Storia della letteratura italiana (Tiraboschi)/I-3/II/II

Letteratura de Romani dal fine della prima guerra Cartaginese fino alla distruzion di Cartagine.

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Letteratura de Romani dal fine della prima guerra Cartaginese fino alla distruzion di Cartagine.
II - I II - III

[p. 141 modifica]è a vedere, in quale stato frattanto fossero le altre scienze in Roma, di che or ora ragioneremo.

XXVII. Potrebbe per avventura sembrare ad alcuno, ch’io qui dovessi trattare ancora della struttura, delle diverse parti, e degli ornamenti del Romano Teatro. Ma me non sembra, che ciò propriamente appartenga alla Storia della Letteratura. Chi brama essere in ciò istruito, può vedere ciò che ne hanno, per tacer di altri, il Quadrio1, e il Cavalier Carlo Fontana nel suo Anfiteatro Flavio stampato all’Haja l’anno 1725, in cui tutti i Teatri, che erano in Roma, accuratamente descrive.

C A P O II.


Gramatici, Retori, e Filosofi Greci in Roma; e studio della Filosofia tra’ Romani


I.

S
embra cosa presso che incredibile, che per 500 e più anni niuno vi fosse in Roma, che tenesse pubblica scuola di lingua Latina non che di Greca, e insegnasse a conoscerne e ad usarne la proprietà e l’eleganza. E nondimeno egli è certo, che così fu. La Gramatica, dice Svetonio2, non che in onore, neppure in uso era anticamente in Roma, perciocché rozza ancora essendo e guerriera la Città tutta, poco attendevasi alle bell’arti. Plutarco scrive3, che tardi incominciossi in Roma ad aprire scuola, in cui si insegnasse a prezzo, e che il primo ad aprirla fu Sp. Carbilio liberto di quel Carbilio, che prima d’ogn’altro fe divorzio in Roma dalla propria Moglie. Il qual divorzio per testimonio di Gellio4 accadde l’anno di Roma 519. Più tardi ancora vuole Svetonio5, che lo studio della Gramatica avesse principio in Roma, perciocché egli afferma, che Cratete di Mallo fu il primo a tenerne scuola verso la fine del sesto secolo, come ora vedremo. Par nondimeno, che questi due autori si possano agevolmente conciliare insieme. Perciocché Plutarco parla solo, per quanto sembra, di una pubblica scuola, in cui [p. 142 modifica]i principj della lingua si insegnassero. Svetonio al contrario intende, come appresso vedremo, una scuola, in cui i libri degli antichi Autori e si sponessero, e si chiamassero ad esame, e dissertazioni e trattati si facessero ad altrui giovamento. Erano in fatti questi esercizj proprj di coloro, che in Roma si appellavan Gramatici. Quindi è, che a ragione il Valchio afferma5, che Cratete fu il primo, il quale nell’Arte Critica, presa in questo senso, istruisse i Romani.

II. Cratete di Mallo Città della Cilicia figliuol di Timocrate fu, come afferma Suida6, Filosofo Stoico di professione, e detto per soprannome Omerico e Critico, a cagione dello studio, con cui egli alla Gramatica e alla Poesia erasi applicato. Il tempo, in cui venne a Roma, così da Svetonio si stabilisce7: Fu egli mandato da Attalo Re (di Pergamo) al Senato Romano tra la seconda e la terza guerra Cartaginese, poco dopo la morte di Ennio. Come però, secondo il comun parere degli Scrittori, Attalo non cominciò a regnare che l’anno 596 dopo la morte di Eumene suo fratello, ed Ennio, come detto abbiamo, morì l’anno 584, convien dire, che o non subito dopo la morte di Ennio venisse Cratete a Roma, o, se vennevi subito, ciò non fosse quando Attalo era Re, ma quando era collega di Eumene suo fratello nell’amministrazione del Regno. Venuto egli dunque a Roma, mentre vi trattava gli affari, per cui da Attalo vi era stato spedito, caduto sventuratamente nell’apertura di un sotterraneo condotto, se gli spezzò una gamba; onde costretto a starsene lungamente in Roma, affine di passare con suo ed altrui vantaggio il nojoso tempo di sua guarigione, prese a trattare con quelli, che a lui venivano, erudite questioni, e a disputare or su uno or su altro degli antichi autori. Accorrevano molti ad udirlo; e dall’udirlo passando alla brama di imitarlo, si fecero alcuni ancor tra’ Romani a praticare somiglianti esercizj, esaminando, spiegando, comentando i versi o de’ loro amici o d’altri, che di tal cura giudicassero degni. Quindi questo genere di studio venne in maggior nome che prima non era, e due Cavalieri Romani, L. Elio Lanuvino e Servio Claudio, ad esso applicatisi grande




tìifL Axtis Crit ap. Jftomanas $, (*) Tn Lexic. ad Y. „ Cr^tes .,,* ix* (3) i-oc cit. [p. 143 modifica] perfezione e ornamento grande gli accrebbero. Tutto ciò Svetonio8, il quale altri Gramatici annovera, che a quel tempo furono illustri, a’ quali per testimonio di Plutarco9 vuolsi aggiugnere un cotal Chilone schiavo di Catone Censore e a lui carissimo, il quale in quel tempo medesimo a più fanciulli avea aperta pubblica scuola.

III. Mentre in tal maniera cominciavano i Romani ad amare e a coltivare le scienze, avvenne cosa, che giovò non poco a scuotergli ancor maggiormente, ed animargli a tali studj. L’anno di Roma 586, dappoiché i Romani costretto ebbero Perseo Re di Macedonia a soggettarsi al loro impero, e a venirsene a Roma, fecero diligente ricerca di que’ tra’ Greci, che a quel Re avean prestato favore, ed altri ne puniron di morte, altri in gran numero ne condussero a Roma, perché ivi di loro si giudicasse10 . Tra questi molti vi avea uomini dotti, e nello studio della Filosofia e dell’Eloquenza versati assai, e singolarmente il celebre Storico Polibio e il Filosofo Panezio, cui Cicerone per poco non chiama il primo de’ Filosofi Stoici11 . Or questi, e in particolar maniera Polibio, concorsero maravigliosamente ad avvivare sempre più ne’ Romani quell’ardor per le scienze, da cui già cominciavano ad esser compresi. Non fermerommi io qui a tesser la vita di questo illustre Scrittore, a cui dee la Grecia l’essere stata da’ Romani trattata con più dolcezza, che non solessero usare co’ popoli da lor soggiogati12. Il Giovane Scipione Africano singolarmente dal conversar di Polibio raccolse tal frutto, che, come egli fu uno de’ più famosi Condottieri d’armata, che avesse Roma, così fu ancora uno de’ primi, che nel coltivare e nell’onorare le scienze si renderono illustri. Io crederei di privare i lettori di uno de’ più bei passi, che negli antichi Scrittori ci sian rimasti, se a questo luogo non riferissi il ragionamento di Scipione ancor giovinetto con Polibio, che fu il principio dell’amore, di cui egli si accese per lo studio delle bell’arti, e che da 13 Polibio stesso così ci vien descritto.





IV~ (!)vu Som cèrf: c ( $F’FreiniBem; ― Sùp P ,: ― Uvi ― l WK [p. 144 modifica]IV. Ho detto in addietro, che la nostra amichevole corrispondenza avea avuto principio da’ ragionamenti, che facevamo insieme su’ libri, ch’ei mi prestava. Questa unione di cuori erasi già stretta alquanto, quando i Greci, ch’erano stati chiamati a Roma, furono in varie Città dispersi. Allora i due figliuoli di Paolo Emilio, Fabio e Publio Scipione, richiesero istantemente al pretore, ch’io potessi restare con loro; e l’ottennero. Mentre io dunque stavami in Roma, una singolare avventura giovò assai a stringere vieppiù i nodi della nostra amicizia. Un giorno, mentre Fabio andavane verso il Foro, ed io e Scipione passeggiavamo insieme in altra parte, questo giovin Romano in un’aria amorevole e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dolse, che stando io alla mensa col suo fratello e con lui, io sempre a Fabio volgessi il discorso, non mai a lui; e io ben conosco, soggiunse, che questa vostra freddezza nasce dall’opinione, in cui siete voi pure, come tutti i nostri Concittadini, ch’io sia un giovane trascurato, che niun genio abbia per le scienze, che al presente fioriscono in Roma; perciocché non mi veggono applicarmi agli esercizj del Foro, né volgermi all’eloquenza. Ma come, caro Polibio, come potrei io farlo? Mi si dice continuamente, che dalla famiglia degli Scipioni non si aspetta già un Oratore, ma un Generale d’armata. Vi confesso, che la vostra freddezza per me mi tocca e mi affligge sensibilmente. Io fui sorpreso, continua Polibio, all’udire un discorso, a cui certo non mi attendeva da un giovinetto di diciott’anni; e di grazia, gli dissi, caro Scipione, no non vogliate né pensare, né dire, che se io comunemente rivolgo il discorso a vostro fratello, ciò nasca da mancamento di stima, ch’io abbia per voi. Egli è primogenito; e perciò nelle conversazioni a lui mi rivolgo sempre anzi che a voi; e ciò ancora, perché ben mi è noto, che avete amendue i medesimi sentimenti. Ma io non posso non compiacermi di vedere, che voi pur conoscete, che a uno Scipione mal si conviene l’essere infingardo. E ben si vede, quanto i vostri sentimenti siano superiori a que’ del volgo. Quanto a me, io tutto sinceramente mi offro al vostro servigio. Se voi mi credete opportuno a condurvi a un tenore di vita degno del vostro gran nome, potete di me disporre, come meglio vi piace. Per ciò che è delle scienze, alle quali vi veggo inclinato e disposto, voi troverete bastevoli ajuti in quel gran numero d’uomini dotti, che ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestiere della guerra, di cui


[p. 145 modifica]di cui vorreste essere istruito, penso di potervi io stesso esser più utile di ogni altro. Scipione allora prendendomi le mani, e stringendole tralle sue, e quando, disse, quando vedrò io quel dì felice, in cui libero da ogni altro impegno, e standomi sempre al fianco, voi potrete applicarvi interamente a formarmi lo spirito e il cuore? Allora mi crederò degno de’ miei maggiori. D’allora in poi non più seppe staccarsi da me: il suo più grande piacere era lo starsi meco; e i diversi affari, ne’ quali ci trovammo insieme, non fecero che stringere maggiormente i nodi della nostra amicizia. Egli mi rispettava come suo proprio padre; ed io lo amava non altrimenti che figlio. Fin qui Polibio, il quale continua poscia a descrivere le singolari virtù, di cui questo gran Generale si mostrò adorno.

V. Né questo elogio, che Polibio rende a Scipione, non deesi credere o esagerato o sospetto; perciocché tutti gli antichi scrittori concordemente ce lo rappresentano come uomo e di ogni più bella virtù e di ogni più bella letteratura adorno. E per parlare di questa sola, che sola al nostro argomento appartiene, Cicerone ci assicura, ch’egli continuamente avea tralle mani l’opere di Senofonte14; ch’avea sempre al fianco i più eruditi tra’ Greci, che allora fossero in Roma15, e che a un’egregia natura un diligente coltivamento dello spirito congiunto avendo, un uom singolare divenne e veramente divino16. Ma niuno forse vi ha tra gli antichi scrittori, che sì altamente lodato abbia il giovane Africano, come Vellejo Patercolo. Egli, dice17 , fu sì valente coltivatore e ammiratore de’ liberali studj e di ogni genere di dottrina, che sempre aver volle a suoi compagni e in guerra e in pace que’ due uomini di eccellente ingegno, Polibio e Panezio. Niuno mai vi ebbe, che meglio di Scipione occupasse il riposo, che talvolta da’ pubblici affari gli si concedea; sempre intento a coltivar le arti civili e le guerriere, sempre in mezzo o alle armi, o alle scienze, e esercitato tenne mai sempre o il corpo colle militari fatiche, o l’animo co’ più nobili studj. Somigliante lode deesi parimenti a Cajo Lelio fedele amico e indivisibil compagno del giovane Africano. Egli di uguale amicizia onorò Polibio e gli altri eruditi Greci, che allora erano



Tom. I. T Ro(1) Tufc Quark !• II. n. io. (3) Or. pio Archia n. 7. il) De Orar. 1. IL n. 37. (4) iib. I. Hiftor. e. XIIL Digitized by Google [p. 146 modifica] in Roma, e con uguale fervore applicossi agli studj. Era già egli stato discepolo di un Diogene Stoico, poscia frequentò la scuola, e giovossi assai del sapere di Panezio6. A lui pure si aggiunsero e C. Furio e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, ed altri molti tra’ principali Cavalieri Romani7 .

VI. Così cominciavano in Roma a fiorire gli studj, e cominciavano i Romani ad intendere, che il valor militare non era la sola strada, che conducesse all’immortalità del nome. I Filosofi Greci vedevano i più nobili Cittadini farsi loro discepoli, e molti ancora ne vedevano alle loro scuole i Greci Retori ossia Precettori dell’Eloquenza. Di questi io non trovo veramente notizia alcuna distinta presso gli antichi scrittori. Ma che molti ve ne avesse in Roma, chiaro si rende e dal discorso di Polibio a Scipione riferito poc’anzi, e molto più dal Decreto, che ora riferiremo, e per cui poco mancò, che sì lieti principj fino dalla radice non fosser troncati. L’anno 592, cioè sei soli anni dappoiché venuti erano a Roma i Filosofi e i Retori Greci, ecco un severo editto del Romano Senato, che commette al Pretore di fare in modo, che Retori e Filosofi più non siano in Roma. 20 21 Svetonio8 e Gellio 9ce ne hanno conservate le precise parole: C. Fannio Strabone e M. Valerio Messala Coss. (questi furono appunto Consoli nel detto anno 592) Senatus Consultum de Philosophis & Rhetoribus factum est. M. Pomponius Prætor Senatum consuluit, quod verba facta sunt de Philosophis & Rhetoribus. De ea re ita censuerunt, ut Marcus Pomponius Prætor animadverteret, uti e Republica fideque sua videretur, [p. 147 modifica]

Romæ ne essent. Qual fosse il motivo di sì rigoroso decreto, e qual ne fosse l’effetto, i sopraccitati scrittori nol dicono chiaramente. Quanto al motivo pare, che que’ severi Padri Coscritti avvezzi a non conoscere altro studio che quello di soggiogare il mondo, temessero, che l’applicarsi alle scienze dovesse seco portare lo sconvolgimento e la rovina della Repubblica, e che la gioventù Romana non potesse avere amore alle scienze senza aver in odio la guerra. Se allor si fosse trovato nel Senato Romano un famoso moderno Filosofo, che con eloquente patetico ragionamento ha preteso di mostrare il gran danno, che dal coltivare le scienze ridonda negli uomini, avrebbe certo riscosso grandissimo plauso. E’ probabile, che il decreto del Senato avesse il suo effetto; che non erano allora que’ Padri soliti a soffrire, che i loro editti fossero non curati. Ed io penso, che la dispersione fatta de’ Greci in diverse Città, che abbiam veduta rammentarsi da Polibio, fosse appunto effetto di tal decreto. Ma certo è, che l’amor delle scienze non venne meno per tal decreto in Roma; anzi nacque quindi a non molto altra occasione, che il fece sempre più vivo ed ardente.

VII. Saccheggiata aveano gli Ateniesi la città di Oropio nella Beozia; di che avendo que’ Cittadini portate al Romano Senato le loro doglianze, questo commise a’ Sicionj, che esaminato l’affare imponessero agli Ateniesi tal multa, che a’ danni da loro recati ad Oropio fosse proporzionata. Furon perciò gli Ateniesi condannati da’ Sicionj a pagare a que’ di Oropio presso a cinquecento talenti. Troppo gravosa sembrò agli Ateniesi tal multa; e un’ambasciata inviarono essi al Senato Romano, perché la pena fosse resa più mite10. Pare, che in questa occasione volessero gli Ateniesi far pompa presso i Romani del lor valor nelle scienze, poiché a sostenere l’onore di questa ambasciata scelsero i tre più rinomati Filosofi, che allor vivessero. Furon questi Carneade, Diogene, Critolao, Capi delle tre Filosofiche Sette, che fiorivano in Grecia, Carneade della Accademica, Diogene della Stoica, Critolao della Peripatetica, uomini insieme valorosi in eloquenza, ed atti, benché per diversa maniera, a persuadere altrui ciò, che più loro piacesse. [p. 148 modifica] VIII. E’ sembrato al Bruckero23 assai malagevole il fissare precisamente il tempo di questa ambasciata, e il trovare un anno, a cui possano convenire tutte le circostanze, che di questo memorabil fatto ci han tramando gli antichi scrittori. Io confesso, che non vi scorgo difficoltà. Cicerone, citando ancora l’autorità di Clitomaco, dice24, che erano allora Consoli P. Scipione e M. Marcello; e altrove aggiugne25, che giovani erano allora Lelio e Scipion l’Africano. Abbiamo ancor da Plutarco26 , che Catone allora era vecchio. Or tutto ciò ottimamente conviene all’anno 598. Furono allora Consoli P. Scipione Nasica e M. Claudio Marcello, né altro anno vi ebbe intorno a questi tempi medesimi, in cui due Consoli fossero di tali famiglie. Scipione Africano e Lelio erano ancor giovani, come di sopra si è detto, e Catone era in età assai avanzata, perciocché dice egli stesso presso Cicerone27, che avea 65 anni nel Consolato di Cepione e di Filippo, che furon Consoli l’anno 584, onde a quest’anno contava già Catone 79 anni di età. Non vi ha dunque ragione alcuna, che renda dubbiosa l’Epoca dell’ambasciata de’ Filosofi Greci da noi fissata all’anno di Roma 598.

IX. Venuti a Roma i tre illustri Filosofi, e ammessi al Senato, esposero, secondo il costume, per mezzo d’interprete il soggetto della loro ambasciata. Ma perché l’affare richiedeva matura deliberazione, costretti essi frattanto a fermarsi in Roma, cominciarono a far pompa del lor sapere e della loro eloquenza. Ne’ luoghi dunque più popolosi della Città or l’uno or l’altro prendevano a quistionare, e colla novità degli argomenti, colla sottigliezza de’ lor pensieri, coll’eleganza del favellare riscuotevano ammirazione ed applauso. Diversa era la lor maniera di ragionare, come osserva Gellio28, allegando l’autorità di due antichi scrittori, Rutilio e Polibio. Diogene usava di uno stile parco e modesto, con cui semplicemente sponeva i suoi pensieri; fiorito ed elegante nel suo parlare era Critolao; forzoso ed eloquente Carneade, di cui Cicerone ancora dice29, che aveva una




[7], che avea una forco Htft. Crit. PhiloC e, II. p. 8. (5) De SeneS. n. 5. (2) Acad. Qpsft. 1. IV. 11.45. (6) L. VII. e. XIV. (3) Tuie. Qp*ft. L IV. n. 3. (7) De Orat. lib. II. n. 3I. (4) In Caton. Cenf. Digitrzed by Google [p. 149 modifica] che avea una forza e varietà incredibile di ragionare, e che niuna cosa prese mai a sostenere nelle sue aringhe, cui non persuadesse, niuna a combattere, cui totalmente non atterrasse. Di lui raccontasi30, che avendo un giorno in presenza di Catone e di altri molti eloquentemente parlato in lode della giustizia, e i vantaggi mostrati, che ne derivano, il dì seguente per dar pruova del suo ingegno parlò con uguale eloquenza contro la giustizia medesima, e mostrò esser questa l’origine di gravissimi danni. Questa maniera di favellare, e questo genere di eloquenza sconosciuto fin allora a’ Romani, li sorprese talmente, che di altro quasi non parlavasi in Roma che de’ Filosofi Greci. Tutti i giovani, dice Plutarco31 , che vogliosi erano delle scienze, ad essi ne andarono, e udendoli rimaser sorpresi per maraviglia. Ma singolarmente la grazia di favellare, e la forza nulla minore di persuadere, che avea Carneade, avendo a lui tratti gli uditori in gran folla, per tutta la Città udivasene il nome, e pubblicamente diceasi, che il Filosofo Greco insinuandosi con ammirabil arte negli animi de’ giovani all’amor delle scienze gli accendeva, da cui quasi da entusiasmo compresi abbandonati tutti gli altri piaceri, volgevansi allo studio della Filosofia.

X. L’affollato concorso, che a’ ragionamenti de’ Greci Filosofi faceasi da ogni parte, l’universal plauso, con cui erano ascoltati, non piacque punto al severo Catone. Temeva egli, come dice Plutarco, che la gioventù Romana di questi studj invaghita non anteponesse alla militare la letteraria lode. E questo timore molto più segli accrebbe, quando avvertì, che anche nel Senato Romano cominciava ad entrare il genio della Greca Filosofia. Perciocché C. Acilio uomo assai ragguardevole ottenne di poter nel Senato ripetere latinamente que’ discorsi, che da’ Filosofi Greci uditi avea nella natia loro favella. Più non vi volle, perché Catone si risolvesse di rimandare onoratamente alle lor case questi tre a suo parere troppo perniciosi Filosofi. Venuto dunque in Senato prese a gravemente riprendere i Magistrati, perché permettessero, che uomini, i quali sì agevolmente potevano persuadere altrui checché loro piacesse, più lungamente si fermassero in Roma; doversi spedir quanto prima l’affare, per



(1) Quinti!, I XII. e, I. (2) Iu Càtorì. Ccnf. ^ 1 [p. 150 modifica]

cui eran venuti, e quindi rimandare i Filosofi alle lor scuole in Grecia, e fare in modo, che i giovani Romani seguissero, come usato aveano fino allora, ad aver per maestri le Leggi e i Magistrati. Era troppo grande l’autorità di Catone, perché il suo parere non prevalesse. Per agevolare ancor maggiormente la partenza de’ Greci Filosofi, il Senato permise, che la multa degli Ateniesi ristretta fosse a soli cento talenti. In tal maniera i Filosofi lieti del felice riuscimento del loro affare, e del plauso da essi ottenuto in Roma, fecero alle lor patrie ritorno. Tutto ciò da Plutarco e da altri antichi autori presso il Freinshemio11 .

XI. Questo procedere di Catone non ci dà una troppo vantaggiosa idea del suo pensare in ciò, che appartiene alle scienze. E sappiamo nondimeno, che dotto uomo egli era e in molti studj egregiamente versato. Anzi possiam dire a ragione, che fu egli il primo, che prendesse a illustrare in lingua Latina molti argomenti, che da’ Romani Scrittori non erano ancora stati trattati. Abbiamo tuttora i libri, che intorno all’agricoltura egli scrisse, se pure a Catone debbonsi veramente attribuire que’, che ne portano il nome12. Perciocché Giammattia Gesner, che una bella edizione ci ha data di tutti gli antichi Scrittori d’agricoltura stampata in Lipsia l’anno 1735, con molte e forti ragioni ha mostrato, che l’opera, che abbiam di Catone, non è che una informe raccolta di molti frammenti raccolti qua e là, e mal connessi tra loro, fra’ quali alcuni ve ne ha, che forse non sono di Catone, ed altri ancora alterati e guasti. Egli ancora fu il primo, che la Storia Romana scrivesse in prosa, e sette libri ei ne compose intitolati delle origini, di cui vedremo fra poco, quanta stima avesse Cicerone. Dell’Arte Militare ancora e dell’ [p. 151 modifica]Arte Rettorica avea egli scritto il primo tra’ Latini, oltre molte lettere e molte orazioni, delle quali e di altre opere di questo grand’uomo si può vedere il Fabricio34 . Abbiam parimenti alcuni Distici Morali, che sotto il nome di Catone si veggono in molte edizioni. Ma egli è parere di molti, che essi siano opera di troppo più giovane autore. Nel che però, come osserva l’Abate Goujet35, troppo oltre si avanzan coloro, che vogliono farne autore qualche Poeta Cristiano del settimo o ottavo secolo. Ma veggasi singolarmente una Dissertazione di Giovanni Ilderico Withofio stampata in Amsterdam l’anno 1754 in cui con un diligentissimo esame di tutte le circostanze assai probabile rende la sua opinione, che autor di essi sia il celebre Medico Q. Sereno Sammonico al tempo dell’Imperador Caracalla. A conoscere ancor meglio il letterario merito di Catone basta legger gli elogj, che ce ne hanno lasciato gli antichi scrittori. Due soli io ne trascelgo, Cicerone e Livio. Il primo, oltreché spesso ne parla, e sempre con somma lode, così una volta tralle altre di lui ragiona36 . Qual uomo fu egli mai Catone, Dei immortali! Lascio in disparte il Cittadino, il Senatore, il Generale d’armata. A questo luogo cerco sol l’Oratore. Chi più di lui grave in lodare? Chi più ingegnoso ne’ sentimenti? Chi più sottile nella disputa e nella sposizion della causa? Le cento cinquanta sue orazioni (che tante ne ho io finora trovate e lette) piene sono di cose e di espressioni magnifiche... tutte le virtù proprie di un Oratore ivi si trovano. Le sue Origini poi qual bellezza e qual eloquenza non hanno esse?... Egli è vero, che alquanto antico ne è lo stile, e incolte ne sono alcune parole, che così allora parlavasi; ma prendi a mutarle, il che egli allora non poté fare, aggiugnivi l’armonia, rendine più adorno lo stile... niuno certamente potrai tu allora anteporre a Catone. Più magnifico ancora, perché più universale, si è l’elogio, che ne fa Livio37 : M. Porcio Catone tutti superava di gran lunga i Patrizj e i Plebej tutti anche delle più illustri famiglie. Fu egli di sì grand’animo e di sì grande ingegno fornito, che in qualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbe egli stesso la sua fortuna. Non

(1) Bibk Lat. lib. I. e. II. (3) De CI. Orat. n. 17. (2) Bibl. Frane, t. V. p. 1, ec. (4) Lib. XXXIX. e XL> .; ..J Digitized by Google [p. 152 modifica] vi ha arte alcuna nel maneggio de’ pubblici e de’ privati affari, che a lui fosse ignota. Amministrava con ugual senno gli affari della Città e que’ della Campagna. Altri salgono a sommi onori per lo studio delle leggi, altri per l’Eloquenza, altri per la gloria dell’armi. Egli ebbe l’ingegno così ad ogni arte adattato, che l’aresti creduto nato unicamente a quella qualunque fosse, a cui rivolgevasi. Coraggioso nelle battaglie e celebre per molte illustri vittorie, dopo essere salito a ragguardevoli onori, fu General supremo dell’armi. Nella pace ancora peritissimo delle leggi, eloquentissimo nell’aringare. Né fu già egli tal uomo, che vivo solamente fosse in gran pregio, e niun monumento lasciasse di sé medesimo. Anzi ne vive tuttora, e ne è in onor l’eloquenza consecrata, per così dire, né libri d’ogni argomento da lui composti. Fin qui Livio, il quale altre cose ancora prosiegue a dire in lode di questo illustre Censore.

XII. Non fu dunque avversione, che Catone avesse agli studj, quella, che lo indusse a cercare il congedamento de’ Filosofi Greci, né fu timor che le scienze, qualunque esse si fossero, distogliessero dalla guerra i Romani. Sembra piuttosto, che la sola Greca letteratura fosse in odio a Catone, e la Greca Filosofia singolarmente. Abbiamo veduto di sopra, che solo nell’estrema vecchiezza si diede allo studio di quella lingua. Il Bayle ha voluto muover dubbio su questo punto38 , appoggiandosi all’autorità di Plutarco, il quale racconta, che Catone in età di circa 45 anni andato in Atene parlò per interprete a que’ Cittadini, benché potesse usare della lingua Greca. Ma l’autorità di Plutarco non basta a rimpetto del testimonio di altri antichi scrittori di sopra allegati, e di Cicerone singolarmente. Anzi Plutarco medesimo si contraddice, perciocché riferisce egli stesso, che la maggior parte degli autori affermano (parole, che il Bayle non troppo fedelmente ha tradotte con un semplice on dit) ch’egli tardi apprendesse la lingua Greca, poiché nell’estrema vecchiezza prendendo in mano i Greci libri, alcune brevi annotazioni scrisse traendole da Tucidide, e più ancor da Demostene, di cui si sa, che giovossi assai nel perorare le cause; e le sue opere di senti-




Di&ion. Art. „ Porcius Cato „. Digitized by Google [p. 153 modifica]di sentimenti e di storie Greche ornò e sparse; e molte cose bene e acconciamente dal Greco traslatò in latino. Così Plutarco, il quale a questo luogo nulla dice a ribattere questo comun sentimento de’ più antichi Scrittori, benché nella stessa Vita ad altra occasione narri ciò, che di sopra si è riferito. La tardanza di Catone nell’applicarsi alla Greca letteratura ci mostra chiaramente, ch’egli ne era nimico, non già per aversione agli studj, ma per una cotal Romana alterigia, che sdegnava di comparir bisognosa de’ soccorsi altrui, e che mirava singolarmente di mal occhio i Greci, rivali, in ciò che a lettere appartiene, troppo fastidiosi a’ Romani. Questo medesimo più apertamente ancor si raccoglie da’ discorsi, che Plutarco racconta, ch’egli era solito a tenere su tale argomento; perciocché diceva egli, che Socrate era stato un uom loquace e violento, il quale con novità perniciose sconvolta avea la patria; che Isocrate facendo invecchiare i discepoli nella sua scuola rendevali solo opportuni a trattare le cause ne’ campi Elisj; e innoltre veggendo suo figlio agli studj Greci inclinato assai, soleva con grave e severa voce, quasi profetando, ripetere, che i Romani allora perduto avrebbon l’impero, quando alle lettere Greche si fosser rivolti. I Medici Greci ancora, che cominciavano, come poscia vedremo, a venirsene a Roma, aveva egli in orrore; poiché diceva aver essi conceputo il perverso disegno di toglier dal mondo sotto pretesto di medicina i barbari tutti, col qual nome comprendevano essi anche i Romani. Onde nascesse questo implacabil odio di Catone contro de’ Greci, e singolarmente contro de’ Filosofi, non è difficil cosa a vedere. Osservava egli la Grecia divisa allora in tanti partiti, quante eran le sette de’ Filosofi, che vi regnavano, Stoici, Platonici, Epicurei, Peripatetici, tutti di massime, di sentimenti diversi, disputar gli uni contro degli altri, e nelle loro dispute cercare di far pompa d’ingegno, non di scoprire il vero; e frattanto lo stato politico della Grecia andare in rovina, ed essere omai fatto schiavo quel popolo, che prima della sorte di tante provincie era arbitro e signore. Temeva egli dunque, che, se queste Filosofiche sette si fossero introdotte in Roma, seco ne recassero ancora i funesti effetti, che prodotto aveano in Grecia. L’eloquenza di Carneade singolarmente doveva parergli pericolosa, e l’avvezzarsi i Romani a imitazione di lui a parlare in lode ugualmente che in biasimo di qualunque più pregevol virtù, dovea

[p. 154 modifica]sembrargli principio troppo fatale al buon governo della Repubblica. Quindi quel zelo, che per la  salvezza e per la gloria della sua patria avea Catone, non gli permise il tacere in tal occasione, e di  tutta la sua autorità fece uso, perché questo pericolo da essa si allontanasse.  

XIII. Partiron pertanto i Filosofi Greci da Roma, ma non partì con essi quel desiderio della  Filosofia e della letteratura Greca, che essi vi aveano risvegliato, e non ne partirono Polibio,  Panezio, e forse ancora altri eruditi uomini Greci. Non lasciarono questi di essere ancora  sommamente cari al giovane Scipione, a Lelio, a Furio, a Filippo, a Gallo, e ad altri de’ principali  Cavalieri Romani39. Era Panezio, come detto abbiamo, di setta Stoico, e questa fu la cagione, per  cui questa più che le altre sette ebbe seguaci in Roma. Pareva inoltre, ch’essa fosse la più opportuna  a formar l’animo de’ Cittadini, e a scorgerli al buon governo della Repubblica. Si può su questo  40 41   punto vedere il Bruckero, che lungamente ne ha favellato. Benché, come egli stesso osserva,  anche la Filosofia di Pittagora, comunque la sua scuola fosse già dissipata e disciolta, ebbe  nondimeno in Roma non pochi seguaci, in quella parte singolarmente, che al buon costume  appartiene e alla civile Economia. Altre sette ancora vi ebbero i lor seguaci; ma a parlare  sinceramente, qualunque fosse la setta, a cui i Romani si accostavano, non eran tanto, ne’ tempi di  cui parliamo, le fisiche e le naturali quistioni quelle, in cui essi si esercitassero, quanto le politiche e  le morali: perciocché queste più che le altre giudicavansi vantaggiose e al ben privato de’ Cittadini e  al pubblico dello Stato.  

XIV. Nondimeno quella parte ancora di Filosofia, che si volge allo studio della Natura, fu in  Roma conosciuta ed abbracciata da alcuni. Questa lode deesi sopra tutti a C. Sulpicio Gallo.  Cicerone lo annovera tra’ valenti Oratori di quella età: Tra’ giovani, dic’egli42 , fu C. Sulpicio Gallo,   che fra i nobili Romani fu il più studioso della Greca letteratura. Egli ebbe fama di Oratore, e nelle  altre scienze ancora fu uom colto ed ornato. Nell’anno, in cui egli era Pretore, morì Ennio. Ma altrove de’


fiioi (1) Cic. prò Murena ir. **.. (?) Appendi p. 341. C4 T.U.pag, 17..& Append. p. 34*fr. (4) De CL Orar. n. **± m& ^’ Digitized by Google [p. 155 modifica]suoi studj Astronomici più chiaramente ragiona, quando introduce il vecchio Catone a favellar per tal modo al giovane Africano43 : Noi vedevamo venir quasi meno pel grande studio di misurare, per così dire, la Terra e il Cielo C. Gallo amico intrinseco del Padre tuo, o Scipione. Quante volte, avendo egli cominciato a scrivere alcuna cosa di notte tempo, fu sorpreso dal giorno! Quante volte sorpreso fu dalla notte, avendo egli cominciato a scrivere fin dal mattino! Quanto godeva egli nel predirci molto tempo innanzi le Ecclissi del Sole e della Luna! E questo suo sapere d’Astronomia non solo fu a lui di onore, ma di vantaggio ancora alla Repubblica tutta. Perciocché l’anno di Roma 585 essendo egli Tribuno militare nell’esercito di Paolo Emilio, a’ tre di Settembre radunato con licenza del Console tutto l’esercitò, avvertì i soldati, per usar le parole di Livio44 , che la prossima notte dalle due ore fino alle quattro sarebbesi ecclissata la Luna; niun credesse tal cosa prodigiosa e funesta; perciocché, accadendo ciò per ordine della natura a tempi determinati, potersi ancora conoscere avanti tempo e predire; e come non si stupivano, che ora intera fosse la luna ed ora scema, perché sapevano esser certo e determinato il sorgere e il tramontare di essa e del Sole, così non doversi avere in conto di prodigio l’ecclissi, seguendo questa, perché la Luna dall’ombra della terra viene oscurata. Il quale avvertimento giovò maravigliosamente a’ Romani, che il dì seguente venuti con animo lieto a battaglia co’ Macedoni condotti dal loro Re Perseo, e trovandogli atterriti per la veduta ecclissi, gli ruppero facilmente, e misergli in fuga. Questo fatto 45 46 medesimo viene raccontato da Plinioe da Valerio Massimo; ma quest’ultimo diversamente dagli altri due, che certo son più degni di fede, vuole che Gallo rassicurasse l’esercito solamente allor quando era già cominciata l’Ecclissi. Plinio aggiugne, che Gallo in appresso sulle Ecclissi compose e pubblicò un libro, che fu certo il primo tra’ Romani su questo argomento. Io so, che i Greci prima de’ Latini ebbero un tal vanto, e oltre che Talete il primo vuolsi da alcuni, che predicesse un’Ec-


<i) P* Sene». iu 14. (*ì Lib, IT. cap. XIL (2) Lib. XLIV, e. XXX VIL (4) Lib. VIIL czp. XL n, u Digitized by Google [p. 156 modifica]lissi 47 48 (il che però da altrirecasi in dubbio), Plinio afferma, che Ipparco fu il primo, che intorno alle Ecclissi accertatamente e diligentemente scrivesse. Ma non è perciò, che gran lode non debbasi a Gallo, di aver egli innanzi ad ogni altro, che a noi sia noto, coltivato sì fatti studj in Roma, e in un tempo, in cui questa scienza era comunemente ignota, come chiaramente raccogliesi e dallo stupore, che recò a’ Romani tal predizione, per cui divina fu da essi creduta la scienza di Gallo, e dallo spavento, che la veduta Ecclissi destò nei Macedoni.

XV. Egli è però vero, che trattone questo illustre Astronomo, di cui ora abbiam parlato, appena troverassi altri tra’ Romani, che a tali studj in questi tempi si rivolgesse. Cicerone istesso confessa, che la Filosofia fino a’ suoi giorni era stata negletta in Roma, né con libri Latini non era stata punto illustrata; e recandone un particolar esempio, presso i Greci, egli dice49 , fu la Geometria in altissimo pregio; perciò tra essi erano i Matematici sopra tutti gli altri famosi; noi al contrario di questa scienza altro non abbiam preso che il vantaggio di misurare e di computare. Un solo ho io trovato, di cui si narri, aver lui le Quistioni Fisiche ancora latinamente esposte. Questi è un certo C. Amafanio, da altri detto Amafinio. Non sappiamo, a qual tempo precisamente vivesse, ma da ciò che Cicerone ne dice, sembra ch’ei fosse un de’ più antichi, ma non de’ migliori Filosofi, poiché egli ne parla con poca lode: Didicisti enim, dice50 , non posse nos Amafanii aut Rabirii similes esse, qui nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil definiunt, nihil partiuntur, nihil apta interrogatione concludunt, nullam denique artem esse nec dicendi nec disserendi putant. E poco dopo più chiaramente afferma, che anche il sistema Fisico di Epicuro, di cui era Amafanio seguace, fu da lui spiegato: Jam vero Physica, si Epicurum, idest si Democritum probarem, possem scribere ita plane ut Amafanius. Quid est enim magnum, cum causas rerum efficientium sustuleris, de corpusculorum (ita enim appellat atomos) concursione fortuita loqui? Avea dunque Amafanio



(1) V., Mem. de. T Acai. des, Iflfcr.. (3) Tufc. qusfb 1. I.. n*. 3. 175^― P― 7°― <«, (4^ Acad. Quseft. iib. I. tu 2* (2*1 Loc. cit* Digitized by Google [p. 157 modifica]il sistema Fisico di Epicuro, ossia di Democrito, che consiste appunto nella fortuita congiunzione degli atomi, spiegato in Latino linguaggio; ma il sistema morale ancora avea spiegato, e i suo libri perciò, in qualunque maniera fossero scritti, avean avuto gran nome, e molti seguaci la dottrina da lui proposta51 : Interim illis silentibus Amafanius exstitit dicens; cujus libris editis commota multitudo contulit se ad eamdem disciplinam, sive quod erat cognitu perfacilis, sive quod invitabatur illecebris voluptatis, sive etiam quia nihil probatum erat melius, illud, quod erat, tenebant. Anzi soggiugne, che molti altri dopo Amafanio scrissero sull’argomento medesimo, e l’Italia tutta occuparono de’ loro libri. Vorrebbesi qui aggiugnere ancora ciò, che appartiene alla Medicina, perciocché Arcagato Medico Greco in questa Epoca stessa, cioè l’anno 535 venne a Roma, e prima d’ogni altro esercitovvi quest’arte. Ma come poco felice successo ella ebbe allora in Roma, ci riserberemo a parlarne all’Epoca susseguente, e frattanto conchiuderemo questa col dir brevemente, in quale stato fossero in essa le altre scienze in Roma.


CAPO III


Eloquenza Storia, Giurisprudenza.


I. La sorte dell'eloquenza più felice fu tra' Romani che non quella della filosofia. A questo tempo medesimo di cui parliamo cominciò essa in Roma a levare, per così dire, alto la fronte e a minacciare a' Greci. Non tratterrommi io però a lungo su questo argomento, perciocchè la storia della romana eloquenza è stata da Cicerone trattata nel suo libro de' chiari Oratori per tal maniera ch'è inutile il cercar di aggiugnerle nuova luce. Mi basterà dunque l'accennar brevemente ciò ch'egli distesamente racconta, e le principali epoche e i più ragguardevoli oratori che in ciascun tempo fiorirono, indicare precisamente. Confessa egli dunque (De Cl. Orat. n. 16) che innanzi a' tempi di Catone il censore appena si può trovar cosa che degna sia di essere conservata; se pur, dice, non havvi a cui piaccia l'Orazione di


Tusc, quest. IV.c 3.(2)} De CL Orau n., 16*

  1. T. IV. p. 407. &c.
  2. De Ill. Gramm. c. I.
  3. Quaest. Rom. 59.
  4. Lib. XVII, c XXII.
  5. IB c.II
  6. Cic de Fin. I. IL n. 8
  7. Lo studio della lingua greca cominciò fin da questi tempi in Roma a rivolgersi in abuso. Narra Suida, e assai prima di lui avea narrato Polibio (Excepta ex Legat opud Vales p. 189, 190) che Aulo Postumio, uomo di nobilissima nascita, ma leggero e loquace oltre modo, fin da fanciullo diedesi allo studio della lingua greca, ma in sì affettata maniera che la greca letteratura divenne odiosa a' più saggi che erano in Roma. Volle poscia scrivere un poema e una storia delle cose della Grecia, e lusingossi di ottener lode presso i dotti dicendo nell'esordio, che era degno di compatimento se essendo romano, avea scritto in greco; ridicola scusa, dice Polibio, e somigliante a quella di chi, essendosi spontaneamente offerto alla lotta, se ne scusasse poscia perchè non ha forze ad essa bastevoli.
  8. De Q, Rhetor. e I
  9. L. XV. e XI.
  10. Geli. lib. VII. e XIV. Plutarco in Caton. Cenf. ec
  11. Suppl. ad Liv L XLVII c. XXV
  12. I romani mostrarono assai presto quanto fosser solleciti di propagare lo studio dell'agricoltura; perciocchè avendo espugnata Cartagine, e trovati in essa ventotto volumi che intorno ad essa avea scritti Magone, portaronli a Roma; ed essi furono per ordine del senato tradotti in latino, come narrasi da Columella (l. 1, c. 1), il quale oltre Catone, Varrone, Virgilio, e Igino nomina ancora alcuni scrittori latini che sullo stesso argomento avean pubblicati libri, cioè due Saserni padre e figlio, e Scrofa Tremellio di cui dice che rendette eloquente l'agricoltura.