Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro II/Capo II

Capo II – Studi sacri

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Capo II.

Studi sacri.

I. Le scuole destinate a istruire coloro che volean essere arrolati nel clero, alcune, benchè rare e mal fornite, biblioteche che in certe chiese si conservavano, e singolarmente la pietà e il zelo di molti vescovi nel conservare intatta la Fede e le tradizioni da’ maggiori ricevute, furon cagione che gli studi sacri non venissero in questi infelicissimi tempi interamente dimenticati. Non più vedevansi, a dir vero, un Eusebio, un Ambrogio, un Leone, uomini profondamente versati nelle scienze d’ogni maniera, che a una vasta dottrina congiungendo una grave e feconda eloquenza, fosser l’oracolo de’ Fedeli e il terror degli Eretici. Ma eranvi ciò non ostante custodi incorrotti del sacro deposito della religione, che colla lettura de’ santi libri e dell’opere de’ primi Padri si fornivano di quelle armi che a combattere l’eresie erano necessarie, e di que’ lumi che ai’istruire i popoli alla lor cura commessi erano più opportuni. Di questi abbiam ora a ragionare partitamente: e innanzi a tutti, di quello che fu il solo di questa età, il quale, quanto il permettevan le circostanze de’ tempi, potesse andar del paro co’ Padri de’ secoli trapassati, dico del pontefice S. Gregorio primo di questo nome, a cui alcuni vorrebbon togliere ora il soprannome di Grande, che il consenso di tutte I. Stato tlfgll “tudi “acri! ai rnlr- a parlare di S. Gregorio il Grande“ [p. 152 modifica]103 LIBRO 1’età gli ha conceduto. Gli scrittori della Storia Ecclesiastica, e quelli da’ quali particolarmente è stata scritta la Vita, come il Maimbourg e D. Dionigi di Sainte Marthe, han già illustrato tutto ciò che appartiene alle gloriose azioni di questo santo pontefice, e io però sarò pago di accennarle assai brevemente, anche perchè esse non appartengeno all’argomento di questa mia opera. Quindi più a lungo mi tratterrò sugli studi e sul sapere di lui, e sulla condotta da lui tenuta riguardo alle lettere, nel che alcuni per poco non cel dipingon peggiore de’ medesimi Longobardi. II. S. Gregorio nacque in Roma verso l’anno 540 d’illustre e senatoria famiglia, ed ebbe a padre Gordiano. Giovanni diacono della chiesa romana, che dopo la meta del secolo ix ne scrisse la Vita, in cui però ci assicura di non aver narrata cosa che non si possa difendere coll’autorità di antichi scrittori (in praef. ad Vit. Greg.); Giovanni, dico, racconta ch’egli in età giovanile attese agli studi con sì felice successo , che sembrava uom maturo e provetto. Seguì per alcun tempo la via de’ pubblici onori, e l’anno 5y 1 fu o prefetto, o, come sembra più probabile, pretor di Roma, intorno a che veggasi il dottissimo P. Corsini (de praefectis Urb. p. 374)- Mortogli poscia il padre, degli ampj poderi ch’egli avea in Sicilia, fondò ivi sei monasteri, e un altro fondonne in Roma nella paterna sua casa, in cui poscia entrò egli stesso l’anno 575. Ch’egli seguisse e seguir facesse a’ suoi monaci la Regola di S. Benedetto, panni che il Mabillon l’abbia provalo con [p. 153 modifica]SECONDO I53 sì cliian argomenti (Append. ad vol. 1 Ann. Bened.), che non rimanga più luogo a dubbio. Tratto dal suo monastero l’anno 582, e fatto diacono della chiesa romana , fu mandato da Pelagio papa col titolo di apocrisiario ossia di nuncio apostolico all’imperador Tiberio di Costantinopoli , ove abboccatosi col patriarca Eutichio, il convinse, e il fece ravveder dell’errore in cui egli era intorno alla risurrezion della carne. Quindi tornato a Roma e all’amato suo monastero, mentre più dolcemente godeva del suo tranquillo ritiro, ne fu tratto di nuovo , e non ostante la lunga e ferma sua resistenza sollevato alla sede romana dopo la morte del pontefice Pelagio l’anno 590. La carità, la dolcezza, la liberalità verso i poveri sembrarono assidersi con lui sul trono, e con lui divider le cure del vasto e faticoso governo. Basta legger le Lettere scritte dal santo pontefice per ravvisare in lui un amabil pastore, anzi un tenero padre che di altra cosa non è sollecito che de’ vantaggi degli amati suoi figli. Queste sono il più bel testimonio delle virtù di questo santo, che in esse senza volerlo ci ha dipinto se stesso per tal maniera, che non ci fa d’uopo di storici per riconoscere qual egli fosse. La sollecitudine nel provveder le chiese di saggi e vigilanti pastori; le premure per l’amministrazione de’ beni della sua chiesa, cui egli diceva perciò essergli conceduti perchè li nascondesse nel sen de’ poveri; le sagge leggi da lui promulgate per la riformazion de’ costumi; la spedizione di ministri apostolici nell’Inghilterra, e in altre ancor infedeli provincie; la [p. 154 modifica]in. Sue Opere: apologia di essi-, e sinpdarnicnhde1 Dulo6’l54 LIBRO fermezza apostolica con cui si oppose così alle leggi dell’impcrador Maurizio, quando ei credette che contrarie fossero alla religione, come all’ambizione di Giovanni patriarca di Costantinopoli, che usurpavasi il titolo di patriarca universale-, le fatiche e i travagli da lui sostenuti per sollevare l’Italia dalle luttuose calamità in cui trovavasi involta, e per calmare il furore de’ Longobardi che la devastavano j il nuovo splendore e lustro da lui aggiunto alla celebrazione de’ sacri misteri, e la riforma del Canto ecclesiastico da lui felicemente eseguita, le quali cose, checchè ne dicano i Protestanti , ci mostrano eli’ egli era uom colto, e di animo grande, e di non ordinaria penetrazione- queste, io dico, e tante altre gloriose imprese del suo pontificato, ne han renduto il nome immortale, e sempre ne renderan la memoria venerabile e cara a tutti coloro che del vero merito son saggi ed imparziali conoscitori. Egli finì di vivere a’ 12 di marzo l’an (604. III. Le Opere che di lui ci sono rimaste, forman esse sole un grande elogio di questo santo pontefice. I libri morali sopra Giobbe furono il primo lavoro a cui si accingesse, perciocchè egli li cominciò nel suo soggiorno in Costantinopoli, e recolli poscia a compimento dividendoli in 35 libri; opera che sempre è stata considerata come una delle più utili e delle più istruttive, in ciò che appartiene al costume, che di tutta l’antichità sacra ci sian rimaste. Appena fatto pontefice scrisse il Pastorale, diviso in quattro libri, in cui ragiona [p. 155 modifica]SECONDO 155 de’ doveri di un sacro pastore, e propone utilissimi avvertimenti, pe’ quali fu quest’opera avuta in sì grande stima, che l’iinperador Maurizio ne volle la copia, e S. Anastasio patriarca d’Antiochia la traslatò in greco, di che il santo pontefice molestamente si dolse (l. 10, ep. a a). Le Omelie su diversi passi degli Evangelj e sul profeta Ezechiele furon da lui dette al popolo nel tempo del suo pontificato, e così pure in quel tempo furono scritte le molte Lettere che di lui ci sono rimaste divise in dodici libri. Di lui abbiam parimenti i quattro libri de’ Dialogi sulla Vita e su’ Miracoli di S. Benedetto e di altri santi. I Protestanti, e alcuni ancor tra’ Cattolici, ne parlano come di un’opera piena di sogni e di puerili semplicità; nè manca ancora chi pensi di provvedere alla fama di S. Gregorio, negando contro il testimonio di tutta l’antichità, ch’egli ne sia autore. Io non entrerò a fare su questo punto una lunga dissertazione , e mi basterà l’accennare il sentimento di due scrittori, antico l’uno, l’altro moderno, e tali amendue che in questa parte ad ogni giusta ragione meritan fede. Fozio, che non era certo uno spirito debole e superstizioso, così ne’ ragiona (Bibl.cod. 252): Quest’uomo ammirabile scrisse latinamente molti ed assai utili libri, come le Omelie con cui spiegò al popolo il Vangelo. Innoltre in quattro Dialogi scrisse le Vite di coloro che in Italia erano stati celebri per santità, aggiungendovi altre profittevoli narrazioni. Per centosessantacinque anni furon privi del vantaggio di questi libri que’ soli che ignoravano la lingua latina. [p. 156 modifica]156 LIBRO Zaccìieria, che dopo tale spazio di tempo gli succedette, recandoli in lingua greca stese a tutto il mondo questi utili libri che finallora non erano usciti <1 Italia. Ne solo i Dialogi, ma altri libri ancora degni d essere letti, ei volle traslatare in greco. L’altro è il celebre ab. Fleury, il cui testimonio, ove si tratta di lodi date a’ romani pontefici, io penso che non sembrerà sospetto ad alcuno. Egli dunque così parla dei Dialogi di S. Gregorio (Hist. eccl. l. 35): Io so che. quest’opera di S. Gregorio è quella che i moderni critici han ritrovata più degna della lor censura, e alcuni ancora del loro disprezzo. Ma ciò che ho riferito, e ciò che poscia riferirò delle azioni e de’ sentimenti di questo santo pontefice, sembra che non ci permetta di sospettare in lui nè debolezza di spirito nè artificio. In ogni parte se ne vede l’umiltà, il candore, la buona fede, con una fermezza grande e una consumata prudenza. Egli avea certo rivolto più il suo talento alle riflessioni morali che alla condotta degli affari; e quindi non è a stupire s’egli ha seguito il gusto del suo secolo di raccogliere e di narrare fatti maravigliosi. Per altra parte ei non avea a combatter filosofi che con ragioni oppugnasser la Fede. Non restavano altri idolatri, che contadini e servi rustici e soldati barbari che più facilmente convinceansi con fatti maravigliosi, che co’ più forti sillogismi. S. Gregorio dunque ha creduto solo di non dover narrare se non que’ fatti che credeva meglio provati, dopo aver prese le precauzioni possibili per accertarsene; poichè la sua fede e la sua pietà non [p. 157 modifica]SECONDO l5n gii perinettevan ili dubitare dell’onnipotenza divina.... Questi Dialogi subito furono ricevuti i on applauso maraviglioso, e sono sempre stati in gran pregio per otto o nove secoli. S. Gregorio li mandò alla regina Teodelinda, e credesi ch’ella se ne valesse per la conversione de’ Longobardi, i quali potean sapere la verità della maggior parte de’ miracoli che vi si narrano; essendo essi avvenuti in uomini della lor nazione che non erano in Italia se non da treni anni addietro. Zaccheria papa tradusse in greco quest’opera circa centocinquanta anni dopo, e piacque talmente a’ Greci, che diedero a S. Gregorio il soprannome di Dialogo. Verso il fine delir ili secolo furon essi ancora tradotti in arabo. Più altre riflessioni si potrei >bon qui fare a discolpar S. Gregorio dalla taccia di credulo e semplice, che molti gli danno. Ma il dottissimo P. Giangirolamo Gradenigo clierico regolare, poi degnissimo arcivescovo di Udine, ha già così felicemente trattato questo argomento nella bella apologia di S. Gregorio contro le imposture e le villanie dell’apostata Casimiro Oudin (S. Greg. M. vindicatus c. 4), che nulla ci rimane ad aggiugnere. Noi passeremo ancora sotto silenzio le altre men celebri opere di S. Gregorio, e quelle che falsamente gli vengono attribuite , rimettendo chi brami averne contezza a ciò che ne hanno scritto i dotti Maurini nella loro edizione delle Opere di questo santo pontefice, e tutti gli scrittori di Ecclesiastiche Biblioteche, e singolarmente il P. Ceillier, a’ quali però vuolsi aggiugnere una dissertazione del soprallodato [p. 158 modifica]158 LIBRO ruonsig. Gradenigo, da lui aggiunta alla mentovata apologia di S. Gegorio, in cui suggerisce l’idea di una nuova edizione di queste Opere stesse, la quale, quando sia felicemente eseguita, supererà ancora in pregio quella degli eruditi Maurini. IV. Ma la taccia d’uom credulo e semplice non è la sola nè la più lieve tra (quelle che da alcuni si appongono a questo sì rinomato pontefice. Essi cel rappresentano, dirò così, come l’Attila della letteratura, e cel dipingono quasi unicamente occupato nel far guerra a’ buoni studj e a’ loro coltivatori. Se fosser vere le cose tutte che di lui ci raccontano , noi dovremmo mirarlo come il principale autore dell’ignoranza in cui fu involta f Italia. Io debbo dunque entrare necessariamente all1 esame di questo punto, eli’ è troppo strettamente connesso colla Storia dell’Italiana Letteratura. E per procedere con brevità insieme e con chiarezza, a quattro capi si posson ridurre i letterarj delitti, per così dire, di cui S. Gregorio viene incolpato: i.° di aver cacciati dalla sua corte i matematici; 2.0 di aver incendiata la Biblioteca palatina; 3.° di aver disprezzato e vietato lo studio delle belle lettere; IV di aver atterrati i più bei monumenti profani di cui Roma era adorna. Moltissimi tra’ moderni sono gli autori che o di lutti questi delitti, o di alcuni almeno il fanno reo, e molti ne ho letti io pure per assicurarmi di non omettere alcuna delle pruove ch’essi ne adducono. Ma quegli che più recentemente e più ampiamente di tutti ne ha scritto, è il ch. Bruckero, il quale da [p. 159 modifica]SECONDO l5y ogni parie ha diligentemente raccolto ciò che a questa quistione appartiene, e ne ha trattato con forza e con calore assai maggiore degli altri. Quindi esaminando ciò solo che egli ne ha scritto, noi, senza fare una stucchevole enumerazion di scrittori e di libri, esamineremo ciò che tutti gli altri autori ne hanno scritto, e se ci venga fatto di ribatter le accuse ch’egli dà a questo pontefice, noi verremo a ribatter le accuse tutte che gli si danno da tutti gli altri scrittori. Ma prima di entrar nell’esame di ciascheduna delle proposte quistioni, ci convien riflettere alquanto sulla maniera che il Bruckero ha tenuta nello scrivere di un tale argomento. V. Questo dottissimo ed esattissimo scrittore, a cui siam debitori di una Storia della Filosofia la più copiosa, la più compita e la più profonda che siasi veduta ancora, fra gli altri pregi che lo adornano, ha quello ancora di una saggia moderazione, per cui non segue comunemente il difetto di alcuni tra’ Protestanti, di scagliarsi con velenoso furore contro tutto ciò che appartiene a’ Cattolici. In questa occasione però sembra ch’egli abbia dimenticata la lodevole e saggia sua imparzialità. Egli nella mentovata sua Storia avea già prodotte, almeno in parte, le accuse contro di S. Gregorio, e aveane già parlato in maniera aspra ed ingiuriosa alquanto , chiamandolo uom mosso più dalla superstizione e da un importuno zelo, che da sagge ragioni (Hist. crit Philos. t. 3, p. 560); uomo che in ogni occasione, e ne’ Dialogi singolarmente, fa vedere la sua superstizione e la [p. 160 modifica]«6o LIBRO povertà del suo giudizio (ib. p. 562); uomo che avea una grande opinione di se medesimo (ib.); e parlando de’ Morali su Giobbe così ne dice: Come Gregorio privo affatto de’ I principii della filosofia a niuna cosa era meno; opportuno che a scrivere insegnamenti morali, così convien confessare che in questi libri nulla egli ha scritto onde la filosofia e la teologia mo. rale possa ricevere alcun vantaggio (ib. p. 563). Questi non son certo i più piacevoli complimenti. E nondimeno potrebbon sembrar tali in confronto di ciò che poscia egli ne ha scritto. Nell’appendice alla stessa sua Storia ei torna a ribattere il chiodo, e dice che questo per altro buon vescovo non ebbe dalla natura acutezza o forza alcuna d ingegno, e che non seppe l’arte di ben ragionare (App. 558). Ma mentre egli così scriveva, vennergli alle mani due libri contro di lui pubblicati in difesa di S. Gregorio, uno da un monaco di Frisinga J dell’Ordine di S. Benedetto , l’altro dall’anonimo francese autore della Storia dell’Ecclettismo, da noi pure in altro luogo mentovato. Quindi egli pensò di dover nuovamente entrare in battaglia, e con una lunghissima e, mi sia lecito il dirlo, noiosissima digressione di ben quaranta pagine (ib. a p. 633 adp. 672) prese a combattere le ragioni da essi allegate, e a svolgere e confermare e cento volte ripetere le cose che avea già scritte, e il giudicio che della superstizione, dell’ignoranza, del poco discernimento di questo pontefice avea già dato. Io penso che pochi si troveranno che abbian avuta la sofferenza di leggere tutto un sì lungo tratto. [p. 161 modifica]SECONDO)6l jo a grande stento ho ottenuto da me medesimo di sostenerne la lettura; ma ben guarderommi dall’imitarne l’esempio, e mi lusingo che in poche pagine, e senza gran noja de’ miei lettori, potrò condurli a conoscere da qual parte stia la verità e la ragione. VI. La prima accusa dunque che si dà a S. Gregorio, sì è ch’egli movesse guerra alle matematiche scienze. Qual pruova se ne arreca? Il detto di Giovanni di Sarisbery, cioè di uno scrittore che visse non cinque soli, come dice il Bruckero (App. p. 654), ma sei quasi interi secoli dopo S. Gregorio, perciocchè questi morì l’anno 604, e Giovanni l’anno 1180. Ma io non voglio ancora rivocar in dubbio l’autorità di questo scrittore. Sia egli pure degno di fede. Che ne dice egli mai? Doctor O D sanctissimus ille Gregorius mathesin jussit ab aula recedere (Polycr. l. 2, c. 26). Egli afferma che S. Gregorio cacciò dalla sua corte la matematica. Egli è il solo che lo affermi; niun altro antico scrittore ci ha di ciò lasciato memoria. Al più dunque crederem vero ciò che Giovanni asserisce, cioè eli’ egli non volle soffrire in corte i matematici. Ch’egli facesse divieto a’ Cristiani di coltivar tali scienze , ch’egli infamasse e punisse i loro coltivatori, Giovanni noi dice, nè il dice alcun altro scrittore. Solo si dice che gli allontanò dalla corte. E dovrebbesi egli perciò rappresentar S. Gregorio, come ha fatto il Bruckero (Hist.. crit. t. 3, p. 560, 561 , 561), qual implacabil nemico della filosofia e della matematica, e che a queste scienze imprimesse una macchia d’infamia, per cui i Tuia boschi, Voi. III. 11 [p. 162 modifica]ìfìa libro libri ad esse appartenenti si gittassero alle fiamme da’ Cristiani? Ma questo è poco. Qual è mai questa matematica che S. Gregorio prese a perseguitare cotanto? Rechiam tutto il passo sopraccennato, in cui Giovanni di Sarisbery ragiona di questo esilio che fu dato dalla corte del papa a una tale scienza. Egli parla a questo luogo e confuta e deride l’astrologia gin. diciaria) e dopo aver recate ragioni ed autorità a combatterla, così prosiegue: Ad haec doctor sanctissimus ille Gregorius qui molle.o pracdicadonis imhre totam rigavit et inebriavit Ecelesiam, non modo mathesin jussit ab aula recedere, sed, ut traili tur a nuijoribus, incendio dedit probatae lectionis Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo, in quibus erant praecipua quae coelestium mentem et superiorum oracula videbantur hominibus revelare. A provar dunque illecita l’astrologia giudiciaria reca Giovanni il bando che dalla sua corte le diè S. Gregorio, e il dare alle fiamme che ei fece i libri della biblioteca palatina (di che ragioneremo fra poco), perciocchè in essi contenevansi oracoli e predizioni di tal natura. Or non è egli evidente che F astrologia giudiciaria è la sola matematica da S. Gregorio perseguitata? E il Bruckero, uomo sì dotto nella storia della filosofia, non sapeva egli forse che ne’ secoli antichi col nome di matematici chiamavansi comunemente gli astrologi? Non solo egli il sapeva, ma ove prende a parlare di S. Gregorio (ib. p. 459) pruova egli stesso che tale appunto era a que tempi [p. 163 modifica]SECONDO * j63 ¡1 costume ordinario. Or qual maniera di argomentare è questa mai? Il nome di matematici si dava anticamente agli astrologi: il confessa lo stesso Bruckero. S. Gregorio cacciò dalla corte i matematici: questo è ciò solo che ,di lui si racconta su questo proposito. Dunque, ecco una conseguenza affatto inaspettata, dunque non sol gli astrologi, ma i veri matematici e i saggi filosofi furon da S. Gregorio cacciati e perseguitati. E più leggiadro si è che il Bruckero afferma che dalle parole stesse di Giovanni di Sarisbery ciò raccogliesi chiaramente: Ut haud obscure ex Sarisberiensis verbis colligitur, ad plerasque disciplinas mathematicas hanc censuram ecclesiasticam, superstitione magis et immaturo adversus eruditionem a gentilibus philosophis traditam zelo ductus, quam rationibus prudentibus instigatus, extendit (ib. p. 560). Quali siano le parole di Giovanni di Sarisbery, quale il senso della parola mathesis, si è di sopra veduto col sentimento ancora dello stesso Bruckero. Come dalle stesse parole non oscuramente si cavi che il santo pontefice a quasi tutte le scienze matematiche dichiarasse guerra, noi non abbiamo ingegno sì penetrante a comprenderlo, e desideriamo di avere su questo fatto nuovi lumi che c’istruiscano meglio. VII. Veggi amo ora se sia meglio fondata la seconda accusa che si dà a S. Gregorio, cioè di avere incendiata la biblioteca palatina, ossia quella che abbiam veduta nel priro tomo di questa Storia a pubblica utilità aperta in Roma da Augusto sul colle Palatino. Anche di VII. •Si cerca s1 egli facesse incendiare la biblioteca palatina , e si mostra che non Ini sta a provarlo l’autorità del Safisbeneus*. [p. 164 modifica]lf>4 LIBRO questo fatto l’unico testimonio che ci rimanga si è il mentovato Giovanni di Sarisbery. Noi già abbiam di sopra recato il passo in cui egli il narra; ut traditur a majoribus, incendio dedit probatae lectionis .Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo, in quibus erant praecipua quae coelestium mentem et superiorum oracula videbantur /lominibus revelare. E in altro luogo ancora rammenta il medesimo autore un tal fatto; perciocchè dopo aver narrato che a’ tempi dell’imperador Commodo un fulmine caduto sul Campidoglio arse quel tempio e l’annessa biblioteca, così soggiugne (l. 8, c. 9): Fertur tamen beatus Gregorius bibliothecam combussisse gentilem, quo divinae paginae gratior esset locus, et ma- * jor auctoritas, et diligentia studiosior. Sed haec sibi nequaquam obviant, cum diversis temporibus potuerint accidisse. Ecco l’unico fondamento a cui si appoggia questa accusa. Io non risponderò qui come ha fatto il dotto autor francese della Storia dell’Ecclettismo (t. 1, p. 305), che la palatina biblioteca era probabilmente per le passate calamità già da lungo tempo dispersa e perduta, e che ancorchè ella si fosse fin allor conservata, non è probabile; un tal racconto, poichè S. Gregorio, non essendo padron di Roma, non aveva autorità bastevole a comandare un tal incendio. Abbiam veduto che alcune biblioteche erano ancora in Roma; e benchè a me ancora sembri improbabile che la palatina ancor sussistesse, ch’essa fosse perita nondimeno non si può provar con [p. 165 modifica]SECONDO 165 certezza. Innoltre S. Gregorio essendo pontefice poteva credersi autorizzato a togliere dalle mani de’ suoi fedeli i libri degl’idolatri, da cui potesse temere danno alla lor fede. Nemmeno risponderò , come ha fatto l’erudito P. Caraffa (Hist. Gymn. rom. t. 1, p. 104), che S. Gregorio desse alle fiamme soltanto i libri superstiziosi e astrologici. Le parole allegate troppo chiaramente dinotano tutta la biblioteca e tutti i libri degl’idolatri: Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo. Fertur Gregorius bibliothecam combussisse gentilem. Ma qui è il luogo opportuno a, cercare ciò di che sopra non abbiam voluto far quistione, se il testimonio di Giovanni di Sarisbery sia tale che meriti fede. Chi è egli questo scrittore? Egli è in primo luogo lontano sei quasi interi secoli, come si è detto, da S. Gregorio. Or alcuni de’ valorosi critici de’ nostri giorni tengono una condotta, per vero dire, assai leggiadra. Essi vogliono che ogni cosa si provi coll’autorità di scrittori contemporanei, o assai vicini a’ tempi di cui si ragiona. E se veggono un fatto antico narrarsi da un moderno scrittore senza recarne in pruova alcun autorevole monumento, essi o il rigettano come falsa, o almeno il ripongono tra’ dubbiosi -, ed io ancora son dello stesso parere, e mi lusingo di averlo finor seguito nel corso di questa Storia. Ma perchè non sono essi coerenti a se medesimi? perchè ove si tratti di un fatto che per qualche motivo essi bramino di persuadere, basta loro qualunque testimonianza di autore benchè lontanissimo? Se Giovanni di Sarisbery ci narrasse tal cosa [p. 166 modifica]VITI. Pruove della credulità e mancanza di crii ira di questo scrittore. 166 LIBRO che tornasse in onore di S. Gregorio, ciò basterebbe perchè si gridasse ad alta voce ch’ei non merita fede. Ma ei narra tal cosa che giova a mostrarlo fanatico ed ignorante: dunque egli è uno storico critico e veritiero a cui possiamo affidarci. A me piace di esser costante; e quindi, come altre volte ho creduto dubbioso alcun fatto che vedesi narrato solo da troppo tardo scrittore, così qui ancora io non veggo bastevol motivo a credere vero il racconto di Giovanni di Sarisbery. Giovanni diacono che ha scritto sì lungamente la Vita di questo pontefice, e che non avrebbe dissimulato un tal fatto, poichè ei l’avrebbe creduto degno di lode, non ne fa motto. Niun altro scrittore per lo spazio di quasi sei secoli ci ha lasciato alcun cenno di biblioteca incendiata da S. Gregorio. Dopo si lungo spazio di tempo uno scrittore inglese ce lo racconta senza addurcene pruova. Perchè dobbiamo noi credergli sì facilmentefl Vili. Ma qui appunto ci attendeva il Bruckero. No, dice egli, Giovanni non asserisce un tal fatto senza le giuste pruove (App. p. 659, ec.). Egli dice che ciò narrasi da’ maggiori: ut traditur a majoribus. Era dunque questa una perpetua tradizione di cui niun dubitava, era probabilmente scritta in più libri che or non abbiamo. Un uom sì saggio e sì dotto, come era Giovanni di Sarisbery, non avrebbela senza fondamento asserita. Così continua assai lungamente il Bruckero a dimostrare, com’ei si lusinga, che il racconto di questo scrittore è degnissimo d1 ogni fede. Ma che sarebbe s’io costringessi lo stesso erudito Bruckero a [p. 167 modifica]SECONDO jC’I recarne un ben diverso giudizio? Se io a lui stesso chiedessi, s’ei creda vero che S. Gregorio liberasse dall’inferno l’anima di Traiano, ei certo si riderebbe di tal dimanda , e forse si sdegnerebbe meco, perchè ardissi pure di fargliela. E se io soggiugnessi che ciò si narra da un autore del XII secolo, egli replicherebbe che appunto in que’ secoli d’ignoranza nacquero cotali favole; che uno scrittore il quale seriamente racconti tal cosa, non può essere che un uomo di spirito debole, superstizioso, ignorante; che basta avere un poco di senno per conoscere la sciocchezza di sì favoloso racconto. Tutto ciò ei direbbe, come di fatto si dice da ogni saggio e giudizioso scrittore. Or bene. Il suo Giovanni di Sarisbery, quell’uomo, com’egli dice, dotto sopra il genio del suo secolo (ib.), quello scrittor famosissimo che ottenne sì grande stima e nella chiesa e nell’università di Parigi (ib. p. 660), quell’uomo ne’ cui scritti non manca una critica giudiziosa , e che da dottissimi uomini è celebrato con grandissime lodi, e antiposto a tutti gli altri scrittori dell’età sua (ib. p. 664), quell’uomo che ben istruito nella dialettica non fu già di così incolto ingegno che volesse piuttosto a imitazion di Gregorio esser tacciato di semplice, che apprender V arte di ben ragionare, quell’uomo che sotto il famosissimo professor di logica Guglielmo di Soissons apprendendo i primi elementi di quella scienza entrò nel diritto cammino della vera erudizione (ib. p. 665); quest’uomo, io dico, di cui egli ci fa encomj sì grandi, perchè non gli diam fede allor quando [p. 168 modifica]l68 LIBRO racconta che S. Gregorio diè alle fiamme la palatina biblioteca , quest’uomo medesimo con ammirabile serietà ci racconta un tal fatto. Eccone le precise parole (Polycr. l. 5, c. 8): Ut vero in laude Traiani facilius acquiescant, qui alios ei praeferendos opinantur, virtutes ejus legitur commendasse sanctissimus papa Gregorius, et fusis pro eo lacrimis inferorum compescuisse incendia—Quindi narrata la virtuosa azion di Traiano, che gli meritò ricompensasi grande, prosiegue: Fertur autem beatissimus Gregorius papa tamdiu pro eo fudisse lacrymas, donec ei revelatione nuntiatum sit, Traianum a poenis inferni liberatum, sub e a /amen conditione, ne ulterius pro aliquo infideli Deum sollicitare praesumeret. Crede egli dunque il Bruckero un tal fatto? E perchè nol crederà egli? Rilegga di grazia tutto il lungo passo con cui egli si sforza di mostrarci degno di fede il racconto dell’incendiata biblioteca, e vedrà che gli stessi argomenti valgono ancora a favore della liberazion di Traiano. Qui ancor si può dire che Giovanni accenna scrittori e libri antichi da cui avea tratta tal cosa: legitur, jerti tr; eli’ ci non gli nomina, perchè in una cosa certissima e nota a tutti bastava accennare la comun fama; ch’egli scrisse tal cosa in faccia alla chiesa e alla università di Parigi, e niuno vi ebbe che l’accusasse o di menzogna, o di errore, e che anzi tutti col lor silenzio approvarono un tal racconto, come cosa al mondo notissima, e gloriosa al santo pontefice (App. 659, 660). Ma ciò non ostante il Bruckero non vorrà credere certamente che [p. 169 modifica]SECONDO 169 S. Gregorio liberasse dall’inferno l’anima di Traiano. Dunque ei dovrà confessare che il suo Giovanni di Sarisbery non è poi uno scrittor così critico, com’egli il vanta; ch’esso ci racconta come certe tai cose che il solo buon senso ci mostra impossibili (e s’io non volessi non estendermi troppo, potrei arrecarne più altri esempj, giacchè tutta ho voluto scorrere 1’ 0pera di questo scrittore per formarne il vero carattere); che i suoi Jertur, dici tur, legitur non c’indicano che tradizioni popolari non appoggiate ad alcun buon fondamento; che non è in somma scrittore a’ cui detti possiamo così facilmente affidarci. Or a un autore che ci narra che S. Gregorio liberò dall’inferno l’anima di Traiano, dovrem noi credere quando egli solo, sei secoli dopo, senza addurne pruova di sorta alcuna, con un semplice fertur, traditur a majoribus, ci racconta che S. Gregorio pose il fuoco alla biblioteca palatina? Io ne vorrei giudice lo stesso Bruckero. Egli era uom troppo saggio per non conoscere che a questo luogo ci si è lasciato prevenir troppo da’ pregiudizj della sua setta, la quale a S. Gregorio singolarmente ha dichiarata un’aspra ed implacabile guerra. IX. E in vero riflettiamo con attenzione. A qual fine sì può egli credere che S. Gregorio desse alle fiamme questa pubblica biblioteca? Forse perchè i libri degl’idolatri non mantenessero ancor vivo il gentilesimo? Ma egli è certo che a que’ tempi altri idolatri non vi avea in Roma e in tutta l’Italia, che alcuni o schiavi, o barbari, o bifolchi, uomini in somma che certamente nulla si curavan di libri. Era [p. 170 modifica]1^0 LIBRO egli a temere che i Cristiani per la lettura de’ libri ricadessero nell’idolatria? Ovvero volea S. Gregorio per avventura bandire tutti gli studj profani, e permettere e fomentare i soli sacri? S’egli avesse un tal disegno, il cercheremo fra poco. Ma ancorchè egli così avesse veramente pensato, che otteneva ei finalmente coll’incendiare una biblioteca? Quella di cui parla Giovanni di Sarisbery, e di cui dice che fu data alle fiamme da S. Gregorio, era forse la sola che fosse in Roma? Già abbiam veduto che ve ne avea ancora più altre. Perchè dunque incendiar questa , e lasciar intatte le altre tutte? E quante altre copie de’ libri medesimi dovean essere sparse per tutta Italia e per tutte le Gallie? Qual frutto dunque poteva sperare il santo pontefice da un tal fatto? Egli avrebbe piuttosto dovuto comandare a’ Fedeli che non usassero di tali libri, che non ne facessero copie, che dessero anzi alle fiamme quelli che aveansi in casa. Ma di ciò non ritroviamo alcun cenno. Finalmente Giovanni di Sarisbery ne’ due passi in cui parla di tale incendio, contraddice a se stesso; perciocchè in un luogo dice che la biblioteca data alle fiamme fu quella del Campidoglio , nell’altro dice che fu quella del tempio di Apolline Palatino. Il Bruckero inutilmente si sforza di conciliare una tale contraddizione. Dalle cose che altrove abbiamo osservato, è indubitabile che queste eran due diverse biblioteche, e l’una dall’altra distanti assai; e che perciò il nome di una non poteva in alcun modo adattarsi all’altra. Da tutte le quali cose a me par dimostrato che questo incendio si asserisce senza [p. 171 modifica]SECONDO I q| alcun probabile fondamento, e che è troppo verisimile che sia esso pure uno di que’ favolosi racconti che nei secoli d1 ignoranza furon coniati a capriccio, e che da Giovanni di Sarisbery furono troppo semplicemente adottati. X. Sciolto in tal maniera il principal nodo della quistione, più facilmente convincesi di falsità ciò che di due autori in particolare dati alle fiamme dallo stesso santo pontefice si asserisce da alcuni. In un editto pubblicato dal re di Francia Luigi XI l’anno 1473 contro la setta de’ Nominali ci si dà questa importante notizia, che S. Gregorio soppresse, quanto gli fu possibile, le Opere di Cicerone. Eccone le parole riferite dal dotto P. Lyron (Singular. Hist. t. 1, p. 167), il quale però è ben lungi dal prestar fede a tali racconti: Gregorius ille Magnus olirti potitifex nmximus, sacrari un literanun doctissimus interpres, M. Tullii Ciceronis libros miro dicendi lepore refertos, quoniam jiovene s ejusdem auctoris mira suavitate sermons illecti sacrarum literarum studium omittentes majorem aetatis suae florem in eloquentiae tullianae studio consumebant, quoad potuit, diligentissime suppressit. L’altro autore che da S. Gregorio si dice dannato alle fiamme, è lo storico Livio. S. Antonino è quegli che ce ne ha lasciata memoria De Gregorio Magno, dice egli (Stimma Theol. pars 4, tit. 11, l. 4), die il praedictus dominus Johannes Dominici cardinalis, quod omnes libros quos potuerit habere Titi Livii, comburi fecit, quia ibi multa narrantur de superstitionibus Idolorum. Un editto dunque di Luigi XI, il Cardinal Giovanni di [p. 172 modifica]172 LIBRO Domenico, e S. Antonino sono i più antichi monumenti e le più certe pruove che abbiam di un tal fatto; monumenti e pruove del secolo xv, e tutti di forza per vero dire grandissima , de’ quali s’io volessi far uso in qualche quistione storica contro il Bruckero, son certo ch’egli si riderebbe della mia semplicità. E qual vi è mai stato critico di buon senno, che abbia data fede a un racconto di cosa accaduta otto o nove secoli innanzi, narrata da uno scrittore recente che non ne rechi alcun fondamento? E di vero se S. Gregorio non diè alle fiamme le intere biblioteche, come abbiam di sopra mostrato, per qual ragione dovea egli essere cotanto sdegnato contro questi due autori? Tanti osceni e superstiziosi poeti non erano essi più pericolosi di assai che non Livio e Cicerone? Perchè dunque esser così clemente verso di loro, e verso questi due soltanto men rei degli altri mostrarsi così crudele? Ma-checchessia di ciò, ci si rechino autori antichi, e che abbian fama di saggi discernitori in ciò che appartiene alla storia, e allora noi crederemo che Livio e Cicerone abbian trovato in S. Gregorio un capitale nimico. Ma finchè non veggiamo prodursi altre testimonianze di un fatto sì antico, che quelle di autori così moderni, e di altri più moderni che gli han ricopiati, ci terremo alle leggi da tutti i migliori critici stabilite, e riputeremo tai fatti o falsi, o certamente troppo dubbiosi. XI. A questa seconda accusa è simile e coerente la terza, cioè che S. Gregorio odiasse e vietasse il coltivare le belle lettere. Conviaù [p. 173 modifica]SECONDO 1^3 però confessare che di questa si adducono fondamenti meno improbabili, che delle altre. Quai sono essi? In primo luogo la lettera di S. Gregorio a S. Leandro da lui premessa a’ suoi Morali su Giobbe. In essa parlando egli del metodo che tenuto avea in que’ libri, e venendo a ragionar dello stile, così dice: Unde et ipsam artem loquendi, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. E!am sicut hujus quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem effugio, non barbarismi confusionem devito: situs motusque praepositionum casusque servare conte inno; quia indignum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati. Non sembra egli questi un giurato nimico di tutte le leggi gramaticali, e un difensore zelantissimo della più rozza barbarie? Ma ci dica di grazia il Bruckero, il quale trionfa su questo passo (Hist crit. t. 3, p. 653). Ha egli lette le Opere di S. Gregorio? E se le ha lette, le trova egli di uno stil così barbaro, come pare che dopo un tal passo debba aspettarsi? Io non dirò certo che ei sia un nuovo Tullio; ma dirò francamente che lo stile di cui egli usa , non è punto più incolto di quel degli altri anche profani scrittori di questa età, che osserva al.par di loro le leggi gramaticali, che a tratto a tratto ancora egli ha una maestà e un’eloquenza di favellare degna di miglior secolo; e i passi che noi ne abbiamo nel precedente capo recati, ce ne fan certa pruova. Io non asserisco cosa di cui non si possa accertare ognuno co’ suoi propj occhi. Che vuol dunque egli dire [p. 174 modifica]

  • 7-4 LIBRO

colle arrecate parole in cui sembra parlare con sì grande disprezzo del colto stile? Se il Bruckero avesse lette, o non avesse dissimulate le parole che il santo soggiugne, avrebbe conosciuto per avventura che non dovea poi risentirsi cotanto. Ei dunque aggiugne: Neque enim haec ab ullis interpretibus in Scripturae Sacrae auctoritate servata sunt. Colle quali parole ei vuol farci conoscere che intende di usare di quella rozzezza medesima di cui gli altri interpreti della Scrittura, un Ilario, un Girolamo, un Agostino hanno usato. Or egli è certo che questi, benchè abbiano nello scrivere i difetti del loro tempo, non sono però stati considerati giammai come arditi disprezzatori delle leggi gramaticali. Essi, e così pure S. Gregorio, hanno bensì creduto che nell’esporre la S. Scrittura si dovesse aver più riguardo alla purità del dogma e della morale, che all’eleganza dello stilej ma non hanno mai condotta la scrupolosa loro esattezza a tal segno, che a bella posta, e quasi per una specie d’insulto volesse!- parlare barbaramente. Che se S. Gregorio parla di se medesimo come di uno scrittor barbaro e rozzo, convien ricordarci che gli uomini veramente modesti sentono e parlano di loro stessi assai più bassamente di quel che al lor merito si convenga. In somma S. Gregorio non altro ha voluto dire se non ciò che dice di se medesimo lo stesso Bruckero. Udiamo com’egli ragiona, e vedrem con piacere com’egli imiti modestamente i sentimenti di questo pontefice: Veniam a lectore benevolo exoramus si in iis philosophiae generibus, quae barbaras [p. 175 modifica]SECONDO 1^5 iiobis doctrinas tradiderunt, aures latinas interluni eoe ih us minus puris, et subsellia philosophorum magis redolentibus, quata oratorum, ,violaverimus: maluimus enim cum aliquo elegantiae latinae detrimento intelligi, esseque in narrando fideles, quam sectando dicendi ornatum obscuros, et non satis veterum mentes ex ponen tes (praef. ad vol. 2 Hist crit. Phil). Chi l’avrebbe pensato che il Bruckero si fervido accusatore di S. Gregorio dovesse egli stesso col suo esempio somministrarcene una sì bella apologia? XII. L’altro fondamento a cui quest’accusa si appoggia, è una lettera di S. Gregorio a Desiderio vescovo di Vienna nelle Gallie (l. 11, ep. 54)- Avea il santo pontefice udito che questo vescovo teneva ad alcuni scuola di gramatica. Or egli di ciò lo riprende con molta forza^ nel che niun certamente troverà di che biasimar S. Gregorio, poichè un tal esercizio a un vescovo troppo mal si conviene, benchè nei secoli susseguenti s’introducesse su ciò una diversa maniera di pensare. Ma le ragioni che il santo ne arreca, sembra che provin troppo: quia in uno se ore cum Jovis laudibus Christi laudes non capiunt; et quam grave nefandumque sit episcopis canere, quod nec laico religioso conveniat, ipse considera. Qui par veramente che il santo ne’ secolari stessi cristiani soffrir non voglia la profana letteratura, e io non nego ch’egli non siasi qui lasciato trasportare forse tropp’oltre dal suo zelo. Ma che se ne può raccogliere finalmente? Troviam noi monumento di alcun divieto che il santo pontefice [p. 176 modifica]1 "]6 LIBRO abbia fatto a’ Cristiani, o anche a’ soli ecclesiastici, di coltivare le belle lettere? No certamente. Vi ebbe pur de’ poeti, come vedremo nel capo seguente, anche a’ tempi di S. Gregorio; e un vescovo fra gli altri, cioè Venanzio Fortunato di Poitiers, moltissimi versi compose, anche mentr’era vescovo. Sappiam noi forse che o egli, o alcun altro perciò fosse da S. Gregorio ripreso? Lo stesso santo pontefice non avea forse coltivati egli pure con tal diligenza cotali studj? L’impiego di pretore urbano, che gli fu confidato, le cariche di suo nuncio e di suo segretario, a cui fu sollevato da Pelagio II l’eloquenza ancora e la forza che in molti passi delle sue Opere s’incontra, ci fan conoscere ch’egli era non sol nelle sacre, ma ancora nelle profane scienze versato e colto. Odasi finalmente ciò che di lui già pontefice ne racconta Giovanni diacono: Videbantur, die’egli (Vita S. Greg. l. 2, c. 12, 13), passim cum eruditissimis clericis adhaerere pontifici religiosissimi monachi.... Tutic rerum sapientia Romae sibi templum visibiliter quodammodo fabricarat et septemplicibus artibus veluti columnis nobilissimorum totidem lapidum apostolicae sedis atrium fulciebat. Nullus pontifici famulantium a minimo usque ad maximum barbarum quolibet in sermone vel habitu praeseferebat, sed togata Quiritum more seu trabeata latinitas suum Latium in ipso latiali palatio singulariter obtinebat. Refloruerant ibi diversarum artium studia, ec. Qui veggiam dunque descriversi la corte di S. Gregorio, come tutta composta di colte e dotte persone, e come felice seggio, [p. 177 modifica]SECONDO I77 por quanto il permettevano i tempi, di tutte belle arti. A questa sì aperta testimonianza che risponde il Bruckero? Non altro che ciò che da pulito scrittore non dovrebbesi usar giammai. Ei chiama Giovanni Diacono scrittor menzognero e bugiardo: Joanni Diacono panegy rùtae domini sui fidem abrogamus, et nos splendido cum mendacio decepisse, audacter pronuntiamus App. p. 560). Io non chiederò qui al Bruckero come ei possa chiamare Giovanni Diacono panegirista del suo signore, cioè di S. Gregorio vissuto due secoli prima di Giovanni! ma ben chiederogli con qual fondamento ei dia a uno scrittore che si protesta di aver tratta ogni cosa da autorevoli documenti, una sì solenne mentita. Se io così avessi risposto all’autorità del suo Giovanni di Sarisbery, che ne direbbe egli? Ma il Bruckero pensa di aver fondamento bastevole a screditar per tal modo Giovanni Diacono; e un tal fondamento non è altro che il passo della lettera di S. Gregorio a S. Leandro da noi soprarecato, in cui ei si protesta di non volersi nell’interpretar la Scrittura soggettar troppo alle leggi gramaticali. Noi abbiamo già mostrato qual sia il vero e unico senso di tai parole. Or come da esso si pruova che S. Gregorio non volesse colti e dotti i suoi famigliari? Che ha che far questo collo stile da usarsi nella spiegazione della Sacra Scrittura? Se io dicessi, a cagion d’esempio, che Leon X fu uomo nulla curante delle lettere umane, e ne recassi in pruova alcune Bolle pubblicate nel tempo del suo pontificato, piene, secondo il costume, de’ barbari termini della curia e del foro, non Tiràboschi, Voi. III. 12 [p. 178 modifica]XIII. Si mostra che S. Gregorio non sostituì i suoi Morali a’ libri profani. 178 LIBRO mi esporrei io con ciò alle beffe degli eruditi? Io crederò bensì che Giovanni Diacono possa avere esagerato alquanto, e che a lui sembrasse un prodigioso sapere quello che or forse non ci sembrerebbe che una assai mediocre letteratura. Ma basta egli ciò a chiamar bugiardo un qua. lunque sia scrittore? E il Bruckero soffrirebbe egli così di leggeri che io, o altri gli dessimo un cotal nome? XIII. Che direm poi dell’altro argomento che dal Bruckero si arreca a provar S. Gregorio nimico della colta e profana letteratura? Egli lo accusa di aver sostituito a’ libri degli antichi scrittori i suoi Morali, de’ quali dopo avere parlato con gran disprezzo, così ironicamente conchiude: Hos thesauros carbonibus, ut putabat, Episcopus Romanus surrogavit (Hist. crit. t. 3, p. 564). Il Monaco di Frisinga e l’autor francese della Storia dell’Ecclettismo risposero al Bruckero esser questa una calunnia ingiuriosamente apposta a S. Gregorio 5 lui anzi aver fatta doglianza coll’arcivescovo di Ravenna , perchè facea legger pubblicamente ne’ divini Ufficj que’ suoi libri: lui essersi protestato che non godeva di veder fatte pubbliche al mondo le cose ch’egli diceva (V. Hist. de l’Ecclect l. 1, p. 311). Or a tale risposta che replica fa il Bruckero? Egli ha certamente vedute le ragioni oppostegli da’ suoi avversarj, poichè egli stesso le accenna (App. p. 638, 651). Ma qual risposta egli renda, io non ho avuto il piacere di trovarlo in tutta la lunghissima digressione ch’ei fa su questo argomento. Solo in una nota sembra accennare che il santo scrivesse solo i suoi [p. 179 modifica]SECONDO 179 forali pe’ vescovi e pe’ dotti (App. p. 673), e c|,e credesse la plebe non esser capace d’intenderne il senso. Ma non è ciò di che si tratta. Il bruckero, se non vuol esporsi a pericolo che I qualche scrittore più caldo e più risentito di me il tratti, com1 egli ha trattato Giovanni Diacono, dee provare che S. Gregorio comandasse che i suoi libri Morali fossero sostituiti a’ libri profani. Or si dica in qual lettera, in qual passo delle sue Opere egli abbia fatto di ciò o comando, o anche semplice insinuazione. Noi staremo aspettando qual risposta egli, o altri per lui, ci faccia, giacchè finora non si è degnato di darcene alcuna. XIV. Rimane per ultimo a vedere la quarta accusa che si dà a S. Gregorio, cioè di aver atterrati i profani antichi edificj di Roma, e guaste e tronche le antiche statue del gentilesimo. Questa dal Bruckero medesimo non ci si dà per certa (ib. p. 669, 670); e ciò potrebbe bastare ad intendere quanto ella sia insussistente. Veggiam nondimeno quai ne siano i fondamenti. Il Platina nelle Vite de’ Papi parlando di S. Gregorio dice che alcuni falsamente accusavano questo pontefice di avere atterrate le antiche fabbriche di Roma, acciocchè gli stranieri non rivolgessero ad esse quell’attenzione che solo a’ luogi sacri ei voleva rivolta; e aggiugne che si scrive da alcuni che Sabiniano successore di S. Gregorio, ma da lui troppo diverso, pensò di dare al fuoco le Opere del suo predecessore, sdegnato contro di lui, perchè avesse troncate e rovinate le antiche statue che vedeansi in Roma; a’! quali racconti XIV. E eh’ • 01so pure che facesse atterrare gli antichi monumenti. [p. 180 modifica]XV. Testimonianza del Bayle in difesa di S. Gregorio. »So LIBRO però il Platina ci avverte di non dar fede. A questo aggiugne il Bruckero la testimonianza di F. Leone d’Orvieto domenicano, scrittor; del secolo xiv, il quale in una Cronaca de’ Romani Pontefici pubblicata dal ch. Lami esalta fino alle stelle S. Gregorio per ciò appunto ch’egli alle statue degl’idoli avea mossa guerra, facendo loro troncare il capo e le membra. Io lascio che ognun veda per se medesimo se tali testimonianze bastino a render probabile un fatto che è del tutto inverisimile. Qual autorità avea S. Gregorio su’ pubblici edificj in Roma, che era ancor soggetta agl’imperadori d’Oriente? Sugli antichi monumenti ancora, di cui gl’imperadori dovean esser gelosi e solleciti, avrebbe egli potuto stender la mano, senza che essi altamente se ne sdegnassero ì Noi vedremo in fatti che circa sessant’anni dopo la morte di S. Gregorio 1’imperador Costante venuto a Roma ne portò seco gran copia. Non vi ha dunque nè verisomiglianza nè fondamento alcuno di tale accusa. Io so che Pietro Angelio da Barga sostiene egli pure la verità di tal fatto, cui egli anzi reputa lodevole e glorioso (Ep. de Aedificior. urb. Romae eversoribus, t. 4 Thes. rom. Antiq. Graev.); ma l’affermare non basta, se non si recano autorità e pruove; e queste io non veggo che nè da lui nè da alcun altro scrittore si siano giammai recate. XV. A me pare di aver finora con qualche evidenza sciolte le accuse tutte con cui alcuni moderni scrittori, singolarmente protestanti, han voluto render odioso il nome di S. Gregorio il 1 Grande, in ciò clic appartiene alle bell’arti e [p. 181 modifica]SECONDO 181 agli studi. Delle altre calunnie che gli vengono apposte, non è di quest’opera il ragionare. Si possono intorno ad esse vedere gli scrittori delle Storia Ecclesiastica e della Viyy di que_ sto santo pontefice, e la bella apologia che ne ha scritta il già da noi mentovato dottissimo monsig. Giangirolamo Gradenigo. Io conchiuderò questa mia digressione col recare il sentimento di uno scrittore che comunque non sia panegirista de’ papi, trattando nondimeno delle accuse di cui finora abbiamo parlato, non le reputa abbastanza fondate. Questi è il celebre Bayle, il quale parlando di S. Gregorio così dice su questo argomento (Dict. art. Gregoire I): Non è certo ch’egli abbia fatto distruggere i bei monumenti dell’antica magnificenza de’ Romani, affm di impedire che que’ che venivano a Roma non mirassero più attentamente gli archi trionfali, ec., che le cose sante. Diciam lo stesso della accusa che gli si dà, di aver dato alle fiamme infiniti libri degli Idolatri, e singolarmente Tito Livio. E in una nota di questa seconda accusa aggiugne (Note M): Si diceche la biblioteca palatina fosse incendiata da S. Gregorio. Io non ho letta tal cosa che in Giovanni di Sarisbery; perciò io non do gran fede a questo racconto. Ma basti omai di tai cose, e passiamo agli altri scrittori sacri di questa età. XVI. Tra gli uomini dotti che furono famigliari a S. Gregorio, due ve ne ha singolarmente, degli studj de’ quali ci rimane ancor qualche frutto. E primo è Claudio monaco prima del monastero di S. Andrea in Roma fondato dallo stesso pontefice, e da cui or [p. 182 modifica]l8» MIRO prende il nome, poscia abate del monastero di Classe presso Ravenna. Di lui racconta Giovanni Diacono (Vita S. Greg. l. 2, c. 11), che da’ discorsi ch’udiva farsi da S. Gregorio su’ Libri de’ Proverbj, della Cantica, de’ Profeti, de’ Re e dell’Eptateuco, molti libri compose, benchè con sentimenti diversi da que’ del santo pontefice. In fatti abbiamo una lettera dello stesso pontefice a Giovanni suddiacono (l. ep. 24), in cui gli scrive che Claudio avea raccolti da ciò che a voce egli avea detto, alcuni Comentarj su’ mentovati libri, cui egli per le sue infermità non avea potuto scrivere; che avea poscia intenzione di ritoccarli e correggerli; ma che avendoli letti, avea conosciuto che in molti luoghi aveane quegli inutilmente cambiato il senso; e quindi comanda a Giovanni, che andando al monastero di Classe, tutte raccolga le carte dell’abate Claudio, e a lui le rechi. Da questa lettera di S. Gregorio han presa origine le diverse opinioni degli eruditi intorno a’ sei libri sul primo de’ Re, che è ciò solo che di tai Comentarj ci è rimasto; perciocchè alcuni gli dicono opera di S. Gregorio, supponendo ch’egli avute le carte di Claudio vi facesse le correzioni opportune; altri voglion che il santo pontefice non avesse agio a ciò fare, e perciò che que’ Comentarj ci sian rimasti quali aveali scritti Claudio; e non manca ancora chi gli voglia opera assai recente. A me sembra più probabile la seconda opinione che da’ dotti Maurini editori dell’Opere di S. Gregorio è stata abbracciata e difesa (in praef. ad hoc. Comm.). Si può vedere ancora ciò che intorno ad essi [p. 183 modifica]SECONDO 183 hanno scritto il P. Mabillou (Ann. Ord. S. Bened. t. 1, p. 606, ed luc.) e il P. Ceillier (Hist des Aut. eccl. t. 17,p. 347). Di Claudio parla pur lungamente l’erudito P. abate Ginanni (Scritt. ravenn. t. 1, p. 148, ec.). XVII. L’altro antico intimo di S. Gregorio fu S. Paterio. Giovanni Diacono dice (l. cit) che dal santo pontefice fu fatto notaio e secondicerio; e che questi da’ libri di lui alcune utilissime cose estrasse. Abbiamo in fatti sotto il nome di S. Paterio mi’ assai ampia sposizione di molti passi della Sacra Scrittura da lui tratta da diverse opere di S. Gregorio. Essa è divisa in tre parti, e ciascheduna parte in più libri. I dotti Maurini, editori dell’Opere di S. Gregorio, hanno per la prima volta l’an 1705 pubblicata la seconda parte di questa opera (¿4 Op. S. Greg.), ch’era stata finallora inedita. Gli stessi Maurini pongono in dubbio se S. Paterio fosse veramente vescovo di Brescia, come alcuni pensano; e benchè sia certo che vi fu a questi tempi medesimi un S. Paterio vescovo di Brescia, nondimeno anche il ch. monsig. Gradenigo riflettendo che in niuno de’ codici mss. della mentovata opera di Paterio ci vien detto vescovo, e che tal dignità non vien mentovata da alcun di quelli che parlano dell’autor di essa, crede egli pure che due Paterj si debban distinguere, uno amico di S. Gregorio e autore de’ suddetti libri, l’altro vescovo di Brescia (Brixia Sacra, p. 89). Del primo veggansi gli Atti de’ Santi (t. 3 febr.p. 249) e il P. Ceillier (t 17, p. 356). [p. 184 modifica]184 LIBRO XVm. Benché S. Gregorio tutti nelle scienze ecclesiastiche superasse gli altri romani pontefici di questa età, altri nondimeno ve n’ebbe che pel loro sapere ottener fama tra i posteri. Di S. Leone II, siciliano di patria, che sollevato alla cattedra di S. Pietro f anno 682 la tenne solo per pochi mesi, lasciò scritto Anastasio Bibliotecario (Script. rer. ital. t. 3, pars 1, p. 145), che era uomo eloquentissimo, bastevolmente istruito nelle Divine Scritture erudito nella lingua greca e nella latina, peritissimo nel canto , colto nel favellare , e ornato di una assidua lettura. Ma il breve tempo del suo pontificato non gli permise di lasciare alcun durevole monumento di sua dottrina. Somiglianti lodi veggiamo darsi dallo stesso scrittore a Gregorio II, romano di nascita, che salì al pontificato l’anno 715, e visse fino al 731, perciocchè di lui pure racconta (ib. p. 154) che era uomo versato nelle Divine Scritture, ed eloquente nel ragionare. E certo l’impiego di bibliotecario della chiesa romana, che abbiam altrove veduto a lui affidato, ci mostra ch’egli aveasi in conto d’uomo dotto. Gregorio III che gli succedette, e che fu pontefice fino all’anno 741, fu egli pure, per testimonio dello stesso Anastasio (ib. p. 158), uom dotto assai così nella greca come nella latina favella; ma noi non possiamo a ragione annoverarlo tra’ nostri, perciocchè egli era natìo della Siria. E lo stesso dicasi dal pontefice Zaccheria che dopo Gregorio III tenne la cattedra di S. Pietro fino al 752, poichè egli era greco di nascita, e non è perciò a stupire ch’egli recasse dalla [p. 185 modifica]SECONDO 185 latina nella greca favella i Dialogi di S. Gregorio (ib. p. 165). Stefano III finalmente che da alcuni si dice IV di questo nome, che, eletto pontefice l’an 768, morì l’anno 772, ci si rappresenta da lui come uomo erudito nelle Divine Scritture, e assai dotto nelle ecclesiastiche tradizioni (ib. p. 174)• Io so bene che questi magnifici encomj con cui alcuno in questa età vien detto assai dotto, assai erudito, e somiglianti, voglionsi intendere con molta moderazione, e comunemente non ci dinotano che una mediocre tintura così nelle sacre come nelle profane scienze. Ma nelle circostanze infelici in cui trovavasi allora l’Italia, questa mediocrità medesima era assai a pregiarsi, e ad essa dobbiamo che ogni seme di buona letteratura non venisse interamente soffocato ed oppresso. XIX. Anche tra’ vescovi delle altre chiese d’Italia si videro alcuni che poteano a questi tempi sembrar uomini di prodigioso sapere. Oltre Paterio, se pure egli fu vescovo, due vescovi di Ravenna si renderono illustri, Mauro e Felice che tennero quella sede, il primo dal 648 fino all’anno 671, F altro dall’anno 705 fino al 723 secondo la Cronologia del ch. Giuseppe Luigi Amadesi citata dal P. Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2, p. 47; t. 1, p. 204, ec.). Il primo dovea esser uomo assai dotto ne’ dogmi della cattolica religione, perciocchè essendo allora insorta l’eresia de’ Monoteliti, e celebrandosi perciò dal pontefice S. Martino I un concilio in Roma l’anno 649), Mauro che non vi potè intervenire, mandò una sua lettera in cui [p. 186 modifica]186 LIBRO confutava il loro errore; la quale letta nel sinodo fu ritrovata degna d’approvazione per modo, che venne inserita negli Atti, ove essa ancora si vede (vol. 2 Concil. p. 98, ed. Colei.) (’). Ma il pregio che a lui recava il suo sapere, venne troppo oscurato dalla ribellione contro la santa sede, da cui egli con un fatale scisma si separò, valendosi a tal fine dell’opera dell’eretico imperadore Costante: nel che egli giunse a tal segno, che ardì di scomunicar Vitaliano che (tenea allora la cattedra di S. Pietro. Ma di ciò veggansi gli scrittori della Storia Ecclesiastica. Per questa ragion medesima fu alquanto oscurata la fama ancor di Felice, il quale però non dichiarossi già indipendente del tutto dal romano pontefice, ma nella sua sommissione usò restrizioni che da’ suoi predecessori non si erano usate (V. Ginanni Scritt. Ravenn. t. 1, p. 204). Nella spedizion funestissima che fece l’anno 709 contro la città di Ravenna 1’imperador Giustiniano II, fra gli altri che rimaser vittima del furore de’ Greci, fu l’arcivescovo Felice, il quale condotto a Costantinopoli, ed acciecato, fu poscia rilegato nel Ponto, donde richiamato l’anno 712 dall’imperadore Fillippico, e rimandato a Ravenna, vi passò santamente il restante della sua vita, a cui cliè (*) Fra i vescovi che con dottrina e con zelo non ordinario si adoperarono a combattere l’eresia de’ Monoteliti. deesi anche annoverare S. Gregorio, cittadino e vescovo di Girgenti, che intervenne al concilio contro essi tenuto in Costantinopoli, e intorno alla cui vita si può vedere una erudita dissertazione del sig. D. Giovanni Lariza palermitano (Opuse. d’Aut. sicil. I. 4)• [p. 187 modifica]secondo ififine l’anno 723. Di lui ci parla Agnello (Vit. Pontif. Ravenn.), come (di egregio predicatore, e scrittore di molti libri, ed uomo eloquente. Quai fossero precisamente i libri da lui scritti, noi nol sappiamo. È verisimile che fossero omelie o comenti sulla Divina Scrittura. Ma egli non volle che cosa alcuna rimanesse tra’ posteri; e innanzi a morte fattisi recare i suoi libri, tutti li diè alle fiamme, dicendo che poichè cieco , com’egli era , non potea rivederli e corregerli, temeva che vi rimanessero errori, onde altri abusassero. Un solo discorso, prosiegue a dire Agnello, che ancora abbiamo sull’universale giudizio, fu da’ suoi sacerdoti serbato, e sottratto alle fiamme. Più d’ogni cosa però noi abbiamo ad essergli grati, perchè a lui dobbiamo i Sermoni del suo antico predecessore S. Pier Grisologo, ch’egli diligentemente raccolse, e vi premise una sua prefazione che ancora abbiamo. Di altre cose che a Felice appartengono, veggasi il soprallodato P. Ginanni (l. cit). XX. S’io volessi qui annoverare tra gli scrittori ecclesiastici tutti que’ vescovi italiani che nel famoso affare de’ tre Capitoli ebbero parte, potrei accrescer di molto il presente capo. Ma come di essi non abbiamo comunemente che qualche lettera, o qualche breve trattato su tale argomento, io li passerò sotto silenzio, perchè non sembri ch’io voglia stendere troppo ampiamente il nome e la lode di uom dotto. Quindi io non parlerò nè di Severo patriarca d’Aquilea, che credesi natìo di Ravenna (V. Ginanni, t. 2,p. 372), e che morì nello scisma l’anno 6o5, xx. E di altri di questi terar>[p. 188 modifica]|88 LIBRO nè di Costanzo arcivescovo ili Milano, che scrisse su tale argomento più lettere al pontefice S. Gregorio, di cui assai era amico (V. Argelati Bibl. Script, mediol. t. 1 , pars 2, p. 459); nè di più altri di cui si vede fatta menzione presso gli scrittori della Storia Ecclesiastica. Così pure io accennerò il nome solo di S. Leone vescovo di Catania, di cui parlano gli scrittori siciliani e i ravennati ancora, poichè egli era natìo di questa città, e di cui si dice che alcuni trattati scrivesse contro gli Eretici (V. Amico Catana illustr. pars 1 , p. 366; Ginanni Scritt. raven. t 1 , p. 444)- Essi furon forse dottissimimi uomini, ma non ne abbiam pruove bastevoli a dimostrarlo. SXXI- XXI. Paolo Diacono ci parla di S. Damiano no vcirova vescovo di J’uvia, come d uomo sufficientemente ss. P’m14- istruito nelle arti liberali (de Gest. Lang. l. 5, 38). Di lui aggiugne altrove (l.6, c. 4), che »mòdimì- essendo intervenuto al concilio che si tenne in Milano f anno G79 contro l’eresia de’ Monoteliti, egli a nome di S. Mansueto arcivescovo di Milano scrisse all’imperadore Costantino Pogonato la lettera sinodale, in cui l’eresia medesima veniva confutata, che tuttora abbiamo nelle Raccolte de’ Concilj, e che in parte è stata pubblicata ancor dal Baronio (Ann. eccl. adori. G79). Sembra però che allora Damiano fosse semplice prete, perchè vescovo di Pavia dovea in quell’anno essere Anastasio, come si pruova dal Concilio romano che in que.sl’anno medesimo fu celebrato. Ma Paolo Diacono potè fin da quest’anno chiamarlo vescovo, onorandolo di quel nome che veramente non gli fu [p. 189 modifica]SECONDO I89 dato clic qualche tempo appresso. L’Argelati attribuisce questa lettera al medesimo S. Mansueto (Bibl. Scr. med. t. 7, pars 1, p. 850). Pare ch’egli avrebbe dovuto accennare il sentimento di Paolo Diacono che chiaramente l’attribuisce a Damiano, o almeno indicarci su quai fondamenti egli pensasse di doverne far autore il medesimo arcivescovo. Così fa pure il ch. Sassi (Series Archiep. mediol, t. 1, p. 239) il quale non ne arreca altro argomento, se non quello che abbiam noi pure accennato, cioè che Damiano era allor semplice sacerdote. Ma non poteva forse Mansueto e il sinodo tutto valersi di un semplice sacerdote per iscrivere in lor nome una lettera? Abbiamo però altre pruove del sapere di S. Mansueto, perciocchè il P. Montfaucon cita alcune sue opere manoscritte, ma senza dichiarare su qual argomento esse siano (Bibl. MSS. t. 1, p. 685). Di S. Natale arcivescovo di Milano ci narra il medesimo Argelati (l. cit p. 990), che fu uom dotto nella latina, nella greca e nell’ebraica favella, il che a questi tempi era da aversi in conto poco meno che di prodigio; e aggiugne ch’egli scrisse un libro contro degli Arriani. Ci giova credere che una tal tradizione della chiesa milanese, a cui esso si appoggia, non sia priva di buon fondamento, e il Sassi in fatti ne cita in pruova gli antichi catalogi de’ vescovi di quella chiesa (l. cit. p. 250). Egli tenne quella sede dall’anno 739 fino al 764. XXII. F ra’ monaci ancora vi furono alcuni che coltivarono a questi tempi gli studj sacri; K e un monastero singolarmente si rendette sopra n [p. 190 modifica]IC)0 LIBRO gli’ altri illustre, dico quello di Bobbio fondato l’anno 612 da S. Colombano (V. Mabill. Ann. bened. t. 1, l. 10, n. 55). Era questi irlandese di nascita, e dopo aver passati i primi anni nella sua patria, e fondati poscia alcuni monasteri in Francia, venuto in Italia ottenne da Agilolfo re de’ Longobardi di poter fondare un monastero nella suddetta città, che pel numero e per le virtù de’ suoi monaci salì presto in gran fama. Nel libro seguente avremo occasion di parlare della biblioteca di questo monastero, che in questi barbari tempi dovea sembrar copiosissima , e che è un bel monumento della applicazione di questi monaci agli studi singolarmente sacri. Lo stesso S. Colombano era uomo versato nelle sacre e nelle profane lettere. Alcune Epistole da lui scritte intorno alla celebrazion della Pasqua (ib. l. 9, n. 35), e intorno alla famosa contesa de’ tre Capitoli (ib. l. 11, n. 4)? e alcune poesie che di lui ci sono rimaste, scritte nel gusto di questi secoli, ce ne fan pruova; oltre la Regola, il libro detto Penitenziale, e le Istruzioni a uso de’ suoi monaci, e alcune altre opere ch’egli avea composte, ma non ci son pervenute. Io non fo che accennare il nome di questo sant’uomo, perchè ei non fu nostro , e poco tempo visse fra noi, essendo egli morto l’anno 615 (ib. l. 11, n. 17), tre anni soli dacchè si era stabilito in Italia. Si può vedere ciò che ne hanno scritto più ampiamente, oltre il lodato P. Mabillon, il P. Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t. 17, p. 462), e gli autori della Storia Letteraria di Francia (t. 3, p. 505). Con più ragione dobbiamo annoverare tra’ nostri [p. 191 modifica]SECONDO 1Q| Giona monaco prima del monastero di S. Colombano, e quindi passato nelle Gallie ed eletto abate del monastero di Enona presso Mastricht. Ei visse in grande stima non solo tra’ suoi, ma alla corte ancora di Francia, ove dalla reina Batilde fu in più affari adoperato, mentre ella reggeva il regno nella minorità del suo figlio Clotario III. Era egli natio di Susa in Piemonte, come pruova il Mabillon (Ann. Bened. t. 1,l. 11, n. 17). A lui siam debitori delle notizie che ci sono l imaste intorno a S. Colombano e a’ suoi primi discepoli; perciocchè egli scrisse la Vita di questo fondatore, e di Attala e di Bertulfo, che gli succederono nel governo di quel monastero, e di Eustasio abate di Luxeuil; a cui pure aggiunse la Relazione delle maraviglie avvenute nel monastero di Evoraco, ossia di Faremoutier nella diocesi di Meaux, mentre ne era abadessa S. Fara detta ancor Burgondofara. Credesi ancora eli’ egli stesso sia l’autor della Vita di S. Giovanni abate del monastero di Reomè, che or dicesi Moutier S. Giovanni. Tutte le quali Vite, oltre altre edizioni, sono state pubblicate dal P. Mabillon (ActaSS. Ord. S. Bened. t. 1). Egli finì di vivere verso l’anno 670, e di lui pure si posson vedere i sopra mentovati scrittori (Ceillier, t. 13, p. 657; Hist. letter. de la France, t. 3, p. (5o3). XXIII. Il celebre monastero di Monte Casino ci darà nei tempi avvenire copioso argomento di lode nel colti vamento de’ sacri studj. Ma ne’ primi anni dell’epoca di cui scriviamo, sorsero per que’ monaci tempi troppo funesti, perchè potessero in essi occuparsi. L’anno 58o fu [p. 192 modifica]I})2 LIBRO il lor monastero interamente rovinato da’ Longobardi , e i monaci vennero trasferiti a Roma, e posti nella basilica lateranese (V. Mabill. Ann. t. 1,l. 7, n. 1, ec.); finchè verso l’anno 718 Petronace nobil bresciano venuto a Roma ad istanza del pontefice Gregorio II passò a Monte Casino, e vi rifabbricò il monastero che si rendette poscia sì illustre (ib. t. 2, l 20, n. 32). In questo frattempo noi dobbiam (quì far menzione di Fausto , uno de’ discepoli di S. Benedetto, e da lui inviato nelle Gallie insiem con S. Mauro l’an 542. Di lui racconta Leon Marsicano (Chron. Casin. l. 1, c. 3) che a’ tempi di Bonifacio III, cioè l’anno 606, tornato a Roma, e riunitosi co’ suoi Casinesi nella basilica lateranese, alle preghiere dell’abate Teodoro scrisse la Vita di S. Mauro , che vedesi pubblicata dopo altri dal P. Mabillon (Acta SS. Ord. S. Bened. t. 1). Ma a me sembra che questo dottissimo autore non abbia su questo punto usata la consueta sua ammirabile esattezza. Egli in un luogo (Ann. voi. i.l. n, n. 25) sembra indicare che Fausto tornasse in Italia due anni dopo la morte di S. Mauro, che avvenne l’an 584- Poscia altrove racconta esser ciò avvenuto a’ tempi di Bonifacio III l’anno 606 (ib.l. 10, n. 37). A quale di queste due sentenze ci appiglieremo noi? Forse ei tornò in Italia l’anno 584, e poscia l’an 606 scrisse la mentovata Vita. Certo lo stesso Fausto nella prefazione postale innanzi racconta di averla mostrata al pontefice Bonifacio , e di averne da lui avuta favorevole approvazione; e l’autorità di Leon Marsicano non ci permette di [p. 193 modifica]SECONDO 1^3 dubitare che non dehhasi ciò intendere di Bonifacio III. Intorno a Fausto si veggan lo note dell’erudito canonico Giambattista Mari al libro di Pietro Diacono degl’illustri Monaci Casinesi pubblicato dopo altri dal Muratori (Script. Rer. ital. vol. 6, p. 11). XXIV. Al monastero medesimo di Monte Casino dovrebbe appartenere un altro scrittore di questo secolo, se potessimo affermar con certezza ch’egli sia mai stato al mondo. Il ch. Muratori ha pubblicato prima di ogni altro un opuscolo intitolato: Epitome Chronicorum Casinensium (Script. Rer. ital. t. 2 , pars 1, p. 351), di cui ne’ codici manoscritti si dice che sia autore un Anastasio monaco di Monte Casino, e poscia cardinale e bibliotecario della Chiesa romana a’ tempi di Stefano II, detto da altri III, cioè dall’anno 752 fino al 757; il quale Anastasio, a distinzione dell’altro posteriore e più celebre Anastasio scrittor delle Vite de’ Pontefici , si dice il vecchio. Questa Epitome sembra indirizzata singolarmente a provare che le ceneri di S. Benedetto e di S. Scolastica dopo essere state trasportate in Francia, il che da questo autor si concede, furon poscia di nuovo recate a Monte Casino a’ tempi del mentovato pontefice. Quindi non è maraviglia che i Benedettini francesi rigettino come supposto un tale scrittore, che troppo è contrario alla persuasione fermissima in cui sono di possedere tuttora quel venerabil tesoro; e si posson vedere le lor ragioni presso il più dotto loro sostenitore, cioè il P. Mabillon (Acta SS. Ord. S. Bened. saec. 2). Ma anche il eh. Muratori assai Tuuboschi, Voi. III. i3 [p. 194 modifica]XXV. Notizie del monaco Ambrogio Autj’crlo. 19.4 unno favorevol si mostra a creder supposto questo scrittore, sì perchè questa Epitome stendesi fino a un secolo dopo il tempo in cui si vuol che vivesse questo Anastasio, sì perchè Pietro Diacono, che nel secolo XII ha scritto un libro degli Uomini illustri di Monte Casino, di lui non fa motto, e di lui parimenti non trovasi menzione alcuna presso verun antico scrittore. Quindi a me ancora sembra più verisimile che sia stata questa opera scritta assai più tardi, e attribuita, per darle credito, a un Anastasio bibliotecario. XXV. Aggiugniam qui finalmente un altro celebre monaco di un altro pur celebre monastero , cioè Ambrogio Autperto. Noi non contrasteremo a’ Francesi la gloria di annoverarlo tra’ loro, poichè è certo ch’ei fu natio delle Gallie; ma il soggiorno di molti anni di lui fatto nel monastero di S. Vincenzo presso il fiume Volturno non lungi da Benevento, ci dà qualche diritto a farne menzione ancora tra’ nostri; e molto più che tutte le sue opere egli scrisse in questo medesimo monastero. Paolo Diacono lo dice dottissimo uomo (de Gest Long. I. G, c. 40), e rammenta un’opera da lui composta intorno alla fondazione e a’ fondatori di quel monastero. Essa ancor ci rimane, ed è stata inserita dal P. Mabillon negli Atti de’ Santi del suo Ordine. Giovanni Monaco nella Storia del Monastero di S. Vincenzo inserita nella gran Raccolta Muratoriana (Script, rer. ital. t. 1, pars 2) parlando di Ambrogio Autperto, oltre il detto libro fa ancor menzione p. 360) di molti libri della Scrittura, ch’egli [p. 195 modifica]SECONDO ICp avea esposti, cioè il Levitico, la Cantica de’ Cantici e i Salmi, e di molte Omelie sui Vangeli , e del libro intitolato De Conflictu vitiorum J et virtutum. De’ Comenti sulla Scrittura altro I non ci è rimasto che quello assai steso sull’AI pocalissi, che vedesi nella Biblioteca de’ PP., da 1 lui dedicato al papa Stefano III. Abbiamo pure il mentovato libro Del Contrasto delle virtù e dei vizj, che è stato attribuito senza ragione da alcuni a S. Ambrogio, da altri a S. Agostino, tra le cui opere supposte è stato pubblicato anche da’ dotti Maurini (App. ad vol. 6). Ma una difficoltà incontrasi nel fare autore di questo trattato Ambrogio Autperto. Egli dopo aver parlato di altri monaci antichi vissuti in Egitto e in altre straniere provincie, così dice (c. 33): Ecce ut ad vie ino s nostros veniamus, Protasius et Gervasius in propria hac Mediolanensi Civitate , ec. Come mai chi abitava presso Benevento potea dire in questa città di Milano? Alcuni pretendono che questo capo sia stato aggiunto da altri al libro di Ambrogio Autperto. Ma gli autori della Storia Letteraria di Francia, i quali a lungo hanno scritto di questo celebre monaco (t. 4, p. i 41), sostengono ch’egli anche di questo capo dee credersi autore; e tanto sono essi lungi dall’atterrirsi per tai parole, che anzi affermano che la vicinanza di Milano, che qui si accenna dallo scrittore del libro, è una pruova ch’egli è appunto Ambrogio Autperto. E egli possibile che questi dotti scrittori non abbiano osservata la distanza di oltre a 500 miglia che passa tra Benevento e Milano? Come dunque chi vivea [p. 196 modifica]presso Benevento poteva nominar Milano città vicina, e molto più dire: in questa città di Milano? I Maurini editori delle Opere di S. Agostino con maggior riflessione avvertono che Milano poteasi chiamar vicino in confronto delle altre città poc’anzi nominate. Ma ancorchè ciò si conceda, potea forse questo bastare per dire in questa città? Meglio è dunque o negar che quel passo sia di Ambrogio Autperto, o almen asserire che quelle parole in propria hac vi siano state aggiunte per man d’alcuno che credendone autor S. Ambrogio, pensò ch’egli dovesse scriver così. Ambrogio Autperto morì l’anno 779 mentre andava a Roma, perchè dal pontefice Adriano si dicidesse la contesa che era insorta per la sua elezione alla dignità di abate di quel monastero. Di che e delle altre cose che a lui appartengono, veggansi, oltre i citati autori, il P. Mabillon (Ann. Bened. t. 2, 24, n. 71, 93) e il P. Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t. 18, p. 119).