifica]XX!. Sua opera in difesa «Irl)«• »arre immagini. 362 MERO sollo il dominio de’ re francesi. Ma a dir vero, non parmi questo argomento abbastanza forte a provarlo. La Francia dal principio del mondo sino a questi tempi avea avuti molti altri padroni prima de’ re francesi, e potea perciò dire Dungalo che allor i monarchi francesi ne aveano la signoria; e inoltre negli scrittori di questi tempi non convien supporre una sì scrupolosa esattezza nello scrivere, che da una sola paroletta, qual è la voce nunc, si possa in cosa dubbiosa accertare un senso a preferenza di un altro. E certo non mi sembra probabile che Carlo Magno volesse a uno che soggiornava in Italia, chiedere lo scioglimento di tal quistioni per mezzo dell’abate di S. Dionigi. Quindi se il Dungalo autore di questa lettera è lo stesso che il professor di Pavia, di che poscia ragioneremo, deesi credere verisimilmente ch’ei fosse allora in Francia, e che vi menasse quella vita solitaria che propria era de’ monaci detti Rinchiusi, e che ne fosse poi tratto da Lottario per mandarlo in Italia. XXI. L’altra opera che ha per autore Dungalo, è un libro in difesa delle sacre immagini contro Claudio vescovo di Torino (Bibl. PP. Lugd. t. 14)• Il P. Mabillon osserva che Dungalo vi fa menzione di un sinodo tenuto su questo argomento due anni innanzi: De hac igitur imaginum pictamm catione.... inqiùsitio dii!gentins ante, ut reor. biennium apud gloriosissimos et religiosissimos principes habita est in palatio: e crede perciò che qui si ragioni del sinodo tenuto in Parigi l’anno 825 sul culto delle immagini (l. cìt.). Ma io temo che questo [p. 263 modifica]dottissimo autore non abbia posta mente a una riflessione che ci offrono le stesse parole. Il sinodo o la conferenza di cui parla Dungalo, fu tenuto in presenza degl'imperadori Lodovico e Lottario: apud gloriosissimos et religiosissimos principes. Or questi non sembra che intervenissero al sinodo di Parigi, perciocchè i vescovi che l’avean composto, scrivendo loro per darne ad essi ragguaglio, mostrano chiaramente che i due principi non vi erano stati presenti. Nos servi ac fidelissimi oratores vestri qualiter proximis kalendis novembris apud Parisiorum urbem juxta praeceptum vestrae Magnitudinis in unum convenimus, ec. (Collect. Conc. t. 14, p. 421, ed. Ven. 1769)). E quindi sieguono a dire che hanno incaricato due de’ lor confratelli Aligario e Amalario di recare agl1 imperadori medesimi gli Atti di quel concilio. Se dunque il sinodo di cui parla Dungalo, fu celebrato in presenza de’ principi, esso non fu il sinodo dell'anno 825, a cui niun di loro intervenne. Ma ciò poco monta al nostro argomento. Certo è che questo libro fu scritto non molto dopo l’anno 820, perciocchè Dungalo, favellando della novità dell'opinione di Claudio, dice essere cosa strana che si prenda a combattere ciò che nella Chiesa si è usato per annos ferme DCCCXX, aut eo amplius. Quindi se il Dungalo autor di questo libro è lo stesso che il professor di Pavia, a me par probabile ch’ei lo scrivesse prima di passare in Italia. In fatti benchè Claudio fosse vescovo di Torino, noi non veggiamo che i libri da lui pubblicati contro le sacre immagini eccitassero alcun [p. 264 modifica]264 LIBRO rumore in Italia, ove nè si tenne per lui concilio, nè vi fu chi prendesse a confutarne gli errori. Ben l’eccitarono in Francia, dove contro di lui impugnaron la penna F abate Teoclomiro e Giona vescovo d1 Orleans, e, come io penso, lo stesso Dungalo. Della Francia dunque più verisimilmente che dell’Italia si debbon intendere quelle parole di questo scrittore: ante jam tintinni ex quo in he no terroni adveneram; ed esse sono perciò un non ispregevole argomento a pensare che questi fosse appunto quello stesso Dungalo scozzese che passò poscia a Pavia, e che al monastero di Bobbio fece la donazione della sua biblioteca. XXII. Abbiam finalmente un componimento in versi in lode di Carlo Magno, nel quale l’autore, di cui non si esprime il nome, si dà il titolo di esule dall’Ibernia: Hos Carolo regi versus Hibernicus exsul, cc. Martene Collect, ampliss. t. 6, p. 811. e di cui perciò congetturarono i Maurini autori della Storia letteraria di Francia (t. 4, p. 497) che sia autore lo stesso Dungalo, come pure di alcune delle altre poesie che ad esso veggonsi aggiunte. Tra essi vi son elogi di alcuni abati del monastero di S. Dionigi, e quello ancora dello stesso Dungalo , e sembra perciò che nel monastero medesimo fosser composti que’ versi, e che ivi non sol vivesse, ma morisse ancor quel Dungalo di cui veggiamo farsi l’elogio. Da tutte queste osservazioni rendesi così difficile l’accertare ciò che appartiene a questo celebre uomo, che appena si può sperar [p. 265 modifica]TERZO 265 di formarne qualche probabile congettura. Se debbo dire ciò ch’io ne sento, a me pare che due Dungali si debbano ammettere vissuti al tempo medesimo. Il Dungalo ch’era in Pavia. e passò poscia al monastero di Bobbio, era certamente scozzese, come è evidente dalle già recate parole: Dungalus Scotorum praecipuus; e questi è probabilmente quel Dungalo medesimo che venuto prima in Francia vi scrisse il libro contro Claudio vescovo di Torino, come abbiam dimostrato, poscia passò in Italia, e tenne per qualche tempo scuola in Pavia: e fìnalnu nte ritirossi al monastero di Bobbio, come ricavasi non solo dalle parole sopraccitate, ma più chiaramente ancora da alcuni versi che veggonsi in un antichissimo codice che prima era del detto monastero di Bobbio, ed ora conservasi nella celebre Biblioteca Ambrosiana in Milano. In essi Dungalo facendo dono a S. Colombano (che allor chiamavasi anche Colomba) di quel suo codice, così dice: Sancte Columba , tibi Scotto tuus incola Dungal Tradidit hunc librum, quo fratrum corda beentur. Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 826. E che questi appunto fosse l’oppugnatore di Claudio, rendesi ancora più verisimile dal vedere che tra’ libri da lui donati a quel monastero avvi quello ancor di Dungalo contro di Claudio: Liber Dungali contra perversas Claudii sententias. L’altro Dungalo è il Monaco rinchiuso presso S. Dionigi, autore della Lettera sull’Ecclissi a Carlo Magno. A lui appartiene probabilmente l’elogio pubblicato dal P. Martcne [p. 266 modifica]a6<5 LIBRO (l. cit); e se un Dungalo è veramente l’autore de’ versi mentovati di sopra in lode di Carlo Magno, è verisimile ch’ei fosse il Monaco di S. Dionigi; e in tal caso converrà dire eh’ei fosse ibernese, chiamandosi egli stesso Hibernicus exsuL Ove avvertasi che queste parole non solo non provano eh’ei fosse lo stesso Dungalo scozzese che visse poi in Italia, ma anzi ci convincono eh* egli era da lui diverso; perciocchè essendo allora la Gran Bretragna divisa in molti piccoli regni, non potevano l’Ibernia e la Scozia considerarsi come un sol regno, e chiamarsi perciò promiscuamente i loro abitatori ora Ibernesi, ora Scozzesi. Ma di Dungalo basti aver detto fin qui, di cui sarebbe a bramare che ci fosser rimaste più copiose notizie per meglio conoscere un uomo di cui molta dovea a que’ tempi esser la fama, sicchè se ne facesse menzione espressa nella arrecata legge dell’imperador Lottario. XXIII. Questa legge, su cui ci siamo finor trattenuti, pubblicata da Lottario, diede forse occasione a un canone del Concilio romano raccolto da Eugenio II l’anno 816, in cui que’ Padri, dopo aver detto che in molti luoghi non vi eran maestri, e che le lettere erano trascurate, comandano che in ciaschedun vescovado, e ovunque faccia bisogno, si stabiliscano professori che istruiscano i giovani nelle belle ai ti: De quibusdam locis ad nos refertur, non magistros, neque curam inveniri pro studio literarum. Idein o in universis episcopiis subjectisque plebibus et aliis locis, in quibus necessitas occurrerit, omnino cura et diligcnlia habeaiur, [p. 267 modifica]TERZO 367 ut Tnagistri et doctores constituantur, qui studia literarum liberaliumque artium, ac sancta habentes dogmata, assidue doceant, quia in his maxime divina manifestati tur atque declarantur mandata (V. Baron. Ann. eccl. ad an. 826,- et Collect. Conc, t p. 1008, ed. Ven. 1769). In tal maniera l’ecclesiastica e la civile autorità si univano insieme a procurare il dirozzamento de’ popoli; e i tempi potean sembrare a ciò favorevoli, poichè l’Italia godeva comunemente allora di una tranquilla pace opportuna a coltivare gli studj. Ma la barbarie, l’ignoranza e il disprezzo della letteratura avean talmente già da più secoli occupato l’animo della maggior parte degl1 Italianij c la scarsezza de’ libri, e quindi quella ancor maggiore degli uomini dotti rendea sì difficile il far cambiare, dirò così, sistema e modo di pensare a tutta la nazione, che appena si vide alcun effetto di sì efficaci premure. In fatti in un altro concilio tenuto in Roma dal pontefice Leone IV l’anno 853, in cui confermati furono i decreti del sinodo precedente, e aggiuntavi qualche dichiarazione, al decreto da noi riferito furono aggiunte le seguenti parole: Etsi liberalium artium praeceptores in plebibus, ut assolet, raro inveniantur, tamen Divinae Scripturae magistri, et institutores ecclesiastici officii nullatenus desint, ec. (Collect. Conc. ib. p. 1014)? dal che veggiamo che difficile era il trovar maestri per ciascheduna parrocchia, e che perciò la sollecitudine de’ Padri si ristringeva a fare che non mancassero almeno alcuni che istruissero i giovani ecclesiastici nello studio della Sacra Scrittura e [p. 268 modifica]268 LIBRO nella celebrazione de’ divini Ufficj. In! Roma però dovean essere in qualche migliore stato le scuole destinate all1 islruzion di coloro che doveansi arrolare nel clero. l eggiamo in fatti che Anastasio Bibliotecario fa spesso menzione delle scuole della basilica lateranense, e che in esse egli dice che furono ammaestrati nelle scienze sacre molti di que’ romani pontefici di questa età, del quali egli scrive la Vita (in Vit Leon. III. Pasch. I, Steph. IV)) e di Leone IV racconta che fu istruito nelle lettere nel monastero di S. Martino, ch’era fuor delle mura presso la basilica di S. Pietro. Ed è ancor verisimile che secondo il costume di questi tempi in altri monasteri ancora fossero cotali scuole. XXIV. Dopo Lottano non trovi arri più monumento alcuno in quest’epoca che ci mostri gl’imperadori, o i re d’Italia, che gli succederono, solleciti del rifiorimento degli studj e delle belle arti. Lottario rimasto solo imperadore e re d’Italia insieme l’anno 840 in cui morì Lodovico il Pio, l’anno 844 diede il regno d’Italia a Lodovico II suo primogenito, il quale l’an 850 ebbe ancora la corona imperiale. L’anno 855 morì Lottario, e l’anno 875 Lodovico II. Carlo Calvo altro figliuolo di Lodovico il Pio gli succedette nell’impero e nel regno d’Italia; ma due soli anni vi si mantenne, morto l’anno 877, mentre Carlomanno di lui nipote rivoltoglisi contro gli toglieva l’Italia. Questi ancora però assai poco tempo godette del conquistato suo regno, morto l’anno 880. Carlo soprannominato il Grosso di lui fratello, coronato prima re d’Italia e poscia [p. 269 modifica]TERZO 20f] T anno seguente imperadora, e quindi ancoi re di Francia l’anno 885, morì l’anno 888. ultimo della maschile legittima discendenza di Carlo.Magno. Di tutti i principi mentovati non v’ebbe alcuno, come abbiam detto, che pensasse a far risorger l’Italia all’antiche sue glorie in ciò che appartiene alle lettere; e le quasi continue dissensioni ch’ebbero co’ .lor fratelli e co’ lor più stretti parenti, appena avrebbon loro permesso il rivolgere a ciò il pensiero, quando pure l’avesser voluto. Ciò non ostante, come osserva il ch. Muratori (Ann. di tal. an. 888), la maggior parte d’Italia avea goduto sotto il loro governo di una tranquilla lietissima pace. Ma dopo la morte di Carlo il Grosso le guerre civili e la scostumatezza, la barbarie, l’ignoranza che ne soglion esser gli effetti, la gittaron di nuovo in quel profondo di calamità e di sciagure d’ogni maniera, da cui ella cominciava omai a sperare di essere uscita. In tal maniera le sollecitudini e le premure di Carlo Magno, di Lottario I e de’ romani pontefici, per far in essa risorger le scienze che per le ragioni di sopra arrecate non avean avuto quel felice successo ch’era a sperarne, furono dalle funeste sventure da cui poscia venne travagliata l’Italia, rese del tutto inutili e infruttuose. XXV. La prima guerra civile che si accese in Italia, fu tra Berengario duca del Friuli e Guido duca di Spoleti. Amendue pretesero di occuparne il regno; amendue per ottenerlo cercaron l’aiuto, il primo di Arnolfo re di Germania , il secondo del pontefice Stefano V, [p. 270 modifica]270 unno ainendue radunarono truppe , e vennero ad aperta guerra. Guido ottenne ancora dal papa la corona imperiale, cui l’anno 892 divise col suo figluiolo Lamberto che due anni dopo perdette il padre. Arnolfo chiamato in Italia in suo aiuto da Berengario, fece sempre più vivo il fuoco della discordia. e riempì ogni parte di rovine e di stragi 5 ma più intento a’ suoi vantaggi che a que’ di Berengario, conquistò per se stesso molte città, si fe’ coronare imperadore, e tenne ancora, benchè per breve tempo, prigione il medesimo Berengario. La morte di Lamberto seguita l’anno 898, e quella di Arnolfo che l’anno seguente gli tenne dietro, pareva che assicurassero a Berengario il pacifico godimento del suo regno. Ma un nuovo nemico dovett’egli combattere in Lodovico re di Provenza, e poscia anche imperadore, di cui dopo varie vicende rimasto pur vincitore l’anno 905, ne tenne tranquillamente per più anni il dominio, ed ebbe ancora l’anno 91.^ in Roma la corona imperiale. Di questa tregua, per così dire, si valse egli felicemente insieme col pontefice Giovanni X a combattere i barbari Saracini che già da più anni avean cominciato a devastare l’Italia, e vi avean cagionate stragi ed incendj che non si leggono senza orror nella storia. Nè qui ebber fine i guai della misera Italia. Oltre i Saracini, gli Ungheri ancora la invasero da altre parti più volte; e questi respinti prima da Berengario, furon poscia da lui stesso chiamati in aiuto, quando l’anno 921 si vide per congiura de’ principali italiani assalito da Rodolfo re della Borgogna [p. 271 modifica]TERZO ayi Transiurana. I Barbari sceser tosto con possente esercito a invader l’Italia; e il primo oggetto della lor crudeltà fu Pavia, che presa da essi l’an 924 fu data alle fiamme con tale strage de’ cittadini, che per attestato di Frodoardo, scrittore contemporaneo, dicesi che dugento soli ne campasser la vita. Ma frattanto ucciso nello stesso anno Berengario in Verona, e partiti con ricco bottino gli Ungheri, Rodolfo si vide pacifico possessore del nuovo regno. XXVI. Egli ancora però appena cominciava a goderne, che sel vide tolto da Ugo marchese e duca di Provenza, che invitato a scendere in Italia contro di Rodolfo, il costrinse ad uscirne, e se ne fece coronare re l’anno 926. Era questi, come narra lo storico Liutprando (Hist. l. 3, c. 5), di coraggio non meno che di sapere assai grande, e amava singolarmente e in molte maniere onorava i filosofi. Liutprando, come a suo luogo vedremo, era stato in età fanciullesca alla corte di questo principe; e forse egli scrisse così per adulare alquanto l’antico suo signore. Certo noi non veggiamo che Ugo facesse cosa alcuna a pro delle lettere; e se egli onorava i filosofi, io temo assai ch’ei non trovasse alcuno in Italia, a cui poter compartire cotali onori. L’anno 931 ei dichiarò suo collega il suo figliuolo Lottario. Berengario marchese d’Ivrea chiamato da molti principi italiani, si mosse l’anno 945 contro il re Ugo , il quale fu costretto a cedergli il regno e ad abbandonargli nelle mani il suo figliuolo Lottario. Berengario però non prese il nome di re se non l’anno 950, in cui quel giovane [p. 272 modifica]2*72 LIBRO ed ottimo principe finì di vivere. Berengario II allora fece coronar seco il suo figliuolo Adalberto. Ma l amio i)52 dovette dichiararsi vassallo di Ottone I, re di Germania, da cui poscia fu a lui e al figliuolo tolto il regno d’Italia. Ottone I, coronato imperadore in Roma l’anno 962, innalzò al regno d’Italia Ottone II, suo figliuolo, il quale pure l’anno 967 ebbe la corona imperiale. Il padre, principe che per le grandi virtù di cui diede luminosissimi esempi, ebbe il soprannome di Grande, morì l’anno 973.’ Ottone II, mentre seguiva le gloriose tracce del padre, fu rapito da immatura morte in Roma l’anno 983, e lasciò i regni di Germania e Italia al suo figliuolo Ottone III che l’anno 996 ebbe anche la corona imperiale. Ma egli ancora in età giovanile perdette la vita con universal dolore dei sudditi l’anno 1002 (23). (23) Parlando de’ tre Ottoni che nel x secolo furono imperadori e re d’Italia, io non ho accennato ch’essi fosser punto solleciti di promuover tra noi lo studio delle scienze e delle arti. Ma il ch. dottor Giovanni Lami ha prodotto un passo (Hodoeporicon , pars 1 , p. 229) della Cronaca Hirsaugiense del Tritemio, in cui così dice: Anno Sigerii Abbatis VIII qui a Christo nato dcccclx venerunt Legati Tuscorum ad Ottonem I Imperatorem petentes sibi dari aliquem qui eos in via veritatis instrueret, quibus misit Adelbertum ex monacho Corbejensi episcopum , virum doctum et sanctum qui vix evasit manus eorum. E così infatti si legge nell’edizione di quella Cronaca fatta in Basilea nel 1559) (p. 41), ove però mancano quelle parole: qui a Christo nato dcccclx. Ma nella nuova edizione fatta nel 1690 nel monastero di S. Gallo, in cui la Cronaca stessa si è pubblicata assai più ampia e più corretta, secondo che aveala riveduta ed emendata, anzi piuttosto rifatta [p. 273 modifica]TERZO 2^3 XXVII. Questi furono i sovrani che signoreggiaron l’Italia nello spazio di poco oltre a due secoli, che in quest’epoca abbiam compreso. Tra essi alcuni ve 11’ebbe principi di 10 stesso Tritemio, il fatto così si narra (Vol. 1,p. 103) all’anno g5y s Anno praenotato venerunt Legati gentis Russorum ad Imperatorem magnum Ottonem , postulantes sibi dari aliquem virum doctum qui eos viam veritatis in fide Christi doceret, et praesulatum more. Christianorum inter illos susciperet. (Quibus imperator justia petentibus facile consentiens Adelbertum quemdam monachum Coenobii Corbejensis in Saxonia virum doctum et sanctum exhibuit, eumque prius ordinari, fecit episcopum, hac deinde cum Legatis in Russiam apostolum destinavit, qui multos in terra Russorum , sive Ruthenorum ad fidem Christi exemplo convertit simul et verbo, a quibus tamen postea multas injurias sustinuit, et vix manus non credenti uni paganorum evasit. Egli è evidente che nella prima edizione è corsa per errore la voce Tuscorum invece di quella di Russorum , e che qui si parla di un popolo ancor idolatra, il che non si può intendere della Toscana. In fatti anche il Mabillon parla (Ann. Ord. S. Bened. t. 3, p. 55 r, ed. Paris. 1706) di questa spedizione fatta dal monaco Adelberto in Russia, e cita l’autorità di Lamberto scafnaburgese autore del XII secolo, benchè accenni insieme che altri il dicon mandato non nella Russia, ma nella Rugia; ma della Toscana ei non fa pure un motto. « L tanto fa lungi che Ottone dalla Germania mandasse alcuno ad istruir gl’italiani, che anzi troviamo notizia di un Italiano da lui chiamato ad istruir la Germania. Egli è quel Gunzone di cui abbiamo due Lettere pubblicate una dal P. d’Achery (Spicil. t. 1, p. 437), l’altra da’ PP. Martene e Durand (Collectio ampliss, t. 1, p. 2g4i ec-)’ Dalla prima di esse raccogliesi ch’egli era diacono della chiesa novarese, perciocchè egli si nomina Gunzo Novariensis Ecclesiae Levitarum extimus , e ch’era uomo nelle materie canoniche versato Tiraboschi, Voi. ìli. 18 [p. 274 modifica]274 L1URO valore, di senno, di bontà singolare, che in altri tempi avrebbon fatti felici i popoli a lor suggetli, e da’ quali le lettere ancora avrebbon poluto aspettare protezione e favore. Ma le guerre civili che desolaron l’Italia, le discordie co’ principi confinanti, la lontananza di molli assai; perciocchè il celebre Attone vescovo di Vercelli, di cui in questo studio medesimo facciam menzione, avealo consultato in una quistione matrimoniale. Dall’altra più lunga e più intere.-saute ricavasi ch’egli , uomo italiano, e, come sembra, di ragguardevole nascita, era stato da Ottone il Grande invitato in Allemagna; che questi per ottenerlo erasi adoperato dapprima presso i principi italiani. ma che Gunzone non volendo essere a ciò costretto da alcuno, non erasi piegato ad accettarne l’invito finchè lo stesso Ottone non avea a lui stesso rivolte le sue preghiere, e che allora 1" avea seguito nel ritorno che 1" imperadore avea fatto dall’ 1talia nell’Allemagna. A qual impiego lo destinasse Ottone , non può raccogliersi chiaramente da questa lettera; ma da alcuni passi di essa , e singolarmente da una contesa gramaticalc eli’ ei narra di aver sostenuta con un monaco di S. Gallo, quando passò per quel monastero, par certo ch’ei fosse prescelto o a professore di belle lettere, o a direttore in qualche pubblica scuola. Certo in questa seconda lettera ei mostrasi molto versato nella lettura degli autori profani, e in essa egli accenna la sua libreria allora molto pregevole di quasi cento volumi che seco avea trasportati, e al fin della lettera ci da anche un saggio de’ suoi studj poetici in alcuni esametri che le soggiugne. Intorno a Gunzone abbiamo un opuscolo di Giovanni Cristoforo Gatterer , professore in Norimberga, intitolato De Gunzone Italo, stampato l’anno i’ j’í’j, libro da me non veduto, ma di cui, e di tutto ciò che a Gunzone appartiene , mi ha suggerite le opportune notizie il ch. sig. avvocato Camillo Leopoldo Volta prefetto della Real Biblioteca di Mantova ». [p. 275 modifica]TERZO 275 fra tai sovrani che essendo insieme imperadori e re di Germania non poteano avere in Italia stabil dimora, non permise a queste provincie il godere di que’ vantaggi che da sì egregi principi si poteano aspettare. A ciò si aggiunsero altre sciagure che renderon vieppiù infelice l’Italia. Nel x secolo si vide la sede romana occupata spesso da tai pontefici che cogli enormi lor vizj se ne mostrarono indegni. L’estrema parte d’Italia fu il teatro di continue guerre tra i principi longobardi che vi dominavano, e i Greci e i Saracini che cercavano di conquistarla. Questi secondi avean in certo modo chiusa e circondata l’Italia per esser liberi a scorrerla e depredarla, quando loro piacesse. Perciocchè da una parte que’ che dalla Sicilia si eran gittati nella Calabria e nelle vicine provincie , si avanzarono fino a Roma, e vi spogliarono la basilica vaticana (Murat. Ann. d’Ital. ad an. 846). Dall’altra parte i Saracini ossia Mori di Spagna si spinser fino ad occupar Frassineto, luogo ne’ confini tra la Provenza e l’Italia, donde con funestissime scorrerie presero ad infestare la Liguria, il Piemonte, il Monferrato e ancor la Toscana (id. ad an. 906, ec.). L’antica città di Luni in Toscana fu da essi distrutta (id. ad an. 849)• Genova fu da lor saccheggiata, messi a fil di spada i cittadini, e condotte schiave le donne insiem co’ fanciulli (id. ad an. 935)} e così pure più altre città ne ebber danni e rovine. Al medesimo tempo, come se l’Italia non fosse ancor travagliata abbastanza, gli Ungheri, come si è detto, sceser più volte ad invaderla e a devastarla, e giunsero [p. 276 modifica]2^6 LIBRO colle loro scorrerie fino al celebre monastero di Nonantola nel modonese, ove si videro arsi i libri col monastero medesimo, saccheggiate le case all’intorno, e trucidati barbaramente i monaci tutti (id. ad an. 899). In mezzo a una sì universale desolazione era egli possibile che venisser coltivati gli studj? Se la pace di cui godeva l’Italia a’ tempi di Carlo Magno e di Lottario, e i mezzi che questi posero in opera a far rifiorire gli studj, non bastarono a riscuoterla e a farla volger di nuovo alle belle arti già da tanto tempo dimenticate, quale crederem noi che fosse l’effetto di tali e tante sciagure che avrebbono sparsa la barbarie e l’ignoranza anche fra le più colte provincie? XXVIII Nondimeno in mezzo a sì gravi calamità non mancarono all’Italia in questi tempi alcuni cbe e coi ti Varo 11 essi le lettere, e si sforzarono di agevolarne il coltivamento agli altri. De’ primi avremo a parlare ne’ capi seguenti. Tra’ secondi voglionsi qui ricordare singolarmente due vescovi famosi a que’ tempi, de’ quali noi pure dovrem poi favellare più stesamente, Raterio di Verona e Attone di Vercelli. Il primo fa menzion delle scuole ch’erano in Verona, e mostra che ve n’avea non poche, benchè insieme le stesse parole da lui usate ci faccian vedere che una leggera tintura di lettere era comunemente ciò solo che vi si apprendeva, e che questa giudicavasi sufficiente per quelli ancora che nel clero dovean essere ammessi. De Ordinandis , dic’egli (Synodica n. 13 inter ejus Op. ed. Veron. 1760), prò certo scitote quod a nobis nullo modo promovebuntur, [p. 277 modifica]TERZO 277 nisi aut in civitate nostra, aut in aliquo monasterio , vel apud quemlibet sapientem ad tempus conservati fuerint, et literis aliquantulum eruditi, ut idonei videantur ecclesiasticae dignitati. Attone similmente nel suo Capitolare da lui raccolto da’ canoni di altri più antichi concilj, inserì quello che abbiam veduto di sopra, pubblicato da Teodolfo vescovo d’Orleans, in cui comandasi che i sacerdoti nelle ville ancora e nei borghi tengano scuola , e gratuitamente istruiscano i fanciulli che perciò verranno da essi mandati (Attonis Capitul, c. 61). In Pisa ancora erano al principio del x secolo alcuni canonici destinati a insegnare la teologia e i sacri canoni, come da una Bolla di Benedetto IV deiranno t)o3 dimostra l’erudito cavaliere Flaminio dal Borgo (Diss. sull’orig. dell’Un dell’Univ. Pisana, p. 79). Il qual lodevole zelo è probabile che da altri vescovi ancora fosse imitato, acciocchè le chiese alla lor cura commesse non mancassero dell’opportuna istruzione. In Ravenna verso il fine del x secolo era un cotal Vilgardo, a cui da Glabro Radolfo si dà il nome di gramatico (Hist. l. 1, c. 12), a denotare probabilmente la scuola di gramatica ch’egli teneva in quella città; il quale montato in grande superbia , perchè Virgilio , Orazio e Giovenale comparsigli, com’ei credette, in sogno gli avean promessa l’immortalità del nome, prese a insegnare clic quanto quelli dicevano era degno di fede, e ne fu perciò condennato dall’arcivescovo Pietro. Ma il buon Tedesco Radolfo dal parlare di questo gramatico prende occasion di pungere gl’italiani, dicendo che questi [p. 278 modifica]2j8 libro lian sempre usalo di disprezzar le altre arti, e di far conto della sola gramatica: Sicut Italis mos semper fuit, artes negligere ceteras, illam sectari. Buon per noi che non è questi nè un accusatore, nè un giudice di cui dobbiam far gran conto, checchè gli piaccia di dire intorno a’ nostri studj. Altrove ancora è probabile che vi avesse pubbliche scuole, benchè mi sembri difficile che tutte quelle che da Lottario furono istituite, fra tante sciagure ancor sussistessero (24). XXIX. Le stesse rivoluzioni che abbiamo accennate, dovettero essere ugualmente fatali a’ libri e alle biblioteche, molte delle quali è verisimile che fossero nell’occasione delle scorrerie de’ Barbari incendiate, o disperse. Ciò avvenne certamente al monastero di Nonantola, come abbiamo poc’anzi osservato, in cui molti libri furon dati alle fiamme (25). Se alcuni (a) Oltre le scuole aperte in Italia, troviamo qualche Italiano da essa uscita per tenere scuola in altre provincie. Tale fu quello Stefano che circa l’anno qp.f. era maestro in Ei bipoli ossia Wirzburg, come raccogliesi dagli Atti della Vita di S. Wolfango vescovo di Ratisbona. pubblicati dal Mabillon (A da SS. ord. S. Bened. saec, v, p. 813). (25) Benchè la libreria del monastero di Nonantola fosse data alle fiamme nell’anno 899, è certo nondimeno che quel monastero n’ebbe poscia una assai copiosa di codici, o perchè non tutti allora perissero, o perchè più probabilmente i monaci che vennero appresso ne facessero una nuova raccolta. Un breve Catalogo de’ codici che ivi esistevano , scritto probabilmente al principio del secolo XI conservavasi in Bologna presso il dottissimo P. ab. Trombelli insiem colla copia di un altro posteriore e scritto assai malamente , e [p. 279 modifica]TERZO 379 esemplari pur ci sono rimasti delle opere degli antichi autori, noi il dobbiamo ad alcuni pochi che anche in mezzo a tanta barbarie furono amatori delle scienze sacre e profane, e moltiplicarono i codici, e, per meglio assicurarli, ne fecer dono alle chiese. Così il papa Stefano V verso l’anno 886 donò alla basilica di S. Paolo alcuni libri, come narra Anastasio Bibliotecario (Script. rer. ital. t. 3,pars 1,p. 371)J così l’arcidiacono Pacifico, di cui poscia ragioneremo, lasciò nello stesso secolo al Capitolo di Verona dugento diciotto codi ci; così finalmente un certo prete Teobaldo al principio del X secolo fe’ dono di alcuni suoi codici alla chiesa di S. Valentino in Roma (Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 840). Ma della conservazione de’ libri noi siam debitori a’ monaci singolarmente, i quali coll’istancabil travaglio delle loro mani, accrescendone le copie, faceano in modo ch’essi non perissero interamente. E un bel monumento fra gli altri ne abbiamo pubblicato dal ch. Muratori (ib. p. 187, ec.), cioè il Catalogo de’ libri del monastero di Bobbio, scritto, com’egli pensa, nel x secolo; in cui veggiamo una non piccola copia di autori non solo sacri, ma ancor profani, storici, oratori, poeti, un altro conservasene ancora nell’archivio di quella Badia scritto nel secolo xv. Ed è tradizione costante che la maggior parte di tali codici passasse nel secolo precedente a Roma alla libreria di Santa Croce in Gerusalemme. « Ma della biblioteca del monastero di Nonantola , degli antichissimi codici che vi si conservano, e delle diverse vicende a cui fu essa soggetta, ho parlato più a lungo nella mia Storia di quell’insigne Badia ». [p. 280 modifica]2ÌÌO LIBRO gramalici ed altri di ogni maniera, ch’erano probabilmente frutto in gran parte delle giornaliere fatiche di que’ religiosi. *• Pregevole dovea essere ancora prima del x secolo la biblioteca del celebre monastero della Novalesa. Narra il Pingonio, citando in pruova l’archivio di quel monastero (Augusta Taurin. p. 25, 26), che essendo i monaci fuggiti di colà verso l’anno 906 per timore de’ Saracini che infestavano quelle contrade, e ritiratisi perciò a Torino, recaron seco, oltre il lor ricco tesoro, 6666 codici (numero troppo rotondo, perchè possiam crederlo esatto), ma che essendo i Saracini giunti anche a Torino, fu rubato il tesoro, e la biblioteca incendiata, trattine cinquecento libri che Ricolfo allor proposto, poi vescovo di Torino,. aveane estratti o per compra, o per pegno. Questo racconto, quanto alla sostanza, confermasi dall’antica Cronaca di quel monastero pubblicata dal Muratori, perciocchè ivi si legge (Script. rer. ital. vol. 2, pars 2, col. 731) che i monaci fuggiti dalla Novalesa a Torino non avean casa in cui custodire tanti libri e sì gran tesoro; che perciò gli uni e l’altro raccomandarono al proposto Ricolfo, il quale ne prese parte in pegno per mantenere di vitto i monaci; e morto poi essendo lo stesso Ricolfo, la maggior parte del tesoro e de’ libri perdettesi, nè potè più riaversi ». Sembra che i monaci italiani singolarmente in ciò si occupassero; poichè veggiamo che l’Italia era il paese a cui dagli altri si chiedeva copia de’ libri che nelle loro provincie non si trovavano. Abbiamo una lettera del celebre Lupo abate di Ferriere« [p. 281 modifica]TEKZO i 281 scritta al pontefice Benedetto III verso l’anno 855, in cui il prega (Lup. Ferr. ep. 103) a mandargli i Comenti di S. Girolamo su Geremia, poichè, egli dice, ne’ nostri paesi non è possibile trovarne copia che oltrepassi il sesto libro (credevasi allora, come si è creduto da molti ancor tra’ moderni, che S. Girolamo ne avesse composti venti libri: opinione, la cui insussistenza si è messa in chiaro dal dottissimo Vallarsi (Praef. gener. ad Op.S. Hier. n. 30) che ha mostrato sei soli esserne stati da lui composti); innoltre gli chiede i libri dell’Oratore di Cicerone, e i dodici libri delle Istituzioni di Quintiliano, de’ quali trovava in Francia soltanto copie imperfette; e finalmente il Comento di Donato sulle Commedie di Terenzio. E al fine del x secolo Gerberto, che fu poi papa col nome di Silvestro II, scrivendo a un suo amico: Tu sai, gli dice (ep. 47)» con quanta premura io raccolga da ogni parte libri; tu sai quanti scrittori e nelle città e nelle ville di Italia in ogni luogo s’incontrino. Così l’Italia, benchè lacera e contraffatta, era ancor la sorgente a cui doveano attingere le straniere nazioni, per averne quegli aiuti al coltivamento degli studj, che non poteano sperare altronde. XXX. La mentovata lettera scritta da Lupo al pontefice Benedetto ci fa conoscere che la pontificia biblioteca mantennesi ancora fra tante rivoluzioni. Noi veggiamo in fatti anche ne’ monumenti di questa età il nome di bibliotecario della santa sede. E nella serie di questi bibliotecarj, di cui abbiam parlato nel precedente libro, premessa al Catalogo de’ manoscritti [p. 282 modifica]della medesima biblioteca dall’anno 815 fino all’anno 993 ne veggiam fino al numero di ventitré onorati di cotal nome; ed è probabile che più altri ancora avessero la medesima carica, benchè di essi non ci sia rimasta memoria. Ma è probabile ancora che assai infelice fosse a questa età lo stato di questa sì antica biblioteca, singolarmente negli sconvolgimenti a cui Roma, non meno che le altre città d’Italia, fu miseramente soggetta.