Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro III/Capo IV
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Capo IV.
Filosofia e Matematica.
I. Lo studio della filosofia avea già cominciato a spargersi in Roma alla venuta di Panezio e di Pohbio, e più ancor alla venuta degli ambasciadori ateniesi, come si è detto nell’epoca precedente. Ma assai più universale si fece dopo la conquista della Grecia; e per riguardo alla filosofia singolarmente si può dire con verità che la Grecia divenne suddita al tempo medesimo e maestra a’ Romani; e che costretta a ricever da essi comandi e leggi, costrinse i suoi vincitori medesimi a soggettarle il loro spirito e il loro intendimento. Era allora la Grecia divisa in molte filosofiche sette, tutte di nomi, di massime, di sentimenti diverse. Stoici, Epicurei, Peripatetici, Accademici, e questi ultimi ancora divisi in tre, o, come altri vogliono, cinque sette, riempivano tutta 464 PARTE TERZA la Grecia. Ogni setta aveva i suoi segnaci; $ quella era in pregio maggiore, che aveane maggior numero; e questi bramavan anzi di vincere i loro avversarii, che di scoprire la verità. Or conquistata la Grecia, molti de’ greci filosofi vennero a Roma, sicuri di acquistarvi fama e di migliorar condizione, e cominciarono a fare pubblica mostra del lor sapere. Gli ampii portici , e quelli singolarmente che qualche tempo dopo fece innalzare Lucullo innanzi a’ suoi maestosi palagi, erano, per così dire, le scuole in cui i filosofi greci si raccoglievano, e tra lor disputando spiegavano le loro opinioni (Plutarch. in Vit. Luc.). I Romani abbracciarono essi pure quali una, quali altra setta; e chi di essi era Stoico, chi Epicureo, chi Accademico. Il Bruckero annovera alcuni de’ principali che in ciascheduna setta furono illustri (t. 2 p. 16, ec.). Egli è però da osservare che non sem-« bra che tra’ Romani le filosofiche sette avessero! quell’unione e quella regolar forma che avean tra’! Greci: sicchè fossero l’una dall’altra divise, e ciascheduna avesse il suo capo, e le sue assemblee, e il luogo ad esse destinato. I filosofi greci erano per lo più uomini che altro impegno non aveano fuorchè quel di filosofo. I Romani al contrario rimiravan lo studio come interrompimento e sollievo de’ gravi affari della Repubblica. Quindi udivano volentieri le ingegnose dispute che tra lor facevano i Greci, volentieri leggevano i loro libri, si mostravano agli uni più favorevoli che agli altri, e prendevano ancor talvolta il nome di alcuna setta. Ma nè si curavano essi di formar corpo, per così dire, da ogni altro LIBRO TERZO 465 distinto; nè si cercavano partigiani e seguaci. Io non tratterrommi a nominar tutti quelli che lo studio della filosofia abbracciarono in Roma: lunga e inutil fatica. Molti, come si è detto, ne annovera il Bruckero, il quale a Virgilio ancora, ad Orazio e ad Ovidio tra’ filosofi ha dato luogo. Io de’ poeti non parlerò a questo passo, perchè parmi troppo difficile l’accertare di qual parere essi fossero nelle quistioni filosofiche; essi, dico, che più dall’estro poetico che dalla forza della ragione si lasciano trasportare, e spesso contraddicono in un luogo a ciò che in un altro hanno asserito. Osserverò solamente che abbian fatto i Romani a vantaggio della filosofia, e chi tra essi abbiala co’ suoi scritti illustrata. II. E primieramente al fervor de’ Romani nell’applicarsi allo studio della filosofia noi dobbiamo la pubblicazione de’ libri di Aristotile, che per lungo tempo erano stati nascosti, e per così dire sepolti. Non vi è forse autore i cui libri siano stati a tante vicende soggetti, come Aristotile. Egli morendo gli affidò a Teofrasto suo discepolo e successore. Questi a un certo Neleo di Scepsi, città della Troade, il quale, portatigli insieme con que’ di Teofrasto alla sua patria, lasciolli a’ suoi eredi, uomini che di lettere e di libri erano affatto digiuni. Quindi crederono essi di averli ben conservati, lasciandoli ammucchiati insieme alla rinfusa; anzi avendo udito che il Re di Pergamo a grandi spese raccoglieva de’ libri per formarne una magnifica biblioteca, e pensando che sventura peggiore avvenir non Tirajboschi, Voi, I. 3o 466 PARTE TERZA, potesse a que’ libri che di cader nelle mani del Re, ed essere esposti alla pubblica luce, con pazzo consiglio gli ascosero in una sotterranea ed umida grotta, ove è facile a conghietturare qual danno ne soffrissero nello spazio di 130 anni, in cui vi stetter sepolti. Finalmente trattine fuora guasti e malconci com’erano, furon venduti a un cotale Apellicone Teio che avea raccolta numerosa biblioteca in Atene. Questi avea buon gusto, quanto bastava a conoscere il pregio, ma non tanto sapere, quanto convenuto sarebbe per intendere pienamente il senso, ove i caratteri eran corrosi, e supplirne il testo ove esso dall’umidità, da’ sorci e da altri somiglianti nemici della letteratura era stato lacerato e guasto. Si accinse nondimeno all’impresa, e quel riuscimento vi ebbe, che era da aspet-] lame. Al danno che i codici sofferto aveano nello squallor della carcere, si aggiunsero gli errori e le cose finte a capriccio, di cui Apellicone gli riempiè. Morì Apellicone , e poco dopo presa Atene da Silla, fra le spoglie che il vincitore giudicò degne d’essere trasportate a Roma, vi fu singolarmente la biblioteca d’Apellicone, e con essa tutti gli scritti di Aristotile e di Teofrasto. Stettero essi per alcun tempo nella biblioteca di Silla, senza che fossero pubblicati; finchè Tirannione gramatico , il quale da Lucullo era stato condotto schiavo a Roma, insinuatosi nell’amicizia di chi ad essa presiedeva, ottenne di avergli in mano, ne fece copia, e gli emendò, come seppe il meglio. Passaron poscia alle mani di un altro greco filosofo detto Andronico da Rodi, che era LIBRO TERZO 467 • jn Roma a’ tempi di Cicerone, il quale pure nuove diligenze adoperò a correggerli, e a riempire i vuoti che vi erano ancora rimasti; e ne moltiplicò gli esemplari, perchè le opere di questo illustre filosofo fosser pubbliche in Roma. Tutto ciò si può vedere più ampiamente presso il Bruckero (t. 1, p. 798; t. 2, p. 19 e (60), e presso il Bayle (Diction. art. « Andronic. de l\hod. » e art. « Tyrannion »), i quali questo punto di storia hanno diligentemente esaminato, raccogliendo e confrontando insieme i passi degli antichi scrittori che ne favellano. Vuolsi però avvertire che anche verso il fine della vita di Cicerone, quando egli scriveva il suo libro de’ Topici,’ non erano molto conosciuti i libri di Aristotile; perciocchè egli, dopo aver riferito che un retore detto avea di non saper nulla delle opere di questo autore, soggiugne: Di che io non mi fo maraviglia che questo filosofo noto ancora non fosse a questo retore, poichè egli agli stessi filosofi, tranne assai pochi, non è ancor conosciuto (Topic. n. 1). ET. Questo divolgamento de’ libri d’Aristotile recò al nome di quel filosofo gloria non ordinaria; e quindi fu egli con tante lodi celebrato da Cicerone, il quale dovette essere uno tra’ primi ad averne contezza, e che uomo il chiama d’ingegno presso che divino (De Divin. l. 1, n. 25), e a tutti i filosofi, trattone solo Platone, in ingegno e in esattezza superiore (Tusc. Qu. l. 1 ,n. 10). Intorno a che due cose mi sembran degne di riflessione. La prima si è, che i Romani furono quelli per mezzo de’ quali celebri si rendettero e conosciuti gli scritti 468 PAUTE TERZA di questo illustre filosofo; poiché Tirannione e Andronico invano avrebbongli diseppelliti e corretti, se non avessero trovati i Romani inclinati a’ filosofici studi, che gli accogliessero volentieri, e coll’usarne e col disputarne li rendesser più noti. La seconda si è, che in Roma prima che in Grecia si apprese la ver * dottrina di Aristotile. Perciocchè dopo la morte di Aristotile e di Teofrasto giacendo sepolti i libri da lor composti, la dottrina di lui passava per tradizione di bocca in bocca, e quindi necessario era che si alterasse notabilmente. Al contrario in Roma dagli scritti medesimi di Aristotile se ne apprendevano le opinioni, e con essi alla mano si disputava. Egli è però vero che quegli scritti do vean già essere guasti I e contraffatti da tante mani che vi si erano 1 impiegate. Apellicone, Tirannione, Andronico vi si adoperarono intorno, ne vollero emendare I gli errori , e forse ve ne aggiunser de’ nuo- I j xì, vollero riempir quei vani che l’umidità e il tarlo vi aveano fatto; e ove Aristotile più non parlava, parlaron essi, come sembrò lor verisimile che parlar dovesse Aristotile. Quindi convien confessare che più non abbiamo gli scritti di questo famoso filosofo, quali da lui furon lasciati; e quando veggiamo in essi alcuna cosa oscura, o incoerente, e qualche mal congegnato ragionamento, vi è giusta ragione a credere che non debbansi attribuire ad Aristotile, il quale in tante cose si mostra conoscitore grandissimo della natura e ingegnoso disputatore; ma sì a quelli che volendogli emendare ne guastarono sconciamente i libri. Ma LIBRO TERZO /pRJ non appartiene al mio argomento l’esaminar la dottrina e gli scritti di un greco filosofo, ma solo riferire qual parte avesse Roma nella loro pubblicazione. Or dal già detto parmi che si possa probabilmente raccogliere che noi non avremmo forse gli scritti d’Aristotile, se Silla non gli avesse portati a Roma, e se i Romani col loro ardor nello studio della filosofia non gli avessero fatti celebri e noti al mondo. Così le Opere di questo illustre filosofo a’ Romani debbono la loro conservazione, a’ Greci la dimenticanza in cui giacquero lungamente, e il guasto e l’alterazion che soffersero. IV. Or passando a favellare di color tra’ Romani che la filosofia illustrarono co’ loro scritti, il primo che ci si offre a ragionarne, è Cicerone; e quell’uom medesimo che abbiami già veduto andare innanzi a tutti nell’eloquenza, nella filosofia ancora il vedremo non rimaner addietro di alcuno. Avea egli attentamente ascoltati i più famosi filosofi che allor fossero in Roma, e molti di essi si veggono spesso da lui nominati con somma lode. Fedro e Patrone epicurei (Ep. Fam. l. 13, ep. 1), Diodoto stoico (Acad. Qu. l. 4, n. 36), Antioco accademico (De Cl. Orat. n, 91), Possidonio parimente stoico (Tusc. Qu. l. 2, n. 25 (a), ed (a) Possidonio, natio di Apamea nella Siria, fu uno de’ più dotti filosofi e dei più ingegnosi astronomi che a que’ tempi vivessero in Roma, ove egli ebbe lungamente soggiornato, e ove propagò non poco lo studio della buona filosofia, intorno alle opinioni singolarmente astronomiche di esso veggansi le diligenti osservazioni di M. Bailly (Hist. de L’Astron. Med. t. 1, p. 118, ec.. 164, ec.). IV, Cicerone t uno dei più solleciti ne! coltivarla. 47° PARTE TERZA altri sono da lui spesso onorati col nome di dotti ed acuti filosofi, della conversazione dei quali egli si era singolarmente giovato. Ma in particolar modo negli ultimi due anni della sua vita, quando vide la Repubblica tutta sconvolta dalle turbolenze civili, e dalla prepotenza di Cesare, egli ritiratosi, benchè solo per qualche tempo, a quieto e solitario riposo, alla filosofia applicossi con grande ardore. Nè pago di istruirsi in esso , volle ancora istruirne gli altri, e scrivendo latinamente a’ suoi concittadini far pubblico, per così dire, quanto di meglio ne’ libri de’ filosofi greci si stava nascosto e chiuso. Niuno eravi stato ancor tra’ Romani che con libri nella materna sua lingua scritti illustrata avesse cotale scienza. Philosophia, dice egli stesso (Tusc. Qu. l. 1, n. 3), jacuit usque ad hanc aetatem, nec ullum habuit lumen literarum latinarum. Non già che niuno veramente avesse fin allora scritto cose filosofi-1 che in lingua latina. Molti anzi, e singolarmente Epicurei, come si è detto, eransi in ciò occupati: ma incolto e rozzo era lo stile da essi usato*, e da niuno perciò eran letti i lor libri, fuorchè da’ loro autori medesimi, e da alcuni loro più confidenti seguaci. Ecco come ne parla il medesimo Cicerone (Acad. Qu. l. 1, n. 3): In quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi jam esse latini libri dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest, ut recte quis sentiat, et id quod sentit, polite eloqui non posset. Sed mandare quemquam literis cogitationes suas , qui eas nec disponere nec illustrare possit, nec delectatione aliqua allicere lectorem, hominis est intemperanter abutentis otio et literis. Itaque suos ipsi libros legunt cum suis, nec quisquam attingit praeter eos, qui eamdem licentiam scribendi sibi permitti volunt. Varrone stesso, il dottissimo Varrone che, versato in tutte le scienze, la filosofìa ancora avea co’ suoi scritti illustrata, avealo fatto in maniera, per testimonio del medesimo Tullio (ib.), che avea bensì giovato molto ad eccitarne gli altri allo studio, ma poco ad istruirli: Philosophiam multis locis inchoasti ad impellendum satis, ad edocendum parum. V. Postosi dunque Cicerone alla grande impresa di render latina, per così dire, la greca filosofia, non vi fu parte alcuna che da lui non fosse abbracciata ed illustrata. I principii di tutte le diverse sette nelle quali era allora la flosofia divisa, avea egli diligentemente investigati; e tutti si veggono in varie sue opere spiegati e svolti. Ne’ libri della Natura degl’Iddii , della Divinazione e del Fato noi troviamo quanto intorno alla naturale teologia eransi fin allora pensato da’ più illustri filosofi. Quante utilissime quistioni della morale filosofia veggonsi dottamente da lui trattate ne’ libri singolarmente de’ Fini de’ beni e de’ mali, delle Quistioni Tusculane, delle Leggi e degli U(finii, e ne’ dialoghi della Vecchiezza e della Amicizia , e ne’ Paradossi! Di quella parte ancora di filosofia che allo studio della natura appartiene, benchè Cicerone non abbiala espressamente trattata, pure da varii passi veggiamo quanto attento studio avesse egli fatto. Il secondo libro 472 PARTE TERZA della Natura degli Ideili è un illustre testimonio delle cognizioni da lui acquistate nella storia naturale, nell’astronomia, nell’anatomia, e in tutte le altre scienze che allo studio d,ella natura appartengono. Vi s’incontrano, è vero, molte opinioni che la moderna fisica rigetta e deride; ma non vuolsene incolpar Cicerone più che gli altri più famosi filosofi de’ tempi addietro; anzi gli si dee gran lode, che tutto ciò che essi insegnarono , abbia egli si felicemente e sì elegantemente spiegato. Certo io non credo che più bella e più colta descrizione si possa legger di quella che del corpo umano egli ha fatta, per tacer di altre che potrebbonsi con ugual lode accennare (De Nat. Deor. l.1, n. 54). VI. Converrebbe ora entrare nella sì dibattuta quistione, quali siano stati i veri sentimenti di Cicerone in ciò che alla religione appartiene. A trattarla a dovere necessario sarebbe intraprendere un lungo esame delle sue opere, conciliare tra loro varii passi che sembrano interamente contrarii, distinguere i sentimenti proprii di Cicerone da quelli eli’ egli attribuisce ad altri, osservare le circostanze diverse in cui egli ragiona, ed entrare in somma in una tale discussione che troppo lungi ci condurrebbe, e potrebbe anche parere aliena dallo scopo di questa Storia. Ci basterà dunque lo stabilire alcuni generali principii, dai quali si potrà facilmente conoscere quali fossero i sinceri suoi sentimenti. E primieramente avea Cicerone lette ed esaminate attentamente le opere e le opinioni de’ più illustri filosofi, ed avea osservato quanto essi LIBRO TERZO 47^ fossero fra loro discordi; da altri asserirsi l’esistenza della Divinità, negarsi da altri; alcuni volere che dopo morte l’anima sopravviva, altri che colla morte ogni cosa abbia fine; l’anima dagli uni dirsi corporea, incorporea dagli altri 5 e il reggimento del mondo da chi assegnarsi alla provvidenza degli Iddii, da chi al destino, da chi al caso; alla prova di ogni sistema addursi ragioni, addursi autorità; ed ogni sentenza aver seguaci per sapere, ed anche talvolta per probità rinomati. Noi veggiamo Cicerone dolersi spesso di questa sì grande contrarietà d’opinioni. Itaque cogimur, dice egli (Acad. Qu. l. 4 > n- 41)> dissensione sapientum, dominum nostrum ignorare; e poco dopo Qua de re igitur inter summos viros major dissensio (loc. cit. n. 42)? Qual maraviglia dunque ch’egli si mostri spesso dubbioso e incerto a qual sentenza rivolgersi! Aggiungasi inoltre ch’egli, uomo di perspicace ed acuto ingegno, dovea conoscere chiaramente la fievolezza di quelle ragioni che a prova di molte loro opinioni da’ filosofi si adducevano; e io penso certo che in cuor suo ei si ridesse di que’ tanti e sì prodi Iddii, dei quali per altro ragionando al popolo suole parlare con sì grande rispetto. E come poteva in fatti un uom saggio e ingegnoso persuadersi dell’esistenza di quegli Iddii de’ quali sì bizzarre cose si raccontavano da coloro che n’erano adoratori? Ma dall’altra parte , benchè ei vedesse quanto sciocca e ridicola fosse la superstizione del gentilesimo, non avea luce bastante a scoprire il vero. I dogmi della religion vera, parlando della sola VII. Ei non si lega ad alcuna setta determinata. 474 PARTE TERZA religion naturale, son tali che dallo stesso lume della ragione ci vengono insegnati; ma ciò non ostante, se questo non è da soprannatural lume rischiarato, appena è mai che l’uomo arrivi con esso a chiaramente scoprirli; perchè appena è mai che nell’uomo abbandonato a se stesso questo lume medesimo della ragione non sia dalle ree secondate passioni oscurato e poco meno che estinto. In tale stato d’oscurità e d’incertezza dovea trovarsi Cicerone; conoscere la falsità delle filosofiche opinioni intorno alla religione; vedere, ma come da lungi e involto in dense tenebre, il vero che egli andava cercando; e non arrivare giammai ad accertare qual cosa ei creder dovesse, e qual rigettare. VII. In questa diversità di opinioni, in questo suo incerto ondeggiar di pensieri, l’unico partito a cui Cicerone doveva credere di potersi appigliare, era quello appunto ch’ei prese, di non legarsi, per così dire, ad opinione alcuna determinata; ma di esaminar ogni cosa, di ponderar le ragioni d’ogni sentenza, e di astenersi dal pronunciar decidendo ciò che si avesse a creder per certo, ma solo abbracciare come verisimile quell’opinione che con probabili ragioni si sostenesse. Questo era il costume della setta che dicevasi accademia. Cum Academicis, dice egli stesso (De Finib. l. 2, c. 14), incerta luctatio est, qui affirmant, et quasi disperata cognitione certi, id sequi volunt, quodcumque verisimile videatur; nel che distinguevasi da altri più antichi Accademici, che a miglior ragione scettici avrebbon dovuto chiamarsi, i quali di ogni cosa volevano che si LIBRO TERZO 4^5 dubitasse, senza pur dire qual opinione verisimile fosse, o probabile. A questa setta dunque si appigliò Cicerone, come egli stesso in più luoghi si dichiara, singolarmente ove dice (Tusc. Qu. l. 1, n. 9): Geram tibi morem, et ea, (qua,vis ut potero, explicabo; non tamen quasi Pythius Apollo, certa ut sint ea et fixa, quae dixero, sed, ut homunculus unus e multis, probabilia conjectura sequens. Ultra enim quo progrediar, quam ut videam verisimilia, non habeo. E altrove (Orat.n.71): Sed ne in maximis quidem rebus quidquam adhuc inveni firmius quod tenerem, aut quo judicium meum dirigerem, quam id quodcumque mihi simillimum veri vederetur, cum ipsum illud verum in occulto laleat. Vili. Ma quali erano le sentenze che a Cicerone sembravan probabili e verisimili? L’esistenza della Divinità, l’immortalità dell’anima, la provvidenza sovrana ammettevansi elleno da Cicerone come probabili, o rigettavansi come improbabili? Questo è ciò appunto che non è sì agevole a diffinire; e se riflettiamo a diversi passi delle sue opere, pare che Tullio stesso non avrebbe potuto determinare che cosa ei si credesse. Di fatto altri pongon Cicerone tra gli Atei; e trovano ne’ suoi libri tai sentimenti che spirano il più puro e il più libero ateismo. Altri li ripongono tra’ più zelanti difenditori della religion naturale; ed essi ancora confermano l’opinion loro colle parole stesse di Cicerone. A spiegare una sì grande contrarietà di sentimenti e di espressioni, convien riflettere a ciò che dice S. Agostino, essere stato Vili. E pai la perciò diversamelile ili di* vcnr occasioni. 476 PARTE TERZA costume degli Accademici di non iscoprire giammai quali fossero le opinioni a cui essi inclinassero, se non ad alcuno dei più familiari amici, quando fossero insieme giunti alla vecchiezza. Mos fuit Academicis occultandi sententiam suam, nec eam cuiquam, ni si qui secum ad senectutem usque vixissent, aperiendi (l. 3 contra Academ.). Non è dunque a stupire se Cicerone nelle sue filosofiche opere altro non faccia comunemente che disputare e produr le ragioni delle diverse sentenze, senza decidere cosa alcuna; e non è pure a stupire che parli in diverse occasioni diversamente, e che sembri ora ammettere la Divinità, ora negarla, e che in un luogo ei si mostri inclinato a pensare che l’anima viva ancor dopo morte; nell’altro si mostri persuaso che colla morte ogni cosa abbia fine. Di queste opposte opinioni niuna, secondo i principii della sua setta, egli stimava certa; e se una gli pareva più verisimil dell’altra, non ardiva egli, e non voleva, secondo gli stessi principii, dichiarare apertamente il suo parere. Perciò secondo le circostanze diverse ei parla diversamente; e se alcuna cosa afferma , afferma ciò che sapeva piacere a quelli a cui i suoi libri, ole sue lettere erano indirizzate. Così veggiamo che le massime epicuree, o lo stoiche egli sembra adottare talvolta, quando scrive a Stoici, o ad Epicurei. IX. Nondimeno, esaminando attentamente ogni cosa, a me pare che Cicerone inclinasse alle opinioni di una soda e verace filosofia, quale dallo stesso lume della ragione ci viene LIBRO TERZO 477 insegnata. I sei libri della Repubblica, i quali a nostro gran danno si son perduti, sembra che fosser l’opera più di tutte cara al suo autore (V. Middleton Vit. di Cic. ad an. 6t)6), e in cui più chiaramente che in ogni altra spiegasse i suoi sentimenti. Or nel bellissimo frammento che di essi ci è rimasto, intitolato il Sogno di Scipione, noi veggiamo l’immortalità! dell’anima spiegata e confermata si fortemente, che ci può essere un sicuro pegno de’ sinceri sentimenti di Cicerone. Alcuni altri passi ce ne han conservati Lattanzio e S. Agostino, che anche al più saggio tra’ cristiani filosofi potrebbonsi attribuire. Rechiamone un sol passo sulla legge di natura riferito da Lattanzio (Instit. l. 6, c. 8), in cui vedremo i più importanti dogmi della religion naturale maravigliosamente spiegati: Est quidem vero lex, dic’egli, recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna, quae vocet ad offìcium jubendo , vetando a frande deterrcat, quae tamen ncque probos frustra jubet, aut vetat, nec improbos jubendo, aut vetando movet. Huic legi nec abrogare fas est, neque derogari ex hac aliquid licet, neque tota abrogari potest Nec vero aut per senatum, aut per populum solvi hac lege possumus. Neque est quaerendum explanator, aut interpres ejus alius: nec erit alia lex Romae, alia Athenis, alia nunc, alia posthac; sed et omnes gentes, et omni tempore una lex et sempiterna et immortalis continebitj unusque erit communis quasi magister et imperator omnium Deus ille legis hujus inventor, disceptator, lator: cui qui non parebit, 4/8 PARTE TERZA ipse se fugiet, ac naturam hominis aspernabatur, atque hoc ipso luet maximas poenas, etiamsi cetera supplicia quae putantur, effugerit. Veggasi inoltre il suo trattato delle Leggi, nel quale parlando egli col suo amicissimo Attico e con Quinto suo fratello, non dovette certo usare di dissimulazione -, veggasi, dico, con qual gravità egli parli di Dio, negando che nazione alcuna vi sia, la quale qualche notizia non ahbia dell1 Esser Supremo (De Leg. l. 1, n. 8); Nulla gens est neque tam immansueta, neque tam fera quae non, etiamsi ignoret, qualem habore Deum deceat, tamen habendum sciat; ex equo efficitur illud, ut is agnoscat Deum, qui, unde ortus sit, quasi recordetur ac noscat. E in un frammento del libro de Consolatione da lui scritto due anni soli innanzi morte, serbatoci da Lattanzio (Instit. l. 1, c. 5): Nec vero Deus ipse, qui intelligitur a nobis, alio modo intelligi potest, nisi mens soluta quaedam ac libera, segregata ab omni concretione mortali, omnia sentiens ac niovens (*). Da tutte le quali cose a me pare di poter conchiudere probabibnente che nè Ateo uè Sceptico fu (*) Fra i passi, i quali ci mostrano che Cicerone, quando parlava seriamente e secondo i sinceri sentimenti dell’animo suo, seguiva i principii di una vera e ragionevole filosofia, si può ancora recar quello ove dice: Nam mihi cum multa eximia divinaque videantur Athenae tuae paperisse,, atque in vita hominum attulisse, tum nihil melius!, illis mysteriis, quibus ex agresti immanique vita exculti ad humanitatem et mitigati sumus, initiaque, ut appellantur, ita revera principia vitae cognovimus, neque solum cum laetitia vi vendi ralionem accepimus, sed etiam cum spe mellorum oriendi (De Leg. L 2 , c. i4)■ LIBRO TERZO 479 Cicerone, eli’egli ebbe lume a conoscer que’ dogmi che dalla ragione ci vengono insegnali, e c[,c; se ne’ suoi libri sembra talor dubitarne, ciò non fu perchè veramente ne dubitasse, ma o perchè non voleva, secondo il costume della sua setta, troppo chiaramente spiegarsi, o perchè si adattava alle persone a cui volgeva il discorso, o perchè finalmente le tenebre del Gentilesimo, fra le quali era involto, e le passioni sue stesse talvolta lo ingombravan per modo. che quel lume ancora in lui oscuravano, che soleva comunemente risplendergli alla mente. Veggasi su questo proposito una bella dissertazione dell’Oetellio (in Actis Academ. Elect. Mogunt Voi. 77, pag. 458, ec.), in cui prova quanto giustamente sentissero Cicerone e Platone intorno l’immortalità dell’anima, e confuta le ragioni dell’inglese "Warburton che di questi due valentuomini avea fatti due Atei. E veggansi ancora i più recenti apologisti della religione, i quali trattando di questo argomento medesimo hanno ribattuto il sentimento di alcuni moderni filosofi, e particolarmente degli Enciclopedisti, i quali (art « Ame ») hanno affermato che quasi tutti gli antichi filosofi, e nominatamente Cicerone, negarono che l’anima fosse immortale. X. Per ciò che appartiene alla morale di Cicerone, che egli espresse singolarmente ne’ suoi libri degli Ufficii, so che da alcuni ella è stata censurata severamente. Il P. Buffier, tra gli altri, nel suo trattato della Società Civile molte cose ha trovato a riprendere in questi libri, e quanto al metodo che in essi tien Cicerone, 48o PARTE TERZA e quanto alle massime che v’insegna. E l’anno 1695 fu stampato in Parigi un libro di autor anonimo con questo titolo: Discernimento della, vera e della falsa morale, in cui si fa vedere il falso degli Ufficii di Cicerone, de’ libri dell’Amicizia, e della Vecchiezza, e déParadossi. Ma altri ne sentono diversamente; nè è mancato chi a’ libri degli Ufficii abbia dato il nome di Evangelio della legge di natura (V. A et. Erud. Lips. 1727, p. 48). Il celebre Barbeyrac nella prefazione premessa all’opera del Puffendorf, Del Diritto della Natura e delle Genti, dice (§27) che questo eccellente trattato, noto a tutti, è il miglior trattato di morale di tutta V antichità, che noi abbiamo , il più regolare e il più metodico, e quello che più si accosta a un sistema compito ed esatto Veggasi anche la prefazione premessa da M. du Bois alla traduzion francese da lui fatta di questi libri. Non vuol già negarsi che alcune massime false siano in essi sparse. Ma qual maraviglia che un uom Gentile non giungesse in alcune cose a conoscere il vero! Ciò che sopra si è detto della religione, vale a questo luogo ancora. XI. Molte delle opere filosofiche di Cicerone si son conservate, ma molte altre ne sono infelicemente perite. Tra le altre i soprammentovati suoi libri della Repubblica, una delle migliori opere da lui composte, e i celebri libri della Gloria, ne’ quali è verisimile che tutta la sua eloquenza egli dispiegasse nel ragionare di un argomento che troppo era per lui desiderabile e dolce. Così pure si è smarrito il suo Ortensio, ossia un libro delle lodi della filosofia, LIBRO TERZO 4^* ¡1 quale era ben degno di essere conservato, poichè S. Agostino racconta (Confess. l. 3, c. 4» e Proem. de Vita Beata) che alla lettura ch’egli uè fece, sentissi fortemente per la prima volta eccitare allo studio della sapienza. XII. Prima di passar oltre in questo argomento, due punti di storia letteraria ci si offrono qui ad esaminare, che ad esso appartengono , cioè le accuse date a due letterati italiani, Pietro Alcionio, e Carlo Sigonio, tacciato il primo di aver soppressa l’opera de Gloria di Cicerone fino a lui pervenuta, dopo essersi fatto bello de’ migliori passi di essa nel suo libro de Exilio; l’altro di avere dato alla luce un suo trattato De Consolatione, fingendo che fosse quel desso cui sappiamo che da Cicerone fu composto nella morte della diletta sua Tullia. E quanto al primo, è certo che a’ tempi di Francesco Petrarca conservavasi ancora almeno un esemplare de’ libri de Gloria. Narra egli stesso assai lungamente (Epist. Scnil. I. i G,ep. 1) in qual maniera eragli esso venuto alle mani, e come poscia l’avea smarrito, Raimondo Soranzo, che egli latinamente chiama Superantius, e il dice venerabile vecchio, in una copiosa sua biblioteca avea i suddetti libri di Cicerone, e di questi insieme con alcuni altri fe’ dono al Petrarca. Questi aveali cari soprammodo, e stimavasene ricco non altrimenti che di un tesoro. Quando quel Convenevole da Prato eli’ eragli stato maestro ne’ suoi primi anni, e che avealo sopra tutti, gli altri discepoli amato sommamente e pregiato, glieli chiese in prestanza, fingendo di abbisognarne al lavoro Tiraboschi, Voi. I. 3i TU. Fri» riu quella de Ci!urid colisi rvosai lino a1 tempi del PetrariJ48a PARTE TERZA di un’opera che meditava. Il Petrarca per gra litudine non glieli seppe negare. Dopo molti anni non udendone più novella , ne chiese al maestro più volte; il quale or con uno, or con altro pretesto si andava schermendo. Pressato , confessò finalmente che stretto da po» verta areali dati a pegno. Avrebbe pur voluto sapere il Petrarca, in cui mani si fossero pronto a riscattarli anche a danaro; ma il maestro per rossore non mai si condusse a nominarglielo , nè quegli ebbe cuore ad usare più forti mezzi. Morì finalmente il maestro in Toscana, mentre il Petrarca stavasene in Francia; e questi tentò poscia invano ogni via per averne contezza, e per ricuperarli. D’allora in poi non si fece per lungo tempo menzione di questo libro. Abbiamo bensì una lettera di Beato Renano scritta al Pirckaimero l’anno 1531, dalla quale veggiamo ch’egli si lusingava che il detto Pirckaimero ne avesse una copia. Expectamus. gli scrive egli (Ad calcetti « Rerum Germam carum »), ali quid veterum librorum a te; Ciceronem de Gloria, eumdem de Vita beata, quasdem ejus orationes ec. nisi tanto thesauro solus frui vis. An fabulam narravit ¡Ile no,iter? Le quali ultime parole, che dal Fabricio (Bibl. lat. t. 1, p. 143, edit. ven.) non sono state avvertite, ci fan conoscere che il Renano solo per altrui relazione sapeva di tai libri esistenti presso l’amico, e che nascevali qualche dubbio che colui non gli avesse narrata una fola. E così convien dire che fosse, poichè di questa copia più non si udì motto. LIBRO TERZO 4^3 XUI. Non così di quella che per testimonio di Paolo Manuzio era nella biblioteca di Bernardo Giustiniani; poichè da questa è venuta l’accusa contro l’Alcionio. Veggiamo prima ciò c|,e ne narra il Manuzio. Questi libri, egli dice Comment. in Epist. ad Alt. I. 2 5, ep. 27), durarono fino all’età de’ nostri padri. Perciocchè Bernardo Giustiniani nell’indice de’ suoi libri registra Cicerone de Gloria. Avendo questi lasciata per legato tutta la sua biblioteca a un monastero di monache, questo libro cercato poscia con gran diligenza non si potè mai rinvenire. Tutti ebber per fermo che Pietro Alcionio, a cui, essendo egli lor medico, permettevan le monache di ricercare la loro biblioteca, T avesse scaltramente involato. E certo nella sua operetta dell’Esilio alcune cose s’incontrano che sembrano non già dell’Alcionio, ma di qualche più valente scrittore. Fin qui egli. Verso il medesimo tempo la stessa accusa fu data all’Alcionio da Paolo Giovio ne’ suoi Elogi stampati la prima volta l’anno 15 ì, benché ei non racconti in qual maniera egli venisse ad ottenere l’opera di Cicerone, nè affermi costantemente il fatto, ma dica solo che ne fu gran sospetto. Il Fabricio (loc. cit.), e dopo lui il co. Mazzuchelli (Scritt. Ital. « in Elogio Alcion. ») citano per confermatori dello stesso letterario furto dell’Alcionio Cristoforo Longolio nelle sue Lettere, il Girardi nel libro de’ Poeti del suo tempo, e Pier Vittori nella prefazione a’ suoi Comenti sopra la Poetica di Aristotile, oltre altri recenti, l’autorità de’ quali non giova se non quanto è sostenuta dagli 484 PARTE TERZA antichi. Ma quanto a’ tre mentovati autori, io ho cercati e letti i passi dal Fabricio e dal co. Ma*, zuchelli allegati, e non vi ho trovato vestigio di questo furto attribuito all’Alcionio: così poco convien fidarsi alle altrui citazioni, a chi vuole scrivere esattamente. Tutta la forza adunq(le di tale accusa si riduce al testimonio ed all’autorità del Manuzio e del Giovio. Ma quante cose si uniscono a combatterla e ad atterrarla! Essi narrano cosa da’ loro tempi lontana assaiperciocché Bernardo Giustiniani, di cui si dice che lasciasse per testamento alle monache con altri libri quelli ancora de Gloria, era morto l’anno 1489 (V. Foscarini Lett. Venez. p. 245): e questi due autori scrivevano verso la metà del secolo seguente. Inoltre il Giustiniani visse venti e più anni dacchè la stampa era introdotta in Italia. È egli possibile che un uomo colto, come egli era, non cercasse di dare alla luce quest’opera di Cicerone, sapendo singolarmente quanto ella fosse rara? Inoltre l’Alcionio non fu di ciò accusato , se non quando più non poteva difendersi. Il suo libro de Exilio fu stampato dal vecchio Aldo nel 1522, ed egli morì o alla fine del 1527, o al principio del 1528 (V. Mazziu h, l. c. e Pier. Valerian. de Infelic. Litterat.), cioè molti anni prima che il Manuzio e il Giovio lo accusassero. Degli autori che scrissero lui vivente, niuno gli rimproverò questo letterario delitto; il che certamente non avrebbon lasciato di fare, trattandosi di un uomo che era odiato ed invidiato al sommo dalla più parte de’ dotti che allor vivevano (V. Valerian, ib.). Anzi Pierio Valcriano, che LIBRO TERZO 48^ visse al tempo stesso dell’Alcionio, lo accusa bensì di aver soppressa uu’ opera matematica di Pietro Marcello; ma di quest1 altro fatto non dice motto. E il Longolio che pur gli era contemporaneo e poco amico, come dalle sue lettere si raccoglie, nulla ne accenna egli pure. Anzi abbiamo una lettera di Celio Calcagnino e Gianfrancesco Pico principe della Mirandola (l. 8, epist. 1), in cui, mandandogli copia di questo libro dell1 Alcionio, gliene dice gran lodi. Quindi par verisimile che sia questa una calunniosa accusa dai nimici dell’Alcionio divolgata, quando egli non poteva fare più le sue difese. E certo quel legato di libri fatto dal Giustiniani a un monastero di monache (che monacharum veramente leggensi in tutte le edizioni del Manuzio, e non monachorum, come ha letto il Fabricio) parmi troppo ridicolo ed improbabile; e molto più che non dicesi precisamente qual fosse il monastero. XIV. Queste ragioni hanno determinato molti dei moderni scrittori a difendere l’Alcionio da tale accusa; e si può vedere quanto su ciò hanno scritto il Menckenio (praef. ad Analect de Cal. Liter.), Giovanni le Clerc (Il ibi. chois. t. 14, p■ 120), gli autori del Giornale d’Italia (t. 3, p. 26), ed altri. Due lettere su questo argomento aveva scritte il celebre Magliabecchi al Menckenio, le quali molti lumi ci avrebbono somministrato; ma esse giunsero al Menckenio quando già il citato suo libro era uscito alla luce (V. Ep. Cl. German. ad Maliab. t. 1, p. 165); nè poi sono state, ch’io sappia, date alle stampe. Il Fabricio cita una lettera intorno a 4S6 PARTE TERZA questo punto del Magliabecchi, come stampata negli Atti di Lipsia dell’anno 1707; ma io non vi ho potuto trovare che la notizia di queste lettere stesse, con un brevissimo cenno di ciò che vi si conteneva (p. 278). Ancorchè nondimeno ci mancassero tutte queste ragioni, io credo che la sola lettura dell’opera dell’Alcionio possa bastare a difenderlo da questa taccia. Io ho voluto leggerla interamente, e confesso che non so intendere come siasi potuta dare all’Alcionio sì fatta accusa. Perciocchè o pretendesi ch’egli tutta l’opera di Cicerone, o una gran parte di essa abbia nella sua incorporata e trasfusa, o che solo qualche picciol frammento ne abbia qua e là inserito. Quanto al primo, io sfido chiunque ha letta l’opera dell’Alcionio a dire se ciò possa affermarsi colla menoma apparenza di probabilità. L’opera di Cicerone intorno alla Gloria altro non doveva essere certamente che un tr «italo di ciò in che essa consista, de’ mezzi per conseguirla, de’ vantaggi che se ne traggono, e d’altri sentimenti di tal natura. Or che ha ciò che fare coll’opera dell’Alcionio, in cui di null’altro si tratta che dell’esilio, e si mostra che esso e gli effetti che l’accompagnano, non sono così gravosi e molesti, come volgarmente si crede? Se si parla degli onori, ciò non è che a mostrarne la vanità, e a spiegare come l’uom possa agevolmente viverne lungi, di che diverso certamente dovea essere il sentimento di Cicerone. Aggiungasi che moltissimi fatti e moltissimi autori vi si arrecano de’ tempi posteriori; che molte cose v i si raccontano dell’età stessa a LfBRO TERZO 46/ fUi scrivea l’Alcionio; e che una gran parte ilei grcondo dialogo è indirizzata a confutare il libro di Plutarco della Vita illustre; talchè, quando se ne voglian raccogliere tutti que’ passi che a Cicerone potè involar l’Alcionio, appena se ne formeran poche pagine. Questo medesimo dunque rimarrà a dire, come abbiamo accennato, cioè che l’Alcionio abbiane alcuni periodi qua e là inseriti nella sua opera. Ma ciò a qual line l O egli era uomo ad imitare nella sua opera lo stile di Cicerone; e qual gloria venivagli da qualche picciola parte de’ libri de Gloria, ch’egli avesse inserita ne’ suoi che tutti sarebbon sembrati di un medesimo stile? O non era uomo da tanto; e poteva egli forse sperare che per qualche elegante periodo sarebbe paruta degna di lode l’opera tutta? O potea lusingarsi egli forse che conosciuto non fosse il furto; e che molti non si accorgessero non esser sue le penne di cui andava adorno, benchè forse non sapessero dire a qual uccello fosser rapite? Come per ultimo assicurarsi che l’esemplare del libro di Cicerone, che egli avea, fosse unico veramente, e niun altro se ne potesse trovare in qualche altra biblioteca? XV. A me dunque non sembra punto probabile che l’Alcionio si facesse reo di tal delitto; nè io leggendo il suo trattato dell’Esilio vi scorgo quella diversità di stile che vi ravvisava il Manuzio. Anzi, s’io debbo dire ciò che ne sento, tutto il libro dell’Alcionio a me sembra scritto con uno stile elegante per lo più e colto, ma che nondimeno troppo sia lungi dalla forza, dalla maestà, dall’eloquenza 488 PARTE TERZA eli Cicerone, il che in molli ¡diri scrittori di quel secolo parimenti si osserva. Io ne recherò qui un passo cui certo non potè F Alcionio togliere a Cicerone, e per cui io spero che chiunque sa qualche cosa di stil latino, converrà meco nel medesimo sentimento. Così dunque essendo caduto il discorso sul re di Napoli Federigo, a cui di fresco era stato tolto il suo regno; così, dico, di lui ragiona presso l’Alcionio il card. Giovanni de’ Medici interlocutor principale di quel dialogo: Invitus quidem hujus$ regis mentionem feci, sed institutus de nostrorum Italorum calamitate sermo memoriam de tanto rege refricavit. Fuit ille justis de caussis familiae nostrae amicissimus, nec salti m ante, cum princeps Tarentinus esset, sed etiam mox quandiu Regno Neapolitano potitus est Ita numquam me meae fortunae suppaenituit, ut novem ferme ab hinc annos, cum eum Mediolani vidi, quanto meo cum dolore non dico. Excesserat Neapoli anno superiore rex ille et humanissimus et sapientissimus, summaque virtute paeditus, ne regnum illud, quod conservarat, sua pertinacia aliquando everteret, ad Ludovicumque Galliae regem accesserat, sperans illum passurum, ut imperatis certis rebus regnum etiam obtineret suum, cum praesertim non minus gloriosum ei esset constitutum ab eodem ipso regem, quam constrictum videri. Mediolanum autem venerat officii caussa secutus Ludovicum regem, qui in Italiani transii’ rat, amia extimescens Caesaris Borgiae, qui imperii fines in Galliam usque togatam protulerat. Meae quidem fortunae tum. ut dicebam, LIBRO TERZO /j^9 pjj maxime suppoenitebat, quod intelligebam nullam opem afflictis illius rebus nos amplius ferre posse, quemadmodum parens noster Ferdinando regi illius patri fecerat, cum principum et primorum conjuratione omni propemodum regno spoliatus esset. O spectaculum illud non modo hominibus, sed parietibus etiam ipsis et feris, luctuosum! Cedere e Regno Italico regem italum, atque adeo conservatorem illus; manere exteras gentes, quae popularentur agros, vexarent urbes, non ad spem constituendi stabiliendique imperii, quod tenere non poterant, sed ad praesentem pastum mendicitatis suae. XVI. Ribattute così le accuse date all’Alcionio dal Manuzio e dal Giovio, rimane a dir qualche cosa di alcuni autori francesi che hanno voluto essi pure entrare in questo argomento. Uno è il famoso storico, o anzi, come gli stessi Francesi il chiamano, Romanziere Varillas. Questi in un frammento della Vita di Luigi XI, stampato verso l’anno 1685, avea francamente asserito che il Filelfo (il cui nome ancora avea egli malconcio, chiamandolo Philosophe) avea soppressi i libri di Cicerone de Gloria per inserirli nelle sue opere, ed avea citato il testimonio del Giovio. Nelle Novelle della Repubblica delle Lettere (an. 1685, juin. p. 604), dandosi l’estratto di questo frammento, si avvertì che il Giovio non avea mai scritta tal cosa. Quindi negli Anecdoti di Firenze, stampati l’an 1687, il Varillas attribuì tal furto all’Alcionio, da lui trasformato in Algionus (p. 168), aggiugnendo di più un solenne errore, cioè che questi avea composto il suo libro dell’Esilio 49<> PARTE TERZA per consolare il provveditor Cornaro esiliato da’ Veneziani per l’infelice successo della guerra contro de’ Turchi, cosa di cui non v’ha indicio nè nel libro dell’Alcionio, nè presso storico alcuno. Finalmente nella Vita intera di Luigi XI da lui stampata in Parigi l’anno 1689 (se pure non ve ne ha più antica edizione da me non veduta) tornò a ripetete la stessa fola intorno al Filelfo (l. 1. p. 70); e poi soggiunse ciò non esser ben certo, e da altri narrarsi tal cosa dell’Alcionio. Si può egli trovare storico esatto e fedele e coerente a se medesimo al par di questo? E nondimeno lo stesso sogno intorno al Filelfo è stato ripetuto ancora dall’editore della Raccolta intitolata Menagiana (t. 3, p. 163, edit Paris. 1715), benchè poi nelle note siasi corretto l’errore, ripetendo ciò che ne ha il Manuzio, senza punto esaminare il fatto. Eppure erasi già allora e dal Menckenio e dal le Clerc e dagli autori degli Atti di Lipsia e da que’ del Giornale d’Italia posta in dubbio la verità di tal fatto. Un altro autore francese, il cui libro nou ho potuto vedere, ma le cui parole citate son dal Fabricio (loc. cit.), cioè il Morlier ne’ suoi Saggi di Letteratura per la cognizione de’ libri, stampati l’anno 1702, fortemente si scaglia contro coloro che hanno asserito che il trattato de Gloria non è altro che quello dell’Osorio, cui un plagiario del xvi secolo pubblicò sotto il nome di questo vescovo. Io temo però che tutti i suoi colpi cadano a voto, perchè non trovo autore che abbia ciò affermato. Ma è tempo di passare all’altro autore
italiano che di diverso diletto, ma di somiglianteLIBRO TERZO | 491 |
natura, viene accusato, cioè a Carlo Sigonio, di cui si dice che sotto nome di Cicerone spacciasse un suo libro intitolato De Consolatione(*)•
XVII.Di questa punto ci spedirem facilmente,
che molti sono, e nelle mani di tutti, gli scrittori che ne favellano. Veggasi fra gli altri la
Vita del Sigonio scritta dall’eruditissimo Muratori , e premessa alla edizione di tutte le opere
di quel grand’uomo fatta in Milano dalla Società Palatina, la prefazione al tomo sesto delle
stesse opere, e la dissertazione di Goffredo
Baldassare Scharfio stampata prima nel sesto
tomo delle Miscellanee di Lipsia, e poscia nel
suddetto tomo dell’Opere del Sigonio, ove pure
si leggono e il giudicio di Antonio Riccoboni,
con cui prova non esser quella opera di Cicerone; e due orazioni e un dialogo dello stesso
Sigonio a provare non che essa sia veramente
di Cicerone, ma che non vi è ragion bastevole
a negarlo. A ridurre in breve la serie tutta del
fatto, l’anno 1583 Francesco Vianelli (non
Carlo, come dice il Fabricio), uomo colto e
(*) Dopo aver favellato delle contese nate pe' libri
de Gloria e de Consolatione di Cicerone , potevasi
aggiugnere alcuna cosa delle lettere di Cicerone e di
Marco Bruto , sulle quali pure si è disputato assai, se
debbano aversi in conto di vere, oppur di supposte.
Ma il celebre Middleton mi ha in ciò prevenuto colla
bella dissertazione aggiunta alla sua Vita di Cicerone,
in cui felicemente ribatte le ragioni tulle allegate fra
gli altri dal Tunstall a provarle finte, e reca evidenti
ragioni a mostrarle sincere. Presso lui dunque si potrà
leggere tutto ciò che appartiene a tale argomento. 492 PARTE TERZA
amico assai del Sigonio, diede alla luce in Venezia il libro De Consolatione, attribuendolo
a Cicerone, e molti gli dierono fede. Antonio
Riccoboni prima, e poscia Giano Guglielmi
seguito poi ancora da Giusto Lipsio, scrissero
a provare che degno di Cicerone non era quel
libro. Il Sigonio prese a difendere caldamente
l1 opposta sentenza, e a sostenere, come si è
detto, che non vi era fondamento bastevole a
negare che Cicerone ne fosse autore. Il tempo
ha deciso contra l’opinion del Sigonio, ed ora
non vi è uomo intendente di critica e di buona
latinità, che reputi quel libro opera di Cicerone. La quistione ancora indecisa si è, se il
Sigonio ne sia stato l’autore, e se egli abbia
voluto imporre alla sua e alle seguenti età col
far credere che fosse scritto da Cicerone un
libro da lui stesso composto. L’amicizia del
Sigonio col Vianellij.e il calore con cui egli
prese a combattere in questa causa, sono i
soli, e, a mio parer, troppo deboli argomenti a
provarlo; che quanto a ciò che dice il Fabricio essere sentimento di alcuni che lo stesso
Sigonio confessasse finalmente la sua frode, di
ciò, come osserva il Muratori, non vi ha prova
nè indicio alcuno; e molto meno di ciò che
altri affermano, che quando ei vide che il suo
disegno non eragli riuscito, di dolor ne morisse. Non vi ha dunque, a mio credere, argomento che basti a provare il Sigonio reo di
tale impostura; e quando ancora il fosse, sarà
a lui di non mediocre onore l’avere scritto in
maniera che molti di fatto in sulle prime s’ingannassero; e a gloria pur dell’Italia dovrassi LIBRO TERZO /Jg3
ascrivere che la frode di un Italiano da un altro
Italiano prima che da altri fosse scoperta (a).
(a) Io debbo ora su questo ponto cambiar sentimento,
e confessare che il libro de Consolatione fu veramente
un’innocente impostura o dello stesso Sigonio , o del
suo amico Vianelli. Presso il sig. march. Lodovico Coccapani conservansi qui in Modena molte lettere originali del Sigonio a Cammillo Coccapani, uomo assai
dotto di quell’età , e di lui amicissimo. Or in una de’
12 di novembre del 1582 così gli scrive: Ella dimandi
alla signora Tarquinia (Molza) se ha veduto una mia
lettera con un mio libro de Consolatione, il quale scrivea ch’ella mostrasse a V. S., il parere della quale
desidero intorno a quello. Questa lettera, clic è tutta
di mano del Sigonio , da me ben conosciuta , e che fu
scritta un anno prima che l’operetta de Consolatione
si pubblicasse sotto il nome di Cicerone, non ci lascia
più dubitare che il Sigonio non avesse veramente scritto
un libro su questo argomento; e distrugge la contraria
testimonianza di Antonio Gigante, da me recata nella
Biblioteca Modenese (t. 5, p. 107). E forse il Sigonio
F avea scritta per pubblicarla come opera sua; ma stimolato poi dagli amici, a’ quali parve ch’egli avesse
imitato perfettamente lo stile di Cicerone, determinossi
a tentare la sorte , e a vedere se venivagli fatto d’ingannar gli eruditi. E quando poi si vide impegnato
l’affare, non gli parve più convenevole il dare addietro , e sostenne esser veramente quella opera di Cicerone. Un nuovo dubbio potrebbe forse destarsi contro
di ciò da un piccol codice in pergamena che trovasi,
in Bergamo presso F ornatissimo sig. co. Giuseppe Beltramelli, il quale ha voluto gentilmente trasmetterlo,
perchè con più agio il vedessi. Contiene esso 1" opuscolo
de Consolatione sotto il nome di Cicerone. ma imperfetto e con parecchie lacune , singolarmente nelle ultime pagine; e il carattere in cui è scritto, può a prima
vista sorprendere ed ingannare. Ma a me pare che
un’attenta riflessione sopra di esso scuopra e renda
indubitabile l’impostura; e ch’esso sia il carattere ili 4g4 PARTE TERZA
Or ritorniamo a’ filosofi del tempo di cui ragioniamo.
XVTH. Contemporaneo e amicissimo di Cicerone fu Publio Nigidio soprannomato Figulo
il quale seguito avendo nella guerra civile il
partito di Pompeo, fu costretto ad andarsene
in esilio, e vi morì, secondo la Cronaca Eusebiana, l’anno di Roma 709. È celebre il fatto
onde si dice ch’ei traesse il soprannome di
Figulo ossia cretajo; cioè ch’egli volendo
mostrare che diverso poteva essere il destino
dalle costellazioni fissato a due gemelli, benchè nati quasi a un punto medesimo, recatosi
alla bottega di un cretajo, mentre più velocemente si aggirava la ruota, segnovvi subito un
dopo l’altro due punti, i quali pareva perciò
che dovessero essere tra’ lor contigui; e nondimeno fermata la ruota si videro l’uno dall’altro discosti assai; argomento, come dice S. Agostino (De Civ. Dei. l. 5, c. 3), che a difendere
l’astrologia giudiciaria è assai più fragile degli
stessi vasi di creta da cui è tratto. Ma questo
racconto ancora, come osservano il Bayle (Diction. art. « Nigidius » Rem. G.) e il Bruckero
(t2:p. 24), ha tutta l’apparenza di favoloso.
dii vuol contraffare l’antico , ma non è abbastanza
abile per tale inganno. Le lacune vi furono forse poste
cou arte per render più verisimile 1 antichità dei codice; e io penso che nel calilo della contesa allor
nata taluno volesse con ciò accrescere autorità all1 opinione di chi riconosceva come opera di Tullio quel
picciol trattato. E forse vedendo poscia che non era
troppo télice nell’esecuzione del suo disegno, desistè
del lavoro, e lusciollo imperfetto. LIBRO TERZO 4*)5
pi Nigidio parla Cicerone con somma lode in
una lettera a lui scritta (l. 4 Famil. ep. 13); Uni
omnium doctissimo et sanctissimo, et maxima
quondam gratia, et mihi certe amicissimo. Ma
nelle lodi di Nigidio maggiormente ancor si diffonde nell’esordio da lui premesso al Timeo
di Platone, ch’egli recò in latino, ove così ne
ragiona: Molte cose ne’ nostri libri accademici
abbiamo noi scritto de’ fisici (che qui si prendono per astrologi), e molto disputato ne abbiamo con Publio Nigidio, secondo il costume
e il metodo di Carneade. Perciocchè egli fu
uomo in tutte le belle arti che di ingenuo cittadino son degne, erudito, e singolarmente ingegnoso e diligente ricercatore di quelle cose
che sembrano più ascose nella natura. Ed io
penso che dopo que’ celebri Pittagorei, la cui
setta fiorita già per alcuni secoli in Italia ed
in Sicilia, ora è come svanita, fosse questi il
primo che la rinnovasse. Nè con minor lode
ne parla Aulo Gellio, il quale chiama Nigidio
uomo eccellente nello studio delle bell’arti
(l. 10, c. 11; e l. 11, c. 11), e uno de’ sostegni
della multiplice erudizione e delle scienze che
vissero al tempo di Cicerone (l. 19, c. 14)•
XIX. Questi elogi ci conducono agevolmente
a un’alta stima del saper di Nigidio. Ma, se
io debbo sinceramente dire ciò che ne sento,
in questo sapere a me pare che molto vi avesse
dell’impostura. Affettava Nigidio una cotal sua
maniera di favellare sottile, misteriosa ed oscura, quale spesso si usa da chi dicendo cose
da nulla vuol nondimeno sembrare di dir cose
grandi. Ne abbiamo un testimonio in Gellio, 49^ PARTE TERZA
il qual (lice che le Opere di Nigidio per la sottigliezza e oscurità loro eran quasi dimenticateNigidianae commentationes non proinde in vtif
gas exeunt, et obscuritas subtilitasque earum
tamquam parum utilis, derelit ta est (l. 19, c. 14 y
e prosieguo recandone un saggio tratto da certi
suoi libri gramaticali. Con questa maniera di
scrivere enigmatica e oscura non è maraviglia
che tanto più dotti venissero riputati gli scritti
di Nigidio, quanto meno erano intesi. Innoltre
Nigidio fu superstizioso coltivatore dell’astro,
logia giudiciaria. Il Bruckero rigetta come favolosi racconti quei che si spacciano intorno
alle cose da lui con tal arte predette (t. 2,p. 25).
E sono aneli’ io ben lungi dal credere che alcuna cosa ei potesse raccogliere dalle stelle a
predire le umane vicende. Ma che nondimeno
ei si prendesse l’inutil pena di consultarle, e
credesse di poter con tal mezzo conoscere le
cose avvenire, parmi che non si possa rivocare in dubbio. Le cose che Dione (l. 45 init)
Svetonio (in Aug. c. 94), Apulejo (in Apologia),
e Lucano (Pharsal. l.1, v. 639, ec.) narrano essere state da lui predette, benchè io le creda
false, bastano nondimeno a farci conoscere la
fama di valente astrologo ch’egli si era acquistata; e parmi che l’oscurità stessa che Gellio
gli attribuisce, e l’esame delle cose più occulte
della natura, di che lodalo Cicerone, conformi
questo mio pensiero, che è ancora del Bayle,
quale lungamente ne tratta (loc. cit.). E a ciò
dee ascriversi quel che narra Dione (loc. cit),
ch’egli fu da alcuni creduto versato nelle arti
magiche. In fatti a questi tempi, in cui non LIBRO TERZO 497
grano ancora i Romani nello studio della fisica
e della buona astronomia molto innoltrati, era
assai facile ad avvenire che uno il qual si vantava di leggere, per così dir, nelle stelle, e
che con oscuri enigmi, di cui probabilmente
non intendeva egli pure il senso, prediceva le
cose avvenire, salisse perciò a grandissima stima.
In fatti delle altre superstizioni ancora era Nigidio grande ricercatore; e ne abbiamo in
prova i titoli di molti libri da lui scritti de
animali bn s, de extis, de auguriis, de hominum naturalibus, e di altri somiglianti argomenti (V. Bayle e Brucker. l. c.) Fabric. Bibl.
lat. t. 1, p. 241, edit. ven.). A me sembra che
queste ragioni abbastanza ci persuadano che
Nigidio era anzi un astrologo superstizioso, che
un dotto filosofo. Confesso nondimeno che
grande difficoltà si muove a questa opinione
dalle lodi di cui Nigidio è stato onorato da
Cicerone, uomo certamente difficile ad ingannarsi in ciò che è sapere , e della astrologia
giudiciaria saggio disprezzatore. E quindi ci
convien confessare che troppo è oscuro ciò
che appartiene a Nigidio, perchè di lui e della
sua dottrina si possa parlare sicuramente. Intorno a lui si può ancora vedere l’estratto di
una dissertazione di M. de Burigny che ne ha
diligentemente raccolte le migliori notizie (Hist,
de l’Acad. des Inscript. t. 29, p. 190).
XX. L’essersi a questo luogo per la prima
volta da me mentovata l’astrologia giudiciaria,
mi dà occasione di esaminar qui brevemente
qual origine e qual successo avesse ella presso
i Romani. Io non ne trovo indicio in Roma
Tiraboschi, Voi. / 3a
XX.
Qnaoilo **su »’¡nir<nluri*s*e in Koma, e qua»
vicrnd« vi avene. 49$ PARTE ZFRZA
fino all’anno 614- Perciocché Valerio Massimo
narra (l. 1, c. 3) che in quest’anno il pretore
C. Cornelio Ispalo comandò che entro dieci giorni
i Caldei partisser di Roma,- uomini, soggiugne
questo scrittore, i quali coli ingannevole osservazion delle stelle avvolgevano entro una lucrosa
caligine le lor menzogne. Convien dire adunque che verso quel tempo alcuni o veramente
Caldei, o così chiamati, perchè ad imitazion
di que’ popoli consultavan le stelle, cominciassero ad introdursi in Roma, e ad esercitarvi
la loro arte. Ma non pare che questo editto, con
cui furono gli astrologi cacciati da Roma, fosse
lungo tempo in vigore. Il Freinshemio racconta
(Suppl. ad Liv. l. 80, c. 27) che quando il console Gneo Ottavio fu crudelmente ucciso per
ordine del suo collega Cinna l’anno 666, se
gli trovarono in seno alcune tavolette di segni
celesti, quali appunto usavansi da’ Caldei, indicio dello studio eli’ ei faceva di quest’arte.
Egli cita per testimonio di ciò Diodoro Siculo;
ma io non vi ho potuta trovare tal cosa. Certo
è però, che a’ tempi di Cicerone molti Caldei
erano in Roma. Quam multa ego, dic’egli (De
Divin. l. 2, c. 27), Pompejo, quam multa Crasso,
quam multa huic ipsi Caesari a Chaldaeis dicta memini, neminem eorum nisi senectute, nisi
domi, nisi cum claritate esse moriturum! E
poco prima nomina un certo L. Taruzio Fermano , di cui dice che in cotali studi era versato assai. Due volte nell’impero di Augusto
fu di nuovo comandato a’ Caldei di uscir da
Roma, la prima volta per ordine del pretore
Agrippa l’anno 721 (Dio. l. 49), la seconda LIBRO TERZO 4f)9
0 pPr ordine dello stesso Augusto l’anno 761
e | hrf. /. 56). Ma questi replicati comandi non ba1 jlarono ad estirpare questa superstizione; e noi
e vedremo che somiglianti editti pubblicati ancora più volte ne’ tempi avvenire furon sempre
1 inutili, e vi ebbe ad ogni tempo in Roma e
astrologi impostori e sciocchi adoratori degli
■I astrologi.
XXI. Altri illustri coltivatori della filosofia
vissero a questo tempo, fra’ quali celebri furono
singolarmente i due Sestii, padre e figlio. Il
padre, vissuto a’ tempi di Giulio Cesare, ricusò
gli onori a cui questi volea sollevarlo (Senec.
ep.98). Di lui parlano con molta lode Seneca
I (loc. cit.), Plinio il Vecchio (l. 18, c. 28) e Plutarco (l. « Quomodo sentias te projicere »), e
il primo singolarmente esalta fino alle stelle un
libro da lui composto (ep. 64). Egli insieme
col figlio volle una nuova setta filosofica introdurre in Roma, la quale doveva essere in gran
parte composta dal sistema pittagorico, ma
misto collo stoico; e che da Seneca dicesi
(Nat. Quaest. l. 7, c. 3 2) setta nuova e di romana fortezza. Ma questa fortezza non era adattata a tempi troppo corrotti; e perciò questa
setta, come soggiugne Seneca, dopo aver cominciato con grande ardore, venne subito meno;
di che Sestio il padre fu così afflitto, che poco
mancò che non si gittasse in mare (Plut. l. c.).
Egli, benchè Romano, scrisse in greco; e un
libro abbiam di Sentenze sotto il nome di Sesto
Pittagoreo, che fu già recato in latino da Rufino, e da lui attribuito al pontefice Sisto II.
S. Agostino per l’autorità di questo traduttore 500 PARTE TERZA
credette che esse fossero veramente di Sistoma poi avvertitone da S. Girolamo ritrattò il
suo errore (Retractat. l. 1, c. 42). Nondimeno
Urbano Goffredo Sibero, che una nuova edizione ne fece in Lipsia l’anno 1725, ha usato
di ogni sforzo per persuaderci ch’esse son ve.
ramente opera del detto pontefice, e non già
del filosofo Sestio di cui parliamo. Veggansi
presso il Bruckero (Hist. Phil. t. 2, p. 90, ec.)
le ragioni da lui allegate colle osservazioni ch’egli vi aggiugne a mostrare ch’esse non sono
sì convincenti, come il Sibero si lusinga. Aggiungansi inoltre M. Bruto e M. Catone lo Stoico
degni amen due di lode per l’impegno con cui
difesero l’antica libertà di Roma, ma degni
non meno di biasimo per le disperate risoluzioni a cui per ciò si condussero. Di Catone
non sappiamo che scrivesse alcun libro. Bruto,
lodato ancora per eloquenza, avea scritto opere
filosofiche,, delle quali parla con somma lode
Cicerone, dicendo che in tal maniera avea trattai a la filosofia in latino linguaggio, che nulla
avea omai da invidiare a’ Greci (Acad. Qu.
l. 1, n. 3). Degli argomenti da Bruto in essa
trattati ,* e di altre cose a lui appartenenti si
vegga il Bruckero (t. 2, p. 29), il quale rammenta ancora altri romani filosofi di varie sette,
che vissero a’ tempi di Cesare e di Augusto,
e molti stranieri ancora che a Roma accorsero
per ottenervi e fama e ricchezze. Troppo nojosa
cosa mi sembra il trattenermi o in ripetere, o
in compendiare ciò che da altri in questo genere è già stato diligentemente raccolto, e
diffusamente narrato, Io dunque, rimettendo LIBRO TERZO 301
chi è vago di più saperne al lodato Bruckero,
accennerò qui solamente una matrona romana
c|,e nello studio della filosofia andò del pari
co’ più dotti uomini di quel tempo , cioè Cerellia , di cui più volte fa menzion Cicerone, e
la dice mirifice studia philosophiae flagrans (l.13
i({ ,4tt- ep. 21, 22; l. 15, ep. 1; l. 13 ad Famil.
ep. 72). Dell’amicizia che Cicerone mostrò per
Cerellia, si valse poscia Dione (l. 46) a calunniarlo. Ma ognun sa qual fede si debba in tale
argomento a uno storico il quale pare che si
prendesse di mira l’oscurare, quanto gli era
possibile, la fama di sì grand’uomo.
XXII. Rimane ora a esaminare i progressi che
fecero a questo tempo i Romani nelle scienze 1
matematiche, prese in quella parte ancora in!
cui alla fisica appartengono. Nell1 epoca precedente si è recato un passo di Cicerone, in cui
si duole che la matematica assai poco, singolarmente ne’ tempi più antichi, coltivata fosse
in Roma. Egli stesso nondimeno rende quest1 onorevole testimonianza a Sesto Pompeo figlio
di Sesto Pompeo Strabone , che essendo uomo
di singolare ingegno, non solo nel diritto e
nella stoica filosofia , ma nella geometria ancora
divenne illustre: Dicebat etiam L. Scipio non
imperite, Gnaeusque Pompejus Sex. filius aliquem numerum obtinebat. Nam Sextus frater
ejus praestantissimum ingenium contulerat ad
summam juris civilis et ad perfectam geometriae et rerum Stoicarum scientiam (De Cl. Orat.
n. 47); e altrove: in geometria Sex. Pompejum
ipsi cognovimus (De Offic. l. 1, n. 6). Ma intorno a questo geometra nuli’ altro sappiamo. í,02, partk terza
otto arrone, ohe in tutie le scienze nveu
.1 i non 01 ’hnarii progressi, ili questa ancora
avea lasciato a’ posteri qualche monumento;
perciocchè tra’ nove libri intitolati Delle Discipline, uno ve ne avea di aritmetica, di cui il
Fabricio col testimonio di Vetrani.o Mauro afferma (lì ibi. lat. t. 1, p. 26) essersi conservata
copia in Roma fino al secolo xiv. Ed è ben
verisimile che la geometria ancora avesse trattata in quell’opera, perchè vedremo or ora che
scrisse anche intorno all’architettura, la quale
ne suppone una non leggiera cognizione (a). Noi
troviamo innoltre nominato in Boezio un certo
Albino che scritti avea libri di geometria e di
dialettica, benchè di questi ultimi dica Boezio
che non avea mai potuto vederne esemplare
alcuno: Albinus quoque de iisdem rebus scripsisse perhibetur; cujus ego geometricos quidem
libros editos scio, de dialectica vero diu multumque quaesitos reperire non valui (praef.
Commen. in Aristot. de Interpr.). Chi fosse
questo Albino, e a qual tempo vivesse, Boezio
nol dice; ma parlandone egli come di antico
autore, ci si rende verisimile ch’egli vivesse
presso al tempo di cui trattiamo.
XXIII. Prove ancora più chiare del suo sapere nelle matematiche e nella geometria singolarmente ci ha lasciato il celebre Marco, o,
(n) Alle lodi di Varrone deesi aggiugnere ciò che
ha osservato M. Uailly, recaudone la lestimoniaiua di
Consolino, eh’ei fu il primo che facesse uso delle
ecclissi per regolare la cronologia (Hist. de PAstron.
Mod. t. i, p. 128, 49^, cc.). LIBRO TERZO 5o3
me altri vogliono, Lucio Vitruvio Pollione,
. cU, libri di architettura sono felicemente fino
a noi pervenuti. Di questo valentuomo scrisse già
la Vita Bernardino Baldi, che fu poi con note
illustrata dal march. Giovanni Poleni (Exercitationes secundae in Vitruv). Più diligentemente
ella è stata scritta dal march. Berardo Galiani
nella magnifica edizione di Vitruvio, da lui tradotto e comentato eruditamente , fatta in Napoli l’anno 1758. Ciò non ostante assai poco
è ciò che di lui noi sappiamo. E fin la sua
patria non è abbastanza certo qual fosse. Il
march. Maffei inclina a crederlo Veronese (Verona Illustr. pari, 2. l. 1), non già appoggiato
all’iscrizione di un arco ivi ancor sussistente,
in cui si fa menzione di un L. Vitruvio Cerdone architetto; perciocchè confessa lo stesso
dotto scrittore non potersi essa intendere del
nostro Vitruvio; ma sì all’antica e universal!
tradizione de’ Veronesi. A questa tradizione però
sembra che-non troppo si affidi il march. Galiani, perciocchè egli pensa più verisimile che
Vitruvio nativo fosse di Formie, oggi Mola di
Gaeta; ed è certamente assai buona la ragione
eli’ egli ne adduce, cioè le parecchie iscrizioni
ivi disotterrate, appartenenti alla gente Vitruvia.
Checchessia di ciò , egli è certo che Vitruvio
fiorì a’ tempi di Augusto , a cui dedicò i suoi
libri, e che da lui fu impiegato alla cura delle
macchine militari, come egli stesso afferma
(prooem l. 1). Pare nondimeno che grande fama
egli non ottenesse vivendo, come spesso ai
più grandi uomini è avvenuto. Certo ei si duole
che la protezione e il favore agli ignoranti XXIV.
Altri:
ehi Ititi.
5o4 parte tersa
vomva accordato anzi che a’ doti,: Et animadicr o, poùus indoctos quam doctos gratia superare; non esse certandum judicans cum indoctis ambitione, potius his praeceptis editis
ostendam nostrae scientiae virtutem (ib. l. 3)
Di quella fama però, che vivo per avventura
ei non ottenne, la posterità gli è.stata più li.
berale-, come ben si raccoglie e dalle tante edizioni che si son fatte de’ suoi libri. e da’ tanti
comenti con cui da dotti uomini è stato illustrato. Di lui veggasi ancora il Fabricio (Bibl
lat. l. 1 , c. 17).
XXIV. A Vitruvio siamo ancor debitori della
memoria eli’ egli ci ha lasciata di alcuni altri che
innanzi a lui sull’argomento medesimo aveano
scritto. Duolsi egli dapprima che i Greci più
che i Romani siano stati solleciti di illustrare
quest’arte co’ loro libri: Animadverti in ea re
ab Graecis volumina prima edita; ab nostris
oppido quam pauca prooem. l. 7). Quindi annovera questi pochi che tra’ Romani aveano
scritto libri d’architettura. Fussitius enim mirum de his rebus primus instituit edere volumen;
item Terentius Varro de novem disci piinis,
unum de architettura; Publius Septimius duo.
Amplius vero in id genus scripturae nemo incubuisse videtur, cum fuissent et antiqui cives
magni architecti, qui potuissent non minus eleganter scripta comparare. A qual età vivesse
Fussizio , non possiamo indovinarlo. Varrone,
e quindi ancora Settimio, che dopo Varrone
vien nominato, furono alla stessa età che Vitruvio. Altri ancora si trovano nominati da questo scrittore, che furono famosi architetti, e LIBRO TERZO 5o5
I. del loro sapere lasciarono bensì monui nelle lor fabbriche, ina non ne’ libri. Di
resti perciò noi avremo a trattare ove parleI Lo del fiorile che fecero tra’ Romani le belle
I XXV. Tra’ matematici più illustri di Roma
il non temerò di annoverare ancor Giulio Celi sare. Già abbiam di sopra osservato che il maIpaglioso ponte da lui fatto innalzare sul Reno,
l ed ancora sue macchine militari, e le descrizioni eli1 egli ce ne ha lasciate , ci fan conoscere quanto egli fosse versato in tali studi.
Ma un monumento assai più illustre noi ne abbiamo, cioè la riforma del calendario romano,
fra i molti studi a’ quali in mezzo alle gravissime sue occupazioni attese Cesare, fu quello
dell’astronomia. Quindi Lucano ce lo rappresenta intento ad osservare i movimenti delle
stelle, e così gli fa dire:
Media inter praelia semper
Stellarum caelique plagis superisque vacavi;
Nec meus Eudoxi vincetur fastibus annus.
L. i o , n. 185, ec.
Di lui dice Macrobio (l. 1 Saturn, c. 16), che
intorno al corso delle stelle lasciò scritti libri
eruditi, i quali rammentati vengon più volte
da Plinio il Vecchio (l. 18, c. 26, 27, 28).
Veggasi f erudito Giulio Pontedera che ha raccolti ed illustrati i diversi passi di Cesare su
tale argomento (Antiq. Lat. et Graec. ep. 44) >
i quali da Plinio ci sono stati conservati. Egli
è vero che Giulio Firmico afferma (Mathes. l. 2)
che poche linee egli ne scrisse , e queste ancora prese dagli altrui libri Ma ancorchè ciò parte terea
osse vero, non si potrà certo negare che questo studio non fosse da lui diligentemente coltivato. Or questa scienza astronomica fece che
Cesare conoscesse in qual disordine fosse allora il regolamento dell anno. Romolo e Numa
avean prescritte su questo articolo quelle leggi
che allor si crederono opportune. Ma nè esse
bastavano perchè i tempi dell1 anno fossero
come si conveniva, regolarmente distribuiti ’
e queste ancora da’ Pontefici, a’ quali ne era*
affidata f esecuzione, non furono fedelmente
osservate. Quindi al tempo di Cesare era la
confusione giunta a tal segno, che le stagioni
non corrispondevano punto a’ lor proprii tempi
dell’anno. Egli adunque coll’opera di Sosigene (a), celebre astronomo Alessandrino, e di
altri filosofi e matematici rinomati, fra’ quali
Macrobio nomina singolarmente un Romano,
detto Marco Flavio (l. 1 Saturn, c. i \), intraprese la riforma del calendario. Convenne
all’anno che allor correva, che era il 708 di
Roma, aggiungere due mesi interi e più , cioè
67 giorni ch’egli frappose fra il novembre e
il dicembre (b). Quindi ordinò che l’anno fosse
in avvenire composto di 365 giorni 5 e perchè
allor si credeva che l’anno fosse composto
(u) Intorno a Sosigene, e alla riforma del calendario
da Cesare coll" opera di esso introdotta , veggusi ^ il
poc’anzi citato M. Bailly (loc. cit. p. 126, ec. ,
(b) 11 sig. Landi accenna (t. 1 , p 340) una recente
opera di M. Guichard da me non veduta, nella quale
egli ha preso a provare che Cesare, oltre il solito mese
intercalare, non aggiunse che quarantacinque giorni. LIBRO TERZO $0’]
¿j 365 pomi e sei ore precisamente, volle
che ogni quarto anno, in cui queste sei ore
quattro volte unite insieme avrebbon formato
giorno intero, un giorno si aggiugnesse,
ponendolo fra i 24 e i 25 di febbrajo. Ma i
pontefici che non sapevano troppo d’astronomia, non ben eseguirono i comandi di Cesare;
e pel corso di 36 anni aggiunsero il giorno
intercalare non ogni quarto, ma ogni terzo
anno; dacchè ne venne che nello spazio di
quei 36 anni, in cui nove giorni solo avrebbon
dovuto interporsi, se ne interposero veramente
dodici. Da quel errore avvedutosi poscia Augusto , a correggerlo e a togliere que’ tre giorni
che fuor di legge eransi aggiunti, ordinò che
per lo spazio di dodici anni niun giorno s’interponesse. Questa fu in somma la riforma del
calendario fatta da Cesare, che io ho qui voluto solo accennar brevemente, poichè tutti gli
antichi e moderni storici, e gli astronomi e i
cronologi tutti ne parlano diffusamente (Svet.
in Jul. c. 40; Plut. in Caes. Plin. l. 18, c. 25;
Dio. l. 2; Petav. de Doctr. Temp. Noris Epoch.
Syro Maced. Blondel Storia del Calend Rom.
Blanchin de Calend. et Cyclo Caes. ec. ec.).
XXVI. All’astronomia ancora appartiene il
famoso obelisco da Augusto fatto trasportar
dall’Egitto e innalzato nel Campo di Marte,
e gli ornamenti che egli vi aggiunse. È celebre
per le contese tra’ matematici e tra altri uomini eruditi insorte il passo di Plinio, in cui
ne ragiona; controversie, a cui han data occasione e le diverse maniere con cui in diversi
codici si legge il detto passo, e il vario senso
xxvr.
Qimt ioni intuì no alPoWlisco I ratpori alo dalP Egitti» a
Romj. 5o8 pxrte
m cui si possono intendere le parole stesse di
Plinio Io , qui recherollo secondo l’edizione del
P. Arduino.l (. 26, c. ,10). Ei (obelisco) qui est
in Campo divus Augustus addidit mirabilem
usum ad deprehendendas solis umbras, dierumque ac noe tinnì ita magnitudines, strato lapide
ad magnitudinem obelisci, cui par fieret umbra brumae confectae die, sexta hora; paulatimque per regulas (quae sunt ex aere in dusae)
smgubs dic.bus decrescerei, ac rursus aua cerei; digna cognitu res et ingenio faecundo mathematici. Apici auratam pilam addidit; cujus
umbra vertice colligeretur in se ipsa, alias enormi ter j acalante apice, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta. Or due sono singolarmente le cose che a questo luogo cadono in
quistione. La prima si è,.se Plinio ci voglia qui
descrivere un orologio solare, ovvero un gnomone ossia una linea meridiana. A me non appartiene il decidere tal contesa che nulla ha di
comune coll’argomento di cui ho preso a trattare. Solo rifletto che il parere di molti uomini eruditi, e singolarmente de’ più dotti matematici di questo secolo, è che un gnomone
sia quello che qui da Plinio ci vien descritto.
Veggasi su ciò il dottissimo libro che il canonico Angiolo Maria Bandini, ora bibliotecario
della Laurenziana in Firenze, su quest’argomento pubblicò in Roma l’anno 1750, cioè, due
anni soli da che quest’obelisco medesimo ora
stato disotterrato a’ tempi di Benedetto XIV,
per opera del celebre Niccolò Zabaglia. In questo libro egli ha prodotto le lettere di molti
chiarissimi uomini, e tra essi del P. Boscovieh, LIBRO TERZO 5og
jel march. Poleni, del Marinoni, dell’Eulero
e di Cristiano Wolfio , per tacer d’altri non
matematici, i quali tutti concordemente sostengono che di un gnomone e non di un orologio solare debbansi intendere le allegate parole.
Ciò non ostante il ch. co. Antongiuseppe della
Torre di Rezzonico nelle erudite sue Disquisizioni Pliniane, appoggiato all’autorità di alcuni
codici, ne’ quali leggesi dierumque ac noctium
horas, sostiene (vol. 2, l. 9, p. 198, ec.) che
di un orologio solare si debba intendere quel
passo, Io lascio che ognun segua qual opinion
più gli piaccia; poichè egualmente versato in
astronomia esser doveva l’inventore di quella
ma collina, o essa fosse un gnomone, o fosse
un orologio solare.
XXVII. L’altra quistione che è più propria del
nostro argomento , si è chi sia il matematico
valoroso a cui la gloria della costruzione di
questo o orologio , o gnomone si debba concedere. Le antiche edizioni di Plinio ne davan
la lode a un certo Manlio; perciocchè ove nell’edizione del P. Arduino si legge: IngcnioJ’oecundo mathematìci. Apici auratam, ec., nelle
antiche leggevasi: In genio foecundo. Manlius
mathematicus apici auratam, ec. Il P. Arduino
afferma che niuno de’ codici manoscritti da lui
veduti nomina Manlio; e che tutti hanno quel
passo come egli l’ha riferito. Resterebbe dunque incerto chi fosse il matematico da Plinio
disegnato. Ma il soprallodato canon. Bandini
un’altra lezione ha trovata in due codici antichissimi delle celebri biblioteche di Firenze,
la Laurenziana e la Riccardiana, ne’ quali così 5,0 parte terza
sta scritto: Digna cognitu res ingemo Facon Un
L. mathematicis (così è stampato, forse in vece
di mathematici) apici auratam, ec. Ed ecco
un Facundino matematico e liberto (perciocchè
che la lettera L. così debba spiegarsi, l’esempio di mille Iscrizioni cel persuade), a cui secondo la lezione di questi codici sembra che
una tal lode debbasi attribuire. Confesso però
che non parmi ancor la cosa così accertata
che non possa rivocarsi in dubbio. Comunque
grande sia 1 autorità de’ due codici fiorentini
troppo grande è il numero degli altri in cui
si legge diversamente. Così riflette anche il
soprallodato celebre autore delle Disquisizioni
Pliniane, il quale pensa che seguir si debba la
lezione di varii codici da lui veduti, che hanno
Manilius (ib. p. 200, ec.). Onde a me pare che
su questo punto ci sia forza il restare tuttora
al buio.
XXVITT. La menzione che fatta abbiamo di
questo obelisco, ci conduce a dire ancor qualche cosa degli orologi solari, ed a ricercare a
qual tempo cominciassero ad essere usati in
Roma. Niuna cosa ci fa meglio conoscere la
rozzezza de’ Romani ne’ primi secoli , quanto
ciò che della loro maniera di misurare le ore
ci narra Plinio (l. 7, c. 60). Nelle leggi delle XII
tavole non facevasi menzione alcuna di ore,
come se non se ne avesse idea; e solo vi si
nominava il nascere e il tramontare del sole.
Alcuni anni dappoi cominciarono i Romani ad
avvedersi che eravi anche un tempo il quale
chiamar potevasi mezzo giorno, e che opportuna cosa sarebbe stata, se gli uomini ne LIBRO TERZO 5ll
fossi"1’0 avvertiti. Diedesi dunque l’incarico al
banditore ossia trombetta del console di darne
1 Lbblicamente avviso, quando avesse veduto il
sole giunto a un tal segno; il che pure facevasi all’ultima ora del giorno. Così duraron le
cose per, alcun tempo, cioè almeno fino all’anno di Roma 460. Perciocchè un antico storico detto da Plinio Fabio Vestale avea lasciato
scritto che Lucio Papirio Cursore era stato il
primo che un orologio solare avea fatto costruire in Roma dodici, o, come legge il P. Arduino, undici anni innanzi la guerra di Pirro,
che ebbe principio l’anno 472- Ma pare che
f introduzione degli orologi solari in Roma debbasi di alcuni anni ancor ritardare. Perciocchè
Plinio soggiunge, diverso essere il sentimento
di M. Varrone, e che questi narrava che M. Valerio Messala era stato il primo che avendone
trovato uno in Catania da lui espugnata, aveal
seco dalla Sicilia portato insiem colle spoglie
del trionfo, e fattolo poi collocare nel Foro
vicino a’ Rostri, trent’anni dopo l’epoca sopraccitata, cioè l’anno 491- Il che pure confermasi
da Censorino (De Die Natali, c. 23). Ma così
valenti in astronomia erano allora i Romani,
che buonamente crederono che un orologio solare adatto al meridiano di Catania, e posto
alla ventura nel Foro di Roma, dovesse esattamente segnare le ore. Videro con maraviglia
che la cosa non riusciva; e forse crederono
che gli Iddii fossero con loro sdegnati, perchè
da Catania trasportato avessero quell’orologio.
Certo, come Plinio dice, per novantanove anni
niuno vi ebbe che pensasse a correggerlo, o XXIX.
Errori intorno a ciò
<i«1 Mout lidi.
5,2 parte terza
a sostituirne uno migliore. Finalmente l’anno
590) essendo censore Q. Marcio Filippo, questi
uno più esatto ne fece formare, e vicino alI altro il pose, di che il popolo fu sommamente
lieto. Ma l’orologio era tale, come necessariamente doveva, che se il sole si stava ascoso
tra le nubi, i Romani non potevan conoscere
qual ora corresse; finchè l’anno 595 Scipione
Nasica censore cominciò ad usare degli orologi
ad acqua. Tutto ciò da Pliifio.
XXIX. Non posso qui dissimulare gli errori
che a questo luogo ha commessi il Montucla
(Hist. des Math. t. 1. p. 407, 408), il quale(.
allega questo medesimo passo di Plinio, ma
ne travolge il senso per modo, ch’io non so
intendere come uno scrittore sì dotto e diligente, quale ci si mostra , abbia potuto in poche linee radunar tanti falli. Plinio reca le due
diverse opinioni di Fabio e di Varrone , il
primo de’ quali attribuisce a Papirio, 1 altro a
Messala il primo orologio solare; e il Montucla
dice che Messala sostituì l’orologio preso in
Catania a quel di Papirio. Plinio dice che questo poco esatto orologio durò annis undecentum; e il Montucla traduce undici anni. Plinio
dice che Q. Marcio censore l’anno 590 ne
formò uno più esatto: e il Montucla trasmuta
il censore in console , e l’anno 590 nell’anno
275. Plinio finalmente dice che nel prossimo
lustro, cioè cinque anni dopo, Scipione Nasica
cominciò ad usare gli orologi ad acqua; e il
Montucla cambia il lustro in un secolo, dicendo che circa un secolo dopo Scipione Nasica
introdusse l’uso di detti orologi. Io rilevo LIBRO TERZO 5l3
(¿volta gli errori e le inesattezze de’ moderni
scrittori, non già per oscurarne la fama, che
anzi io confesso di essermi delle erudite loro
fatiche giovato assai, ma per mostrare che a
..chi vuole esattamente saper di ciò che appartiene agli antichi, troppo è necessario il consultare le stesse opere loro, e non fidarsi
ciecamente all’autorità de’ moderni, i quali,
benchè uomini dotti, hanno nondimeno errato
non poche volte nel rapportare i lor sentimenti,
Ma rimettiamoci in sentiero.
XXX. A questa prima introduzione degli
orologi solari in Roma alluse scherzevolmente
Plauto, quando nella commedia intitolata Boeoli a, di cui un frammento ci è stato conservato
da Gellio (l. 3, c. 3), così fa parlare un parasito:
Ut illum di perdant, primus qui horas reperit,
Quique adeo primus statuit hic solarium ,
Qui milii comminili t misero articulatim diem.
Nam me puero uterus hic erat solarium
Multo omnium istorum optimum et verissimum,
Ubi iste monebat esse, nisi cum nihil erat.
Nunc etiam quod est, non estur, nisi soli lubet.
Itaque adeo jam oppletum est oppidum solariis;
Major pars populi avidi reptant fame.
Nel qual luogo, benchè fingasi che il parasito
ragioni in un borgo della Beozia, chiaro è nondimeno che il poeta alluda all’uso di Roma,
ove è probabile che a somiglianza del primo
altri orologi solari fosser poi disegnati. Di fatti
Plauto fiorì verso la metà del sesto secolo di
Roma, e potè perciò introdur sulla scena un
uomo dolentesi degli orologi verso la fine del
secolo precedente introdotti in Roma, i quali
Tiraboscbi, Voi. /. "33 ol4 parte terza
egli dice che alla faine ancor pretendevano di
dar legge e misura. Vuolsi qui però avvertire
che di due sorte eran l’ore presso i Romani,
naturali le une e di ugual misura tra loro, le
quali dagli orologi solari venivano regolate; le
altre civili e tra loro ineguali, perciocchè sempre in dodici ore dividevano il giorno non
men che la notte; e quindi in tempo d’inverno
brevissime erano le ore diurne, lunghissime le
notturne, e al contrario in tempo di estate, Io
non fo che accennar queste cose le «pj;*li;,l
mio ai "omento propiamente non appartengono
che non de’ costumi dei Romani io ragiono
ma delle loro scienze. Si possono consultare
molti de’ moderni scrittori, e quelli singolarmente che sono stati inseriti nel tomo x della
gran Raccolta delle Antichità romane, i quali
trattano presso che tutti dell’anno, del giorno
e dell’ore de’ Romani. Quanto agli oriuoli ad
acqua, che abbiam veduto nominarsi da Plinio,
in qual maniera fossero essi formati , veggasi
presso il Pitisco (Lexic.Antiq. Rom.ad V. « Clepsjdra »), l’Arnay (Vie privée des Rom. c. 1),
gli Enciclopedisti (art. « Clepsjrdre » e art.
“ Horloge »), e singolarmente nell’erudita dissertazione dell’ab. Sallier sopra gli orologi degli
Antichi ’(Mém. de l’Acad. des Inscr. t. 4, p- 148)Sul qual proposito veggansi ancora due dissertazioni, una del celebre P. Boscovich, l’altra
del P. Zuzzeri, amendue Gesuiti, stampate quella
nel Giornale di Roma l’anno 17467 questa nello
stesso anno in Venezia (*).
(*) Tra gli orologi che erano in uso presso gli amichi, XXXI “Agli scrittori di filosofia in questo
fapo ricordati voglionsi aggiugnere quattro scrittori d’agricoltura, che vissero sulla fine del
seCol d’Augusto, e che dall’eruditissimo consiglier Bianconi, di cui diremo più sotto, ci
sono stati indicati (Lettere Celsiane, p. 160,ec.).
Essi sono Caio Giulio Igino bibliotecario d’Augusto, di cui in altri luoghi si è detto, e che
avea scritto fra le altre cose un trattato delle
Api e degli Alveari, Giulio Attico amico di
Ovidio, e molto lodato da Columella, il quale
due libri avea pubblicati sulla coltura delle Viti,
Pomponio Grecino, che un altro trattato avea
scritto sullo stesso argomento, e Celso scrittore
egli pure di agricoltura, il quale a giudizio del
detto autore non dee distinguersi dallo scrittore di medicina „.